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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2009 - 2010

Intervento gruppale e analisi psiocosociale del sisma aquilano

Prof.Marco Longo
Coordinatore Dr.ssa Giuseppina Colangeli
(r) elaborazione testi e dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani


(r) La Dr.ssa G.Colangeli, coordinatrice dell’incontro, presenta il Prof.Marco Longo. E’ medico, psicologo, psicoanalista della SPI e analista di gruppo; docente di psicoterapia individuale e di gruppo;fondatore del portale Psychomedia che è una delle prime testate scientifiche, fondata nel 1995.

Ha partecipato attivamente all’intervento di emergenza dopo il terremoto in Abruzzo e alla ricostruzione di servizi psichiatrici e psicologici. Questa sera ci parlerà di “Intervento gruppale e analisi psiocosociale del sisma aquilano”

Il Prof.M.Longo spiega che cercherà di portare non solo il resoconto di 11 mesi trascorsi in Abruzzo (tutto il mese di luglio ed agosto, tutto il mese di aprile; in seguito è andato tre quattro giorni la settimana, dal giovedì o venerdì, gli altri fine settimana; adesso sta andando, in linea di massima ogni 15 giorni), che sono comunque un intervento continuativo, ma presenterà anche il resoconto di ciò che è accaduto sia all’Aquila sia nelle conferenze fatte insieme all’ Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Campo per campo hanno lavorato su quello che si chiama “coscienza del rischio sismico“, cioè un lavoro che si fa sulla popolazione da una parte per rassicurare, dall’altra per dire “o fate voi pressione sui politici o qui tutti sanno che l’ Appennino è a rischio, ma nessuno farà lavori di ricostruzione o ristrutturazione”; evidenzia che tra l’altro sarebbero costati infinitamente meno di quello che è stato speso poi dalla protezione civile per ricostruire quel poco che è stato ricostruito. Sottolinea che, anche senza fare politica, quello che è stato fatto è poco.

Ci troviamo di fronte ad un terremoto che comincia nel novembre del 2008, non ad aprile 2009. Chiarisce che ha una casa lì da 40 anni, dove andava almeno ogni 15 giorni; si è trovato là anche il 5 aprile ed è partito 4 ore prima del terremoto e quindi sa benissimo quanto la terra tremasse già da novembre-dicembre tant’è che, specialmente da febbraio- marzo, non c’era bar dell’Aquila dove entrando e dicendo “buongiorno” non si ottenesse come risposta “speriamo che sia un buongiorno”, così come uscendo all’ “arrivederci”,qualcuno rispondeva “speriamo che ci rivediamo”. Questo per evidenziare come il clima gruppale o della comunità (l’analisi gruppale è la chiave di lettura dell’ intervento di cui ci parlerà) di tutta la provincia e soprattutto della città e dei paesi intorno, era già fortemente condizionato ed emotivamente carico.

Il terremoto delle 3,32 arriva in un clima di stress della popolazione già altissimo: questa è una particolarità molto importante perchè dal punto di vista delle conseguenze psicologiche, sia sugli individui sia sulla gruppalità, questo fa una differenza enorme rispetto ad un evento anche catastrofale che arriva a ciel sereno, inatteso. Noi sappiamo in particolare quanto conta l’antecedente sulla nostra mente tant’è vero che un terremoto che è tremore con energia oscillatoria e sussultoria, che è polvere, che è oscuramento; che è boato, comprendendo tutte le possibilità sensoriali e percettive va ad inserirsi come esperienza in quella che noi abbiamo fatto fin dalla nascita quando usciamo fuori dall’utero ed improvvisamente sentiamo un clima diverso, dobbiamo respirare a fatica, abbiamo fame d‘aria e così via. Una serie di sensazioni e percezioni che dobbiamo integrare attraverso tante piccole catastrofi che poi superiamo grazie alla reverie, alla mamma etc etc. Non fa tutto il discorso sottolineando comunque l’importanza del contenimento e lo sviluppo psicologico nei vari passaggi sia familiari sia nei gruppi d’appartenenza, fino al crearsi di comunità nelle quali l’inserirsi di fenomeni catastrofali, che investono fortemente anche il corpo oltre che la psiche, vanno ad agire su due livelli: individuale e gruppale, con tutte le possibili intersezioni.

Questo è il motivo per cui già da tempo le persone erano in allerta e, in base alle modalità con cui le persone avevano superato o meno tutta una serie di passaggi di sviluppo fisico e mentale, erano invase dal timore all’avvicinarsi o di un boato o di un tremore o della polvere o della mancanza di luce, tant’è che chiunque poteva aveva allontanato gli anziani, i bambini piccoli; andavano a dormire il più possibile fuori della città: questo ha segnato una grande fortuna nella sfortuna, perché è avvenuto nella notte tra domenica-lunedì e non tutta la popolazione era lì. Riferisce una grande differenza nell’attesa del tipo d’esperienza e nel modo di viverla tanto è vero che parlando con le persone c’era chi diceva “il terremoto è un boato…. è un tremore… è polvere… è mancanza di luce…”cioè ognuno sottolineava l’elemento per lui più stressogeno e non integrato nella personalità, di cui continuava a parlare e a sognare e che creava più problemi fino anche a piccole diatribe. Questo crea un notevole problema tecnico di risposta psicologica all’emergenza, ovvero: rispondiamo all’individuo, rispondiamo alla comunità o, in un’ottica binoculare, teniamo conto di entrambe, ma scegliendo quali momenti?

Arriva il terremoto la domenica-lunedì notte: Longo lo vive in diretta perché impegnato on line in una conferenza sulla gruppalità con studenti e persone di tutto il mondo. Al termine, era l’1,30, è rimasto a chiacchierare con alcune persone e alcuni studenti di Chieti. Quando è arrivato il terremoto, è stato sentito a Chieti e a Roma. Lui, che sapeva già da mesi, ha immediatamente capito dove poteva essersi verificato; ha subito iniziato a telefonare e due giorni dopo era lì. Motiva perchè abbia parlato di fortuna nella sfortuna: era la settimana di pasqua e quindi 16/17 mila studenti erano già partiti; era tra domenica e lunedì notte e quindi tutti i negozianti che aprono il lunedì pomeriggio non erano all’Aquila, in parte perché in genere tendono a stare nella seconda casa, un po’ perché da tempo erano andati nella seconda casa per allontanarsi da un centro storico ovviamente più pericoloso delle case dei paesi o di montagna che sono più piccole e più proteggono; le scuole dell’Aquila (in particolare le medie e superiori dove dai paesi circostanti affluiscono circa 3000 studenti), erano state dichiarate chiuse per via di una grossa scossa avvertita il venerdì, quindi gli studenti non sarebbero andati a scuola il lunedì e non erano tornati a dormire all’Aquila. Era notte e, siccome il centro storico è veramente stretto, si percorre a piedi se il terremoto fosse avvenuto in pieno giorno con i negozi aperti, le scuole funzionanti, con circa 30 mila persone in giro per l’Aquila di cui un buon 15 mila in giro per il centro, tenendo conto che la statistica dice che si muore di più in strada per un piccolo sassolino che cade da 30 metri. che non in casa, avremmo avuto 10-15 mila morti. Quindi una serie di fattori ha fatto si che ci fosse un danno molto contenuto non escluso il fatto che, oltre al centro storico, esiste tanto cemento intorno all’Aquila. Non mette in dubbio quello che si è detto e cioè che il cemento fosse fatto male come dimostrano le situazioni d’implosione (la casa dello studente); i crolli, (l’ospedale) e cosi via; però il 99% delle case in cemento nel circondario dell’Aquila è rimasto in piedi, quindi il cemento ha salvato le persone. Il problema è che poi bisogna uscire dalla casa terremotata. In un terremoto avviene come in un colpo di frusta determinato dal tamponamento di una macchina, se la base di una casa si muove di x, il vertice comincia ad oscillare molto di più, il che fa si che chi si trova ai piani superiori ha un vissuto estremamente più grave con mobili quadri e tutto che viene addosso. La casa tende a spezzarsi ad uno o due terzi prossimali rispetto al vertice, quindi se una casa è di cinque piani tende a spezzarsi al secondo piano; si vede in tante immagini dove i primi, i secondi, al massimo i terzi piani non esistono più mentre i piani superiori hanno ancora le tamponature e addirittura a quei piani molte case risultano agibili, solo che, per arrivarci, bisogna passare in mezzo a tante case distrutte. Quindi molta gente è fuori casa non perché la casa sia particolarmente danneggiata, ma perchè bisogna controllare tutte le colonne al secondo piano di quel edificio.

Qui arriviamo ai numeri: solo all’Aquila abbiamo avuto 60 mila persone sfollate, su 85 mila in tutto. Questo fa un’ enorme differenza da un punto di vista comunitario perché il terremoto di Messina: 110 mila abitanti, circa 100 mila morti nel 1908: c’è stato da gestire 10 mila persone su un territorio disastrato e con i mezzi di allora. Il terremoto di Avezzano: circa 11500 abitanti, 10500 e più morti, anche perché è arrivato a cielo sereno; da gestire 1000, 1500 persone. All’Aquila c’erano da gestire 85 mila persone: una situazione completamente diversa forse anomala e neanche storicamente documentata anche perchè si è trattato di un capoluogo di provincia d’importanza storica con tutto quello che ne è conseguito.

In questo senso l’intervento della protezione civile è stato fantastico, immediato sia nei primi momenti, sia in seguito perché già alle 9 di mattina erano stati costruiti i primi accampamenti; tempo due giorni i campi erano tutti, più o meno, abbozzati e costruiti; tempo tre-quattro giorni sono arrivate le cucine e tutti gli altri servizi comunque presenti in una decina di giorni al massimo. Quindi un intervento eccezionale. Il maligno direbbe “certo, lo sapevano da mesi che sarebbe successo lì e quindi era già tutto pronto, codificato: ogni camion , ogni macchina, ogni strumento sapeva dove andare” Ciò è infatti previsto nell’ambito della protezione civile che applica la strategia di chiedersi come intervenire se dovesse verificarsi un terremoto in una certa parte d’Italia, a maggior ragione in questo caso.

A questo punto però è lecito chiedersi “se già si sapeva allora perchè non hanno fatto qualcosa prima ?”. Questa è la domanda che nei campi, facendo le conferenze, hanno rivolto a loro più spesso ed è stata una grossa diatriba anche perchè c’è stato un ricercatore (Giuliani) che aveva previsto attraverso il radon che ci sarebbe stato un terremoto. In realtà dal punto di vista tecnico lo studio sul radon, che è stato fatto per ventidue anni, è stato abbandonato da tempo sia di giapponesi che dagli americani (il Giappone e la California sono i paesi più soggetti a terremoti) perché statisticamente le emissione di radon non sono correlabili ai terremoti nel senso che con l’elettrosismografo delle emissioni radon, la significatività è 0.001 mentre è 0,007 per un temporale: quindi al limite potremmo usare il radon per prevedere un temporale e non certo per un terremoto. Nonostante questo in una popolazione allertata da mesi, come era quella aquilana, se per 4 mesi una persona dice “guardate che io so dirvi dove si verificherà il terremoto” e c’è uno stato che dice “non succede niente”, la gente crede a Giuliani! Nelle riunioni in regione con la protezione civile a febbraio e a marzo hanno detto “non succede nulla… è tutto tranquillo, state nelle vostre case..”; è chiaro che la gente ha paura visto che la terra continua a tremare 3-4 volta al giorno, una volta la settimana fa una scossa pari al quarto grado della scala Richter che sposta tavoli di mezzo metro e anche di un metro: ebbene la gente crede a Giuliani! Sarà pure uno che grida, ma la gente crede a chi gli dice che qualcosa sta accadendo, non a chi lo nega. Quindi è stato un grosso trauma e le persone si sono sentite abbandonate ancora prima che avvenisse il terremoto. Ci sono stati movimenti: alcuni sindaci hanno cercato di far intervenire la protezione civile e sono stati sconfermati dalla polizia che ha fatto tornare tutta la gente nelle case perchè non doveva esserci il terremoto o per lo meno per un motivo che poi gli è stato spiegato, ma non in mezzo alla gente; Longo ha sentito tanti discorsi che confermano in maniera enorme quello che si sta dicendo in questi giorni sul mercanteggiare (ma di questo non vuole parlare). Sottolinea però di aver sentito dire dieci giorni fa, da personaggi molto noti posti al vertice: “ l’emergenza è finita”.

Riferisce che il discorso che più è stato fatto di fronte agli psicologi e psichiatri che cercavano di fare un tipo di dialogo con la popolazione per trovare le modalità di favorire la riorganizzazione , era che esistono due pensieri; il pensiero medico- psicologico, d’intervento sull’urgenza, sul bisogno, sulla necessità, sul difetto, sullo stigma a seconda dei casi, e il pensiero organizzativo, politico, militare che è diverso. Se è vero che dal punto di vista umano psicologico la gente può dire “ecco si sapeva, era in qualche modo prevedibile, allora facciamo le piazzole d’emergenza, cominciamo a mettere le tende, portiamo dei servizi, facciamo delle aree d’evacuazione”, il militare risponde “No”, perchè le mie statistiche dimostrano che si crea un tale panico da bloccare l’economia; la gente va via dal luogo.. insomma si crea un caos talmente ingovernabili per mesi, visto che non si sa se e quando arriverà il terremoto. Per tale ragione, dal punto di vista organizzativo, politico e militare, non si deve fare nulla; si spera solo che ci siano meno morti possibile. Questa è la modalità d’intervento nella quale il Prof. Longo, non solo non si riconosce, ma che non riesce neppure a sopportare. Questo tipo di pensiero, come psicologi dell’emergenza, se lo sono trovato davanti ogni giorno su qualunque cosa accadesse. Ad esempio:se la gente si agita in un campo per loro è lavorare sulla gruppalità e ristabilire la collaborazione all’interno del campo, per alcuni è invece un problema di ordine pubblico e se l’intervento degli psicologi non è sufficientemente rapido ed esaustivo, intervengono in altra maniera. Se c’è da invitare la gente a spostarsi per evitare lotte tra fazioni (in alcuni campi c’erano 5-6 etnie: peruviani, filippini, rumeni, room, polacchi, albanesi e cosi via) per cui, nel gioco delle parti, erano sempre gli altri che rubavano, che avevano di più, quindi bisognava riorganizzare in base alle differenze, per gli psicologi dell’emergenza era un problema di linguaggio, di comunicazione, di matrici da riorganizzare ed anche da fondere per ottenere una maggiore collaborazione tra le persone nonostante le differenze, mentre per altri era “divide et impera”. Addirittura in alcuni campi sono stati innalzati dei reticolati lasciando solo dei piccoli spazi comuni. Sostanzialmente sono due modalità d’intervento sulla gruppalità totalmente diverse. Il Prof. Longo evidenzia cosa accade quando c’è una catastrofe di questo genere. Allertati o meno, ad un certo punto la terra trema di brutto. Dà un’ idea su come si facciano le misurazioni usando le scale di valutazione. Una volta si utilizzava la scala Mercalli che era valutazione dei danni espressa in gradi, cioè si andava sul posto e si vedeva che distruzione c’era. In realtà è una scala relativa perché il grado assegnato cambia senza tener conto se le case sono di cemento o di paglia, quindi non dà il senso dell’accaduto. Da tempo si usa la scala Richter che è una misurazione ottenuta in base all’oscillazione dell’ago che misura l’energia. La scala Richter è d’immediata visione e permette di trovare l’epicentro perché disponendo di tre sismografi in punti diversi, che hanno registrato la massima oscillazione, l’epicentro si colloca al loro centro. Oggi si usa la scala Momento che con i computer richiede mezza ora di calcolo mentre prima aveva bisogno di qualche giorno e non si aveva una celere percezione. Conoscere subito l’epicentro è importante per poter inviare gli aiuti in un certo punto. La scala Momento si basa sull’energia tangenziale che si crea nel momento i cui avviene il terremoto. E’ una scala esponenziale per cui se noi diciamo che all’Aquila c’è stato un terremoto 6, 2 momento - 5,8 Richter e diciamo che ad Haiti è stato 7,1 non diciamo che c’è stato un punto in più, siccome è su base 30 diciamo che ad Haiti l’energia sprigionata è stata 30 volte più forte di quella che ha distrutto l’Aquila. Per chiarire porta un esempio “se vado contro un muretto a 10 km all’ora si fa male la macchina, ma se il rapporto è pari a 30 volte, vuol dire che vado a scontrarmi a 300 km all’ora”: c’è una differenza di scuotimento enorme. Dopo di che la distruzione dipende da come sono fatte le case: se di cemento, oscillano in un certo modo; se di pietra, come erano le case del centro e dei paesi, paradossalmente potrebbero resistere anche di più. Il problema è che i muri in pietra sono composti da grosse pietre che stanno alla distanza di circa 50 cm con dentro materiale di riempimento per cui se le pareti sono grandi, collassano una verso l’interno, l’altra verso l’esterno; spesso collassa solo la parete esterna e quella interna rimane; molte case hanno perso la parete esterna,ma è rimasto l’interno e questo ha salvato le persone perché sull’interno sono attaccati i solai; se le pareti sono grandi e non ci sono le catene (piastre collegate che le tengono ferme), si allargano e i solai vanno giù; se poi sopra c’è un tetto di cemento molto pesante e non congruente col resto della costruzione, comincia ad oscillare e schiaccia la casa, anche se la casa potrebbe restare in piedi. Col terremoto succede che improvvisamente vanno via le scale, che si staccano per prime, ostacolando la gente che non può scappare; c’è polvere, manca luce. La gente cerca rifugio negli spazi aperti e si allontana dalla propria casa che era madre accogliente e con tenitrice, ma è diventata malevola e assassina. La percezione che bisogna allontanarsi dalle case va a colpire immediatamente il nostro Sè perchè è come se avvenga una nuova nascita, una nuova espulsione, ma questa volta molto più catastrofale di quanto sia stata la cesura della nascita.

La gente si trova tutta insieme, fa corpo unico, si ammassa e le fantasie che vengono raccontate sono fantasie di tipo rudimentale, massificato, fusionale cioè “stiamo tutti insieme così se viene un’altra scossa e la terra si apre, o ci salviamo tutti o tutti insieme sprofondiamo”. In realtà a parte i film con gli effetti speciali, nei terremoti la terra non si apre, al più si crea qualche fessura perché la strada è stata mal costruita: non è la faglia, ma è un effetto geologico di superficie. Nei film allora perché lo fanno e perché colpisce? Colpisce perchè dentro di noi esiste proprio quella fantasia. I film si vanno a vedere per spaventarsi; a seconda degli oggetti interni che si hanno si sceglie il film che solleva paure o emozioni forti: tanto è un film e dopo due ore finisce. E’ diverso dalla realtà, di quando stai dentro un terremoto e non sai quando finirà ed anche quando è finito vivi nel terrore che si ripeta, per cui l’altra fantasia persitente nella popolazione è “la botta grande deve ancora venire”. ( in Friuli dopo alcuni mesi venne un’altra grossa scossa distruttiva, alla quale lui era stato anche presente). La fantasia continua ad essere che non è finito. Il significato di queste fantasie intanto è “moriamo o ci salviamo tutti insieme” che da un punto di vista psicologico, abbastanza comprensibile, esprime il bisogno di ricostituire una situazione di ammassamento, di accomunamento, di contenimento che non è più quella del modello duale bambino/ madre; io/ la mia famiglia; io/la mia casa, ma è quella gruppale perché il modello duale è saltato, è stato frammentato e a quel punto la fantasia è “o siamo tutti vivi o tutti morti”. L’altra fantasia quella “la botta più grossa deve ancora arrivare”, dipende da fatto che c’è una parte di noi che, così come quando andiamo al cinema, esercitiamo una specie di controllo sullo spavento tremendo che sappiamo di prenderci, con l’idea che tanto dopo due ore finirà, così aspettarsi la botta finale è esercitare un controllo sull’evento. Ogni volta che la terra trema si è convinti che “eccola, eccola” e rispetto all’attesa c’è sempre un dio, un santo, un patrono, che salva; non è arrivata perchè il santo, il patrono, colui che stavo pregando, ci ha salvato e qui torna in qualche modo il modello duale, di appoggio anche se attraverso la coralità della preghiera, che vede comunque il formarsi di diverse gruppalità più piccole devote chi a un santo, chi ad un altro.

Altra caratteristica è il modo in cui l’esperienza del terremoto viene vissuta da bambini, adolescenti, adulti, anziani. I bambini piccoli la vivono come la vivono i genitori: più il genitore è allarmato e angosciato più il bambino è terrorizzato; più il genitore è capace di risposta positiva, di tolleranza e di ricostruzione interna, più il bambino si affida. Gli anziani, e ce ne sono tanti in quella zona, vengono da una cultura che ancora risente degli aspetti fiabeschi o contadini, miti del luogo, dei racconti, delle favole e riescono perciò a concretizzare la cosa dicendo “ il terremoto è un mostro nero, è un gigante, è qualcosa di scuro, di opponente che viene e bussa alla tua porta”; dopo di che dicono “si, ma io adesso metto il bastone, l’aglio vicino alla porta”: in qualche modo combattono contro l’invasore che penetra aggressivamente nelle loro case e distrugge. Questa fantasia aiuta queste persone a rientrare anche perché, pur se ti dicono che la casa è agibile, non è facile rientrare. Per quanto riguarda gli adolescenti questa capacità non esiste. Nei primi giorni, nel primo mese i ragazzi tra i 12 e i 18/ 20 anni erano attoniti, completamente incapaci di reagire; spesso aggrovigliati uno sull’altro oppure in una palestra tutti ammassati sullo stesso tappetino, senza parlare, senza scherzare, con il volto teso.

Tutti si davano da fare perché la popolazione aquilana è stupenda un po’ come quella siciliana. L’ Abruzzo è un posto dove, tra la transumanza con i passaggi dei pastori tra Toscana e Puglia; tra gli spagnoli, i francesi, i normanni e tutti quelli che sono passati là, come è successo anche in Sicilia, ha determinato che le popolazioni hanno imparato in qualche modo a convivere con l’invasore, ad accoglierlo, a fare buon viso a quello che succede per cui in queste popolazioni c’è tutto l’orgoglio della capacità di gestione; c’è rabbia, ma nello stesso tempo c’è un “diamoci da fare perchè dobbiamo pensarci noi”. Quindi tutti si davano da fare tranne i ragazzi. Questo è stato un grosso lavoro da fare. I ragazzi erano abituati ad internet, al computer,ai telefonini: tutte cose che sono saltate per cui erano saltati i continui collegamenti, le connessioni che stabiliscono tra loro; avevano perso anche i luoghi d’incontro, di aggregazione per cui non gli restava altro che l’ammassamento, l’aggregazione fisica. Questo è stato il motivo per cui hanno puntato sull’intervento gruppale. Normalmente l’intervento classico degli psicologi dell’emergenza avviene così: la protezione civile si rivolge alle regioni che chiamano le associazioni psicologiche; arrivano gli psicologici che vanno sul posto per una settimana al massimo e dopo due mesi tornano per un’altra settimana. Vengono mandati per i campi a guardare: si fa così per motivi logistici. Diverso è stare li con i servizi, cioè con le persone della ASL, della psicologia clinica dell’ex ospedale psichiatrico, del Sert e chi di loro abitava lì (come lui che c’è stato per 40 anni e quando ha avuto l’affidamento di una parte di popolazione, da Bagno ad Ovindoli, già la conosceva); diverso è stare lì tutto il tempo insieme alle persone facendo un lavoro gruppale. Cosa può fare lo psicologo dell’emergenza che sta lì una settimana in un campo enorme di 250/ 500 tende ognuna di 10 persone? Cerca di vedere chi piange, chi s’aggrappa, ma alla fine segue 10 persone e ne dimentica 800: non ce la può fare a seguire tutto. Quello che lui ha cercato di fare fino dall’inizio è stato attivare larghi, piccoli e medi gruppi, anche istruendo alcuni psicologi della zona, affinchè si lavorasse sulla coralità, sulla gruppalità, la collaborazione, il contenimento e affinchè i gruppi così attivati fossero la psicologia dell’emergenza nella quale le persone potessero trovare un sostegno. Per quanto riguarda gli adolescenti hanno puntato molto sulle sagre, che sarebbero arrivate intorno a giugno, per cui bisognava preparare i carri, le maschere. All’inizio hanno incontrato molto opposizione perchè i ragazzi dicevano che gli anziani non ritenevano possibile fare feste per rispettare il lutto; allora hanno lavorato con le autorità: i sindaci sono stati d’accordo perchè era un modo per rendere attiva la popolazione. Per gli amministratori è stato immediatamente comprensibile e hanno dato una mano; poi si sono rivolti ai ragazzi ai quali è stato chiesto cosa volessero che si dicesse tra venti anni “quel cavolo di terremoto non ci ha fatto fare la festa oppure, nonostante tutto l’abbiamo organizzata lo stesso”. Lavorando sul recupero di questa dimensione spazio temporale facendoli proiettare nel futuro, piano piano sono usciti da questa abulia.]

Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti (r):

Il Prof. R. Pisani ringrazia jl Prof. M.Longo per la vivacità con cui ha presentato la situazione del terremoto aquilano sia da un punto di vista oggettivo, attraverso una serie di fatti assolutamente importanti, sia per le implicazioni psicologiche. Pensa che la collettività abbia vissuto questo fenomeno non solo per gli aspetti duali ”la mamma che ti caccia via”, ma soprattutto per gli aspetti sociali collettivi per cui la madre-casa, la madre- terra si ripresenta non solo nei suoi aspetti vitali, ma l’ archetipo della grande madre si mostra come la casa strega, infanticida che divora i suoi figli. Di fronte a questo dramma, si chiede, cosa possano fare gli psicologici all’atto pratico. Oltre i santi protettori che, in quanto figure maschili positive, vanno in soccorso di questi bambini abbandonati dalla madre-terra, all’atto pratico cosa si può fare? Da questa difficoltà emerge la sua grande ammirazione per Longo e per quello che sta facendo, convinto che al suo posto ognuno si troverebbe nei guai a doversi districare tra gruppi etnici, polizia, protezione civile e tutti gli altri che messi insieme rappresentano ulteriori elementi della madre caos. Gli chiede come se la sia cavata con i militari i quali hanno lanciato la sfida “L’ordine va ristabilito presto, se tu non ci riesci entro una settimana, ci pensiamo noi “

Il Prof. Longo ricorda che all’Aquila è stato portato anche il G8. Al di là dell’evidente strumentalizzazione politica, come si evince dal fatto che con internet e con le community formate da abruzzesi sparsi in tutto il mondo, non c’era bisogno di portare fin la il corpo fisico di Obama e degli altri capi di stato, il G8 ha significato che circa diecimila persone tra poliziotti, carabinieri, diplomatici, servizi segreti sono stati lì tre mesi e mezzo prima e altri venti giorni dopo, occupando alberghi, bred and breakfast, pensioni e tutto quello che era in piedi ed agibile, mentre la gente è stata mandata sul mare facendola passare anche come una cosa bella, ma la gente non vuole andare via dalla propria casa, anche se dorme per terra, vuole restarle vicino. Quando poi li hanno ripresi per portarli via, erano convinti che sarebbero andati nelle case costruite ed invece li hanno riportati negli alberghi da dove erano andati via i poliziotti. Altro aspetto: i campi, tutti aperti per il primo mese, sono stati recintati; è stato dato loro un marker elettronico, un braccialetto diversamente colorato campo per campo; assegnati i numeretti : cioè è diventato, come diceva la gente, un campo di concentramento proprio perché c’era il G8. Non solo: i campi si sono riempiti di poliziotti completamente bardati che giravano per i campi in questa tenuta come quando si va allo stadio o ad una manifestazione. Poi il giorno dopo il G8 sono scomparsi e i reticolati sono stati buttati giù: se ne deduce che non servissero per salvare la popolazione. Lui e gli psicologi dell’emergenza se la sono cavata cercando di far capire ai capi campo che bisognava fare i gruppi anche per i soccorritori. I capi campo a volte erano piccoli burocrati, ma a volte persone di grande capacità che facevano riferimento ad alcune associazioni provinciali di volontari della protezione civile (composta da circa 3000 persone “Tute BLU”, pagate dal ministero e da centinaia di migliaia di persone “Tute GIALLE” tutte volontarie che come loro non sono pagate assolutamente e vanno li a rotazione, per prestare servizio.) Lavorando molto sui capi campo della protezione civile, l’idea è passata. Così per quanto riguarda la sua zona quando arrivavano nuovi soccorritori, faceva i gruppi di 60/ 70 persone. Prima il capo campo gli dava le istruzioni, immediatamente dopo lui teneva un gruppo in cui si parlava delle differenze culturali. Longo non entra nei particolari, ma sottolinea che l’obiettivo era quello di ridimensionare queste persone che arrivavano come dei Rambo (Arrivo io, salvo tutti!.. Dove si scava? Dove stanno i morti?), per far capire che bisognava fare un lavoro molto umile, attento, rispettoso , al servizio, cosa che teoricamente sapevano già, ma quando si va in situazione d’emergenza, anche se mesi dopo, ci si arriva sentendosi il missionario, il salvatore perché probabilmente ciò che si muove dentro di noi rispetto ad un evento catastrofale lontano fa si, che per non sentirsi impotenti, si attivano tutte le parti di onnipotenza, fomentata dall’indossare tute uguali e dalla consegna di strumenti. Molti soccorritori arrivavano con le tasche piene di caramelle come se si trovassero di fronte a gente affamata. Il lavoro gruppale proposto mirava allo scioglimento, alla desaturazione di questa onnipotenza. Ovviamente è stato molto più difficile con la polizia e i carabinieri: loro hanno comunque tentato e poi l’hanno fatto con i loro psicologi col risultato che piano piano cercavano di mettersi più discosti, di non essere troppo invasivi. Il grosso del lavoro è stato fatto sulle etnie e sulle varie gruppalità interne. Più si organizzavano le gruppalità nei campi e più la rotazione dei compiti faceva si che le persone non si sentissero oppresse da questa presenza di 200 poliziotti. L’ambivalenza più grossa è stata comunque che tra protezione civile, Berlusconi, Obama è arrivato di tutto; la gente vedeva arrivare latte buono, ma nessuno ha dimenticato dentro di se che per mesi in precedenza avevano detto “non succede niente”, per cui se all’inizio ha prevalso il vogliamoci bene, poi sono ricominciate tutte le diatribe. Pur essendo il segno di uscita dalla massificazione, sono emerse delle conflittualità, perché con la terra non te la puoi prendere e allora te la prendi col vicino; poi la gente ha cominciato a dare addosso agli stessi soccorritori, perché se tu mi dici che non succede niente e poi succede e mi porti di tutto e di più e mi prometti case per tutti che non arrivano, allora mi stai fregando per la seconda volta. Ecco perché, nonostante tutto, da novembre la tv non ne ha parlato più; dopo ottobre con la consegna delle case ad Onna, è sceso il silenzio. I servizi comunque in questi casi si fanno in modo predeterminato: arriva la polizia; si allontanano pregiudicati e le persone più agitate; si dice alla popolazione di stare ad una certa distanza; quindi arriva il pulman coi giornalisti; scendono; qualcuno dice si riprende da qui a qui; non si puntano telecamere, non si fanno domande; dopo un’ ora si ricaricano i giornalisti e poi si vedono i TG pieni di immagini perfettamente programmate.

Il Dr.G.De Cinti reputa che il modo in cui si è intervenuti all’Aquila sia collegabile alla personalità dell’attuale premier che ha rifiutato gli aiuti. A proposito dei gruppo-comunità che è stata smembrata, chiede se si stia cercando di ricomporla proprio perché, pur se l’informazione è scarsa in proposito, gli risulta che la popolazione sia stata sparpagliata in varie zone.

Il Prof..Longo informa di aver pubblicato su Psychomedia e inviato anche alle mailing list, nove reportage scritti nei vari momenti; l’iniziale, la personalità, l’organizzazione gruppale, cosa fa la protezione civile, in che modo funziona; come si fa psicologia dell’emergenza in modo classico; come ha cercato di farla lui stesso ed altri, dal punto di vista della gruppalità. L’ultimo reportage è il resoconto di un’assemblea fatta il 21 giugno con tutti gli psicologi e Bertolaso sulla gestione della chiusura dei campi per andare nelle case. Ci sono molti elementi che si possono leggere. Tra l’altro è stato ripreso anche dalla protezione civile e pubblicato sulla loro rivista perché è piaciuto il discorso da cui emergeva che se tu porti 25 mila persone al mare e quelli che stanno nei campi cominciano a scrivere sui muri rimasti in piedi “ i lupi ai monti li cunigli a lu mare” cioè i lupi sono rimasti in montagna, i conigli se ne sono andati al mare; se quelli che sono andati a mare vengono accusati di codardia in questo modo pur vivendo in realtà una nostalgia enorme della loro terra e vogliono ritornare, ma quando tornano trovano i lupi che li aggrediscono e gli dicono che nelle case entrano prima loro e si scontrano perché pensano che proprio perché sono stati lontani, hanno il diritto di entrare per primi, ebbene si creano delle diatribe insanabili. Per lui dividere la popolazione è stato un terribile errore; si sono create situazioni di frammentazione in cui ora qualcuno non vuole tornare, qualcuno ha perso tutto. Ad esempio c’erano una cinquantina di restauratori del legno, fini artigiani che ormai non hanno più lavoro e non possono neanche rientrare nei loro laboratori che erano in centro città. Sono dovuti andare lontano ed eventualmente non torneranno perché, anche in caso di rimborsi economici, in una costosa ricostruzione edilizia la restaurazione del soffitto in legno non avrà priorità. Si sono create diatribe enormi: il bisogno stesso di ritrovare la propria individualità, anche in un piccolo gruppo ha fatto si che si creassero lotte non solo tra etnie, ma tra “tenda e tenda”, per mezzo metro di spazio. La più grossa è stata questa della dispersione della popolazione che si è ripetuta alla chiusura dei campi perché il dettato militare è stato; tutti i detenuti, i pregiudicati, tutte le persone con patologie neurologiche e psichiatriche, vanno portate il più lontano possibile, messi negli alberghi per farli meglio accudire dai servizi; poi gli anziani che vanno messi in un centro di alberghi un pò più interno; all’Aquila vanno inviate le coppie giovani con i bambini per poter riaprire le scuole ed è stata una bella bandiera, anche se in effetti i bambini sono stati meglio organizzati. Alle coppie, in grado di lavorare si è cercato di dare un lavoretto. Il tutto ha una sua logica cioè “ricostruiamo il più possibile il tessuto educativo ed economico lavorativo della città”. La conseguenza è però che le famiglie sono state spaccate, con gli anziani e i malati allontanati. Il tutto poi gestito in fretta: agosto e settembre sono stati mesi in cui gli hanno detto “calmate la gente, calmate la gente devono fare quello che diciamo noi. A tale richiesta una buona metà degli psicologi si sono ribellati dicendo “io lo psico-capò non lo faccio”. Quelli come lui più abituati a lavorare con i gruppi hanno comunque dato una mano, ma quelli che avevano modelli individuali e comportamentali non ce la facevano a reggere una tale tensione tra questi tipi di pensiero e d’intervento.

La Dr.ssa G.Sgattoni osserva che si era creata una comunità seguita da una specie di ricolonianizzazione dei territori.

Il Prof. Longo ritiene che all’inizio è stato così anche perchè la prima idea era di ricostruire l’Aquila 2; poi è diventata la costruzione di 19 insediamenti tutto intorno alla città per 3000-3500 persone. l’Aquila è un centro storico con tanti paesi intorno che ormai sono l’interland. 3500 persone sistemate in magnifici palazzi di legno costruiti su base oscillante “le tartarughe antisismiche”; palazzi tutti uguali uno dopo l’altro, senza servizi. 3500 persone che abituati ad abitazioni di un piano e mezzo o alla casa e la stalla, improvvisamente si trovano ad abitare in palazzi di tre piani; in appartamenti di 70 - 80 mq di tipo metropolitano, tra l’altro persone di provenienze diverse: 100 dell’Aquila, 600 di Paganica altri di Onna, altri di Montecchio.

7/8 comunità con 7/ 8 sindaci che le dirigono con i poliziotti e vigili urbani. si creano insediamenti difficilmente governabili, che per ora vanno avanti grazie al freddo, ma sarà improbabile riuscirci quando col caldo ci sarà da gestire gli anziani e i ragazzi. Il terremoto quindi non è finito: il vero problema di disintegrazione delle popolazioni e di riorganizzazione completa delle varie culture e dei vari strati sociali, ancora deve arrivare.

Per la Dr.ssa Sgattoni l’importante è dare agli abruzzesi la possibilità di auto-riorganizzarsi perché dall’esterno c’è una giustapposizione, qualcosa di non realmente padroneggiato

Prof. Longo condivide e sottolinea che gli abruzzesi lo hanno detto sin dall’inizio, lui stesso insieme a molti ordinari di psichiatria sono stati del parere di far lavorare gli psicologi abruzzesi per creare nuovi posti di lavoro e questo è stato fatto in tutti i campi. Sottolinea però come ancora oggi in Umbria non si ricostruisca neppure un cornicione se non c’è l’approvazione del genio della protezione civile. Questo dimostra quanto sia difficile che l’organizzazione torni in mano agli enti locali a fronte di una certa centralità a cui sono legate una serie d’imprese di appalti e subappalti.

La Dr.ssa Meoni ha una curiosità suscitata dal riferimento del relatore al terremoto del Friuli da lui vissuto personalmente: chiede che differenza c’è. Pone poi una riflessione in base a ciò che pensa circa le popolazioni, le persone disastrate le quali non per questo sono dei santi e quindi le organizzazioni. qualunque esse siano, che portano soccorso si trovano di fronte non solo alle problematiche relative al disastro, quanto a quelle soggettive; come in psichiatria quando consideriamo buoni e cattivi a prescindere dalla pazzia che li accomuna. Siccome notoriamente il cattivo è quello che crea il problema ed impedisce alla organizzazione la distribuzione delle

cose necessarie a tutti, le sembra ovvio che prevalgano interventi fortemente gerarchizzati quali quelli militari. E’ necessario e, anche se a scapito dei buoni, non vede altre soluzioni.

Il Prof. Longo ricorda di essere arrivato in Friuli alle 3 di notte dopo un terribile viaggio in treno e poi su un camion militare fino a Venzone una cittadina fortificata le cui mura di cinta non esistevano più. E’ stato alloggiato in una tenda militare su una branda che ogni venti minuti usciva dalla tenda per via delle scosse; c’erano frane continue, sassi che scivolavano giù per le montagne e di notte pochi sassi sembrano il finimondo. La mattina seguente alle 6 il megafono annuncia la colazione: esce, segue il flusso, aprono il tir e gli chiedono bianco o rosso ? Il latte non c’era. Questo è stato l’inizio: dopo tre giorni le scosse non le sentiva più. Alla sera ai bambini davano una ciotola di vino rosso col pane spezzato dentro. Un po’ per questo motivo, un po’ perché anche li si tratta di terra di frontiera, di conquista, di passaggio che ha abituato la popolazione a far fronte insieme, c’è stato un gran da farsi con una modalità cooperativa molto più diffusa al nord (dall’Emilia in su) per cui insieme si decideva cosa fare: oggi ricostruiamo la casa di qualcuno o andiamo a raccogliere le pietre e tutti si andava a fare quella cosa, senza obiezioni. Questo spirito collettivo e comunitario in Abruzzo non l’ha visto se non in alcuni rari casi da parte di un sindaco, un assessore, un prete o un carabiniere, uno della stazione sciistica, insomma uno che aveva un certo ascendente. Reputa che la popolazione si sia data da fare tutta insieme, però poi ognuno guardava al suo e questa cosa più passava il tempo più aumentava. Altra cosa: in Friuli erano soprattutto paesi prevalentemente a sfondo contadino, pre-industriale; qui era una città molto snob. L’Aquila è una città estremamente provinciale, prima perché sede di caserme militari, poi di industrie importanti ed infine è diventata città universitaria. Chi era benestante o perché ci teneva, ha comprato appartamenti e li affittati prima ai militari, poi alla gente dell’industria, poi agli studenti, lucrando anche perché affittate in nero. C’era gente che aveva molte case e che le ha perdute come fonte di reddito poichè quand’anche ti restituiscano i soldi, te li danno per la prima casa. Questo snobbismo ha prodotto due fenomeni: la fuga di molti perché non è bello vivere così, mi trasferisco con la mia attività di orafo, di artigiano, di industriale; sono un borghese ed investo altrove ed è grave perché è un tessuto sociale che si porta via un capitale di notevole entità; ci sono poi molte persone che non riconoscono più la città perchè non ci sono più luoghi d’incontro (cinema, teatri) la cui frequentazione le diversificava come cittadini. Quando poi si trova nei nuovi insediamenti a 6-7 Km lontani dal centro, accanto alle persone provenienti dai paesi, lui che ha fatto tanto per abitare al centro-città, si sente sradicato.

Il Dr D. Surianello si riferisce alla ormai avvenuta scomposizione del gruppo aquilano nei tanti insediamenti. Chiede a Longo se secondo la sua esperienza il centro storico verrà ricomposto o ormai l’ Aquila è persa.

Il Prof. Longo risponde che dalla provincia, anche per raccogliere fondi, sono state stampate due magliette: una “ Terremotosto” e l’altra “l’Aquila come era, dov’era”. E’ stato molto sentito il problema anche perché c’era l’idea di abbandonare e fare l’Aquila 2. Certo è che tutto il centro storico è difficilmente ricostruibile e richiede capitali immensi. l’Aquila sorge in un castro romano, in un posto dove c’era l’acqua, come si deduce dal suo nome . Poi durante il fascismo si chiamò Aquila degli Abruzzi per la risonanza con le aquile romane; in realtà era il posto delle acque come testimoniano le 99 cannelle che dimostrano come al di sotto ci sia una morena piena di buchi che ha creato molta più distruzione perché terreno franoso. Ebbene chi tornerebbe ad abitare in una casa del 700 con scaloni, cortile, colonne, dove abitavano 6 famiglie? Con i soldi che potrebbero avere non ce la farebbero a ricostruirla. Questo significa che le banche si stanno già comprando i palazzi più belli e che quindi l’Aquila diventerà una sorta di city. Forse dei palazzi si ricostruirà la facciata, ma dubita sulla ricostruzione degli interni. C’è poi tanta paura a tornare ad abitarci e ricostruirla sarà molto difficile, ci vorrà molto tempo e pensa che il desiderio che c’è stato fino a poco tempo fa di tornarci sarà scemato. La gente comincia a staccarsi e a lasciarsi vincere dall‘idea della modernità sostenuta da una certa politica. ]

Note di redazione

(r) elaborazione testi dialogo da registrazione vocale a cura di Dr.ssa Antonella Giordani

Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com


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