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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2009 - 2010

Aspetti giuridici e psicosociali nel lavoro

Avv.to. Massimo Filič Dr. M. Muscarā
Coordinatore Dr. D. Surianello
(t) testo di relazione fornito dal relatore (r) elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani


(r)Il Dr. Domenico Surianello, moderatore dell’incontro seminariale, presenta i relatori: l’avvocato Massimo Filiè che illustrerà gli aspetti storici e giuridici relativi al mondo del lavoro e il Dr. Marcello Muscarà che affronterà gli aspetti psicologici e psichiatrici inerenti l’ambito lavorativo.

Prende la parola l’avvocato M. Filiè. Ringrazia il Prof. Pisani che gli ha dato l’opportunità di presentare questa questa relazione e presenta l’ avv.to Simona Corvi, sua collaboratrice che, per altri impegni professionali, non ha potuto oggi essere presente e che ha contribuito ma in modo sostanziale a preparare la relazione. Premette che, come è una materia molto ampia e che la relazione che si presenta affronta quegli aspetti di natura giuridica che hanno maggiore rilevanza per gli aspetti più clinici che saranno approfonditi nella seconda parte del seminario affidata al Dr.Muscarà. La relazione tratta inizialmente E’ dell’evoluzione storica, oltre che sociale, della legislazione che si è occupata della materia in Italia che facilita la comprensione di questa complessa materia giuridica.

[ (t)ASPETTI GIURIDICI E PSICOSOCIALI NEL LAVORO

di Avv. Massimo Filiè e Avv. Simona Corvi

A partire dall’inizio del secolo scorso, il mondo del lavoro si è sviluppato attraverso un lungo e tortuoso percorso, in cui le grandi conquiste ottenute dai lavoratori, in termini di diritti e di politiche di protezione dell’impiego, si sono succedute a fasi di notevole arretramento, nelle quali la progressiva liberalizzazione delle forme contrattuali, diverse da quella “tipica” dell’impiego a tempo pieno ed indeterminato, ha portato alla frammentazione del mercato del lavoro ed a una situazione in cui la stabilità, la continuità del reddito e la previdenza non appaiono affatto tutelati.

L’esigenza di una precisa ed equa regolamentazione dei meccanismi del mondo del lavoro crebbe di importanza intorno alla metà del Novecento, dopo che, per decenni, a seguito di quel fenomeno che aveva avuto inizio con la rivoluzione industriale, grandi masse di persone si erano spostate dalle campagne verso gli agglomerati urbani attigui alle fabbriche, giungendo a contribuire, con le proprie forze, al cosiddetto “boom economico” , esploso in Italia negli anni ’60.

Del resto, la crisi del lavoro della terra, che aveva, fra le concause, la crescita dei costi di produzione e l’introduzione delle macchine, aveva provocato intensi flussi di migrazione verso le città e contribuito, pertanto, a rendere disponibili, con la crescente disoccupazione del bracciantato, forze-lavoro in quantità senza precedenti, di cui le nascenti industrie, unitamente all’edilizia, si erano servite per rastrellare manodopera a condizioni di estremo favore.

Tale situazione aveva determinato un netto squilibrio tra capitale e lavoro nella distribuzione del reddito, a danno della classe operaia industriale e ad esclusivo vantaggio dei datori di lavoro, ai quali era consentito – nel contesto legislativo all’epoca vigente – gestire con agilità i rapporti con il personale, selezionandolo direttamente per l’assunzione.

Nell’Italia del 1970, in un clima di forti e determinanti conflitti presenti in tutto l’Occidente (fenomeno conosciuto il tutto il mondo occidentale come “il ‘68”), il progressivo deterioramento dei rapporti fra lavoratori e datori di lavoro condusse all’apice delle lotte sindacali, e gli accesi scontri di piazza e la violenza delle rivendicazioni dei lavoratori dell’epoca resero indifferibile una soluzione legislativa che facesse luce sui reali intendimenti governativi.

È così che in Italia venne introdotta la Legge n. 300 del 20/05/1970 – proprio in questi giorni vi sono state celebrazioni per i 40 anni – recante come titolo: “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”. Meglio conosciuta come “Statuto dei lavoratori”, è una delle Leggi più importanti del diritto del lavoro italiano e ha rappresentato il punto di snodo fondamentale nella storia della conquista dei diritti sindacali, provocando notevoli e fondamentali modifiche sul piano delle condizioni di lavoro e su quello dei rapporti fra lavoratori, datori di lavoro e rappresentanze sindacali.

Lo Statuto rappresenta, essenzialmente, la traduzione sul piano della legislazione ordinaria dei principi già contenuti nella Carta costituzionale italiana, nella quale viene offerta tutela massima e privilegiata ai lavoratori e data la massima dignità e rilevanza ad alcuni istituti essenziali di garanzia del lavoro umano, a partire dalle indicazioni dirette alla complessiva emancipazione della classe lavoratrice contenute nella parte dedicata ai principi fondamentali.

Si pensi alla solenne affermazione di cui al primo comma dell’art. 1: “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro”; il capoverso dell’art. 3, per cui “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, ed il primo comma dell’art. 4, secondo il quale “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”.

Inoltre, gran parte del titolo III della prima parte della Costituzione, dedicato ai “rapporti economici”, prende in esame i diritti dei lavoratori e delle formazioni sindacali: il diritto alla formazione ed all’elevazione professionale, il diritto del lavoratore “ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità” del lavoro prestato e “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia una esistenza libera e dignitosa”, la previsione di una durata massima della giornata lavorativa, il diritto alle ferie ed al riposo settimanale, la parità di diritti della donna lavoratrice, la tutela delle lavoratrici madri, la tutela del lavoro minorile, il diritto alla previdenza ed all’assistenza, il diritto all’inserimento lavorativo dei disabili, la libertà dell’organizzazione sindacale, il riconoscimento dell’efficacia della contrattazione collettiva, il diritto di sciopero, i limiti posti alla libertà dell’iniziativa economica privata.

Nell’ambito delle varie misure legislative adottate a favore dei lavoratori, la traduzione dei diritti e delle previsioni costituzionali all’interno dello Statuto dei lavoratori si è realizzata soprattutto attraverso il consolidarsi di regole intorno al modello del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato e, in particolare, intorno al concetto di tutela della stabilità del rapporto di lavoro.

Al proposito, il tanto discusso art. 18 dello Statuto – di cui si è parlato anche nel recente dibattito politico – prevede la reintegrazione dei lavoratori ingiustamente licenziati in presenza di un determinato requisito dimensionale dell’impresa, mentre l’art. 15 dello stesso Statuto dispone la nullità di qualunque atto diretto a licenziare o discriminare un lavoratore in ragione della sua fede politica o della sua collocazione sindacale.

A detta rigidità in uscita, che comporta che il lavoratore non possa essere licenziato se non in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo e che nell’ipotesi in cui si verifichi un licenziamento ingiustificato egli abbia diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, si era accompagnata, dal 1970 sino alla fine degli anni 90, la previsione della “chiamata numerica” presso gli uffici di collocamento, ovvero alla cosiddetta rigidità in entrata, e, quindi, alla limitazione della discrezionalità dei datori di lavoro in ordine alla scelta delle persone da avviare al lavoro.

Si era venuto a consolidare, dunque, un meccanismo, conquistato attraverso dure lotte e faticosi passaggi legislativi, diretto alla salvaguardia delle forme di organizzazione dei lavoratori e delle loro garanzie all’interno dei posti di lavoro.

Infatti, man mano che le esigenze di tutela e di garanzia di libertà e uguaglianza dei lavoratori andavano trovando nella società e nelle forze politiche un maggiore riscontro, anche la specifica disciplina dei licenziamenti subiva una notevole evoluzione, sicché, se, all’inizio, il rapporto di lavoro presentava una significativa e stridente disparità tra le parti, a vantaggio indiscusso del datore di lavoro, con l’effetto di esporre il lavoratore a inevitabili rischi di abusi, nel tempo, rigorosi limiti, dapprima a livello di contrattazione collettiva e poi legislativi sono stati posti per arginare la libertà di recesso dal rapporto di lavoro da parte del datore stesso.

Facendo un salto indietro, è interessante segnalare che nel Codice Civile del 1865, che registrava i cambiamenti verificatisi nella società moderna a seguito della già ricordata rivoluzione industriale, la materia del lavoro era affrontata nel quadro di una filosofia di tipo puramente liberale, in cui le parti, così come avevano piena libertà di costituire fra di loro il rapporto lavorativo, allo stesso modo disponevano in piena autonomia della sua cessazione. L’art. 1628 del Codice Civile del 1865 sanciva il principio della “libera recedibilità”, che, per molto tempo, venne considerato una conquista di civiltà giuridica, poiché rappresentava l’emancipazione del lavoratore - considerato nella condizione astratta di libero contraente - dai retaggi e dai vincoli feudali tendenzialmente perpetui.

Detta concezione formale del recesso, pertanto, serviva ad allineare la risoluzione del rapporto lavorativo a quella di ogni altro rapporto a tempo indeterminato, considerandolo alla stregua di un qualsiasi altro istituto contrattuale riconducibile al diritto privato, nell’intento di assicurare una sostanziale simmetria tra la costituzione e la cessazione del rapporto di lavoro, nel segno della piena e libera determinazione ad opera della volontà esclusiva delle parti.

Sennonché, veniva a determinarsi, di fatto, una profonda contraddizione tra la regola della libertà contrattuale – e, conseguentemente, della libertà di svincolarsi in qualsiasi momento dal contratto – e il principio della parità reale dei contraenti, in quanto, inevitabilmente, quelli che venivano a misurarsi erano interessi profondamente differenziati. Laddove, ad esempio, è facile intuire che le dimissioni del lavoratore comportassero, per il datore, solo il fastidio di dover provvedere alla sua sostituzione, è invece evidente che il licenziamento, per il lavoratore, costituisse di norma un vero e proprio dramma esistenziale, sia sotto il profilo del problema di dover trovare una nuova occupazione, sia sotto quello del venir meno della fonte del proprio sostentamento. E ciò specialmente in una società dove la regola era rappresentata dal fatto che, in seno alla famiglia, soltanto l’uomo era colui che estrinsecava attività lavorativa all’esterno e procacciava, quindi, il necessario per il sostentamento di tutto il nucleo familiare, solitamente anche numeroso.

Il successivo Codice Civile del 1942, emanato sotto l’influenza della concezione corporativa del lavoro e della sua organizzazione, nel ribadire la libertà del recesso di entrambi i contraenti, stabiliva, agli artt. 2118 e 2119, l’obbligo del preavviso, salvo il caso di recesso per giusta causa. Tali disposizioni, sono tutt’ora vigenti, pur se con le modifiche apportate nel corso del tempo da alcune leggi speciali.

Dopo l’avvento della Costituzione repubblicana e l’introduzione dei principi e dei diritti di cui si è sopra accennato, si aprì in dottrina un ampio e vivace dibattito perché venisse affermato un generale divieto di licenziamento “immotivato”.

La materia, quindi, per lungo tempo fu oggetto di contrattazione collettiva: gli accordi interconfederali del 1947 introdussero alcuni limiti ai licenziamenti nel campo dell’industria; nel 1950 due accordi regolamentarono i licenziamenti sia individuali che collettivi. L’accordo interconfederale (Confindustria/CGIL-CISL-UIL) del 20/04/1965 introdusse la possibilità, per il lavoratore licenziato, di attivare una procedura conciliativa intersindacale, ovvero la costituzione di un collegio arbitrale.

Con una celebre sentenza (la n. 45 del 09/06/1965), la Corte Costituzionale, pur ammettendo la legittimità del licenziamento "ad nutum", invitò il legislatore ad assicurare gli "opportuni temperamenti" ai licenziamenti indiscriminati;

Nel 1966, pertanto, venne emanata la Legge n. 604, che prevedeva – solo, però, nelle imprese con più di 35 dipendenti - che il licenziamento del prestatore di lavoro non potesse avvenire che per giusta causa o per giustificato motivo, prevedendo l’obbligo del licenziamento in forma scritta e introducendo, a fronte di licenziamenti illegittimi, una specifica tutela, che però era ancora di natura obbligatoria (e non reale, come sarà poi con lo Statuto dei Lavoratori) e consisteva o nell’obbligo di riassunzione o nell’obbligo di pagamento, a scelta del lavoratore, di una indennità da determinarsi tra un minimo di 5 mensilità sino a 12 mensilità.

Tale norma, ha trovato, come accennato, ulteriore supporto nello Statuto del Lavoratori del 1970 (che ha introdotto la tutela reale della reintegrazione nel posto di lavoro in presenza del requisito dimensionale minimo di 15 dipendenti) e nella successiva Legge 108/1990, che per la prima volta ha introdotto un regime vincolistico del licenziamento, con l’intento di dare – in un periodo in cui, come vedremo tra poco, inizia a mettersi in discussione la validità dei concetti legati a quella che abbiamo definito “rigidità” – ulteriore e maggiore stabilità al posto di lavoro, in quanto non consente che il provvedimento unilaterale di recesso, intimato dal datore di lavoro, sia privo di motivazione e, quindi, possa essere esercitato con mero arbitrio.

L’ultima legge citata, inoltre, ha introdotto il tentativo obbligatorio di conciliazione quale condizione di procedibilità dei ricorsi alla magistratura del lavoro in tema di licenziamento. Detta disposizione è stata altresì estesa a tutte le controversie in materia di lavoro, ad opera del D. Lgs. 80/1998, che ha modificato in tale senso l’art. 410 del Codice di Procedura Civile.

Peraltro, le successive stratificazioni dei diritti e delle garanzie dei lavoratori, in particolare con il già citato Statuto dei lavoratori del 1970, hanno significato l’entrata in campo della figura del “magistrato del lavoro”, che ha preso vita a seguito della riforma del processo del lavoro del 1973. Il riconoscimento di nuovi e sempre crescenti diritti per i lavoratori si è tradotto nella continua richiesta di tutela giurisdizionale, che ha determinato, sin da subito, l’inizio di una lunga serie di pronunce giurisdizionali innovative che tuttora, seguendo la tendenza protezionistica nata in quegli anni, incidono notevolmente nella realtà dei luoghi di lavoro e nei rapporti tra datori e lavoratori.

Già però gli anni ‘80 e ‘90 vengono a caratterizzarsi per aver dato inizio ad un processo di erosione delle faticose conquiste ottenute nei decenni precedenti.

L’inizio della progressiva precarizzazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro in Italia è fatto coincidere con l’emanazione della Legge n. 863 del 19/12/1984, facente parte del “Protocollo Scotti sul costo del lavoro”, con la quale furono allargati i criteri minimi per il part-time, introdotti i contratti di solidarietà e i contratti di formazione-lavoro.

Seguì, poi, nel 1987, la Legge n. 56, che diede la possibilità di estendere il contratto a termine a tutti i settori; nei primi anni 90 iniziò il processo di revisione della scala mobile, sfociato poi nell’accordo del 1992 che sancì l’abolizione degli scatti di contingenza.

Mentre, dunque, nel 1990, come visto, veniva emanata una legge il cui intento era quello di dare maggiore stabilità al rapporto di lavoro, è proprio in quel periodo che inizia ad affermarsi il concetto che una maggiore flessibilità del mercato del lavoro sia strada da seguire nei paesi che esibiscono cattive performance del proprio sistema economico.

La “rigidità” delle istituzioni del mercato del lavoro viene identificata come l’ostacolo da rimuovere e lo scopo dei governi è quello di rendere flessibile i parametri di entrata nel mondo del lavoro, favorendo in tal modo l’occupazione.

Tra la fine degli anni 80 e la prima metà degli anni 90, il problema della disoccupazione raggiunge dimensioni esplosive; se l’inizio degli anni 80 vede l’introduzione e la progressiva espansione del lavoro terziario, in un contesto di forte innovazione tecnologica e di competizione globale, il decennio successivo si caratterizza per il basso tasso di crescita degli investimenti e per la massiccia “femminilizzazione” del lavoro, che ne accresce sensibilmente l’offerta.

Inoltre, dilaga il fenomeno della parasubordinazione e della pratica dei datori di lavoro di celare dietro un formale rapporto di natura autonoma, un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato.

Pertanto, l’obiettivo di rompere la “rigidità” di cui sopra, dopo alcune evoluzioni interpretative dottrinali che hanno legittimato il ricorso indiscriminato a nuove tipologie contrattuali (si ricorda il famoso contratto di collaborazione coordinata e continuativa - Co.Co.Co.), ha infine ispirato l’emanazione (dopo lunga gestazione) della c.d. Legge Biagi (Legge 14 febbraio 2003, n. 30 - "Delega al Governo in materia di occupazione e mercato del lavoro"), che ha introdotto una serie di novità la cui portata è senza dubbio paragonabile allo Statuto dei lavoratori. Diversamente da quest'ultimo, però, l'intento del legislatore del 2003 parte dal presupposto secondo cui la flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro è il mezzo migliore, nella attuale congiuntura economica, per agevolare la creazione di nuovi posti di lavoro, mentre la rigidità del sistema crea spesso alti tassi di disoccupazione.

Altro obiettivo della Legge Biagi era quello di ridefinire, accanto alle tipologie lavorative, anche il regime protettivo del lavoro subordinato, operando un’opportuna graduazione e diversificazione delle tutele in ragione delle materie di volta in volta considerate.

Di fatto, tale soluzione ha favorito un costante e crescente processo di sostituzione del lavoro a tempo indeterminato con il lavoro precario e, poiché la maggior parte delle fattispecie contrattuali introdotte o liberalizzate prevede una durata predeterminata del rapporto tra lavoratore ed impresa, indubbi sono i vantaggi economici per il datore di lavoro, che, alla scadenza del contratto, non sostiene più alcun costo di licenziamento.

Alla legge delega è stata data attuazione con un unico decreto legislativo (D. Lgs. n. 276/2003), che consta di ben 86 articoli, e che ha introdotto un numero notevole di istituti: dalla somministrazione di lavoro all'apprendistato, dal contratto di lavoro intermittente al lavoro accessorio e dal lavoro occasionale al contratto a progetto. Ha, inoltre, disciplinato le agenzie di somministrazione di lavoro abrogando l'istituto del lavoro temporaneo o interinale; ha introdotto procedure di certificazione e la Borsa continua nazionale del lavoro, ossia un luogo di incontro fra domanda e offerta di lavoro. Ha introdotto, altresì, il lavoro su chiamata detto “job on call”, e quello ripartito (job sharing), in cui l’unica prestazione di lavoro è divisa tra due lavoratori.

Uno studio della CGIL italiana ha catalogato almeno 46 nuove forme di lavoro flessibile. Ovviamente, per il lavoratore precario diventa estremamente difficoltoso avere una progettualità. E’ evidente, infatti, che una carriera lavorativa frammentata comporta un notevole disagio, che può tradursi nella posticipazione a tempo indefinito dei progetti lavorativi, personali e familiari, a causa dell’indeterminatezza delle prospettive lavorative e reddituali future, non potendo il lavoratore contare sull’accesso agli schemi di mantenimento del reddito previsti per la tutela dei periodi di non lavoro, a differenza dei lavoratori “tipici”, che possono contare su continuità occupazionale e salariale, nonché su forme di protezione sociale.

E’ più o meno nel contesto appena descritto che è andato sviluppandosi, negli ultimi anni, un fenomeno che, per certi versi, ha trovato terreno particolarmente fertile con l’avvento, nel mondo del lavoro, della precarietà: parliamo del mobbing.

Il mobbing – termine che deriva dall’inglese “to mob” = assalireè – è, per l’appunto, un grave e dilagante fenomeno sociale che consiste in una forma di violenza psicologica deliberatamente messa in atto da un superiore e/o da più colleghi di lavoro nei confronti di una “vittima”, la quale è soggetta a continui “attacchi” ed ingiustizie che, a lungo andare, la portano ad una condizione di estremo disagio psicologico e fisico.

Le frequenti aggressioni hanno la finalità di ledere la reputazione della “vittima”, impedirle ogni forma di comunicazione, isolarla socialmente, renderle impossibile svolgere il proprio lavoro in modo soddisfacente tramite l’assegnazione di incarichi poco gratificanti, insignificanti e umilianti.

Il mobbing, in altre parole, è quel particolare fenomeno che consiste in una forma di molestia non di tipo fisico bensì caratterizzata dalla ripetizione per un lungo periodo, da parte di una o più persone facenti parte dell’ambito lavorativo, di atteggiamenti ostili basati sulla comunicazione, che hanno come conseguenza l’isolamento sociale della “vittima” designata.

Gli elementi identificativi del mobbing, come individuati dalla recente giurisprudenza italiana, sono i seguenti: a) la pluralità dei comportamenti e delle azioni a carattere persecutorio (illecite o anche lecite, se isolatamente considerate), sistematicamente e durevolmente dirette contro il lavoratore; b) l'evento dannoso (cioè, a tali condotte deve conseguire un danno); c) il nesso di causalità tra la condotta e il danno; d) la sussistenza dell'elemento soggettivo (cioè, condotte ed evento dannoso devono essere “volute”) e la prova di tale elemento (T.A.R. Campania Napoli Sez. II Sent., 20-04-2009, n. 2036).

Ad oggi sono stati classificati quattro tipi di mobbing: 1. mobbing di tipo orizzontale, che si sostanzia nelle azioni discriminatorie poste in essere dai colleghi nei confronti della vittima; 2. mobbing di tipo discendente, ovvero quello perpetrato nei confronti della vittima da un superiore; 3. mobbing misto o combinato, che si verifica quando il mobbing di tipo orizzontale alimenta quello di tipo discendente, vale a dire quando i colleghi, fornendo informazioni al superiore della vittima, la danneggiano su più fronti; 4. mobbing ascendente, che permette all’azienda, grazie alla complicità di dipendenti, attraverso azioni vessatorie, di escludere o emarginare un superiore non gradito.

In Italia, gli interventi legislativi volti a disciplinare e a contrastare il mobbing sono di epoca recente e si sostanziano, prevalentemente, in norme di recepimento di Direttive emanate in ambito europeo, al fine di arginare un fenomeno ormai presente in tutti gli Stati membri: si citano, al proposito, il D. Lgs. n. 213 del 09/07/2003, recante “Misure contro le discriminazioni nell’ambiente di lavoro”, in attuazione della Direttiva 2000/78/CE, nonché il D. Lgs n. 18 del 02/02/2001, attuativo della Direttiva 1998/50/CE, relativa al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento di imprese, di stabilimenti o di parti di stabilimenti.

A livello comunitario, inoltre, meritano rilievo la Direttiva 2000/43/CE del 29 giugno 2000, che sancisce il principio della parità di trattamento fra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica, e la Direttiva comunitaria n. A5-0283/2001 - Risoluzione A5-0283/2001, denominata “Mobbing sul posto di lavoro”.

Attraverso detta ultima Risoluzione, il Parlamento europeo, prendendo le mosse da un sondaggio svolto dalla Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro su un campione di 21.500 lavoratori, ha rilevato che solo l’8 % del lavoratori dell’Unione europea, nel 2001, è stato vittima di mobbing sul posto di lavoro, giungendo poi a presupporre che il dato sia notevolmente sottostimato.

In particolare, il Parlamento europeo ha osservato che l’incidenza di fenomeni di violenza e molestie sul lavoro, che include certamente anche il mobbing, presenta sensibili variazioni tra gli Stati europei e che ciò è dovuto al fatto che in alcuni paesi soltanto pochi casi vengono dichiarati, che in altri la sensibilità verso il fenomeno è maggiore, e che esistono differenze tra i sistemi giuridici, nonché profonde differenze culturali.

Inoltre, il Parlamento europeo, sulla scorta dei rilievi della Fondazione europea, ha accertato che la precarietà dell’impiego costituisce una delle cause principali dell’aumento della frequenza del fenomeno. Pertanto, in considerazione di quanto osservato, ha sottolineato l’importanza di studiare attentamente e più da vicino il fenomeno del mobbing sul posto di lavoro, esortando tutti gli Stati membri a rivedere, e se del caso, a completare la propria legislazione vigente sotto il profilo della lotta contro il mobbing e le violenze sul posto di lavoro, sottolineando espressamente la responsabilità degli stessi Stati membri e dell’intera società per detti fenomeni.

In Italia, la più recente Giurisprudenza di legittimità e di merito individua la “copertura normativa” della responsabilità del datore di lavoro in materia di mobbing ricavandola dal combinato disposto della norma costituzionale di cui all’art. 41 Cost. - che pone un limite al principio della libertà di iniziativa economica privata, vietandone l’esercizio con modalità tali da pregiudicare la sicurezza e dignità umana - con la disposizione di cui all’art. 2087 C.C., che sancisce, a carico del datore di lavoro, l’obbligo di protezione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, derivante direttamente dal contratto di lavoro inter partes (Cfr.: Cass. Civ. Sez. Un. Sent. n. 8438/2004; Trib. Tempio Pausania 10/07/2003; Trib. Pisa 07/10/2001; Trib. Bari 20/02/2004; Trib. Forlì 23/02/2001 e 15/03/2001; Trib. Torino 16/11/99 e 27/06/2001).

Tra quelle citate, la sentenza più significativa è quella del 2001 del Tribunale di Pisa. In particolare, prendendo le mosse dalla appena richiamata norma del Codice Civile, secondo cui “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, il Giudice del Lavoro di Pisa qualifica la stessa “quale norma di chiusura del sistema di protezione del lavoratore”, dal momento che impone al datore di lavoro non solo l’adozione delle misure richieste specificamente dalla legge, ma anche il più generale obbligo di adottare tutte le misure di prudenza e diligenza necessarie a tutelare l’incolumità e l’integrità psico-fisica dei propri dipendenti. Conseguentemente, da tale disposizione discende, per il datore di lavoro, sia il divieto di compiere direttamente qualsiasi comportamento lesivo dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, sia l’obbligo di prevenire la realizzazione di simili condotte nell’ambito ed in connessione con lo svolgimento dell’attività lavorativa (Cfr. Trib. Pisa 07/10/2001 cit.).

Il Giudice del Lavoro di Pisa, peraltro, ravvisa una responsabilità contrattuale ex art. 2087 C.C. del datore di lavoro, “anche nella sua condotta puramente omissiva”, per non aver quest’ultimo “provveduto all’obbligo di vigilare affinché nel contesto organizzativo nessuno approfitti della sua posizione gerarchica per acuire lo stato di soggezione del sott’ordinato, imponendo comunque il rispetto della personalità, soprattutto nei confronti dei soggetti più deboli”.

Tale orientamento ha trovato conferma in una recente pronuncia della Suprema Corte di Cassazione a Sezioni Unite, che ha affermato la natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro ogniqualvolta sia denunciata “la violazione di specifici obblighi contrattuali derivanti dal rapporto di lavoro (mutamento di mansioni, trasferimento, assegnazione a locale insalubre, privazione dei riposi, etc.), in quanto “la tutela invocata attiene a diritti soggettivi derivanti direttamente dal rapporto di lavoro, indipendentemente dai danni subiti” (Cass. Sez. Unite, 4 maggio 2004, n. 8438).

Fra le varie pronunce giurisprudenziali tese ad assicurate la giusta tutela del lavoratore a fronte di episodi di mobbing perpetrati a danno di lavoratori subordinati o, comunque, precari, merita menzione la Sentenza n. 515 del 15/01/2004, con la quale la Suprema Corte di Cassazione ha dichiarato l’annullabilità delle dimissioni dal proprio posto di lavoro rassegnate in grave stato psichico da una dattilografa demansionata e sottoposta a pressione psicologica, sul presupposto che la lavoratrice, al momento del compimento dell’atto, si trovava in uno stato di profondo turbamento psichico, tale da impedirgli di apprezzare l’importanza dell’atto medesimo e di liberamente determinarsi al suo compimento.

Altra pronuncia esemplare della Corte Suprema è quella con cui è stato accertato che configura il reato di maltrattamenti ex art. 572 c.p. la condotta del datore di lavoro e dei suoi preposti che, nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato, abbiano posto in essere atti volontari, idonei a produrre uno stato di abituale sofferenza fisica e morale nei dipendenti (Sent. n. 10090 del 22/01/2001).

Tuttavia, occorre evidenziare come ancora non si sia consolidata una copiosa, costante ed unanime giurisprudenza di indirizzo “protezionistico” (come nel caso delle altre controversie di lavoro), ritenendo che ciò possa essere dovuto a una pluralità di cause, fra le quali il fatto che tale fenomeno sia ancora poco denunciato e riconosciuto, e che è molto difficile, in sede giurisdizionale, raggiungere la prova delle “azioni persecutorie” a cui il lavoratore viene sottoposto.

Come si è detto, peraltro, non vi è neanche una legislazione specifica in materia e solo recentemente, a livello locale, sono state introdotte alcune disposizioni, quali quella adottata, ad esempio, con L.R. del Lazio (n. 16 dell’11/07/2002) che ha istituito, presso le A.S.L., appositi centri “antimobbing”.

La Regione Lazio, con la citata Legge Regionale del 2002, è stata la prima in Italia ad emanare un provvedimento normativo che affronta direttamente il problema. All’art. 2 di detta legge viene recepita, per la prima volta in un testo normativo, la definizione del “mobbing” (1. Ai fini della presente legge per "mobbing" s'intendono atti e comportamenti discriminatori o vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di lavoratori dipendenti, pubblici o privati, da parte del datore di lavoro o da soggetti posti in posizione sovraordinata ovvero da altri colleghi, e che si caratterizzano come una vera e propria forma di persecuzione psicologica o di violenza morale. 2. Gli atti ed i comportamenti di cui al comma 1 possono consistere in: a) pressioni o molestie psicologiche; b) calunnie sistematiche; c) maltrattamenti verbali ed offese personali; d) minacce od atteggiamenti miranti ad intimorire ingiustamente od avvilire anche in forma velata ed indiretta; e) critiche immotivate ed atteggiamenti ostili; f) delegittimazione dell'immagine, anche di fronte ai colleghi ed a soggetti estranei all'impresa, ente o amministrazione; g) esclusione o immotivata marginalizzazione dall'attività lavorativa ovvero svuotamento delle mansioni; h) attribuzione di compiti esorbitanti o eccessivi, e comunque idonei a provocare seri disagi in relazione alle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore; i) attribuzione di compiti dequalificanti in relazione al profilo professionale posseduto; j) impedimento sistematico ed immotivato all'accesso a notizie ed informazioni inerenti all'ordinaria attività di lavoro; k) marginalizzazione del lavoratore rispetto ad iniziative formative, di riqualificazione e di aggiornamento; l) esercizio esasperato ed eccessivo di forme di controllo nei confronti del lavoratore, idonee a produrre danni o seri disagi; m) atti vessatori correlati alla sfera privata del lavoratore, consistenti in discriminazioni sessuali, di razza, di lingua e di religione).

Pur in assenza, dunque, di una normativa nazionale specifica e pur nell’oscillante orientamento giurisprudenziale, è indubitabile che il “mobbing” esista ed è pacifica la gravità delle conseguenze che lo stesso può comportare. Il "mobbing", peraltro, non è solo un problema dell'individuo, in quanto si riverbera direttamente nella sfera personale della vittima, ma è anche un problema dell'ambiente di lavoro.

Nel "mobbing" è ben chiaro e percepibile un dislivello di potere tra le parti, con la conseguenza che la vittima viene a trovarsi sempre in una posizione di svantaggio.

Il dislivello di potere prescinde dalla posizione gerarchica all'interno dell'azienda. Significa che il “mobbizzato” non ha le stesse capacità di difendersi dell'aggressore: è confinato nella posizione più debole e destinato purtroppo alla sconfitta.

Il mobbing peraltro è caratterizzato da diverse fasi, che rappresentano una vera e propria escalation, in cui ad un certo punto, che può essere anche quello iniziale, c’è l'entrata in gioco dell'amministrazione del personale e dei vertici dirigenziali: si tratta in genere di richiami, controlli sul rendimento, in ragione dei quali il "mobbing" diviene "pubblico", esce dall'ufficio e viene percepito da altri reparti o settori.

In conseguenza di ciò, il “mobbizzato” entra in una fase di malessere più acuta per cui è costretto a prolungare le assenze per malattia, aspettative, periodi di riposo che lo allontanano sempre più dal posto di lavoro.

Essendo il mobbing, secondo la Giurisprudenza che se ne è occupata, un fenomeno privo di una precisa connotazione giuridica e di confini certi o determinati sul piano delle forme e delle modalità attuative, e verificandosi esso solo in presenza di persecuzioni sistematiche ripetute ed oggettivamente documentate, detto fenomeno va necessariamente distinto dalle controversie che si verificano quotidianamente nell’ambito del lavoro e può essere perseguito solo nei casi scrupolosamente accertati.

In questo ultimo caso, naturalmente, la tutela giurisdizionale apprestata a favore del lavoratore si sostanzia nel pieno riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, inteso quale lesione al bene “salute” (integrità psico-fisica), consacrato e garantito nella Costituzione italiana, oltre che negli artt. 2 e 3, inerenti i diritti inviolabili dell’uomo e la tutela della dignità umana, anche nel già citato art. 41 Cost. e, soprattutto nell’art. 32, che riconosce la tutela della salute come diritto fondamentale dell'uomo, nonché nell’art. 35, che prevede la tutela del lavoro in tutte le sue forme.

Lo stesso, inoltre, in quanto, come detto, incide direttamente sul bene-salute e, quindi, sulla integrità psico-fisica di chi lo subisce, si presenta anche quale fenomeno avente sicura rilevanza dal punto di vista clinico.]

Prende quindi la parola il Dr. Muscarà.

(r) Il Dr. M.Muscarà rispetto all’argomento del mobbing ha notato che in ambito aziendale gli aspetti giuridici sono opinabili, carenti, in quanto spesso interpretati in modo diverso. Lui come medico ha vissuto molte volte il disagio delle persone con questi problemi che si possono affrontare con l’osservazione clinica, ma non risolvere. Valuta la difficoltà a trovare soluzioni sia a livello governativo che delle opposizioni come emerge a livello di media. Come situazione esplicativa porta quella del Dr. Aurelio Muscarà, suo nipote, che è laureato in psicologia del lavoro. Con tale titolo ha avuto la sua carriera professionale come selettore nel mondo del lavoro in diversi ambiti. Ha avuto la possibilità di svolgere questa sua funzione non occasionalmente, ma stabilmente in diverse aziende, nella selezione del personale di grandi ditte. Ultimamente lavorava presso una ditta che lo aveva assunto per queste sue funzioni ben precise legate a questo suo titolo di professionalità. Improvvisamente gli hanno comunicato che se non voleva perdere il posto di lavoro doveva accettare il posto di guardiano. Chiede al Prof. Pisani e al gruppo se può lasciare il suo spazio alla testimonianza diretta del Dr. A.Muscarà che prende la parola collegandosi a quanto detto da Filiè. Si riferisce alle imprese sottolineando che stabiliscono un rapporto sbilanciato per mantenere il potere sui dipendenti. Evidenzia che il novero delle sigle (co-co-co o co-co-pro..etc.) per definire contratti diversi dall’impiego a tempo indeterminato, comunicanoo una mancanza di obiettivi e di progettualità alle persone. Questo avviene perché le imprese che fanno un contratto di lavoro, lo fanno non come fosse “un matrimonio per sempre”, ma è “un proviamo per un paio d’anni e poi vediamo”. Tra l’altro questi contratti possono susseguirsi a collana e ci sono alcune persone che in tanti anni ne hanno inanellati una lunga serie, pur avendo un alto livello di responsabilità lavorativa. Ultimamente ha conosciuto un ragazzo che aveva 11 anni d’esperienza nella sua azienda con questi “contrattini” e dopo 11 anni non era ancora in grado di dire cosa avrebbe fatto da grande. Sono contratti che non considerano il livello progettuale, né l’orologio biologico delle persone. Questo limite è per gli uomini e tanto più per le donne per un contratto d’apprendistato che viene stipulato al di sotto dei 30 anni e che dura dai 3 ai 5 anni facilmente superano i 30 anni d’età. Quindi il problema è certamente economico e politico, nel senso che politicamente si sta cercando di stabilire un contratto che non dia vantaggi solo all’impresa : un’ economia che fa finta di girare visto che lascia per strada persone che a 35 anni dovrebbero poter raccogliere il frutto del seminato dopo anni di esperienza lavorativa. Non sa per quanto tempo potrà andare avanti questa situazione, quando si potrà pervenire ad una regolamentazione legislativa, sa che non è solo il contratto in se a mancare, ma è la forma di economia che colpisce il soggetto e la sua famiglia. Evidenzia le conseguenze sociali per cui i medici cominciano ad avere contatto con persone che vivono questo disagio anche in situazioni famose apparentemente privilegiate, quali quelle dell’ambiente televisivo dove avviene che anche giornalisti si ritrovano “senza nulla” dopo 30 anni di lavoro. Se anche queste persone sono coinvolte da queste problematiche sociali, vuol dire che il fenomeno sta dilagando. Conclude sottolineando il ritorno al mondo feudale dove non c’è un contratto di lavoro, ma un rapporto di schiavitù vera e propria. Quello che si ha quando ad esempio viene chiesto a lavoratori giovani, con un tipo di contratto che prevede un orario d’ingresso e di uscita, di ritornare invece sul posto di lavoro e continuare a lavorare per non perdere il contratto che è di tipo precario.

Situazione assimilabile a “schiavitù” perché nel momento in cui non si sa se è possibile accedere ad un mutuo per acquistare una casa, di costruire un rapporto stabile con il proprio compagno/a e di crearsi una famiglia, non si è padroni del proprio futuro e della propria progettualità.

Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti (r):

Il Prof. Pisani ringrazia i relatori, in particolare l’avvocato M.Filiè per la brillante e chiarissima esposizione. Ritorna al concetto della matrice cioè alla rete transpersonale che governa le relazioni interpersonali e il mondo intrapsichico. Questa rete transpersonale non è una cosa astratta, ma è tutto ciò che i partecipanti di un contesto sociale condividono a vari livelli. A livello di realtà la condivisione ha a che fare con la giurisprudenza cioè con le regole giuridiche, con le leggi poi con l’economia, la politica, la storia, la geografia. Questo livello è strettamente collegato con livelli più profondi perché, nel momento in cui si considera il rapporto datore di lavoro e lavoratore, si affronta il tema del rapporto di giustizia, della equità per cui quello ti dà una cosa e quello gliene da un’altra. Se fosse un’impostazione matura non ci sarebbero problemi che invece appaiono ad un certo livello quando emergono gli aspetti predatori. Pisani è grato a Volfango Lusetti che col suo lavoro ha messo a fuoco, descrivendoli anche attraverso miti e favole, aspetti molto profondi della convivenza, quelli più immaturi della predazione: mors tua vita mea. Ma questo aspetto predatorio ha un corrispettivo in un altro aspetto del predato che è quello di tipo paranoicale o paranoide: l’aspetto persecutorio, per cui la predazione da una parte e la persecuzione dall’altra si incontrano e spesso è difficile stabilire quanto vuole stabilire la giurisprudenza che definisce delle norme a livelli maturi, tra persone adulte mentre in questo c’è tutta l’interferenza di aspetti psicopatologici: predazione e idea persecutoria. Si stava chiedendo anche quanto questo possa avere a che fare con lo sviluppo dei fenomeni mafiosi: la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta, le massonerie. Si chiede quanto la storia che Filiè ha portato abbia a che fare con lo sviluppo delle organizzazioni che sono di tipo arcaico-cannibalico e si fondano sul mettiamoci insieme per predare e non farci depredare. Si chiede anche quanto il fenomeno del mobbing abbia a che fare con aspetti molto profondi di convivenza, in particolare con un fenomeno che gli analisti di gruppo vedono molto spesso, quello del capro espiatorio. Nella storia dei capri espiatori c’entra sempre il divorare, siamo sempre a livello orale cannibalico; siamo sempre a livello primitivo arcaico in cui il collettivo è quello definito Dal Prof. Ignazio Majore che si riferisce al collettivo arcaico, non al collettivo koinonico; difficile capire quanto uno si presti a fare da capro espiatorio e quanto siano gli altri a metterlo nella condizione di esserlo.

L’ Avv.to Filiè sul discorso del mobbing che si verifica sullo stesso livello gerarchico e che quindi prescinde da posizioni di supremazia gerarchica nell’ambito dell’azienda e che è una situazione nella quale si verifica che la vittima del mobbing è di pari grado dell’altra, sottolinea la posizione di potere da una parte e la posizione d’ incapacità di difesa dall’altra. A livello professionale ha seguito dei casi nell’ambito di un’unica realtà lavorativa di una grande azienda (le Ferrovie dello Stato), in cui alcune persone sono state portate alla distruzione a livello psicologico, a livello morale e personale. Una di queste persone, seppur non crede in una correlazione diretta, si è ammalato di un cancro ed è deceduto; era stato comunque emarginato, demansionato, messo in un posto dove non c’era neppure il telefono e il computer era rotto.

La Dr.ssa L. Di Gennaro reputa che la predisposizione di un soggetto a diventare capro espiatorio sia un aspetto che piace ai magistrati, pur se non è così. Comunque se al datore di lavoro interessa l’integrità psicofisica del lavoratore dovrebbe intervenire.

L’ Avv.to Filiè evidenzia che nella maggior parte dei casi, quando in un ambito lavorativo si verificano situazioni di mobbing orizzontale, praticato fra lavoratori di pari livello, avviene sempre con l’avallo del livello gerarchico superiore che non interviene anche se non attua direttamente delle condotte aggressive.

Il Dr. V . Lusetti vuole uscire dal discorso del mobbing per riferirsi al discorso sulle legislazioni. Coglieva un aspetto contraddittorio. Inizialmente c’è una legislazione molto libera, poi arriviamo ad una organizzazione iper-rigida e non è che si torna indietro ma si giustappongono i due livelli, ragione per la quale continuano a persistere per una sfera della società un’organizzazione molto rigida e per un’altra, i giovani, si crea una situazione completamente fluttuante e deregolata. Si chiedeva come questo fenomeno, che riguarda tutte le società occidentali, si riferisca in particolare alla società italiana che è molto più corporativa delle altre, quando accanto alla lotta delle corporazioni le une contro le altre, c’è una lotta fra corporazioni generazionali: i vecchi e i giovani. La società italiana è veramente bloccata e i giovani sono schiacciati tra generazioni.

Si chiedeva se questa cosa sia percepita non tanto dal legislatore politico, quanto dal tecnico, poiché ha la sensazione che si facciano leggi senza considerare che nelle viscere della società c’è una lotta feroce tra generazioni che, se non trova sbocchi e viene regolamentata, crea conflitto sociale

Per l’ Avv.to Filiè i fattori che entrano in gioco sono diversi. C ’è sicuramente l’aspetto politico e quindi determinati interventi legislativi subiscono l’influenza della corrente politica che è al governo in quel momento, ma ci sono anche influenze di natura economica. In Italia in particolare, riferendoci sempre al mondo del lavoro, è un fenomeno a se stante nel senso che a differenza di altri paesi l’economia è stata sempre fortemente condizionata dal mondo del lavoro. Il costo del lavoro in Italia, sia per gli aspetti fiscali, sia per il costo vero e proprio della mano d’opera, ha fatto sì che specialmente negli ultimi tempi le industrie andassero a produrre dove il lavoro costa meno. Questo ha comportato ulteriore crisi nel mondo del lavoro. L ’industriale dice: “ perché debbo produrre le mie magliette in Italia dove un dipendente mi costa 3000 euro al mese, tra stipendio ed oneri fiscali? Sposto la mia fabbrica in un altro paese dove il dipendente mi costa 800 euro al mese, poi riporto in Italia quello che ho prodotto”.

Per il Dr. Lusetti questo va ad aggravare il conflitto tra generazioni.

Per l’ Avv.to Filiè conferma che questo va ad aggravare la situazione perché le modifiche legislative di cui ha parlato, a partire dagli anni 90, poi sfociate nel 2003 nella legge Biagi, non hanno completamente cancellato quello che c’era prima, quindi chi aveva un lavoro a tempo indeterminato continua ad avere le garanzie che aveva prima nel senso che tuttora un licenziamento non può essere fatto se non per un giustificato motivo detto “per giusta causa”. Tuttora se io sono un dipendente di un’ azienda che ha 15 lavoratori e vengo licenziato ingiustamente, posso essere reintegrato nel posto di lavoro impugnando il licenziamento. Questo non è vero per chi si affaccia oggi nel mondo del lavoro: si incontra con una realtà nella quale chi assume non lo fa quasi mai a tempo indeterminato ma lo fa a tempo intermittente, o due al posto di uno.

Il Dr. M. Muscarà evidenzia un altro conflitto tra uomo – donna ancora presente nel 2010 nel mondo del lavoro: quello del doppio sì. Sì al lavoro oppure si alla maternità. È chiaro che la donna venga considerata ad un livello diverso: o mamma o lavoratrice. Il peso della maternità nega il diritto al lavoro.

Il Dr.Zipparri si complimenta con i relatori, in particolare con l’avvocato Filiè la cui presenza insolita sottolinea l’emergenza di un confronto tra la nostra attività professionale e il problema del lavoro che comincia ad occupare una statistica rilevante dei nostri interventi: c’è sempre tra i nostri pazienti quello che presenta il problema del lavoro. Evidenzia quindi la pertinenza delle argomentazioni. Si riferisce poi all’esauriente excursus storico che lo ha fatto riflettere sui diritti dei lavoratori che pensava remoti, invece ha scoperto risalire agli anni 70, cioè ad epoche recenti. Voleva però sottoporre alla riflessione il discorso giuridico dell’irrigidimento che lo statuto dei lavoratori ha imposto rispetto ai licenziamenti e il fenomeno del mobbing. Gli sembrano fenomeni collegati nel momento in cui, in una società con una legislazione flessibile, il mobbing non avrebbe ragione di esistere. Esso viene applicato sui soggetti apparentemente garantiti, ma in realtà vengono mobbizzati proprio quelli che sono garantiti da un contratto a tempo indeterminato e i dirigenti mentre i precari non vengono mobbizzati. Personalmente sarebbe più cauto sui facili schematismi; il vero conflitto è fra forti e deboli e non tra uomini- donne, vecchi-giovani. Ci sono persone forti anche nel precariato che raggiungono posizione di vertice e persone che, pur se garantite, non riescono. Riferisce il caso di una persona che per due volte ha avuto una sentenza di reintegro nel posto di lavoro, quindi è stato licenziato una seconda volta.

L’ Avv.to Filiè evidenzia che per quanto riguarda il mobbing, un rapporto forti- deboli in molti casi prescinde dalla posizione gerarchica occupata in ambito lavorativo dalla vittima e dall’aggressore, sicuramente c’è però una posizione di forza da una parte e l’incapacità di difendersi dall’altra; cosi come è vero, e lui lo ha rilevato anche da sue osservazioni statistiche, che i casi di mobbing sono più frequenti in un contesto lavorativo garantito, proprio perché se c’è un precario basta aspettare che esaurisca il suo rapporto di lavoro. Non a caso ha citato casi in cui il rapporto di lavoro era a tempo indeterminato.

Il Dr. D.Surianello che svolge attività di medico legale, occupandosi di casi con diagnosi psichiatriche, ha constatato che quando un dirigente è messo da parte, l’idea parte dall’alto che prepara la base; la base interviene sul dirigente; il dirigente viene messo da parte. Evidenzia che per quanto riguarda l’aspetto psicologico, come vittima del mobbing non viene scelto a caso un soggetto, ma viene scelto quel soggetto che ha un io più debole; un soggetto con io forte può essere aggredito, ma non cede come avviene per un io debole. Sottolinea che il mobbing avviene sia per uomini che per donne di una certa età, invece i casi di mobbing di tipo sessuale avvengono su donne giovani.

Il Dr. A. Muscarà parla del mobbing orizzontale che imporrebbe un accordo, ma che è più complicato nel momento in cui c’è l’ intervento di una leadership, di un management con competizioni e lotte interne per la supremazia e l’avanzamento in carriera. Nel caso di mobbing ascendente l’unica situazione in cui non c’è l’intervento del management si ha quando la squadra che si possa permettere il mobbing ascendente, decide di utilizzare le poche armi legislative a sua disposizione. Se ad esempio una squadra di lavoratori con turno notturno, decide di non presentarsi al lavoro, vuol dire che il capo turno ha un problema perché non è possibile che tutti si siano ammalati contemporaneamente. Questo va considerato come campanello di allarme e dovrebbe far capire al management che il rapporto instaurato da quel caporeparto non è idilliaco. Il mobbing ascendente riguarda il superiore gerarchico rispetto ai sottoposti; in un rapporto del genere è chiaro chi è la vittima e chi il carnefice. Considera che ci possono essere delle vittime predestinate, dei capri espiatori, ma come vengono scelti? Fa riferimento alla propria esperienza personale, premettendo che lui non crede di essere una persona con un io debole, ma di aver fatto una scelta: ha deciso di giocare la parte dell’io debole per conoscere meglio il problema; per portare a galla alcune difficoltà organizzative, alcuni processi lavorativi non funzionanti; per portare allo scoperto certe persone che sono diventate carnefici non per qualità personale, quindi non persecutori (andrebbe studiato come mai certe persone mettano in atto determinati atteggiamenti pur riuscendo poi a dormire tranquillamente la notte). Sicuramente protetti dall’organizzazione che c’è alle spalle: un manager che decide o viene scelto quale killer di una organizzazione, molto spesso viene predestinato ad avere nel suo gruppo persone che riceveranno quel tipo di trattamento. La casistica delle vittime di mobbing è veramente alta; non pensa ci sia una differenziazione per età, per sesso, probabilmente è vero che ci vuole una forza per resistere perchè il mobbing si risolve con le dimissioni della persona che non ce la fa più, con una fase precedente di aspettativa che si conclude con un auto-licenziamento. Nel momento in cui la persona si auto-licenzia ha fatto già un grosso male a se stesso e ai propri familiari, ma di mobbing si può anche morire ed è questo l’aspetto che può interessare maggiormente questa audience di medici: il mobbing che porta al suicidio come espressione grave del disagio vissuto da un soggetto.

La Dr. A.M. Meoni raccoglie l’invito di Lusetti a ricordare gli aspetti etologici da cui deriva la parola “mobbing” e che per traslazione viene data al fenomeno sociale.

Essa si riferisce a quel fenomeno per il quale all’interno del branco uno dei componenti viene sbranato: situazione osservabile dal punto di vista etologico di cui non si conosce il significato. Questa manifestazione è stata attribuita al fenomeno sociale in ambiente lavorativo. La discussione che è stata portata avanti e la relazione presentata, l’ha fatta pensare se stessa e a l’ha fatta ritenere una mobbizzata. Dal punto di vista sociale poi per compito istituzionale, uno dei compiti principali del suo lavoro è stato sostenere i mobbizzati; come primario psichiatra di un servizio territoriale ha dovuto far applicare il codice cioè che i datori di lavoro rispettassero non solo l’unità psicofisica della gente normale, ma soprattutto di quella già malata che va a lavorare. Questo è il primo aspetto che si riferisce ad un compito istituzionale; in seconda battuta c’è la mobbizzazione di cui è stata oggetto ed infine, accanto a questo, l’azione relazionale di sostegno a docenti, colleghi più o meno mobbizzati o comunque mal occupati, inoccupati, disoccupati, costretti al pre-pensionamento. Dal punto di vista psicopatologico, l’effetto patologico del fenomeno è un aspetto post traumatico da stress, che va a produrre non tanto conseguenze irreparabili come suicidio o tumore, bensì una trasformazione timica, dalla quale non si ritorna più indietro e che è la perdita della capacità di amare e quindi la capacità di relazionare. E’ difficile da comprendere, dal punto di vista eziologico, psicodinamico e psicoanalitico, perché possa accadere tutto questo nell’ individuo e nella società, ma l’origine, la radice del fenomeno, che ha conseguenze psicologiche, e non è psicologica di per sé, ha le caratteristiche di un fenomeno delinquenziale: che poi ci sia la legge per proteggere o applicare sanzioni a questo fenomeno, è un altro discorso.

L ‘Avv.Filiè sottolinea che c’è un'unica sentenza della cassazione del 2001 che ha affermato che il mobbing in ambito del rapporto di lavoro può arrivare ad assumere i connotati del reato previsto nell’art 572 del codice penale che è il reato di maltrattamento; è un'unica sentenza con la quale la cassazione ha affermato che il datore di lavoro che non impedisca, nell’ambito del suo controllo, situazioni di mobbing possa essere chiamato a rispondere dal punto di vista penale. Prima ha detto che l’interpretazione giurisprudenziale ha interpretato questo fenomeno come un inadempimento di natura contrattuale, quindi un illecito civile di natura contrattuale, c’è però questa unica sentenza della cassazione.

Il Dr. Zipparri riferisce di un call-center in cui il datore di lavoro bacchettava i dipendenti.

L’ Avv.to Filiè evidenzia che in questo caso è l’atto stesso che integra il reato di lesione, mentre il comportamento collettivo generalizzato che integra il mobbing è stato qualificato come reato da quest’unica sentenza che prima ha citato.

La Dr.ssa Ernesta Cerignoli pensa che, in relazione al mobbing, non si possa fare una classificazione troppo rigida tra tipologie contrattuali; certamente i lavoratori con contratto a tempo determinato sono più vulnerabili a prescindere dalla personalità e dall’io forte. Al lavoro lei vede che ci sono lavoratori di serie A e di serie B perché comunque il lavoratore con contratto a tempo determinato diventa subalterno del coordinatore, subisce delle ingiustizie ed è ricattabile, quindi dipende dalle situazioni Si sofferma sulla figura del giustiziere, ruolo che lei stessa ha assunto dopo aver subito tentativi di mobbing a fronte dei quali più si sentiva aggredita più usciva la figura del giustiziere; si è trovata bene in quel ruolo anche per aver avuto il sostegno del responsabile del reparto. Non sa come finirà, ma crede che alla fine quello che vince è quello che si mette contro.]

Note di redazione

(t) testo di relazione fornito dal relatore Dr.ssa M.Filiè (r) elaborazione testi Dr.Muscarà e dialogo da registrazione vocale a cura di Dr.ssa Antonella Giordani

Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com


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