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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2008 - 2009

Storia della psicoanalisi italiana e Analisi Mentale

Ignazio Maiore
Coordinatore Prof.Rocco Antonio Pisani
(r) elaborazione testi da registrazione vocale a cura Dr.ssa Antonella Giordani con revisione del relatore



II Prof. R. Pisani, coordinatore dell’incontro, presenta Ignazio Majore quale esponente storico della psicoanalisi italiana. Il suo ricco curriculum evidenzia che nel ’52 ha iniziato la propria analisi didattica e il training formativo, presso la Società Psicoanalitica Italiana, nella sede di Roma. Nel ’60 viene nominato psicoanalista didatta della medesima SPI: e’ stato il più giovane analista didatta della psicoanalisi italiana. Nel 1965, in seguito a divergenze teoriche e di prassi, ha dato le dimissioni da socio ordinario e psicoanalista didatta della SPI, a cui è seguita una crisi nella SPI stessa. Nel ’73 ha fondato, insieme ad alcuni colleghi ed allievi, l’Associazione Italiana di Analisi Mentale (LAIAM), della quale è attualmente presidente, con lo scopo di affrontare la problematica della malattia di mente e della psicologia dinamica, su un piano che ritiene più realistico e maggiormente aderente alle scoperte della medicina e della biologia. Ha pubblicato il volume “Principi di psicoanalisi clinica” di cui il Prof. Pisani possiede e mostra una copia, delle poche ancora in circolazione. Gli è stata regalata da Ignazio Majore quando frequentava il reparto di accettazione psichiatrica, diretto dal Prof. Argenta, presso il quale il Prof. Pisani lavorava. Egli conserva da allora questo libro che è di una chiarezza estrema sui principi della psicoanalisi freudiana e non solo. Se si vogliono avere delle informazioni chiare e coincise anche su Jung e su altri analisti che hanno contribuito allo sviluppo della psicoanalisi, se ne ha immediatamente idea leggendo questo libro. Pisani sottolinea che già nel 1968 Majore parlava della gruppoanalisi di Foulkès (cita la pag. 264).

Torna al curriculum del Prof. Majore che dal ‘60 al ‘70 è stato assistente presso la clinica di Malattie Nervose e Mentali dell’Università di Roma. Presso la cattedra di neurologia dell’Università di Roma, diretta da Vincenzo Floris, è stato incaricato a tenere i corsi di psicoterapia e psicologia dinamica, per studenti e specializzanti. Ha tenuto corsi di psicoterapia presso l’Università Cattolica di Roma, incaricato dal Prof. Leonardo Ancona. Ha tenuto lezioni sulla sua impostazione, presso la Cattedra di Psichiatria di Cagliari, diretta da Nereide Rudas. Ha pubblicato molti libri, a cominciare da “ Principi di psicoanalisi clinica” a “Morte, vita e malattia”.
Questa sera il Prof. Majore terrà un seminario sulla storia della psicoanalisi italiana e Analisi Mentale.
Il Prof. Majore ha portato, e offre ai presenti, delle copie del suo libro “Storie di sogni e malattie”(Stampa Alternativa,Roma,1996). Parlare della storia della psicoanalisi italiana è molto difficile in quanto non c’è stato molto sviluppo sul piano del pensiero; una storia che è stata invece di rilievo per la Società Psicoanalitica Italiana. La psicoanalisi italiana, benché abbia avuto ottimi medici ed esecutori, ha seguito l’impostazione francese, inglese e americana. Non c’ è stato un suo sviluppo, nonostante la presenza di diverse personalità, quali Servadio e Perrotti, di cui ha parlato Callieri nel precedente incontro. Essi hanno avuto scontri personali più che teorici, scontri di potere. La psicoanalisi italiana è nata da vari personaggi. Quando ha cominciato, c’erano alcuni analisti didatti: Perrotti, Servadio, Modigliani, Musatti, che era psicologo. Egli pur avendo scritto un trattato di psicoanalisi, non aveva mai fatto analisi; c’era ancora la principessa Tommasi di Lampedusa che ricorda di aver incontrato quando, allievo, andò a parlare con lei: scherzosamente dice che ne subì un trauma giovanile. Lei gli chiese perché volesse fare lo psicoanalista e se avesse avuto delle abreazioni. Lui rispose “… bah! Un pò”. Chiarisce che col termine “abreazione”, nel linguaggio di allora, ci si riferiva ad una emersione dall’inconscio, con reazioni alla Hitchcock!
Torna alla storia psicoanalitica italiana che ribadisce è piuttosto la storia della società psicoanalitica, formata da gruppi e, come avviene in tutti i gruppi, da sottogruppi, tra loro in contrasto. E’ così anche per gli analisti, con un aggravante il rapporto coi pazienti, che li porta a dividersi. Un analista non può prendersela col paziente, se la prende col contenitore del paziente, che sarebbe l’altro analista. Ricorda che ad un certo punto, la Società Psicoanalitica italiana fu messa sotto tutela da quella svizzera e perse la propria autonomia. Vennero tre famosi psicoanalisti svizzeri: Morghentale, Paren, de Saussure, fratello del famoso de Saussure linguista. Erano stati chiamati in base a critiche di parte, sulla maniera italiana di fare il training. Essi non sapendo bene come intervenire, esaminarono tutti. Il gruppo di Servadio, al quale egli apparteneva, fu promosso subito. Racconta, ironicamente di aver capito che nei casi posti in discussione erano soliti trovare l’omosessualità inconscia, tanto che lui nel suo caso la propose: suscitò il loro entusiasmo e fu il primo! Per quello che riguarda il pensiero della società psicoanalitica di allora, malgrado gli ottimi pensatori ed esecutori, non c’era stata evoluzione originale: il pensiero Italiano seguiva la Klein, Winnicott, Binswanger, Bion etc. Fra noi c’è stato solo Fornari che aveva tentato di dire qualcosa di nuovo, parlando di un’analisi Koinemica. Koinema vuol dire comune. Diceva che nelle persone, in particolare nei sogni, c’è sempre una radice comune per cui in tutti i sogni troviamo le basi emotive delle figure del padre, del figlio, del fratello, della vita e della morte. E’ un concetto di nuclei congeniti che assomigliano molto agli archetipi di Jung.
Majore confessa il proprio imbarazzo nel parlare, dopo il Prof. Callieri, al quale riconosce la qualità di lasciar trasparire, nei propri interventi, molti livelli complessi che attraversano ciò di cui parla. Una cosa che dice, non è quella soltanto, ma è prodotto di un’elaborazione ricca di cultura. Egli cercherà comunque di fare del suo meglio nell’ affrontare il tema di stasera. Non pensa tuttavia possibile né utile fare un riassunto sulla psicoanalisi freudiana, né sui suoi esponenti. Accennerà però ad alcuni con i quali è, per certi aspetti, maggiormente in sintonia: Binswanger, Bion e Jung. Binswanger col suo accennare al rapporto duale Io-Tu, si avvicina alle sue concezioni del rapporto analitico a due. Chiarisce che se vogliamo parlare di evoluzione di psicoanalisi, è necessario parlare anche di quello che oggi è la psicoterapia: ed è un tasto dolente. La psicoterapia è senz’altro una scoperta di Freud, non che prima non ci fossero stati tentativi psicoterapeutici, tipo Mesmer, che non avevano il nome di psicoterapia. Ad un certo punto venne fuori la terapia psicoanalitica che mostrava varie componenti. La principale, secondo Freud, era l’emersione dall’inconscio di contenuti inconsci rimossi. La rimozione è essenziale per la psicoanalisi freudiana, che esiste basandosi proprio su di essa. Freud, insieme a questo, ha scoperto il rapporto a due reso professionale. I rapporti a due sono sempre stati. Il rapporto analitico non è diverso da un altro rapporto intenso tra due persone, la sua peculiarità è che è stato professionalizzato e finalizzato alla cura. E’ capitato che tanti si sono nebulosamente accorti che parte della terapia consiste proprio nel rapporto: anch’egli crede nell’importanza di questo aspetto che si fonda sul rapporto a due e su quello gruppale. Dall’utilizzazione professionale del rapporto è emersa la psicoterapia. Bisogna chiedersi di che genere di rapporto si tratti e chi e quanto lo pratica sia in grado di recare giovamento.
La psicoterapia è, infatti,una variabile, con una costante: una persona è posta di fronte ad un’altra, ad altre. Da una parte c’è chi dice di aver bisogno; dall’altra parte chi pensa di essere capace di rispondere a quel bisogno. Purtroppo la psicoterapia, che è una variante della psicoanalisi più o meno buona, cattiva, degenere, in qualche caso evoluta, non può essere insegnata nelle aule scolastiche; è una prassi che dovrebbe essere praticata da una persona atta a farlo; che abbia esperienza; che sia abbastanza sana e comunque più sana del suo paziente, che sia emotivamente e tecnicamente in grado di praticarla. La psicoterapia è come la capacità di suonare uno strumento: non puoi suonare uno strumento solo per aver letto un libro sulla teoria della musica ; è necessario farne esperienza. Ebbene, molte di queste psicoterapie che sono sorte oggi non hanno fondamento né teorico né tecnico. Alcuni psicoterapeuti non conoscono neppure Freud; non pare possibile fare questo speciale mestiere senza conoscere Freud che vi ha aperto una strada maestra. Egli, come tutti i pionieri, è superabile per certi aspetti ma bisogna conoscere la matrice dalla quale veniamo. Lui stesso non condivise alcune precedenti affermazioni; poté farlo perché le conosceva. Si è oggi generata una moltitudine di psicoterapeuti buoni, mediocri e cattivi. Alcuni hanno doti personali; altri hanno subito un effettivo tirocinio; altri ancora sono passati attraverso un’analisi. Le variabili sono tante e riguardano il paziente e il terapeuta. Abbiamo varie forme di psicoterapia: c’è quella che tenta di modificare le strutture profonde dei pazienti; c’è quella teorica che cerca di rivestire le problematiche del paziente di ideologie varie. Abbiamo il terapeuta poco interessato alle sofferenze del paziente che pensa solo a guadagnare; c’è quello che è più malato di chi accudisce. Non insiste. È possibile un’ampia casistica.
Torna al rapporto duale, sul quale si è molto soffermato Callieri. Egli reputa sia l’arma fondamentale del loro lavoro analitico, nel senso che la mente dell’uno deve essere in grado di penetrare nella mente dell’altro. Si crea, quando riesce, un insieme tra le due persone che non è solo una mescolanza di pensiero o di coscienza, ma è qualcosa di molto più profondo, che scende a livelli corporei. Parla infatti di livelli intermedi, indicando qualcosa di simile a ciò che Callieri chiama “reciprocità”. L’Analisi Mentale ritiene che il rapporto analitico sia una specie di figlio che abbia un destino quasi autonomo, come ce l’hanno i figli. Questi tuttavia debbono essere protetti e seguiti. In molti sogni dei pazienti, l’analisi è sognata come un bambino che ha esattamente l’età della terapia. E’ una scoperta di Jung. Binswanger è anch’egli sulla linea del rapporto a due, dell’Io-Tu ed ha capito il significato di alterità: vuol dire essere l’altro, insieme con se stesso. Callieri si è molto soffermato su questo. Alterità significa che Tu devi essere Tu, non devi essere sommerso dall’Altro.
Il prof. Majore spiega alcuni concetti della propria impostazione che non ha la pretesa di essere l’unica giusta né vuole attaccare le altre. A volte il problema è quello del linguaggio; si dicono cose uguali, usando linguaggi diversi. Non è neppure esatto affermare che linguaggi diversi indichino le stesse cose. Ogni linguaggio deve avere una sua pregnanza e corrispondere ad un concetto; non essere la copertura dell’insignificante.
Nel linguaggio della psicoanalisi il Prof.Majore è stato spesso sorpreso dall’implicita negazione della morte. E’ vero che Freud ha parlato d’istinto di morte, non di morte come fatto concreto. Era medico e i medici non fanno altro che lottare contro la morte. Ci si chiede perché nella mente non si debba vedere la stessa ovvia evenienza. Essendo la mente, espressione di un livello, del corpo, essa viene ugualmente aggredita dalla morte come il resto del corpo. Egli reputa che il suo, il nostro, lavoro debba essere essenzialmente la lotta contro la morte. Qualcuno gli ha rimproverato una sua fissazione con la morte, ma egli pensa che, al contrario sia la morte ad essere fissata con lui e con tutti. La presenza della morte va vista come una costante; è ciò contro cui lottiamo ed insieme la nostra compagna.
E’ stata identificato che la morte è costantemente presente ed in agguato in ogni cellula. La biologia, sappiamo, ha tre funzioni principali : cerca di vivere, lotta contro la morte e vuole la riproduzione. I medesimi meccanismi abitano la nostra mente. Come è possibile lottare contro la morte e, ancora prima, cos’è la morte? Non è soltanto la morte totale, fisica, ma anche morte parziale come si verifica con l’inizio di ogni malattia o di un disturbo, anche banale. Tutti tendono alla morte e richiedono difese. La morte è un fatto endogeno, ma anche esogeno. Lottare contro la morte significa cercare d’intervenire sulle parti aggredite, mortificate, dolenti per provare ad affrancarle. Porta l’esempio di un’anoressica per la quale il cibo è morte che uccide: preferisce morire di una morte interna che non conosce, piuttosto che accettare la morte esterna che teme. Se riusciamo a depurare il contagio mortifero dal cibo, compiamo un grande progresso. La difficoltà è l’impossibilità d’intervenire sul cibo direttamente, dobbiamo farlo invece sulla struttura dell’anoressica: noi non attacchiamo mai il problema del cibo. Ci si rifiuta anzi in genere, di ascoltare pazienti anoressiche quando vogliono parlare solo del cibo.
Un altro aspetto fondamentale per il lavoro analitico mentale è l’intervento sul collettivo un termine ideato da Jung. Il concetto junghiano di collettivo è particolare, emerge anche da un sogno nel quale scende in certi sotterranei. Il Prof.Majore legge: “Col pianterreno cominciava l’inconscio vero e proprio: quanto più scendevi in basso tanto più diveniva estraneo ed oscuro. Nella caverna avevo scoperto i resti di una primitiva civiltà, cioè il mondo dell’uomo primitivo in me stesso, un mondo che solo a stento può essere illuminato dalla coscienza. Il mio sogno pertanto rappresentava una specie di diagramma di struttura della psiche umana. Il sogno divenne per me un’immagine guida; fu la prima intuizione dell’esistenza nella psiche personale di un a-priori collettivo” Questa intuizione spinse Jung ad analizzare i suoi sogni e a concepire l’esistenza di uno spazio inconscio più vasto e recettivo che chiamò “Inconscio Collettivo”. Esso deriva da eredità, da forme e sistemi che hanno uguale validità in ogni cultura, in ogni area geografica e in ogni periodo storico. Il prof. Majore descrive il collettivo, in altro modo. Per lui è un organo mentale presente in tutti e uguale in tutti, come in tutti è uguale il corpo. Questo organo mentale, sarebbe l’organizzazione mentale della biologia. Oggi è stato in parte neurologicamente identificato nei Neuroni Specchio. Lo scopo del collettivo è di far proseguire la vita, lottare contro la morte, eventualmente cedere alla morte ed adoperare il singolo, cioè ciascuno di noi, come un corpo adopera le proprie cellule: gli servono, le deve tenere, ma le può anche eliminare. Di fronte al collettivo c’è l’essere singolo che, trasportato dal collettivo, costretto a vivere in una certa maniera,cerca di difendere se stesso come singolo, a volte riuscendoci a volte no. Ciò accade in avvenimenti particolari, e purtroppo ancora frequenti, come la guerra. La guerra è un fatto collettivo. Ebbene come è possibile che milioni di persone vadano a combattere, ad uccidere altri, di cui non importa loro nulla ? Per i pozzi di petrolio, per un pezzo di territorio o perché quel altro è brutto e cattivo? C’è qualcosa che non va! Ciò che non va è la volontà imperante del collettivo che deve limitare il numero dei viventi, in particolare nelle popolazioni a forte natalità. Per far questo si sostituisce alle singole menti che inattiva. Nell’ultima guerra abbiamo avuto cinquanta milioni di morti occidentali; era un periodo in cui l’occidente era carico di popolazione. Attualmente sono intervenuti nuovi sistemi di controllo delle nascite insieme con le cosiddette perversioni, anch’esse un tentativo di ridurre la natalità.
Il Prof. Majore sostiene che una modalità adoperata nel nostro lavoro è appunto il confronto continuo col collettivo. Possiamo cedergli, associarsi con lui quando ci dà la vita e cercare invece di proteggerci finché possiamo, quando ci dà morte. In pratica, talvolta vi aderiamo, altre volte lo contrastiamo. Il collettivo ci illude anche nella sessualità che certamente ci interessa, ma che dobbiamo anche praticare coattivamente nell’obbligo di generare figli. L’uomo è quindi necessariamente ambivalente verso la stessa: dopo aver praticato il sesso, si chiede talvolta cosa sia veramente successo. Si accorge che una sua frazione gli è stata strappata dal collettivo, che vorrebbe trasformarla in un figlio, anche se quel figlio molto spesso non potrebbe nascere. Anche l’orgasmo che è espressione di piacere, si associa ad una sofferenza biologica, ad una perdita di una parte di sé. E’ vero, come diceva Freud, che la sessualità è fonte di piacere; in realtà il piacere è la tappezzeria della sessualità, è lo stimolo, è il contentino che spinge a soddisfare un’esigenza biologica profonda, organizzata dal collettivo che vuole la riproduzione. E’ insieme l’arma della vita nella lotta contro la morte: si fanno i figli perché si muore. Il rimedio sessuale partecipa di tutti i livelli biologici, non soltanto di quelli riproduttivi. A livello mentale, la sessualità insieme con l’amore, è rimedio contro la morte.
Venendo alla terapia il Prof. Majore parla dei tre suoi aspetti fondamentali: la presa di coscienza, la lotta contro la morte, il suo mescolarsi alla presa di coscienza ed alla vita. Si cerca di far prendere coscienza dei punti dove la morte ci aggredisce, dove ci indebolisce. La morte può essere di vario genere e livello. Come accade per il corpo, può consistere in un eccesso congenito di morte, può consistere nell’attacco di elementi esterni che sono penetrati in noi o essere espressione di aggressione esogena diretta. A questo punto ricorda il concetto di rimozione: non c’è psicoanalisi senza rimozione. Freud ha iniziato la psicoanalisi col famoso caso di Breuer. In esso la paziente, rivelò episodi d’infanzia, liberandosi del sintomo. Fece ciò in una seduta di ipnosi, una terapia che era stata usata fino ad allora soltanto a scopi suggestivi.
Quando Freud seppe dell’accaduto, capì che dentro ogni persona può esservi qualcosa che lei stessa non conosce. Ciò preme può divenire un sintomo, e può fare ammalare. Dopo tale illuminazione Freud cominciò ad applicare l’ipnosi per fare affluire alla mente i ricordi d’infanzia. Freud dopo quel inizio veramente determinante non ha mai abbandonata l’idea dell’esistenza nell’inconscio di contenuti proibiti, e pericolosi. Contenuti che secondo la sua teoria dovevano emergere se si voleva sperare nella guarigione.
Jung, al contrario, affermò che non era possibile che l’inconscio fosse invaso soltanto da “zozzerie”. Il Prof. Majore nota, da parte sua, che Freud si è contraddetto sull’esistenza dell’inconscio. Aveva ritenuto inizialmente che l’inconscio non fosse in alcun modo percepibile, ma si potesse comprenderlo solo indirettamente attraverso i suoi derivati quali le emozioni, il pensiero, il comportamento e con l’aiuto dell’ipnosi; ha cercato in seguito, di incontrarlo anche senza ricorrere alla stessa ipnosi. E’ passato così alle “associazioni libere”. Per il Prof. Majore l’associazione libera è più un desiderio che una possibilità. Si domanda come sia possibile che un ossessivo, un delirante, un maniacale, si esprimano con associazioni libere. Più che dalle associazioni libere, è possibile rendersi conto di quanto passa attraverso il paziente dal suo modo di declinarsi, dalle sue emozioni ed espressioni. Le associazioni che noi osserviamo sono in realtà il suo procedere emotivo, in genere concatenato anche nel corso di una seduta. Egli crede che Freud avesse osservato piuttosto questo aspetto. Freud ritenne che portare alla coscienza contenuti inconsci rimossi, potesse portare alla guarigione (appunto.. l’abreazione della principessa di Lampedusa). In realtà la possibilità di capire l’inconscio, ed anche il declinarsi cosciente della personalità, si è ormai molto affinata: é molto più potente della nostra capacità d’intervento atto a modificare situazioni di stallo. Diceva un paziente, che aveva fatto una discreta analisi “ A dottò, ma stiamo sempre a caro amico, qua!”. Prendere coscienza, capire, per poter intervenire è, in effetti, fondamentale. Purtroppo però non basta. Ciò che è decisivo è l’apporto diretto del terapeuta sul paziente. Noi costituiamo un insieme con il nostro paziente. Dobbiamo giungere a creare con lui un’unità, una mescolanza purché non giungiamo a sopraffarlo. Il paziente non deve divenire ciò che vogliamo noi, ma ciò che è per lui vitale. “ Può prodursi” in base a quello che ha dentro di sé come diceva Binswanger che parlava di “esistenze mancate”. Sono le sue frazioni essenziali che vorrebbero affermarsi quelle che il Prof. Majore chiama “individualità”.
Il Prof. Majore distingue l’individualità dal semplice essere singolo. Siamo tutti esseri singoli, mentre gli individui non sono così tanti. Sono individui quelli che pensano con la propria testa; non rifiutano il mondo, ma l’accolgono e lo adattano a sé per quanto possono, senza pretese megalomaniche. Lo filtrano. cercando di cambiare piuttosto se stessi invece di dare “colpa” ad altri delle proprie insufficienze. In altri termini l’individuo penetra nel collettivo, lo conosce e reagisce individualmente.
Ha trovato singolare la lettura degli scritti di certi critici americani di cinema ( Writer’s Journay per esempio) che sostengono “non c’è possibilità di racconto, non c’è cinema, se non si passa attraverso l’incontro con la morte”. Morte, intesa non come morte totale, ma come crisi di rapporto, come crisi di situazioni, come crisi della vita. Sono morti parziali. Il cinema che mostra il divenire dei suoi personaggi, li fa sempre incontrare con crisi che danno il senso del racconto. Il meccanismo è simile a quelli che troviamo nel corso dei sogni.
Freud aveva sostenuto che il sogno è il guardiano del sonno e serve a realizzare allucinatoriamente, desideri inconsci, proibiti. Lo fa in forma mascherata, perché non è ammesso che si presentino direttamente neanche in sogno. Per il Prof.Majore invece il sogno è espressione fisiologica del sonno, che egualmente serve a restaurarci. Il sogno fa parte del sonno, è integrato ad esso, ha la stessa funzione: mentre il sonno cerca di reintegrare le nostre strutture, il sogno si associa al suo lavoro. Il sogno individuerebbe la frazione della mente che è in sofferenza, rileva così il disturbo eventuale o si accorge della frazione mentale che tenta di maturare (come accade in pubertà). Il sogno rileva parte di ciò che la veglia non riesce a percepire. Fa il possibile per provvedere. Il senso del sogno non è in genere comprensibile alla veglia. Freud ha fatto un lavoro enorme e fondamentale per capirlo, vedendolo però sempre come espressione di desideri camuffati. Secondo Majore il sogno è una specie di periscopio che percepisce, attraverso la sofferenza onirica, il problema da sanare e cerca di provvedere a farlo. Il sogno è rivolto non all’uomo sveglio, ma alla mente che dorme. La percezione dell’elemento disturbante, che appare nel sogno, viene comunicata al resto della mente dormiente. Questa soltanto lo capisce e cerca di reagire. La reazione si vede talvolta nel sogno stesso quando, per esempio, un ladro viene preso; una porta dove c’è un pericolo, viene chiusa; un animale pericoloso viene ucciso ect.. Accadono nel sogno eventi che sono espressioni della dinamica interna che ha cercato di aggiustare le strutture alterate. Tutto ciò è molto utile all’analista della mente. Questi, quando si accorge che un sogno si pone in direzione “vitale”, cerca di capirlo, spiegarlo e appoggiarlo per la terapia. Cerca insieme di modificare le frazioni mortifere che nel sogno provocano l’allarme. Tali interventi non debbono essere teorici, per mostrare bravura, come alcuni fanno, sono opera di psicoterapia. E’ uno dei modi di collaborare col paziente perché capisca insieme quanto sta succedendo ad entrambi. Cosa facciamo quando interpretiamo un sogno? Il sogno è visivo, ma noi lo sentiamo verbalmente; raccogliamo le parole e dobbiamo trasformarle a nostra volta in termini visivi per metterli dentro di noi, nelle nostre strutture. Cerchiamo in definitiva di trasformarlo per il meglio, attraverso la nostra interpretazione. Proviamo cioè a prelevarne l’aspetto positivo, vitale e combatterne la frazione mortifera. Restituiamo la nostra interpretazione al paziente, nuovamente in forma verbale, sperando che l’assimili e la ritrasformi in strutture mentali.
Il Prof. Majore spiega che questo è un accenno all’impostazione dell’analisi mentale che diverge da altri sistemi terapeutici, anche per il linguaggio. Nel tentativo di modificare e sanare le strutture profonde è necessario che l’intervento sia anch’esso profondo. Dice il Prof. Majore: se c’è reale capacità terapeutica e effettivo coinvolgimento dell’analista che a lungo si è prodigato, una sua parte diviene patrimonio del paziente, mentre una frazione del paziente viene a far parte di dell’analista che la cura dentro di sé. Posto che siamo relativamente risolti, abbiamo controllato il nostro problema di morte e abbiamo quindi la possibilità di dare all’altro i nostri rimedi vitali, forse abbiamo raggiunto un certo grado di individualità che facilita il nostro compito. Chi è relativamente risolto ed ha raggiunto appunto una sufficiente individualità, è capace di amore”. Il Prof. Majore desidera chiudere l’incontro proprio con la parola Amore.


Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti:

Il Prof. Pisani premette che in quanto esperto di collettivo, come gruppoanalista d’indirizzo foulkesiano, predilige la discussione gruppale che va anche oltre l’Io-Tu e sfocia nel Noi. Evidenzia come Majore abbia ridimensionato molto il senso di grandiosità degli analisti, presentando un approccio psicoanalitico più umano. Apre la discussione.

Il Prof.Callieri si congratula con Majore per avergli portato una serie di avvincenti prospettive, a partire dalla rimozione, che egli reputa fondamentale anche per i non freudiani. Evidenzia di essere stato colpito soprattutto dall’interesse di Majore per la morte e la negazione della morte. Ciò gli ha fatto venire in mente un tema oggi ampiamente dibattuto su piano biologico: l’apoptosi, che è il codice della morte, è inscritto in ogni cellula, indipendentemente da qualsiasi altro fattore. Il concetto dell’apoptosi dovrebbe stabilire, in modo assolutamente unitario, tutto quello che è la forza, la nascita antidistruttiva. Ricorda il suo antico maestro Danilo Carniello da cui, nel ’66, prese per la prima volta sul problema della morte con il suo “Della morte e del morire in psichiatria”. In psichiatria si è parlato tanto della morte, ma un conto è “della morte”, un conto è “del morire”, come ha ben sottolineato Majore. Rispetto al concetto biologico di apoptosi chiede se possa essere collegato, in gran parte, al problema della distruttività e dell’autodistruttività, di cui egli stesso parlerà sabato prossimo ad un convegno sulla distruttività, che si terrà a palazzo Marino. Altro aspetto affrontato da Majore, che l’ha profondamente coinvolto è il problema della bivalenza del cibo e del farmaco. In greco farmacon significa prima di tutto veleno. Il veleno con cui il centauro Tirone intinge la freccia per uccidere l’altro, e che poi diventa anche farmaco. Per l’anoressica il cibo è un farmaco: velenoso come un farmaco. Egli reputa questo aspetto fondamentale per cercare, non certo l’ermeneutica, ma qualche spunto interpretativo di questo capovolgimento della nostra essenza di vita che è addentare, con fame, il pezzo di pane o bere un sorso d’acqua. Un altro punto trattato da Majore, che Callieri ha percepito come spinta a problematizzare certe sue inquietudini interne, è il collettivo definito come “organo mentale”. La parola organo mentale sembrerebbe un ossimoro. L’organo e la mente fino ad ora sono stati considerati come diversi, invece Majore, coraggiosamente, temerariamente, ha proposto il collettivo-organo mentale: gli piacerebbe discuterlo quì con altri colleghi, di altra impostazione. Gli è piaciuto il riferimento al cinema americano, perché la morte vi è presente, basti pensare a Cronenberg. Callieri sollecita Majore a chiamare in causa uno dei discepoli freudiani più scomodi: Lacan che ha preteso di rinnovare il freudismo. Attualmente egli è invischiato nelle problematiche lacaniane, che è un autore abbastanza difficile da capire.

Il Prof. Majore replica che un aspetto interessante delle teorie lacaniane è il discorso dello specchio.

Il Prof. Callieri lo collega al discorso attuale dei neuroni specchio della mente. Sta leggendo un libro di una giovane collega di Parma, psichiatra, ma molto legata a Rizzolatti e Gallese, che ha scritto cose molto interessanti. Il Prof. Callieri ringrazia ancora Majore, per aver sollevato tutta una serie di problemi.

Il Dr. S. Zipparri ha ascoltato con grande interesse la presentazione di una serie di vicissitudini della storia psicoanalitica italiana e la sua domanda, da giovane psicoterapeuta ad indirizzo psicodinamico, riguarda la storia della psicoanalisi, di cui Majore è stato un elemento fortemente critico ed oppositivo.

Il Prof. Majore ribatte che non è stato oppositivo, ma che si è differenziato (per Callieri ha fatto fermentare).
Zipparri però reputa che la differenziazione sia stata un modo per criticare: una dissidenza critica.

Il Prof. Majore evidenzia che il nostro lavoro risente molto delle nostre posizioni personali. Certe cose le dici anche perché le trovi dentro di te, sono in parte, espressione della tua problematica; così Freud aveva un problema di padre e parlava sempre di padre, mai di madre, che ora è tornata ed oggi è sempre presente.

Il Dr. Zipparri chiede a Majore che ne ha competenza ed esperienza, di fare una valutazione sulla psicoanalisi che attualmente vive una situazione di crisi, di cui è il primo a rammaricarsi. Chiede quali possano essere stati gli errori che la politica psicoanalitica avrebbe fatto e che hanno portato a questa condizione di crisi. Si domanda infine se tale crisi fosse invece inevitabile.

Il Prof. Majore risponde che quanto è accaduto non è solo un fatto italiano, ma mondiale. Non pensa si possa parlare di errore. Ci sono varie circostanze concomitanti. Innanzitutto la grande diffusione della psicoterapia che viene praticata a costi più bassi, per cui molti preferiscono andare da uno psicoterapeuta che fa spendere poco. La psicoanalisi classica comportava tre- quattro sedute a settimana, ma molti oggi non vogliono più di una seduta settimanale Non possono di più o non ce la fanno. C’è stata ancora, in altri tempi, un’ideologizzazione eccessiva della psicoanalisi, sotto l’egida dell’immagine di Freud. Ricorda che quando frequentava la società psicoanalitica non c’era discorso che non iniziasse con “Freud ha detto…”. Ciò ne ha danneggiato le possibilità di ricerca e sviluppo. Infine uno dei motivi principali del declino della psicoanalisi, è soprattutto la grande diffusione dell’offerta psicoterapeutica. Aggiunge che molti si sono accorti dell’importanza del rapporto interpersonale come arma di lavoro, giusto o sbagliato che sia, e si fidano delle loro supposte capacità. Molti terapeuti sono preparati, molti altri non conoscono nemmeno Freud, svolgono un ruolo da “vecchie zie” che consigliano e rassicurano. Poiché poi la gran parte della gente trova qualcuno disposto a sentirli, seppure a pagamento.
E’ anche vero che sono cambiate le regole del collettivo organizzato: è calata la diffusione della religione; prima c’era un prete, che poteva intervenire e veniva ascoltato. Oggi anche la figura del padre è molto impallidita. La sua l’autorità direttiva ed organizzativa è, in genere, scaduta. I figli sono apparentemente più liberi, ma stanno spesso peggio. Non trovano contenitori sufficienti a proteggerli e cercano aiuti più rapidi per sostituirli e sollevarsi dall’angoscia.
In sintesi, non crede che vi sia vera responsabilità della psicoanalisi freudiana. La cattiva diffusione e fruizione dell’idea freudiana, ha indebolito comunque le cattedrali freudiane ufficiali.

Il Dr. Zipparri replica chiedendo il motivo più personale della dissidenza con la società psicoanalitica.

Il Prof. Majore spiega che uno dei motivi è stato di natura teorica. Tra l’altro non era d’accordo con l’idea di una rimozione nell’inconscio di cose proibite e cattive per opera del Super-Io e che questo fosse il motivo della malattia psichica. Ricorda il primo paziente a cui tentò di applicare i concetti psicoanalitici che volevano la trasformazione di contenuti inconsci in acquisizioni coscienti. Questi stava male e non aveva alcuna intenzione di occuparsi di simili “stranezze”, come diceva. Ha allora cercato di aiutarlo come poteva “questo uomo è ora con me, debbo fare quello che posso”! In sostanza si era detto senza saperlo, ma già allora, che il terrore mortifero che lo possedeva andava filtrato. Bisognava anche analizzare proprio quell’aspetto e cercare di capire da dove venisse. Bisognava sostituire la sua frazione sofferente con l’apporto vitale diretto del terapeuta. Il medico dà medicine contro la malattia; in analisi la medicina è il medico medesimo. Quanto ora riferito, è soltanto un esempio dell’inizio dello sviluppo del pensiero di Majore. Forse però incominciò da allora ad accorgersi della negazione della realtà della morte che dalla cultura religiosa si era trasferita alla psicoanalisi. Morte come evento reale non come istinto o aggressività. Si muore anche se non si è aggressivi, purtroppo. Tutti i medici lo sanno e lottano sempre contro la morte anche per una banale malattia che può essere un inizio, un pericolo di morte. La mente è una espressione biologica. Corre gli stessi pericoli del resto del corpo. Il secondo motivo ha base più personale. Si riferisce alla grave crisi che aveva riguardato un importante analista didatta, suo supervisore che, come potremo leggere nel libro che ha messo a disposizione, andava a letto con tutte le pazienti che ne valevano la pena. Quando Majore se n’accorse, ebbe una grave crisi è si allontanò, anche per questo, dalla struttura ufficiale psicoanalitica che gli parve fortemente compromessa, contraddittoria, rigida ma non protettiva. Fu una reazione moralistica eccessiva. Ricorda ancora che, già ben prima della crisi, fece un sogno: c’era un giovane medico, fuggito dalla Russia sovietica, che faceva una conferenza stampa: diceva di avere scelto la libertà. Si chiese il perché del sogno; non capì allora che era egli stesso che usciva da ciò che gli sembrava una dittatura, essendo insofferente di coordinate troppo rigide. Oggi direbbe che quella dittatura l’aveva anche dentro di sé; non ebbe la forza di affrontare il problema in altro modo, confrontandosi direttamente, ad esempio, con quel psicoanalista.

Il Prof. Pisani afferma di condividere l’aspetto biologico dell’impostazione: il conflitto fondamentale dell’esistenza è quello tra la pulsione di vita e la pulsione di morte. Il piacere è a servizio delle pulsioni vitali in senso biologico, serve a combattere l’apoptosi, che è la morte progressiva. Opera a cominciare dall’alimentazione, dalle funzioni intestinali alle funzioni di riproduzione. La seconda cosa che condivide delle posizioni di Majore è che egli aveva già in passato, un’idea precisa dell’analisi di gruppo. Gli riconosce l’apertura mentale che aveva già messo in rilievo nel presentarlo come uno dei pochi psicoanalisti in Italia, al corrente dei lavori terapeutici di gruppo.

Il Prof. Majore ricorda di aver iniziato la propria esperienza di gruppoanalisi, con Fabrizio Napolitani che aveva fondato la prima comunità terapeutica in Italia, di cui egli era il supervisore. Pisani lo definisce un pioniere della gruppoanalisi.

Il Prof. Pisani sente risuonare questo problema nel concetto di collettivo mentale. Espone alcuni concetti della gruppoanalisi in base ai quali un conflitto o un problema, prima di essere personale e intrapsichico, è innanzitutto gruppale: appartiene al sociale: se esiste un problema di tipo edipico questo circola nel contesto in cui l’individuo si sviluppa; se esiste un problema pre-edipico, anche questo problema circola nel contesto d’appartenenza. Il livello più profondo ha moltissimo a che fare con gli archetipi dell’inconscio collettivo junghiano. Quando pratichiamo un trattamento psicoterapico lo possiamo chiamare come diceva Foulkes: psicoterapia psicoanalitica di gruppo. Quando strutturiamo un contesto, strutturiamo un contesto dialogico in cui il dialogo si svolge a vari livelli: a livello di realtà; a livello di proiezioni edipiche; a livello dei rispecchiamenti pre-edipici; a livello più profondo nell’inconscio collettivo. In tutto questo gioca un ruolo determinante il fenomeno dello specchio, di cui ultimamente si è localizzato il complesso neuronale: sono i neuroni specchio di Rizzolatti.

Il Prof. Majore sottolinea che il problema terapeutico è in effetti quello delle relazioni interpersonali. Lo strumento terapeutico per eccellenza è l’autenticità delle relazioni: se il dialogo è falso, non si fa terapia!

La Dr.ssa G. Valacca ringrazia Majore per le interessanti considerazioni presentate e riprende alcuni concetti e temi psicoanalitici. In particolare le sembra un tema importante il collettivo, che ritroviamo nella gruppoanalisi. In essa si parla del teatro interno che è nella singola analisi, oltre che del teatro interno che si vive nella situazione di analisi gruppale. Quindi il collettivo è non soltanto l’inconscio collettivo junghiano, concetto che ha pregi e limiti di definizione, ma è quel motore che spinge inevitabilmente allo stare e mettersi insieme. Porta quindi alla comunione, alla comunicazione. Evidentemente la morte è una finalità inscritta in ogni cellula, non si può dire altro che prima o poi si verificherà. Il collettivo ha invece molti modi per realizzare la possibilità dello stare insieme. L’inconscio del bambino piccolo e di quelli che non si fermano alla razionalità, si può rappresentare con immagini molteplici. E’ un teatro interno che può assumere diverse forme comunicative, è il teatro interno del singolo. Nel lavoro della relazione analitica, la dimensione “collettivo” si attua quando nella relazione lo scambio comunicativo non è solo di parole, ma è interiore.

La Dr.ssa A.M. Meoni ha alcune riflessioni sulla proposta di collettivo, che le ha costituito la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Reputa che la parola collettivo venga utilizzata per cose completamente diverse. L’inconscio collettivo non ha nulla a che vedere col collettivo presentato stasera; ma ha poco a che vedere anche con l’inconscio sociale della gruppoanalisi; ha ancora meno da spartire con l’immaginario collettivo; per non parlare del collettivo politico, del collettivo organizzato, del collettivo sociale.. Quindi si stava chiedendo se questo collettivo è somma per addizione, per interazione od è quel “Noi” di cui ci ha parlato Callieri.

Il Prof. Majore teme di non essersi sufficientemente espresso su ciò che intende per collettivo, anche se le parole sono parole e ognuno può intenderle come vuole. Egli ha parlato di un organo collettivo come parte profonda della nostra mente, che organizza la biologia in termini mentali e che ha tre scopi principali: lottare contro la morte; sopravvivere, favorire la riproduzione. Questo collettivo primitivo ha delle espressioni nel mondo esterno, da lui chiamate: collettivo organizzato. (ad esempio la società). Le organizzazioni del collettivo, che sono anche le organizzazioni sociali, hanno lo scopo di arginare il collettivo primitivo. Se fossimo sottoposti solo al collettivo primitivo, cioè al contrasto morte-vita ed alla necessità della riproduzione, la vita sarebbe ancor più animale di quella che viviamo, cioè meno mentale. Le organizzazioni come la società, le leggi, rispecchiano il collettivo profondo e in parte lo limitano. Guardiamo cosa è un tribunale: fa le stesse cose che agiscono dentro di noi; si occupa degli aspetti punitivi e degli aspetti da sindacare, Vi sono il colpevole e il difensore. Tutto ciò è collettivo organizzato. Tutti i gruppi sono collettivi, in parte collettivi primitivi in parte organizzati. Può accadere che gruppi organizzati si rompano, diventino primitivi e agiscano guerre, rivoluzioni, massacri, linciaggi. Ci sono momenti in cui un’organizzazione collettiva, fatta per proteggere la vita, viene posseduta dalla morte. Quindi possiamo adoperare la parola “collettivo” in vari modi: possiamo parlare di collettivo primitivo e collettivo organizzato, anche se quest’ultimo può essere feroce quando è pieno di morte, come fu il collettivo tedesco che ha fatto la guerra utilizzando Hitler come portavoce. Era un collettivo organizzato, ma la sua organizzazione era ripiena di morte, più che di vita.

La Dr.ssa Meoni si chiede allora cosa suggerisca l’uso della parola collettivo. Che è uguale in tutti, come suggerisce il termine inconscio collettivo, o che si ripete comunque? Non si riferisce solo all’intervento di Majore, ma a tutti coloro che invocano questa parola: vuole capire se abbia il senso di un antagonismo rispetto all’individuo o se sia una differenziazione.

Per il Prof.Majore il collettivo primitivo è uguale per tutti, viene poi organizzato diversamente a seconda dei diversi gruppi, delle diverse persone, culture o circostanze. Di base è uguale, come per tutti è uguale la vita.

Il Dr. A.Lombardo, responsabile di una comunità terapeutica per disordini di personalità borderline. Ultimamente ha imparato le tecniche del movimento oculare durante i sonni diurni, che adopera per il trattamento dei traumi, delle situazioni che non possono essere passate alla coscienza perché disturbanti. Per migliorare i borderline, studia anche l’impostazione cognitivo-comportamentale; la Schema Terapy. E’ tutta una branca della psicoterapia che si appoggia alla biologia in rapporto agli stimoli. Vuole far presente alcune cose: la cognizione che abbiamo di collettività ci spinge a crescere, a combattere la morte, per migliorare la specie. I nostri istinti sono nel precipitato della storia, la genesi, che ci costringe a tutto ciò. Sono problemi che non possiamo risolvere, individualmente. Abbiamo bisogno di un gruppo che sia organizzato secondo una sua cultura. Certe regole che sono l’espressione di ciò che abbiamo visto funzionare bene. Ciò ci conduce all’identità. La ragione per cui funziona la comunità terapeutica democratica, è perchè modifica la cultura precedente e crea una cultura umanistica, che viene internalizzata e con la quale ci si deve identificare. L’identità sociale modifica l’identità individuale. Le esperienze di contatto con il viatico originario, prima la madre, poi il padre sono contatti che abbiamo in solitudine. Forse la crisi della psicoanalisi degli anni 60, è dovuta ad una crisi della cultura che assorbiamo, che facciamo nostra e che condiziona la nostra identità sociale. Se non siamo bene equipaggiati, quando ci troviamo a tu per tu con un altro essere umano che ha problemi, rischiamo di rimanere alienati. Se siamo corrotti da esigenze economiche o da prospettive sociali vanagloriose, non possiamo essere personalmente equipaggiati. Gli pare che in questo sia percepibile il perché della crisi della psicoanalisi che è in grossa parte dovuta a questo disturbo di identità e poi anche all’insufficienza del training e della formazione. Venuto in Italia per darsi una formazione psicoanalitica, ha notato una notevole differenza rispetto ai seminari ai quali partecipava in Inghilterra. In Italia si sentiva all’estero, ma era veramente all’estero anche lì! La formazione di terapeuti psicoanalisti consiste solo di cinque anni. Gli sembra che possa essere molto migliorata.

Il Prof. Majore riscontra in questo intervento molti aspetti interessanti: siamo oggi sommersi in un tipo di cultura collettiva che è l’affermazione del potere economico e sociale. Ciò sovrasta l’esigenza personale di conoscere se stessi. Ci si rapporta prevalentemente coi soldi e con la fama. E’ stato recentemente in America; ciò che gli hanno chiesto di più è stata quanto guadagnasse e se fosse famoso. Alla seconda domanda ha risposto che, in casa sua, lo conoscono tutti. La supremazia appunto di una cultura che attraverso il denaro, l’affermazione sociale e la ricerca della fama, copre la ricerca di se stessi; ciò ha certamente indebolito il principio psicoanalitico che è il tentativo di conoscersi.

La Dr.ssa G. Sgattoni ha apprezzato molto la discussione sintetica, ma molto articolata nella sua profondità. È stata molto colpita dall’aspetto della cura che vuole l’interazione. E’ un’interazione dove ha sentito emergere la creatività; significa nascita del livello intermedio. E’ l'aspetto mentale-figlio. Se questi non si riproduce si può sta male, perché perdiamo ciò che ci fa sentire immortali.

Il Prof. Majore condivide e ricorda che un figlio deve essere accudito. Può invece morire, essere abortito o nascere con un handicap. Il nostro sforzo è creare figli mentali possibilmente sani.


Note di redazione:
(r) registrazione della lettura presentata così come il dialogo nel dibattito a seguire la registrazione vocale degli interventi dei partecipanti rivista dal relatore Prof.Ignazio Maiore
Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com

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