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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2008 - 2009

La reciprocità delle coscienze

Bruno Callieri
Coordinatore dr.ssa Maria Atonia Ferrante
(r+d) relazione da registrazione vocale e elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani



La Dr.ssa M. A. Ferrante presenta il Prof. B. Callieri che da parecchi anni apre i seminari. Dovrebbe accennare alla sua carriera, ma rinuncia perché i presenti già la conoscono e perché toglierebbe del tempo prezioso all’esposizione della relazione.

Le piace tuttavia sottolineare la vitalità del Prof. Callieri, la sua instancabile capacità di produrre, tanto che ancora pubblica, prende parte ai convegni e viaggia. La sua mente è sempre limpida e creativa: questo non può che suscitare ammirazione e compiacimento da parte di tutto il gruppo seminariale. Presenta la relazione di questa sera dal titolo: “La reciprocità delle coscienze” che rinvia all’ argomento del Me, del Tu, del Noi, come capacità relazionale di essere con gli altri, d’interagire, di comunicare.
Il Prof. Callieri ringrazia Pisani, sempre gentile e cortese con lui e perché il suo invito si ricollega alla presenza di una storicità di rapporti che ancora è viva, almeno in parte, nella Clinica Neuropsichiatrica dell’Università. Ricorda quando Pisani, giovane medico psichiatra, venne tra loro. Ricorda quando lui stesso andò, tremebondo, a presentarsi nel ’48 a Cerletti. La psichiatria italiana si andava costruendo in quei decenni molto fecondi; fino ad allora era stata la stanca ripetizione di una psichiatria biologica, quanto mai demotivata da significati moderni.

La relazione di oggi riprende, col termine “reciprocità”, una tesi famosa sostenuta nel 1942 alla Sorbonne dal grande psicologo e psichiatra Maurice Nédoncelle, quando era incombente l’invasione nazista. La discussione di questa tesi sulla reciprocità, che fu ripresa poi da Jerphagnon, anticipava quello che sarebbe successo tanti anni dopo: la ripresa del rapporto tra cultura, filosofia, scienza tedesca e cultura, filosofia, scienza francese, rinnovando in parte quello che era stata la visione medievale dell’epoca carolingia, con Alcuino, quando l’est e l’ovest si riunivano in quello che oggi è l’epoca di Strasburgo. Callieri afferma che ha voluto riallacciarsi a questo grande studioso perché, per tutto quello che è l’evoluzione della psicopatologia attuale, l’antropologia dell’incontro e quella dell’interpersonalità assumono una sempre maggiore rilevanza e incarnano bene il concetto di reciprocità.
A dire il vero L. Lavelle l’aveva impostato come “reciprocità delle coscienze”, e così l’ha voluto proporre a Rocco Pisani, anche se, in questo ambito, la reciprocità di cui intende parlare non è tanto della coscienza, che si dispiega dall’essere sveglio alla consapevolezza psicocritica più elevata, alla “Mindfullness” del buddismo, ma è la reciprocità del rapporto tra persone, della dimensione interpersonale. Quindi una dimensione dialogica, una vera e propria dialettica della persona, la dialettica tra ec-sistentia (esco fuori, emergo) e in-sistentia ( entro e ci sto dentro). Il nostro stare qui è un continuo farsi dialettico tra esistere ed insistere: due dimensioni che sono le dimensioni dell’alto e del basso, su cui si è basata gran parte dell’analisi esistenziale, sia quella di Binswanger che, soprattutto a Zurigo, quella di Manfred Boss.
Bisogna pur dire che la reciprocità ha una radice nell’Alterità:
l’Alter, che è un Alter- Ego. Diciamo che questo Alter- Ego quasi per convenzione lo chiamiamo Tu, non per contrapporlo, ma per porlo specularmente di fronte ad un Ego. Ecco perchè in questo piccolo libro che gli autori, quattro amici filosofi e psichiatri di valore hanno voluto dedicare ai suoi 85 anni, è stato scelto il titolo “Io-Tu” e non Io-te, perché il te è complemento oggetto, il Tu è soggetto. Egli ci invita ad uscire dall’equivoco di parlare dell’Altro come di un oggetto, per non perdere la dimensione duale, che ci consente di parlare di Alterità. D ’altra parte su questa sfera d’interrelazione, su cui invita a riflettere, si fonda un concetto non facile ad esplicitarsi che, noi medici, psichiatri, psicologici, psicoanalisti, mutuiamo da Heidegger: il concetto dell’Appartenenza. Noi apparteniamo a noi stessi, ma nello stesso tempo apparteniamo al mondo, siamo espressione del mondo che ci circonda. Questo gioco continuo della co-appartentività, come dice Heidegger, cioè dell’appartener-ci e dell’appartenere al mondo, è quella che noi chiamiamo “la dialettica produttiva”, sulla quale si fonda il pensiero di Ludwig Binswanger cui egli si riferisce. Dopo un iter essenzialmente jaspersiano di psicopatologia generale classica, una cinquantina d’anni fa, ha sentito profondamente, nel “dialogo” che allora si svolgeva a Roma tra Servadio e Perrotti, il richiamo di quella regione diversa, psico-analitica, ricca di suggestioni che al giovane medico della neuro, saturo di elettroencefalogrammi e di vetrini d’istopatologia, costoro venivano proponendo.
La dialettica produttiva lo ha portato a considerare al massimo la proporzione antropologica, cioè la sfera d’inter-relazione, cioè quell’ambito dinamico ed esistenziale, in cui io progressivamente costruisco me stesso, sempre in rapporto ad un altro. I russi nel 1920 parlavano di “poputcik”, di compagni di cammino, compagni di strada; compagni anche se non avevano le stesse idee: il menscevico, il bolscevico, il trotskista, in quel momento, per uscire dall’empasse, erano compagni di strada; per un certo tratto dovevano sostenersi, camminare insieme.
A maggior ragione dobbiamo tenerne conto noi, oggi, perchè come medici, psicologi, psichiatri, siamo sempre a contatto con l’opposto del costruirsi, con la distruttività. C ’è qui sempre il concetto freudiano della destrudo, la distruttività come qualcosa che sta alla base di ogni nostro porsi, pro-porsi per de-porsi. Questa dimensione dialogica dell’incontro medico-paziente è una dimensione certamente non salottiera, ma che impregna totalmente ogni incontro psicoterapeutico, freudiano, junghiano , adleriano, rogersiano che sia. Alla base c’è sempre la tematica dell’opporsi a questa distruttività, nella quale ci imbattiamo quotidianamente.
Una distruttività che per primo alberghiamo dentro di noi e che per questo forse giustifica il protrarsi dei trattamenti analitici.
Callieri riferisce che oggi sul “Corriere della sera” sono apparse due mirabili pagine interne, sull’inflazione degli psicologi. Fanno capire il perché debba esserci, da un lato, il guardare con piacere a questa effervescenza continua, ma dall’altro invitano ad essere un pochino preoccupati perché, di fronte a certe dimensioni numeriche, le nostre vecchie, modeste dimensioni con cammini lunghi, seri, provati, sembrano perdere di consistenza. Il che pone una serie di quesiti pratici non di poco rilievo.
Dall’altra parte, un dialogo vero non già concertato prima ma
del tutto spontaneo; una lezione vera che non sia ripetizione di stanchi moduli scolastici, la lezioncina ripetuta come la troviamo sui manuali scolastici, ma che si snoda con reciproca sorpresa (perché il bello dell’impartire e del ricevere lezione è il sorprendersi continuamente), un abbraccio vero che non sia l’abbraccio formale, e visto che abbiamo parlato di distruttività, che anche il duello sia un duello vero, non finto, reale in cui io voglio davvero fare del male all’altro: in tutto questo, quello che c’è di essenziale
( abbraccio, amore, duello), non è qualcosa che si compie o qui o là, o in me o in te, non è qualcosa che si attua in un mondo neutro, ma proprio tra i due, qualcosa che sta in mezzo ai due, come dice il grande Maestro ebreo Martin Buber. Ecco allora affacciarsi alla nostra mente questo concetto, del quale si avvale oggi soprattutto la psicologia francese: il concetto d’intermediarità, cioè stare in mezzo. Io non sto qui e Tu lì. Non è che io vengo da te, né tu da me. È proprio in questo spazio intermedio che riusciamo a confrontarci, a comprenderci e ad allacciarci. Qui naturalmente si situa per noi, come psichiatri, il problema della psicopatologia della reciprocità, perché anche la reciprocità nel suo strutturarsi nel suo costituirsi primario, può nascere “storta” o può, nel suo formarsi, facilmente degenerare. Per capire come ciò avvenga, basta pensare al problema dell’indifferenza, alla reciprocità che potrebbe spingerci a guardarci in cagnesco l’un l’altro; all ’apatia, quello che i monaci medievali chiamavano l’accidia, cioè l’indifferenza , la depressione melanconica. Egli ricorda la poesia del Carducci “A Lidia”, che si svolge alla stazione, in una mattina d’autunno e nella quale il poeta scrive “ quei fanali si rincorrono accidiosi”, dov’è il fanale ad essere accidioso, a rispecchiare quello che egli viveva dentro di sé, la sua caduta interna. Qui c’è un’innegabile dimensione psicopatologica che alcuni autorevoli e finissimi autori francesi chiamano “anesthésie de l’âme”: un’anestesia dell’anima, cioè l’anima che non sente più vibrare l’altro accanto a sé. Con un atto di umiltà va ricordato che questa dimensione dialogica non è accessibile alle usuali nozioni della psicopatologia: adesso purtroppo, si vuole quantificare tutto, esprimere tutto in scale, in questionari, rendere tutto numerizzabile, come se l’uomo si potesse scomporre in un’infinita serie di operazioni aritmetiche, mentre invece è, in questo senso, qualcosa di esistenziale, di non scomponibile, di dato tutto insieme. Questo “tra” che non si annunzia soltanto in una psicopatologia sensibile all’umano, ma che è dotato anche di una profonda suggestione poetica e profetica. Noi, che per anni e anni ci siamo identificati col camice bianco che indossavamo, non dobbiamo dimenticare che esiste quest’altra dimensione dell’uomo che è la poesia, la poetica, e l’altra dimensione, ancora più importante, la profetica. La profetica significa che l’altro è sempre circondato da qualcosa di misterioso e dalla grazia. Il grande filosofo e teologo italo-tedesco Romano Guardini, diceva:” L’incontro, il vero incontro, è grazia e mistero” (Gnade und Geheimnis). Resta sempre qualcosa di non rivelato e forse dovrebbe restare a lungo coperta dal velo. Heidegger dice che la verità è svelamento: il velo viene tolto e appare la verità. Ma la verità va sempre svelata?
Ci sono dei momenti, dei punti, delle situazioni, dei nodi co-esistenziali, in cui essa deve restare velata, come il velo di Iside (Pierre Hadot). Egli ricorda le recenti scoperte archeologiche, importanti su questo problema delle statue, alla fine del II secolo d.C. La statuaria romano–ellenistica ama molto la persona velata, perché anche nei riti più complessi, quelli che andavano ad catacumbas, che andavano appunto alla mitologia di Iside e a tutte queste eloquenti mitologie, che hanno poi riportato Jung all’archetipo della Grande Madre, anche queste avevano la necessità di mantenere il mistero. Solo dietro il velo la forma della bellezza femminile si manifesta nel pieno della sua sensibilità e sensualità d’attrazione. Lo scoprimento radicale e totale è pari ad un disvelamento troppo abbagliante. Binswanger lo ha ben capito, analizzando i modi dell’amore e i modi dell’amicizia.
Circa le patologie dell’amicizia ci capita di osservare molti pazienti che non hanno un amico, non sono capaci di farsi un amico. A Callieri costoro fanno venire in mente una frase di Sant’Agostino che nelle “Confessioni” dice “Nihil homini amicum sine homine amico”: “Niente è amico all’uomo se l’uomo non ha un amico”. Quindi ecco porsi il problema dell’amicizia, accanto al problema dell’amore. Vediamo poi questa ripresa dell’ulisside, il canto di Omero, l’ amicizia tra Achille e Patrocle, il canto di Virgilio Eurialo e Niso; quindi questa dimensione co-esistenziale, che esiste nella coscienza dei nostri antenati, forse fin dal secondo millennio a.C. Questo ci conduce direttamente, con Aldo Masullo, caro amico napoletano, filosofo, fenomenologo che ha riportato in auge un vecchio psichiatra che nel ’52 Callieri ricorda di aver conosciuto, Viktor von Weizsäcker, quando affermava “la relazione è la categoria primaria dell’umano”. Prima di farsi Io, l’uomo è relazione.
A partire dalla primissima relazione (pensa a Winnicott) tra
cavo orale e capezzolo, a quella relazione mirabilmente espressa da Virgilio “Incipe parve puer risu cognoscere matrem ”: comincia il piccolissimo bambino a riconoscere dal sorriso la madre; quindi il sorriso in una comunicazione dove tu non sei ancora un tu; lui non è ancora lui, lei non è una lei, però c’è già questa capacità di unione, di unificazione, di una dualità che c’è fin dall’inizio. Questo lo hanno capito bene molti neo-psicoanalisti, da Modell a Winnicott, dalla Klein a Bion.
Per questo la nostra psicopatologia non dovrebbe essere così riduttiva come quella che ci propongono i vari ICD e DSM, dove compaiano classificazioni solo categoriali, con profonda assenza della psicopatologia degli incontri mancati, per dirla con Martin Buber. Intanto posso dirmi patologicamente infetto, toccato, compresso, spremuto, in quanto non sono stato capace di realizzare certi incontri, in una certa maniera. Mi sono difeso: non ho accettato l’abbraccio o la pugnalata; non ho saputo sfruttare questo invito, questa presenza dell’altro, che veniva da me con la scusa di dirmi le sue sofferenze e prendere la medicina, ma in realtà per con-fessarmi le sue pene; ed io l’ho invece liquidato con la ricettina, con il sorrisetto, con la battutina sulle spalle. Egli è ritornato tra le sue ombre, ma anche io sono restato tra le mie. Questo per uno psicopatologo è certo un fallimento e di questi fallimenti dell’incontro è cosparsa anche la nostra lunga strada.
Callieri se ne duole, ma allo stesso tempo ciò lo spinge a vedere con occhi sempre più “cum” l’altro, che viene ad esporre le proprie sofferenze intus et in cute. In questa nostra opzione siamo lontani dalla concezione puramente naturalistica della malattia, dal medico che solamente oggettivizza l’altro. Oggi questo concetto di oggettivare l’altro non è vitale nemmeno in certe patologie che sembrerebbero totalmente oggettivabili, come certi fini interventi di cardiochirurgia, per i quali si esige anche la compartecipazione del paziente. Oggi la medicina in questo senso sta aprendosi di più; i vecchi polmoni sclerotici della psichiatria naturalistica del secolo scorso cominciano a respirare un’aria nuova, anche grazie al concetto di reciprocità, di solidarietà: questo non può che farci piacere.
A dire il vero, nella storia del nostro sviluppo, come ci dirà la prossima volta Ignazio Maiore, siano restati un po’ indietro, mentre la scuola psicoterapeutica di Stoccarda degli anni 60-70 già trattava queste tematiche. Anche se molti rigidi analisti li guardavano con aria di sufficienza, loro portavano avanti questa struttura di co-appartenenza reciproca, tant’è che pochi anni dopo, oltre oceano, apparve un libro che lo colpì molto: “ L’arte d’amare” di Erich Fromm, “The Art of loving”. Scritto da uno psicoterapeuta di marca nettamente psicodinamica, prospettava che non siamo stati fatti solo di pulsioni, d’impulsi, d’instintualità, ma anche di capacità d’ amare; e ci sono tanti modi per amare che dobbiamo anche apprendere, dobbiamo svilupparci così come ogni seme va coltivato, annaffiato ecc. L’arte d’amare è fondamentale ( anche in Ovidio, ma soprattutto in Fromm).
Questo, per psichiatri aperti al rapporto analitico, significa che non possiamo non parlare di analisi del transfert e della sua risoluzione. Ogni procedimento analitico è analisi del transfert, anzi sempre più, analisi del controtransfert:lo studio dell’aspetto controtransferale delle relazioni è ineliminabile. Il nostro compito però non si esaurisce nell’analizzare il transfert e il controtransfert. Dobbiamo pensare ad una linea di confine più pericolosa, ma nello stesso tempo più attraente. Avrebbero detto i teologi di Tubinga con Paul Tillich: la “borderline”. Questa linea di confine tra me e te, che non è solo transferale-controtransferale, ma è qualcosa di più: è apertura (chiusura) all’incontro. Il rischio dell’analisi dell’incontro è quello di sconfinare in un sentimentalismo fumoso, equivoco; in un patetismo irrazionale; in indebiti spiritualismi o sensualismi. Se non stiamo attenti, possiamo caderci, ma se riusciamo a navigare tra Scilla e Carriddi con una certa disinvoltura e autocritica, allora facciamo qualcosa di più dell’analisi del transfert e del controtransfert, perché riusciamo a co-costruire.
Callieri afferma che le distorsioni dell’incontro non sono tanto psicopatologiche quanto antropologiche, e portano al dramma della vita di oggi: la scomparsa del partner. C ’è la scomparsa del partner e c’è poi la scomparsa del partner che sono io, a me stesso. Egli ricorda il bellissimo lavoro di W. Blankenburg: l’ego come proprio partner o, meglio, il corpo come mio partner. Il mio corpo è mio, ma nello stesso tempo il mio corpo (come dice tutta la più recente fenomenologia, da Merleau-Ponty a Jean-Luc Nancy), è intercorporeità, è quello cui oggi alludiamo dicendoci “Se tenir par la main”: tenersi per mano e nello stesso tempo, senza arrivare alla tattilità , ma sempre con la stessa intensità, “Se tenir par les yeux” : tenersi con gli occhi, tenersi con lo sguardo. Io e te, che ci conosciamo, ma che ora ci troviamo in un ambiente di estranei, possiamo ben guardarci, e continuiamo a “nous tenir par les yeux”, a tenerci con gli occhi, come poco prima c’eravamo tenuti per mano.
Questo svelarsi della reciprocità ci consente di non cadere nel tranello dell’attuale sociologia, che Callieri ultimamente avverte come trappola quasi inevitabile; quello che Giddens, sociologo inglese, chiama “Amore liquido”; per lui lo strutturarsi-insieme è sempre come le onde che si susseguono, è qualcosa di liquido, di rinnovantesi, di moventesi, per cui una dualità vissuta è una pura illusione: nell’attimo che ci pare di viverla, già la perdiamo.
Inequivocabile è quì la perdita della reciprocità che noi crediamo sia il primo capitolo di un'altra grande perdita: la perdita dell’assetto mentale di tipo gruppale. Quando l’uomo perde la capacità dialogica, anche il gruppo finisce per abortire. Quindi forse, si tratta sociologicamente parlando, di una perdita ancora più pesante; invero la perdita della dualità, del Noi, è perdita che coinvolge me e te, ma lo smarrimento dell’assetto gruppale nel gruppo, ci fa tornare indietro di secoli, quando Hobbes ci diceva “homo homini lupus”. E questo dovremo proprio cercare di evitarlo.

Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti: (d)

L a Dr.ssa Ferrante ringrazia il Prof. Callieri per la sua ricca relazione che sollecita la riflessione sulla nostra attività. Apre la discussione con l’accordo di assemblare ogni volta le varie domande.

Il Prof. Pisani ringrazia Callieri, ricordando che dall’89-90 egli è ospite ai seminari. La relazione con lui risale agli anni ’60, quando era un giovane specializzando ed era intento a guardare questi “mostri sacri”: Callieri, Tedeschi, Frighi, Tolentino, Anderson. Il Prof. Callieri gli ha fatto ricordare la storia di Socrate, come incarnazione del pensiero socratico. Socrate si trovava in carcere e benché anziano chiamò i suoi allievi e chiese loro di fargli venire il maestro di cetra.
Alla sorpresa dei suoi allievi, che gli sottolineavano l’età avanzata e il luogo in cui si trovava, Socrate commentò che non si finisce mai d’imparare, perché noi sappiamo di non sapere. In realtà era il più sapiente degli uomini, come aveva detto l’oracolo di Delfi, proprio perchè sapeva di non sapere.
Pisani, essendo un gruppoanalista, uno psicoanalista di gruppo, evidenzia che il concetto su cui si basa l’analisi di gruppo è un concetto dialogico. Significa uscire dall’isolamento narcisistico in cui ognuno di noi è immerso ed entrare nelle relazioni che entro certi limiti sono oggettuali ma che sono soprattutto soggettuali: è il rapporto tra gli esseri umani. In un contesto del genere la storia del transfert/controtransfert è certamente importante, ma non nell’ottica della psicoanalisi; è importante nella misura in cui il fenomeno del transfert/controtransfert è uno dei fenomeni speculari di rispecchiamento. Nella situazione gruppale l’insight, cioè la comprensione intrapsichica, è strettamente collegata con l’outside, cioè il vedere all’esterno. L’insight è favorito dai fenomeni speculari e questo ci porta alla comprensione della reciprocità. Ci porta alla comprensione della reciprocità delle coscienze, ma anche della coscienza perché coscienza significa “cum-scio”, cioè conosco in quanto condivido. Aggiunge che sempre la relazione permette di combattere anche la distruttività.

Il Dr.S. Zipparri dichiara la propria costante ammirazione quando ascolta il Prof. Callieri perché, tra i tanti aspetti straordinari della sua enorme cultura, offre anche testimonianza di un arco temporale che ha visto l’evoluzione dell’assistenza psichiatrica del nostro paese. Non crede di sbagliare affermando che Callieri ha attraversato tutti gli stravolgimenti che la cura mentale ha avuto nel nostro paese. E’ particolarmente interessato a sentire da lui in che misura il pensiero di Binswanger, a cui ha fatto riferimento, abbia in qualche modo favorito e portato la psicoanalisi più tradizionale all’alternativa, come la scuola di Perrotti; in che modo sia stato una linfa vitale per lo stesso movimento psicoanalitico e come Callieri consideri questo apporto, per quella che è stata la rivoluzione nel porsi di fronte alla malattia mentale.

La Dr.ssa A. M. Meoni vuole proporre alcune suggestioni che ha avuto in questi giorni e che riguardano la collocazione funzionale che psicoanalisi, gruppoanalisi e la psicologia in genere, occupano in questa epoca moderna. La prima è la sensazione che ha avuto nell’ apprendere dal telegiornale che in America è stata istituita una task force di psicologi per assistere i brokers. Lei ha pensato che ci volessero degli psicologi per assistere chi ha perso i soldi e non i brokers. La seconda suggestione l’ha avuta ieri alla presentazione di un libro di geopolitica sulla questione globale delle energie del nostro pianeta e della sua gestione. Il concetto fondamentale, espresso all’unanimità dai relatori, è stato che le classi dirigenti governative, di qualsiasi appartenenza politica, abbiano l’ etica fondamentale della bugia, a cui lei ha ora associato la verità velata; oppure una classica consegna in navigazione di non dire mai al passeggero, che si sta naufragando. Si domanda perché, quando noi cerchiamo di leggere e interpretare con i nostri strumenti psicopatologici e speculativi, filosofici e culturali, quel mondo sociale al quale appartiene profondamente la reciprocità delle coscienze, spesso non riusciamo a girare la chiave. Vorrebbe comprendere se è lei a non comprendere l’utilità della bugia, o le contraddizioni o la schizofrenia delle organizzazioni. Fa veramente molta fatica, con gli strumenti propri della nostra professione a leggere questi aspetti, mentre riesce a sentire il paziente vittima e a partecipare della sua sofferenza, rispetto a quella contraddizione sociale delle organizzazioni di cui non capisce il senso. Le sembra poco parlare di verità velata e di reciprocità che, non sa di cosa, ma non certo delle coscienze.

Il Prof. Callieri reputa che le due domande sollevino una serie di ulteriori quesiti. A Zipparri risponde, in base a quello che gli diceva anche Cargnello che Binswanger, da lui frequentato direttamente, doveva essere un insicuro e non ha mai avuto una grande capacità di autonomia. Binswanger va a mutuare per primo da Heidegger, da questo “monstrum” europeo al quale facevano riferimento anche dal lontano Giappone, una conferma filosofica importante e qualcosa che ne convalidasse le idee. Invece Heidegger lo guarda con sufficienza e gli consiglia di ricominciare da zero perché non ha capito nulla: lui sta parlando di essenza, Binswanger di esistenza. Binswanger torna da dove è partito, cioè dal maestro Husserl. Tornare a ritroso da Husserl non è per lui molto facile e anche Husserl in fondo gli dice “tu del filosofo hai poco” Binswanger ci resta male, come risulta dalle sue prime lettere nello scambio con Freud.
Nell’ esperienza che ha avuto Callieri, ma anche Cargnello, Bovi, Basaglia, il suo gruppo di Firenze; il gruppo di Torino, il gruppo di Trieste, Callieri considera positivamente il fatto che Binswanger si sia allontanato dall’uno e dall’altro, perché altrimenti avrebbe potuto attuare solo una “scopiazzatura” filosofica. In realtà Binswanger ha chiesto sostegno, ma la problematica poi se l’è posta lui, a se stesso. Quando nel ‘42 scrive “Le forme dell’essere”, ci parla delle strutture non in teoria, ma in pratica, con esempi pratici: l‘amore, l’amicizia e l’odio. Callieri non ne ha parlato, ma Zipparri ha letto fra le righe del suo pensiero. Aveva scritto “Per Binswanger il co-esserci, l’esserci insieme, quindi non l’esserci soltanto, esserci-con, non deve smarrirsi nel si impersonale: si dice, si fa, si pensa, oppure vagare nel proprio io con se stesso (la mia meità), ma deve tendere a realizzarsi nei modi co-esistentivi dell’amore, dell’amicizia e dell’aggressività”. Lui questi modi li studia nei famosi casi binswangeriani, ad esempio il caso Lola Voss. È una specie di diario di una serie d’incontri mancati; il caso dell’anoressia dove si vede come lui analizza il con-esserci dell’altro tramite il cibo, il prendere il cibo in comune, iI nutrirsi insieme; quello che noi abbiamo sempre chiamato l’incontro agapico dove agape è anche amore, ma è la mensa, lo stare a mensa insieme. Ricorda la forte risonanza binswangeriana dei discepoli di Emmaus, quando Gesù si fermò a cena con loro perché faceva sera e lo riconobbero da come spezzò il pane, a mensa con loro. Questo Binswanger l’aveva capito e detto attraverso i suoi pazienti. I maestri Heidegger e Husserl non avevano frequentato molto i malati e quindi questa dimensione personale dell’insufficienza, della carenza, della sofferenza, della incapacità dell’altro non l’ avevano sperimentata; era, la loro, una mirabile visione teorica, ma un conto è nutrirsi di parole, di concetti, e un conto è entrare in una corsia e detergere lo sputo o il sudore di un paziente che soffre o di un malato terminale o di una partoriente che non riesce ad espellere il feto. Binswanger non aveva fatto altro per anni e anni che incontrare queste persone, che sporcarsi le mani con loro, era stato un medico di trincea mentre i due grandi filosofi, che tutto sommato l’avevano guardato con una certa superiorità, non avevano provato sulla propria pelle cosa significa fare il medico, a differenza di Freud che invece questo l’aveva ben potuto intendere. Binswanger ci ha dato questa possibilità, di capire il mancato incontro, di capire l’altro come mancato incontro. Callieri lui stesso l’ha scritto riferendosi a queste distorsioni antropologiche dell’incontro, a questa perdita di reciprocità dove vedi raggrinzire l’altro: l’ ossessivo, l’ isterico, il fobico, non ragionandone, ma palpandolo con le proprie mani: allora sì che te ne accorgi. Callieri non riesce a trovare un medico psichiatra che faccia solo teoria a tavolino e che non parli invece nutrito dei ricordi dei pazienti che ha incontrato. Di certe cose ne puoi parlare solo se le hai vissute, altrimenti è solo teoria, non pratica. Sottolinea come Zipparri abbia detto una cosa molto importante: cioè che la relazione è categoria primaria dell’umano, ma non puoi fermarti a contemplarla; devi scendere nella trincea, non puoi guardarla da lontano, devi bagnarti le mani nelle acque dell’altro: è questo l’insegnamento che ci ha dato Binswanger. In risposta alla Dr.ssa Meoni Callieri evidenzia che essa ha toccato un nostro grande deficit. Noi psichiatri, psicologi d’impostazione junghiana, freudiana, ecc., riccamente impastati anche con la clinica, qui a Roma, come a Milano, a Madrid, a Lione, a Berlino come a Barcellona, siamo nella cultura occidentale. Quello che ci manca è la possibilità di calarci in un'altra cultura. Reputa impossibile esprimere col pensiero, toccare, abbracciare il rapporto con l’altro, nella cultura buddista, nella cultura islamica, nella cultura ricca e viva, ma per noi povera, dell’Amazzonia, di cui domani incontrerà un esponente di 94 anni che viene e deve ritornare lì e che conosce bene quella cultura. Se non la vivete, se non la fate vostra, non potete fare una diagnosi perché non ha senso. Suoi allievi, tra cui Alfredo Ancora, che sono stati nel Baikal per conoscere la cultura sciamanica, gli hanno riferito che avrebbe dovuto dimenticare Jaspers e tutta quella psicopatologia perchè è tutto un altro tipo di sentire, di vivere, di valutare, di cogliere. Come possiamo noi calarci col nostro bolo di cultura occidentale, che per quanto grattiamo non leviamo di torno, per entrare in quella cultura? Questo è un limite della nostra psicopatologia. Lui, sostenuto da Fernanda Conti, ha pubblicato un libro dal titolo “Psicopatologia e culture”. L’enorme difficoltà della nostra psicopatologia, della cultura dell’occidente ed in parte anche americana, è nel non avere la capacità di calarci radicalmente e totalmente nella cultura islamica, dell’Africa centrale, del Borneo, nella cultura giapponese e, soprattutto, in quella cinese: grandi culture che inevitabilmente conosciamo solo per vie traverse. Attualmente è immerso nella conoscenza di questa cultura franco-cinese che è completamente diversa dalla nostra. Augura a tutti di avere la possibilità, nella propria sorte, d’ inzupparsi in queste culture per non perdere tanti aspetti del mondo.

La Dr.,ssa L. Taborra, dopo aver espresso la propria ammirazione per la relazione di Callieri e per la sua competenza espositiva, chiede se sia corretto interpretare in chiave junghiana la reciprocità delle coscienza come una mancata integrazione degli opposti, laddove Jung diceva che l’uomo trova la propria dimensione quando integra la parte ombra con la parte luce, l’interno con l’esterno. Le sembra, che l’odierna dimensione sociale, dove esiste un individualismo esasperato, esprima chiaramente la non integrazione dell’ Io col Tu e viceversa.
Il Prof. Callieri, riferendosi al confronto che ha avuto molte volte, con lo junghiano Mario Trevi, risponde che l’ombra junghiana è fondamentale. Il problema è che l’ombra, anima o animus che sia, secondo la concezione junghiana, ma anche secondo Neumann che spesso trascuriamo, pur se egli indaga da par suo le origini della coscienza, il problema dell’ombra è inevitabilmente destinato ad accompagnarci sempre, indipendentemente dal tipo di analisi. Non possiamo dire che un’analisi junghiana sia ben riuscita solo perché riusciamo a contenere certi aspetti dell’ombra o a farla diventare luce: non crede che questo sia lo scopo di un’analisi del profondo. Questo aspetto dell’ombra lo ha spinto in questi ultimi tempi a riprendere in mano, sotto una nuova luce, un problema trattato da Merleau-Ponty, due o tre anni prima che morisse così presto: la costituzione dell’ inter-corporeità. Merleau-Ponty non parlava di coscienza, ma di corpi vissuti. È il problema dell’accarezzarsi su cui Callieri ha rilasciato un’ intervista alla rivista Arel. Il problema del rapporto con l’ Altro, non è un problema di coscienze: la reciprocità è la reciprocità della corporeità vissuta. Le corporeità che s’incastrano, non soltanto nella compenetrazione carnale più libidicamente strutturata ed impastata, ma anche in tutto quello che c’è intorno. Qui il Rinascimento italiano è stato sublime: da Masaccio a Piero della Francesca e a tutti i fiorentini. Si riferisce all’”Annunciazione” di Lorenzo Lotto nella quale vediamo l’Angelo che sale e Maria che guarda da un'altra parte: quanta inter-corporeità c’è tra quella metafisica dell’angelo e la carnalità tremebonda di Maria che inutilmente cerca di sfuggire!. L ’inter-corporeità in questo senso l’ha perfettamente intesa Neumann, quando ha parlato dell’origine della coscienza; non sa se si possa dire lo stesso per Jung; molte cose di Jung le ha dette la Von Franz e per questo quesito non ha trovato molti richiami: andrebbe approfondito.

Il Prof. I. Maiore ribadisce quanto detto da Callieri a proposito dell’incontro tra persone, che è più importante dell’incontro tra coscienze, perché la coscienza è una piccola parte della persona: è la rappresentazione, l’espressione di qualcosa di più. Nel campo del nostro lavoro, a parte il transfert/controtransfert, il problema è il rapporto. Il transfert/ controtransfert cancella la persona perché mette addosso all’altro cose da trasferire, ma l’altro dove è andato, e tu dove sei andato? È importante l’incontro ed è un incontro tra corpi: in analisi i nostri corpi s’incontrano, non fisicamente, ma nella mente. La mente è corpo quando ci si incontra, tant’è vero che i nostri pazienti sognano spesso bambini come rappresentazione del rapporto. Maiore parla di un livello intermedio nel quale si svolge il rapporto. C’è una comunione, cioè una parte dell’uno e una parte dell’altro che s’incontrano e insieme si sviluppano, oppure abortiscono. Il filo dell’ analisi è un filo mentale, che è un filo corporeo. Noi non possiamo agire fisicamente col corpo perchè in quel caso sabotiamo l’analisi, ma questa mente corporea è quello che fa l’analisi, perchè l’analisi non è soltanto interpretare e capire come stanno le cose, ma è uno sviluppo dell’incontro che deve crescere.
Il Prof. Callieri commenta di non avere nulla da rispondere ad Ignazio Maiore, perché in fondo egli ha amplificato, sottolineato e chiarito ulteriormente quello che, in nuce, lui stesso aveva cercato di dire. Maiore ha parlato di livello intermedio, lui d’intermediarietà. Callieri, riferendosi a Luis Lavelle, riproposto poi da Jerphagnon, chiarisce che quando diceva coscienze si riferiva alle istanze morali di presenze mutue, non alla coscienza come la pensiamo noi, cioè la vigilanza e l’ultravigilanza, la riflessione, il prendere coscienza. E’ una sua ipotesi che Lavelle avrebbe voluto riferirsi a qualcosa che accade nei piccoli gruppi che lui conosce, non ai grandi gruppi che lui ha frequentato qualche volta, tornando indietro infastidito.

Per il Prof. Pisani dipende da chi conduce un grande gruppo che, da quanto lui ha imparato dalla scuola di Foulkes e di De Marè, supera numericamente le trenta persone, mentre il gruppo intermedio è costituito da non più di trenta persone. A Londra, ogni volta che s’incontra alle riunioni della Group-Analytic Society, partecipa ai grandi gruppi che hanno un importante significato.
Il Prof. Callieri pensa alla “psicologie de la foule” di Gustave Le Bon del 1890, quando “andava di moda” la “foule”.
Il Prof. Pisani evidenzia che Freud si è occupato dei gruppi e una delle sue prime intuizioni è stata proprio quella relativa ai grandi gruppi: la chiesa e l’esercito. Tra l’altro la gruppoanalisi di Foulkes comincia esattamente lì, dalle ricerche di Freud.

La Dr. ssa Ferrante, dopo aver ringraziato il Prof. Callieri, prima di chiudere questo incontro seminariale, gli chiede quale possa essere il mediatore, come l’arte, la musica, che favorisce l’incontro tra culture.
Il Prof. Callieri rileva che la domanda su quale dimensione favorisca l’incontro tra culture, è importante e ha toccato un punto che l’entusiasma. Crede che per molte culture, soprattutto le più primitive, sia la musica; tuttavia in molte culture, quello che favorisce l’incontro, è il silenzio. Consiglia la lettura del libro di Thomas Merton, trappista americano, composto di note brevi con accanto alla nota un disegno molto semplice che lui stesso esegue. Ha avuto l’impressione che il silenzio possa essere colto anche da culture molto diverse dalla nostra. Non a caso il monaco trappista è analogo ai monaci della cultura indù e soprattutto ai monaci taoisti. Ringrazia lei della domanda e i presenti per l’attenzione mantenuta, malgrado l’ora e l’ardimentosità di certi concetti.]


Note di redazione:
(rd) la registrazione vocale della lettura presentata così come il dialogo nel dibattito a seguire dei partecipanti è stata rivista dal relatore.
Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com

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