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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2007 - 2008

Il funzionamento del gruppo eterogeneo

Giovanna Sgattoni
Coordinatore Dr.ssa L. Taborra
(t) testo di relazione fornita dalla relatrice (r) elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani



La Dr.ssa L. Taborra, coordinatrice dell’incontro, presenta la Dr.ssa Giovanna Sgattoni. E’ psicologa, psicoterapeuta. Ha collaborato con il Prof. Sabatini nelle tecniche d’indagine della personalità; ha svolto attività di ricerca in ambito neuro-motorio e della percezione in bambini e adulti. Attualmente lavora come psicologa e psicoterapeuta presso il Centro di riabilitazione della Comunità di Capodarco. Ha avviato le prime esperienze d’inserimento nelle scuole, di bambini con disturbi dell’apprendimento e psicotici, attivando la formazione sul campo per operatori ed insegnanti. Svolge attività clinico ambulatoriale nel settore infantile e adulto ed è psicologa responsabile del progetto riabilitativo del settore adulti, in regime di ricovero. Ha seguito molti casi di psicosi ed autismo infantile e casi con danno cerebrale complesso.

La Dr.ssa Sgattoni legge la sua relazione dal titolo:
“Il funzionamento del gruppo eterogeneo” (t)
Il contesto in cui lavoro e nel quale è stato sperimentato dal 1994 il gruppo di cui parlerò, è il Centro di riabilitazione Comunità di Capodarco, presente a Roma dai primi anni settanta, ma nato nella provincia di Ascoli Piceno nel 1967 ad opera di un sacerdote: questi si era ribellato all’atteggiamento pietistico che si nutriva nei confronti dei disabili. Tale realtà partiva da una impostazione di autogestione della propria esistenza all’interno di un rapporto di convivenza di stile comunitario paritario.
In tale contesto quello che contava era la condivisione della vita quotidiana in un rapporto umano di parità. In tale clima gli aspetti etici ed ideologici divenivano essi stessi la dimensione riabilitativa, la quale era intesa nel seguente senso: “tutti gli esseri umani sono uguali perciò a tutti deve essere data l’opportunità di vivere una “diversa normalità”.
Nella sede romana il Centro di Capodarco era insediato in contesti urbani che avevano le sembianze di un “paese”, e nei quali veniva facilitato una sorta di processo di “colonizzazione”.
Nel 1994 mi ero trovata a dovermi occupare di quello che potrebbe definirsi il residuo delle persone che col passare del tempo non erano risultate inseribili in modo fruttuoso in quei contesti che avevano acquisito un’ufficiale legittimità di efficacia (Centro Formazione Professionale; Cooperative integrate; Centri Diurni).
In particolare, la popolazione residuale risultava essere eterogenea per età, livello cognitivo, disabilità; queste ultime variavano dalla psicosi cronica alle patologie e disabilità psicofisiche multiple, sia sul versante neurologico, sensoriale e di linguaggio, che sul versante più francamente psicopatologico.
Occorreva dunque uscire da rituali di intervento risultati inefficaci, e che per di più si erano rivelati invalidanti perché ribadivano la dipendenza, ma senza accompagnarla neppure a forme di coscienza di sé, dei propri limiti e delle potenzialità offerte dai processi di individuazione.
Per queste persone il disagio che le rendeva inadattabili non derivava infatti direttamente dalla malattia (sulla quale ogni possibile intervento era stato esperito), ma era ormai, essenzialmente, di natura esistenziale: esse non riuscivano a dare un senso personale alla loro esistenza, in quanto non avevano consapevolezza di loro stesse, se non in contrapposizione a ciò che ai loro occhi appariva il mondo privilegiato dei cosiddetti “normo-dotati”.
Era insomma la ferita narcisistica e le ferite affettivo-relazionali, più che la malattia, il grande dolore che ciascuno di loro lamentava e manifestava con il proprio stile.
Inoltre i più, pur vivendo nel contesto comunitario da molti anni, frequentandosi ogni giorno e condividendo con gli altri ospiti la quotidianità, letteralmente, non si “conoscevano” e spesso non conoscevano neppure se stessi.
Io registravo questi elementi di contraddizione: da un lato, nel contesto di una vita che si manteneva, nella sua essenza, “comunitaria”, l’indice di Tolleranza (un indicatore di analisi fattoriale rilevato da una precedente indagine mediante il test CPI), risultava essere fra gli ospiti disabili molto alto rispetto la popolazione dei “normali”.
Dall’altro lato, tuttavia, sembrava che una tale indubbia tolleranza rappresentasse una sorta di “buco nero”, dove ciascun disabile poteva trovare collocazione solo a rischio di mantenersi indifferenziato, e quindi di essere parte di una massa, ma senza potersi riconoscere come individuo.
Il collettivo comunitario, dunque, “accoglieva” i disabili, ma lo faceva in una forma troppo indifferenziata; ciò favoriva un processo di forte stereotipizzazione dell’individuo, e ciò sembrava costituire un pegno ineluttabile da pagare alle leggi del collettivo.
La differenziazione del sé ed il processo di individualizzazione avevano dunque bisogno, ai miei occhi, di un percorso più raffinato e tarato sulla persona, e soprattutto di processi di interazione umana più articolati, più strutturati e meno collettivizzati.
Tale lavoro doveva comportare l’attivazione della conoscenza dell’altro con modalità relazionali e comunicative che non si producevano di certo spontaneamente: esse richiedevano contesti in cui il lavoro di individualizzazione potesse avvenire senza pagare pedaggi troppo alti, o fosse tale da realizzarsi a scapito dei più svantaggiati ed isolati; questi ultimi, infatti, erano spesso prigionieri del proprio stereotipo, senza possibilità di chiavi di accesso ad immagini diverse del sé, e con la sola possibilità di usufruire di una tolleranza sociale indifferenziata, anonima: ma questa autorizzava solamente una permanenza passiva e senza speranza nella struttura comunitaria.
Altre persone accolte, quelle più reattive, erano invece percepite come moleste: una sorta di “rumore di sottofondo” arcinoto ma costantemente frainteso, o comunque incompreso.
Questi persone, per reazione all’isolamento, a volte tendevano ad instaurare rapporti personali tendenzialmente simbiotici: questi però rinforzavano, o addirittura facevano nascere, forme di dipendenza a carattere regressivo, spesso confuse con la dipendenza fisica, e comunque gravemente interferenti con quella.
La sfida che mi si presentò fu dunque quella di individualizzare questi soggetti proprio a partire dalla loro sofferenza specifica: in altre parole, di avvicinare fra di loro, in una sorta di insieme, etnie diverse, allo stesso tempo in senso patologico ed esistenziale, quindi assai eterogenee tra di loro sotto tutti i punti di vista, e di aiutarle, tramite il confronto reciproco, a percepirsi ed a riconoscersi l’un l’altra e nelle rispettive caratteristiche: principalmente si trattava di accostare e di individualizzare le due grosse categorie di “diversità”, rappresentate dai disabili mentali da un lato, e da quelli fisici dall’altro lato (categoria, quest’ultima, che storicamente incarnava i “fondatori” della Comunità, mentre i disabili mentali non rappresentavano nient’altro che degli ospiti successivi, tollerati solo se non mettevano in atto aggressioni fisiche, e se se ne stavano “buoni”).
Ricordo di questa seconda categoria, in particolare, Silvana, una psicotica cronica proveniente da 20 anni di manicomio trascorsi presso l’Ospedale Psichiatrico “S. Maria della Pietà”, la quale per questo motivo era ampiamente nota, fra gli ospiti, come “la matta”: ella, riferendosi a Camilla, un’altra ospite che però soffriva “solamente” di una patologia neurologica, ma tale da permetterle di camminare con fatica solo grazie ad un carrellino, si esprimeva così: “tu mi invidi le gambe, ed io ti invidio la testa”. In tale modo Silvana riaffermava, a suo modo, la propria diversità di appartenenza bio-etnica ed esistenziale. Questa persona viveva in forma ovviamente persecutoria le voci che la minacciavano di morte, ma nonostante ciò sapeva perfettamente enucleare i nodi delle questioni che di volta in volta emergevano nelle esperienze di vita quotidiana, anche se lo faceva con le modalità dirette, concrete e scarsamente metaforiche, proprie del suo stato mentale di psicotica schizofrenica.
La stessa, invitata a partecipare all’esperienza di gruppo, si esprimeva cosi: “Sarà molto difficile riuscire a vedere la televisione insieme a tutti”. Silvana, con questa frase, riconosceva difficile condividere con gli altri delle esperienze comunicative (specie se allucinatorie e persecutorie) e decodificare correttamente il loro significato, poiché ciascuno era abituato ai propri sistemi di decodificazione, e quindi lei dava evidentemente per scontata l’impossibilità di accedere ad un codice comunicativo comune con coloro che rispetto a lei erano da considerarsi “normali”: in particolare, vedere la televisione assieme significava, per lei, accedere in termini non persecutori ad una realtà, come quella del messaggio televisivo, potenzialmente percepibile proprio in quei termini; cioè, compiere un’operazione quasi impossibile per una psicotica.
Tuttavia la sua difficoltà, improvvisamente, indicò ai miei occhi, come in una rivelazione, quello che era da considerarsi l’obiettivo primario: per rendere la realtà persecutoria di Silvana, e degli altri ospiti psicotici come lei, in qualche misura comprensibile a tutti in termini non psicotici, e senza rimozioni o ipocrisie, occorreva condividerla e comunicarla agli altri passando per i punti di vista di ciascuno, ossia per il suo particolare linguaggio.
Un'altra delle difficoltà che si presentava, riguardava infatti la grande eterogeneità degli strumenti di comunicazione di ciascuno: alcuni avevano grosse difficoltà di linguaggio, di apprendimento, ed un ritardo cognitivo tale da renderli, anche oggettivamente, quasi alla stregua di stranieri in terra straniera.
Dal punto di vista delle risorse intellettive, il gruppo era costituito da persone che presentavano un Q.I. che andava dall’insufficienza grave fino al Q.I. nella norma.
Tutti avevano raggiunto la maggiore età, ed essa oscillava dai 20 a ai 45 anni.
I più avevano fatto esperienze di formazione al lavoro e/o di collocazione presso cooperative di lavoro. Per tutti tali esperienze erano risultate generalmente fallimentari.
La funzione che il mio progetto sperimentale doveva espletare era quindi duplice: da un lato, quella di favorire l’apprendimento di un lavoro nel contesto di un piccolo laboratorio artigianale di articoli da regalo; dall’altro, quella di fare incontrare tante “strane” persone fra di loro, affinché si conoscessero ed imparassero a comunicare, semplicemente utilizzando dei codici a loro accessibili; ciò allo scopo di ridurre il vissuto di solitudine, di incomunicabilità e di disagio nel loro vivere quotidiano, che derivava per l’appunto dal viversi come individui “non significativi”.
L’assunto di partenza era perciò quello di spingere tali individui a non utilizzare strumenti che non fossero loro propri, e di favorire in compenso la conoscenza reciproca delle diversità di ciascuno, quale caratteristica specifica ed irrinunciabile dell’individualità intesa in senso bio-affettivo-esperienziale. Questo riconoscimento reciproco doveva avvenire attraverso un “fare condiviso”, che però si esplicasse in un contesto di lavoro ove fosse costantemente presente un ascolto reciproco attento sul piano empatico.
Occorreva però procedere con gradualità, rispettando i tempi di attesa necessari affinché ciascuno potesse davvero “esserci” con tutto sé stesso; ciò fu ottenuto sperimentando preliminarmente una compatibilità minima tra i membri del gruppo che si andava formando, la quale tenesse conto sia delle capacità cognitive che degli strumenti di comunicazione e di linguaggio posseduti da ciascuno, ed infine considerasse le condizioni di tolleranza degli stessi operatori (i quali, ovviamente, avevano anch’essi familiarità con vari stereotipi della diversità, tutti piuttosto inveterati e svilenti).
Occorreva quindi costruire e predisporre anzitutto un contesto che mantenesse una plasticità mentale ed un atteggiamento di apertura nelle figure che dovevano gestire il laboratorio nella quotidianità: queste infatti avevano il compito, in sé delicatissimo, di costituire esse stesse un “filtro” ed un ambiente tollerante per i partecipanti.
Occorreva poi inventare, fra essi, la figura di una sorta di “facilitatore della comunicazione”: questa era assolutamente necessaria all’interno di un gruppo siffatto, per favorire l’attivazione di codici di comprensione emozionale negli ospiti, ed anche in chi gestiva il gruppo di lavoro del laboratorio.
Infine occorreva attivare degli scambi comunicativi specifici tra soggetti che si percepivano tra loro così diversi, e che però avevano un così disperato bisogno di conoscersi e di comunicare.
A tale scopo assunsi su di me un triplice, gravoso compito: quello di gestire il counseling, quello di fungere da operatore di base e da parte integrante dell’èquipe di lavoro, e quello di adempiere il ruolo di conduttrice del Gruppo di discussione; quest’ultimo aveva una frequenza settimanale.
Due fattori accomunavano tutti i componenti del gruppo:
1)l’appartenenza ad una delle molteplici ed eterogenee forme di disabilità presenti nella Comunità (e questo è il cuore del tema delle differenze-appartenenze, che sono di natura etnico-bio-culturale),
2)la convivenza con queste disabilità nell’ambito di un collettivo comunitario collocato a sua volta all’interno di un tessuto urbano di quartiere, accessibile ed accogliente, ma irrimediabilmente “diverso”.
Di tale collettivo, infatti, l’intero gruppo doveva risultare essere, sì, un fruitore, ma anche un protagonista su un piano di relativa parità.
Lo statuto del Centro, di netta impronta comunitaria, prevedeva poi da un lato l’uguaglianza tendenziale di tutti, dall’altro che tutti avessero gli stessi diritti senza impedimenti gerarchici; con tutti, quindi, il rapporto poteva e doveva essere diretto e confidenziale: anche con le figure dirigenziali e fondative.
In virtù di questo statuto queste ultime, dunque, non inducevano le persone ospitate a porsi su un piano di sudditanza, quindi gli spazi comunitari risultavano apparentemente disponibili alla libera affermazione del sé.
Nella vita del laboratorio, invece, vi erano delle norme precise, volte a regolamentare le attività lavorative di apprendistato e la successiva conquista del ruolo di operaio; il laboratorio, infatti, era condotto da maestri d’arte e da educatori.
A tale fine, fin dai primi anni ho attivato incontri di counseling e riunioni di équipe per riflettere e definire obiettivi comuni, nonché facilitare l’individuazione del ruolo delle varie figure; l’obbiettivo, in particolare, era quello di prevenire o di sciogliere i conflitti.
Ciò che doveva essere filtrato e padroneggiato, però, erano soprattutto quelle forma di conflittualità che potevano compromettere l’esperienza complessiva, creando un clima confuso e sfavorevole.
Ciascuno, a tale scopo, doveva sentirsi co-artefice del processo: quando questo obbiettivo era raggiunto, ciò riduceva in misura rilevante confusioni o contrapposizioni.
La novità dell’esperienza, nata al di fuori di schemi teorici e pregiudizi, e sulla base della semplice lettura dei bisogni, era rappresentata dalla disponibilità psico-affettiva e creativa di ciascuno: io ritenevo che ciò costituisse una dimensione fondamentale della convivenza.
La formazione della sottoscritta sia in ambito della neuropsicologia che della psicodinamica individuale e di gruppo hanno rappresentato gli spessori formativi che hanno guidato la conduzione di tale esperienza.
La consistenza del gruppo era di 6-7 persone nella fase iniziale e di 15-16 persone nei tempi successivi per attestarsi stabilmente ad 8 unità.
Col tempo si è andato a costituire un nucleo stabile del gruppo, intorno al quale avvenivano delle mutazioni.
Questo nucleo stabile ha garantito il formarsi di una cultura di gruppo, ed il tramandarsi di codici di comunicazione condivisi.
Attorno a tale gruppo si è proceduto con molta gradualità all’immissione ed all’uscita di alcuni membri, anche qui ponendo molta attenzione al fattore rappresentato dalla tolleranza (sempre necessaria nei rapporti di gruppo).
Nei primi tempi, la fatica più grande è stata proprio quella di costruire dei codici comunicativi condivisibili, poiché il gruppo, come già detto, poteva paragonarsi ad un gruppo interculturale, in sé fortemente eterogeneo.
L’immagine che infatti emergeva da esso, nella fase iniziale, era proprio quella di un grande caos, o ancor più, utilizzando una immagine biblica, di un’autentica “torre di babele”: nessuno conosceva se stesso né si riconosceva nell’altro, poiché l’altro era percepito come molto diverso da sé; e del resto, anche i “cosiddetti normali” erano percepiti come appartenenti a collettivi etnici diversi, anche se dotati di maggior potere per la loro appartenenza a gruppi socialmente dominanti.
Però, appena il gruppo iniziò a strutturarsi, accadde un primo evento ordinatore, anche se conflittuale: immediatamente iniziarono ad apparire i pronomi “noi” e “voi”, quasi a designare due razze distinte e contrapposte: da un lato quella, inizialmente unitaria, dei “disabili” (sia fisici che mentali), dall’altro, quella dei “non disabili-operatori”.
Il fatto che la percezione che ciascuno aveva di se stesso fosse solo collettiva, e che pertanto risentisse pesantemente di stereotipi, si rivelò inoltre, in particolar modo, nella maniera di fare riferimento alla disabilità: questa veniva spiegata e giustificata attraverso narrazioni che di solito erano le più fantasiose e tendenziose possibili, e per lo più legate a fantasmatici “colpevoli”: questi colpevoli erano, per lo più, i genitori, ma potevano essere anche i sanitari, con i loro “errori”; solo raramente, peraltro, si rilevava una qualche consapevolezza obiettiva del problema, la quale prendesse appena in esame la possibilità di anomalie organiche, di tipo congenito o acquisito, indipendenti da “colpa” o cattiva volontà, sia degli altri che degli stessi disabili.
Proprio chi più negava lo stato di disabilità, peraltro, contraddittoriamente, si disinteressava maggiormente, in termini pratici, ad esso; anzi, per meglio dire, questo tipo di soggetto, “negante” ed insieme rivendicativo, non digeriva affatto la propria condizione, e considerandosi irrimediabilmente svantaggiato e leso nel proprio diritto alla normalità da parte di un colpevole, si riteneva esentato dal compito di darsi da fare per sopperire alla disabilità stessa.
Ciò che apparve però evidente, con lo scorrere del tempo, era come dal caos e dalla contrapposizione iniziali, e con l’aiuto di semplici regole condivise, si potesse iniziare a sperimentare per ciascuno un concreto spazio di espressione del proprio modo di essere, che aiutasse ad affrontare insieme, oltre che il deficit di identità esistenziale, la stessa disabilità.
Quello spazio di ascolto e di condivisione, dunque, iniziava a poco a poco a divenire uno spazio “sicuro”, ed allo stesso tempo una sorta di palcoscenico ove iniziare a raccontare a sé stessi, e progressivamente anche agli altri, alcuni frammenti della propria esperienza, vissuti come unici ed irripetibili.
Questo spazio rappresentativo, però, inizialmente non poté non essere anche una specie di “Muro del Pianto”, ove ciascuno potesse liberare, in senso propriamente catartico, le proprie angosce relative al vivere.
Per alcuni, e più precisamente per quelli che più di altri avevano subito un processo di coartazione, quello spazio di possibile espressione era poi visto con meraviglia, timidezza e paura; un’ospite, in particolare, diceva spesso: “Non posso parlare perché se parlo succedono sempre casini”.
La stessa si riferiva con questa frase alla necessità di ricorrere a forme dissociative nevrotiche, nell’ambito della narrazione delle sue vicende legate alla disabilità. I suoi racconti, in effetti, erano molto fantasiosi e organizzati nella sequenza formale dei fatti e degli avvenimenti che però non corrispondevano ad accadimenti reali ma i contenuti narrativi erano assolutamente congrui ai suoi stati psico-dinamici ed affettivi. L’ospite si sentiva come uno scatolone troppo pieno da tempo, e si riteneva incapace di “parlare” e di svuotare quello scatolone, per paura delle ritorsioni, dovendo ricorrere alla dissociazione per auto-mascherarsi.
Il fatto, insomma, che in quello spazio ciascuno avesse libertà di espressione, e che la specificità di ciascuno divenisse uno degli elementi che lo caratterizzavano, esponeva molto chi prendeva la parola, ed equivaleva, pertanto, quasi alla liberazione del Genio della lampada di Aladino. Per alcuni di loro oltre l’intervento di gruppo si proponeva un percorso di psicoterapia individuale.
In questo caso, per dirla con Lacan, “ciascuno non parlava ma veniva parlato attraverso i propri modi espressivi”: ma l”essere parlati”, in gran parte contro la propria volontà, inchiodava, per così dire, al destino dell’esporsi al giudizio degli altri, ed in particolare, delle altre “etnie”.
Come ogni gruppo strutturato, quindi, anche in questo si erano a poco a poco istituiti alcuni rituali di protezione, ed insieme di incentivazione: al mio arrivo, ad es., tutti si facevano trovare disposti attorno al grande tavolo, ossia allo strumento mediante il quale tutti avevano condiviso le attività di lavoro: uno strumento, quindi, che ormai rappresentava lo spazio che definiva l’ascolto, in quanto prerequisito non per “fare” delle cose, ma semplicemente per poterci “essere”.
L’acquisizione dei posti non era rigida, ma generalmente ciascuno manteneva il proprio, oppure lo mutava solo per gestire al meglio la tolleranza reciproca, o per ricercare approdi più funzionali alle condizioni fisiche ed emotive di ciascuno.
La configurazione degli spazi, dunque, misurava la tollerabilità e la sopportabilità emotiva della vicinanza, oppure della distanza fisica. E considerato quanto per alcuni fosse difficile mantenere il controllo delle emozioni, accadeva a volte che alcuni cambiassero posto durante l’incontro o utilizzassero uno spazio a parte, chiamato “stanza della decantazione”, necessario in caso di crisi, e quando la tollerabilità da parte del gruppo si era saturata.
Il rifugio rappresentato dalla stanza definita “della decantazione” istituiva poi la maggiore distanza possibile dalla cerchia da cui si era appena usciti, ma permetteva allo stesso tempo di continuare a seguire a distanza gli eventi collettivi, senza coinvolgimenti troppo diretti.
L’incontro iniziava di solito col rito dell’accensione del registratore, che era risultato essere molto gradito perché rimarcava la significatività degli ospiti, e dell’incontro stesso.
A me il registratore serviva a leggere meglio ciò che era avvenuto: insomma fungeva sia da “auto-supervisione”, sia allo scopo di ritrovare meglio le fila di quel gran garbuglio: quest’ultimo, però, a me sembrava avere un senso preciso, anche se era difficile coglierlo fin dall’inizio nella dinamica del gruppo; tanto meno era facile riflettere rapidamente sulle cose avvenute, e decodificare l’avvicendarsi rapido dei codici simbolici susseguitisi durante l’incontro.
Questi incontri avevano una frequenza settimanale e una durata di un’ora e mezza.
Chiunque facesse parte del gruppo poteva introdurre degli argomenti, e spesso ciò accadeva passando per un’apparente confusione, che il conduttore, alla fine, restituiva al gruppo, ricollegando fra loro i vari contributi e dando loro un senso per tutti.
Per favorire i soggetti più inibiti e reticenti, ma anche per favorire la gestione ottimale del tempo e per allenare ad una qualche alternanza nel prendere la parola (elemento che era molto difficile cogliere come un valore aggiunto alla comunicazione, e non come un essere defraudato del privilegio dell’attenzione!), si era data la regola che da chiunque partisse lo stimolo iniziale, egli doveva poi interrompersi e consentire che comunque il gruppo proseguisse in successione, dando a ciascuno l’opportunità di esprimersi a turno. Ciascuno veniva poi disincentivato dal fuggire la comunicazione, anche se nessuno era mai obbligato a parlare.
Tale regola era risultata necessaria, in quanto si era frequentemente rilevato come nessuno fosse in grado di esprimersi rispettando tempi e cadenze: spesso poi accadeva che ciascuno ignorasse l’altro, preso com’era dal suo bisogno egocentrico-narcisistico di mostrarsi “unico”. Insomma, si evidenziava facilmente come la maggior parte degli ospiti, inizialmente, fosse incapace di una vera e propria alternanza nella comunicazione, ossia di porsi in un atteggiamento di ascolto.
La capacità di uscire dal proprio egocentrismo primario, quindi, era per tutti molto debole.
I più, infatti, erano avvezzi a rapporti a due, dove era sempre l’altro a dover ascoltare.
Perciò poteva accadere, a volte, che la comunicazione divenisse una mera esibizione, oppure un’autentica gara.
Alcuni, ed in particolare quegli ospiti con esperienze di rapporto più passivizzante, o con una struttura mentale più fragile anche se inconsapevolmente complessa, risultavano spesso imprigionati, più degli altri, in costruzioni verbali o concettuali stereotipizzate.
Per altri, invece, il comunicare rappresentava una sorta di grido, quasi di eco alla voce degli altri: un grido, quindi, rispetto al quale la risposta non era molto importante, perché ciò che importava era piuttosto sentire la propria stessa voce, quasi essa fosse una conferma al proprio esistere. Questa caratteristica era più propria, in particolare, degli oligofrenici gravi.
C’era anche chi a livello verbale teneva tutto chiuso dentro di sé, e comunicava le sue forti emozioni, ad es., facendo a pezzettini degli oggetti; oppure, c’era chi coglieva l’occasione per rappresentare, dandone dimostrazione visiva, la sua inquietudine interiore: ciò, ad es., evidenziando uno scarso controllo motorio, oppure manifestando addirittura uno stato di crisi psico-motoria.
Il mio intervento, allora, era quello di evidenziare la tematica, il vissuto più angoscioso emergente, e di ricollegarlo alle sue manifestazioni più eclatanti; ciò, al fine di riportare alla loro matrice più autentica quegli spezzoni di comunicazione che a prima vista si presentavano come frammenti senza senso apparente, o senza appartenenza ad un filo comune di discorso: in queste forme di comunicazione incompleta, infatti il significato di base, che travalicava tutte le limitazioni funzionali e mentali, risiedeva nell’emozione che poteva essere riconosciuta da tutti, nel “qui ed ora”. Sempre più si veniva a delineare la distinzione principale, nei processi di pensiero e di percezione, che caratterizzava le due principali diversità etniche: le persone con un evidente compromissione mentale da un lato, e quelle con più evidenti compromissioni neurologiche e fisiche dall’altro lato.
Preciso che non era affatto importante la diagnosi per la quale gli ospiti erano stati accolti presso il Centro, bensì il reale e consolidato livello di compromissione funzionale che caratterizzava la persona.
Particolarmente interessante era il fatto che le persone appartenenti all’area che potremmo definire “psicopatologica” risultavano quasi sempre quelle che più facilmente erano capaci di evidenziare i nodi di fondo delle proprie problematiche personali e di quelle collettive, anche se lo facevano con strumenti espressivo-comunicativi differenti: ad es. un linguaggio verbale concreto, conciso, diretto e appropriato, oppure l’uso di un linguaggio parametaforico, di traslazioni, ecc.
Le persone con problematiche meno gravi sul versante psicopatologico erano invece avvezze ad usare un linguaggio più prolisso, più confuso e meno comunicativo, il quale portava facilmente a perdere il filo del discorso ed a passare, per via puramente associativa, da un estremo all’altro di un dato argomento, senza mai riuscire a evidenziarne i punti salienti.
I primi, infatti, erano più in grado di attivare delle selezioni mirate e ben aderenti ai loro stati emozionali, mentre i secondi sembravano più avvezzi ad operare modalità dissociative e di presa di distanza dalle emozioni, che erano tali da farli apparire freddi e colpevolizzanti verso tutto e tutti, con l’eccezione naturalmente di sé stessi.
Col trascorrere del tempo, però, il gruppo prendeva forma e profondità.
I principali temi emergenti riguardavano la “paura dell’abbandono”, “ la morte”, la gelosia, l’invidia, l’insicurezza, il tema dei furti. Come si può vedere, tutte tematiche che avevano a che fare, sul piano formale, con la strutturazione dell’Io, i confini del sé e le relazioni oggettuali, e su quello dei contenuti, con il tema delle separazioni e delle perdite.
Spesso e per molto tempo gli incontri erano pieni di angoscia.
Uno tra i meno decifrabili degli ospiti, ad es., stava gradualmente assumendo il ruolo di colui che prevede le condizioni meteorologico-emozionali del gruppo; egli, esprimendosi col suo linguaggio sintetico e metaforico, spesso diceva “ Oggi piove” per indicare la presenza nel gruppo di un livello critico di tensione.
Le sue previsioni, peraltro, erano sempre giuste.
Un altro soggetto con patologia psichiatrica rimandava anche lui al gruppo il clima che si stava creando, utilizzando però una metafora allo stesso tempo alimentare e sessuale: “ che si mangia oggi? C’è erotica?”
Durante l’incontro quest’ospite informava tutti puntualmente, sempre usando la metafora alimentare, circa gli ingredienti culinari che ciascun componente del gruppo, di volta in volta, si accingeva ad introdurre; ed a volte le abbinate non erano molto armoniche, o appetibili
Tuttavia, così facendo, egli visualizza per gli altri gli ingredienti della “cucina di gruppo”, e fra essi ciascuno poteva ritrovare i propri contributi.
Oltre che a “mangiare”, insomma, si stava imparando a “cucinare”, ed anche a sperimentare l’effetto delle ricette.
Le richieste circa le componenti erotiche, invece, erano rivolte direttamente alla conduttrice.
Cominciava così a farsi avanti, a poco a poco, un’esperienza di Universalità; i partecipanti stavano cioè iniziando a comprendere di non essere soli ad avere i loro problemi e vissuti, ma che le loro condizioni erano condivise dagli altri.
Il campo dell’esperienza di gruppo aveva insomma, piano piano, pervaso le dinamiche intrapsichiche di ciascun membro del gruppo stesso, generando una sintonizzazione dei canali comunicativi di ciascuno sugli altri, attraverso misteriose e subliminali empatie.
Il gruppo, a questo punto, ha iniziato a muoversi su livelli di realtà, e ciò ha spesso favorito:
- Insight genetici (Come si è arrivati ad essere fatti in un certo modo);
- Insight motivazionali ( Perché ci si comporta in un certo modo, nel qui ed ora).
Si è potuto inoltre costatare come il gruppo favorisse nei membri l’apprendimento interpersonale: Ciascuno, usando il proprio canale comunicativo, aveva la possibilità di verificare tramite gli altri, ossia attraverso le risposte che ne riceveva, la comprensibilità dei messaggi che aveva cercato di trasmettere, ed il loro effetto sugli altri.
Se la modalità comunicativa era ritenuta dal gruppo inadeguata, essa poteva ricevere dal gruppo un contenimento o un’elaborazione ulteriore; oppure poteva essere direttamente respinta perché considerata troppo inadeguata, e ciò costringeva la persona a rivedere la propria modalità, cercando di trovarne un’altra più consona alla comunicazione.
Un altro fattore molto importante che si è evidenziato all’interno del gruppo è stato l’instaurarsi di una sorta di processo permanente di catarsi emotiva; in base ad esso i membri, anche quelli più dissociati e più inibiti, di fronte a manifestazioni intense hanno avuto la possibilità di entrare in contatto con sé stessi: ciò risuonando empaticamente con gli altri e sperimentando in interazioni dirette con loro le proprie emozioni e sentimenti. Con ciò essi sono potuti giungere, in modo progressivo, ad un maggiore stato di congruenza interna, intesa nel senso rogersiano del termine.
In riferimento alla eterogeneità del gruppo, posso concludere che la rilevanza maggiore tra le due etnie fondamentali, quella dei disabili fisici e quella dei disabili mentali, sembra risiedere nel diverso modo di affrontare la realtà.
I primi, ossia i disabili fisici, tendono prevalentemente a dissociarsi e a non sopportare la deprivazione di normalità, attribuendo al di fuori della propria dimensione la causa della disabilità: questa allora, prevalentemente, diviene una colpa attribuita alla propria madre, forse colpevole di non essere stata in grado di sopportare, lei per prima, e di non essere stata in grado di filtrare al figlio il dolore della perdita, attivando al contrario dei meccanismi di rifiuto nei confronti del figlio considerato imperfetto.
Questi, allora, non è riuscito a venire a patto con sé stesso e con il mondo, ed a sopportare la ferita che ha causato il suo disagio mentale.
Il buono e il cattivo presente nelle relazioni oggettuali primarie, dunque, non si è potuto mai integrare, e quindi anche l’approccio alla realtà è divenuto “buono” o “cattivo”.
Ciò che è cattivo, in questa situazione, deve essere espulso e non può essere mai integrato, e quindi il male, il dolore, la sofferenza, vengono sempre da fuori; ma soprattutto, da chi ha mancato alla funzione di filtro: la madre, i ladri, il padre, i normali.
E’ dall’esterno di sé, allora, che ci si attende tutto: accettati, respinti, autorizzati a vivere o condannati a morire, e ciò sbocca in un atteggiamento tendente alla dipendenza passiva, che va ben oltre la condizione fisica. In tale condizione diventa impossibile sperare in un qualsiasi sviluppo o crescita, e ad uno svincolo dal “gruppo etnico” di appartenenza.
I secondi, ossia i disabili mentali, sono stati folgorati o pervasi dalla invadenza della realtà, che non ha permesso loro di utilizzare alcun diaframma interno che li proteggesse dal confronto troppo violento con essa. Perciò non se ne possono allontanare, ma la debbono fronteggiare continuamente, ed affrontare una durissima lotta tutta interna, che si svolge tra parti del sé in forte contrasto: una che minaccia di morte a ogni tentativo di partecipazione alla vita, ed una che spinge a non rassegnarsi mai alla paura.
Questa tipologia di ospiti, però, ha estrema chiarezza dei rischi e pericoli, e sa prima degli altri avvertirli; essa, con netta determinazione, li sa enucleare dalle molteplici sfaccettature e oscuramenti del linguaggio e del pensiero “normali”; sa decifrare dal primo boccone se il cibo metaforico è buono o cattivo, e riconoscere l’autenticità dei prodotti.
Con questi ospiti non si può fingere alcunché, o raggirarli, poiché essi sono in costante contatto con il pericolo di morte mentale: e questo consiste nell’essere travolti dalla realtà, senza alcuna capacità di filtrarla.
In definitiva, è proprio la mescolanza di queste due etnie così lontane l’elemento che ha potuto vivificare la convivenze comunitaria, e renderla più varia e fruttifera in ordine ai processi di individualizzazione; esse, infatti, possono scambiarsi l’un l’altra le proprie modalità difensive, ma anche ritrovare nelle loro diversità la possibilità di operare quell’integrazione con il reale che ambedue le etnie non hanno potuto raggiungere da sole.
A tutt’oggi gli incontri col gruppo proseguono: io non avverto alcuna saturazione, mentre sia il gruppo che i suoi membri hanno acquisito una qualità di vita migliore.
Da questa esperienza ho appreso che riabilitare non significa costringere chiunque ad essere un individuo secondo un’idea preconcetta di ciò che un individuo debba essere: inoltre, ho appreso che ciò che più accomuna, al fondo, gli esseri umani, è la paura della morte in senso lato, e tutta la gamma delle emozioni connesse.
Questo è il codice più universale e condivisibile, che opera silenziosamente al di sotto dei codici linguistici più convenzionali. Ma per giungere a scoprire ed a gestire un tale universale codice, occorre per prima cosa transitare attraverso mondi comunicativi più particolari, quali quelli rappresentati dai codici linguistici convenzionali; in altre parole, occorre passare attraverso i mondi delle appartenenze etniche, “normali” e non: questi mondi però, pur essendo molteplici, vanno pazientemente scoperti uno per uno, se davvero si vuole farli comunicare fra di loro in un contesto interculturale.
Ma per conseguire un tale scopo, chi si occupa di rendere gli altri più abili in un percorso di crescita e di adattamento agli ambienti più diversi, deve convincersi preliminarmente di rappresentare lui stesso uno di tali ambienti, anzi l’ambiente principale e primario; il suo compito sarà quindi quello di agire in termini di figura di mediazione, anzi di filtro, tra il soggetto sofferente e l’ambiente a lui esterno (il quale deve essere a sua volta aiutato a decodificare i diversi comportamenti e figure della sofferenza, e le diverse modalità comunicative con cui essa si esprime): solo un tale filtro ed una tale mediazione, in definitiva, potranno rendere possibile un adattamento dignitoso delle etnie della sofferenza rispetto agli indigeni che abitano la banale “normalità” delle nostre città; e lo stile col quale una tale operazione di mediazione e di traduzione sarà compiuta, sarà anche il frutto della creatività di chi opera: quest’ultimo fattore, anzi, costituirà l’elemento decisivo.]


Fa seguito alla relazione il dialogo (r)tra i partecipanti:

La Dr.ssa L. Taborra ringrazia la relatrice per gli spunti e le riflessioni che ha fornito, presentando la sua esperienza gruppale: ciò l’ha indotta a ripensare al gruppo che conduce con il Prof. Pisani, formato da persone che non presentano patologie psichiatriche ma essenzialmente nevrotiche, ma nonostante ciò ha potuto ritrovare nella propria esperienza di gruppoanalisi molti degli aspetti psico-dinamici descritti nella relazione, a partire dalla possibilità di lasciare liberamente la parola ai partecipanti, con l’unico limite di porre dei confini davvero minimi, che poi coincidono con quelli dell’Io. Ciò è tanto più rimarchevole in un gruppo con forte presenza di psicotici, e suscita la sua meraviglia. E’ poi rimasta colpita dalla potenza del linguaggio emozionale espresso dal gruppo, così come raffigurata dalla relatrice, e forse necessaria ad unificare, insieme a patologie molto diverse fra loro, mondi relazionali altrettanto diversi.
Il Prof. R.Pisani si complimenta per il coraggio che la relatrice ha avuto nella propria pratica professionale istituzionale, nel mettere insieme pazienti psicotici gravi, handicappati fisici ed oligofrenici, ossia pazienti che egli, e la stessa relatrice, ben sanno dalla loro esperienza professionale quanto sia difficile mettere insieme, e soprattutto mantenere relativamente uniti. Vorrebbe poi sapere quanti siano i partecipanti del gruppo, quale la frequenza delle sedute e quale la loro durata.
La Dr.ssa G.Sgattoni riferisce che inizialmente è stato difficile mantenere una costanza numerica poiché i partecipanti risultavano essere molto instabili per il loro stato psico-emotivo e per l’eterogeneità delle loro patologie. Inoltre non erano naturalmente abituati a relazionarsi l’un l’altro; nonostante ciò i più manifestavano più un’identità ed un senso di appartenenza prevalentemente collettivi ed istituzionali, quasi “di bandiera”, ma astratti dalla relazione concreta; oppure, quando andava bene, ed esisteva anche un barlume di livello individuale, avevano solo un Falso Sé.
Si andava comunque da un numero massimo di 13-14-persone ad un minimo di 4-5.
Da diversi anni il numero dei partecipanti si è stabilizzato su otto, che risultano invariati da 5-6-anni. La frequenza delle sedute è di una volta a settimana e la loro durata è di circa 90 minuti. La sede è il laboratorio, che è collocato nello stesso quartiere dove hanno sede le abitazioni dei pazienti. Alcuni dei partecipanti condividono anche l’abitazione.
Dal 1994 ad ora tre persone sono stabili, mentre le altre cinque si sono avvicendate con altri ospiti, ed alcuni sono transitati in altri laboratori che non contemplavano però un siffatto lavoro del gruppo di discussione. All’avvicendamento inizialmente partecipavano non solo persone ricoverate, ma anche utenti che vivevano in famiglia e che usufruivano solo dell’inserimento nel laboratorio. Successivamente, per motivi di sovvenzione del progetto ed in ragione della sua finalità riabilitativa specifica, la prestazione è stata erogata solo ai soggetti per i quali c’era un progetto riabilitativo in regime di internato.
Il Prof. R. Pisani chiede quanto duri una seduta, e vuole sapere se gli psicotici riescono a sostenere tutta la sua durata.
La Dr.ssa Sgattoni spiega che i primi tempi era una specie di Babele, e lei faceva uso di un registratore per riesaminare gli eventi e confrontarli con i vissuti. Tali registrazioni venivano anche trascritte da psicologi tirocinanti che avevano il compito di annotare sui loro taccuini ciò che loro stessi percepivano come significativo, e che successivamente sbobinavano dalle registrazioni. Con loro e con tutto il team degli operatori successivamente si discuteva e si tracciavano dei possibili fili di lettura delle dinamiche e dei contenuti espressi nel gruppo.
All’inizio i soggetti più fragili assumevano il compito di manifestare a tutti la “crisi”, sia propria che del gruppo. Per rendere il contesto sopportabile a tutti ed evitare diserzioni si individuò uno spazio nel laboratorio, che veniva definito “ stanza della decantazione”, ove questi pazienti si recavano per qualche tempo, in attesa che il momento critico fosse passato e se la sentissero di ritornare, e ciò è stato molto efficace. Poteva poi anche succedere che alcuni, per lo più fra gli psicotici, mancassero di seguito alcuni incontri (una di loro, ad es., è mancata per l’intero anno lavorativo). Allo stato attuale, però, sono tutti molto stabili, e vivono lo spazio gruppale come uno spazio di elaborazione anche delle loro crisi.
Il Prof. R.Pisani si complimenta e sottolinea come gran parte di questo risultato sia dovuto alla perizia della terapeuta, più che ad una particolare tecnica da lei usata.
La Dott.ssa L.Taborra aggiunge un riferimento alle capacità empatiche che sono certamente indispensabili in esperienze di questo tipo.
La Dr.ssa G.Sgattoni attribuisce il risultato soprattutto alla pazienza e tenacia, non solo sua ma di tutto lo staff degli educatori che le ha reso possibile di continuare l’esperienza, credendo loro stessi nella bontà di una sua proposta certo non facile o “comoda”. E’ capitato, peraltro, che alcuni operatori non abbiano sopportato la fatica, ed abbiano chiesto il trasferimento.
La Dr.ssa A.M. Meoni commenta anzitutto la “filosofia di Capodarco”, in base alla quale ognuno ha diritto di vivere una propria “diversa normalità”, e propone un confronto con la frase di un filosofo, “ognuno ha diritto di avere la felicità che comunque gli spetta”, in base alla quale, se sono un idiota e sono anche felice, va bene così, perché la felicità non ha necessariamente un rapporto stretto con la normalità.
La Dr.ssa Sgattoni sottolinea che comunque, bisogna ricordare che nessuno a Capodarco pensa che la felicità possa essere regalata, perché tutti sanno benissimo che te la devi comunque conquistare, ed a caro prezzo.
La Dr.ssa Meoni invero pensa che, parlando di “diritto alla felicità”, possa insinuarsi il dubbio che se non si è felici, sia comunque colpa di qualcun altro.
La Dr.ssa G. Sgattoni sottolinea che la frase: “Ognuno ha diritto alla propria diversa normalità” rimanda in realtà ad un concetto diverso dalla felicità in sé, anche se collegato con essa, nel senso che: “Ognuno ha diritto ad avere la felicità che gli è possibile, nella situazione concreta della sua diversità”. Il tema, dunque, non è tanto quello della felicità in sé, quanto del diritto ad avere un “proprio territorio, un orto da zappare” a seconda delle proprie risorse e possibilità, per potersi conquistare qualcosa che assomigli, anche molto vagamente, alla felicità di servire a qualcosa, quanto meno a sé stessi.
Il concetto di “normalità”, in questo caso, non serve a molto: esso si rifà alle scienze statistiche ed indica il livello di adattabilità media. La media della normalità è sempre riferita alla tipologia del campione su cui è stata calcolata, e la popolazione di Capodarco costituisce un campione a sé, a sua volta inserito in un particolare quartiere romano che è anch’esso un campione a sé. Ciò vuole dire che non solo le persone disabili sono diverse da quelle non disabili, ma che anche all’interno della disabilità e della stessa normalità troviamo altre diverse forme sia di normalità che di disabilità, ciascuna delle quali si caratterizza per alcuni funzionamenti della mente e del corpo che sono tipicamente suoi. Ogni disabilità, e forse anche ogni normalità, è dunque definibile come una forma particolare di diversità bio-etnica, e va accettata come tale da tutti, in primo luogo dai suoi rappresentanti. Se invece ci si limita ad osservare ed a valutare, ponendosi da un punto di vista esterno ed estraneo a queste bio-diversità, chi si adatta e chi non ce la fa nell’esporsi all’ambiente ed ai suoi stress, non si riesce a fare altro che misurare sconfitte e vittorie, però “astratte” dal sé di ciascun individuo e dalla relazione concreta che egli stabilisce con chi gli sta attorno, cosa che non ha molto significato. Allora l’incapacità diventa una mera selezione naturale, una guerra di tutti contro tutti che non ha nulla di morale né di personale, né alcun rapporto con gli sforzi e la buona volontà che si mettono in campo, o con le finalità che ci si prefiggono: si è come si è e basta, senza luce e senza speranza. Rispetto ad un’ottica di questo tipo, nonostante ogni possibile apertura sociale, occorre dire che chi vi aderisce acriticamente, e quindi si pone principalmente il problema di non rispondere appieno ai modelli socialmente previsti dall’esterno, fatalmente si sente già fuori da ogni contesto, sente di valere meno degli altri, di essere uno scarto.
Il sentirsi isolati o considerati minoranza “tollerata” però, ovviamente, oltre a non dare alcuna sicurezza, fa fuori anche ogni premessa di possibile miglioramento: in tali condizioni non solo non si è felici, ma non si desidera neppure affermare se stessi: insomma, non si esiste neppure come persone e soggetti operativi, e dal nulla, ovviamente, non nasce nulla.
La Dott.sa A.M. Meoni prende atto che si sta parlando di un problema di relazione fra le persone ed il loro ruolo sociale. Parla poi della frequente colpevolizzazione che i disabili riversano sulle loro madri, attribuendo in maniera persecutoria la loro disabilità al fatto di non essere stati voluti dalle madri, e si chiede come questo problema, squisitamente psicologico e psicopatologico, sia affrontato a Capodarco. Ripensa anche alla sua esperienza di medico in Manicomio, ove i disabili psichici e neurologici spesso avevano reparti separati; ove erano differenziati dagli altri ricoverati in quanto “non matti”, però erano ugualmente stigmatizzati, un po’ come le sembra avvenga anche nell’esperienza qui descritta, quella di Capodarco, anche se in forme rese molto più rigide dalla logica istituzionale.
La Dott.ssa G. Sgattoni considera che ciascun essere umano, a Capodarco, abbia il diritto, almeno in teoria, di essere quello che è: quindi, per poter essere se stesso e felice, occorre che l’ambiente in cui vive lo riesca a vedere come un essere umano: ma ciò può accadere solo rispecchiandosi realisticamente, da parte di tutti, operatori in primo luogo, nelle emozioni, nel dolore, nella sofferenza, nel piacere, nella paura degli altri.
Pensa allora che parlare di “felicità” di un individuo non abbia senso se non si favorisce la crescita in lui del senso del sé e della realtà, quindi se non si permette ad un tale individuo di esplorare concretamente il mondo che gli sta davanti: un mondo dove incontrerà certamente rifiuti, sconfitte e frustrazioni, ossia stress che egli non sopporterà di certo, se non viene aiutato da chi il mondo lo sa fronteggiare un po’ più di lui, ed è quindi in grado di fargli distinguere, a poco a poco sempre più chiaramente, ciò che può conquistare da ciò che invece non gli sarà mai possibile avere.
Il limite non va quindi negato, ma piuttosto elaborato, filtrato e digerito: nel suo lavoro con i disabili, dunque, ella considera sempre che ciascuno di loro ha un suo di modo di essere e di agire che va rispettato, che costituisce il punto di partenza del lavoro; però non si deve mai colludere con nessuno di loro nel falsare la realtà; occorre invece aiutare le persone a trovare i modi efficaci per raggiungere ciò che è loro possibile.
Il discorso con gli psicotici richiede poi qualche riflessione in più: principalmente direbbe che a loro va concessa una maggiore tolleranza, e questo risultato di solito, lavorandoci su, viene raggiunto anche dal gruppo nel suo insieme, come una condizione assolutamente necessaria per poter mantenere dei contatti con loro; d’altra parte ciò conviene a tutti, poiché sono proprio gli psicotici quelli che spesso inducono, negli altri membri del gruppo, una reattività più sana perché, attraverso le loro “crisi”, mostrano a tutti come ci si possa sentire quando si è “inondati” da una realtà percepita come ostile (cosa che a tratti può capitare a chiunque), ed anche come ci si senta quando non si può usufruire di filtri, di contenimento e di confini.
La presenza degli psicotici, insomma, induce in maniera impellente ad attivare all’interno del gruppo, ed a far maturare in ciascuno, una qualche funzione di filtro emozionale, ed anche affettivo. Anche quei disabili non psicotici che hanno patito la mancanza di una funzione di filtro affettivo in età infantile, si alleano con gli psicotici nella richiesta di dinamiche protettive: esse hanno lo scopo non solo di compensare una tale carenza affettiva negli psicotici, ma di creare e sviluppare anche per sé stessi questa fondamentale funzione, inducendo tutti i membri del gruppo ad assumere via, via loro stessi un ruolo sempre più improntato al filtro ed al sostegno verso gli altri, quindi ad un modo più realistico di porsi verso i più sofferenti, senza però mai distruggerne i “sogni” e le aspettative. Inoltre quando si è partecipi alle crisi psicotiche che si producono in gruppo, si è successivamente meglio disposti, un po’ tutti quanti, a reazioni vitali individuali, per un semplice effetto del “rispecchiamento”.
In tutti questi anni, osservando questa convivenza di “etnie” diverse, non ha mai visto peggiorare in nessuno la qualità della vita: semmai per alcuni, e più di tutti proprio per gli psicotici con un’esperienza manicomiale, la vita è migliorata, e l’integrazione è divenuta qualcosa di più approssimato alla realtà. Questi malati, in genere, nella comunità dei disabili psicofisici vivono meglio che altrove, anche se hanno spontaneamente ridotto l’esposizione verso contesti meno protetti. Sembra però che chi, come lo psicotico, ha meno risorse per reagire in maniera “sana” agli stress, se può deciderlo lui stesso tende a ridurre le proprie esposizioni spontanee all’ambiente esterno; tuttavia nei suoi atti quotidiani auto-amministrati e nella sua convivenza con i disabili, egli migliora sensibilmente nella qualità della sua vita. Chi in genere starebbe male comincia ad avere crisi meno frequenti, ed anche gli altri membri del gruppo migliorano la qualità delle loro risposte alle crisi psicotiche stesse, riducendo il gradiente di stigma e di difesa dal “diverso” tramite una maggior tolleranza ed una partecipazione più empatica alla vita interiore dei membri del gruppo; e questo un po’ in tutta la vita quotidiana.
Sgattoni chiarisce che quando parla di filtro materno, intende dire che esso non ha nulla di diverso da quello comunemente espresso nelle più comuni relazioni psico-dinamiche familiari: si riferisce all’intervento terapeutico, speso effettuato dagli ospiti stessi, sul costante vacillare delle sicurezze ontologiche di ciascuno, e sul sanguinare delle ferite narcisistiche. I meccanismi compensatori e di mascheramento di tali ferite sono molti e spesso poco sani. La sofferenza maggiore è data ad es., per il figlio disabile, da un vissuto di dipendenza senza fine, e per il suo genitore dal dover considerare il figlio come colui che gli succhia vita e per il quale egli riceve spesso solo commiserazione e compatimento. Il senso di sicurezza e di identità è dunque compromesso per entrambi, ed il figlio veicola al genitore morte ed invasività collettiva, oltre che produrre una ferita narcisistica nella madre ed in tutto il collettivo familiare, mentre il genitore comunica al figlio l’esigenza di conformarsi a standard di efficienza sociale ed il dovere di attenersi a performances prestabilite, che sono spesso assolutamente irrealistici e nocivi.
Questo vale soprattutto per i disabili con evidenti disturbi neuro-motori ed insufficienza mentale.
Il clima comunitario di Capodarco, però, si sforza di porre l’accento sulla persona e non sulla sua patologia.
Quest’ultima si fa comunque sentire, se non altro per la necessità di “assistenza “ che richiede, e che per i più è non solo fisica, ma anche educativa.
Però Capodarco, essenzialmente, non è una Comunità Terapeutica bensì un modo di vivere, e ciascuno vi reagisce, nell’impatto concreto con la vita degli altri, secondo le proprie modalità.
Anche i responsabili hanno partecipato fin dalle origini a questo clima comunitario e democratico, nel quale le classificazioni e le stigmatizzazioni venivano rifiutate anche fra i cosiddetti “normali”: la Bindi, ad es., è stata volontaria a Capodarco così come molti attuali dirigenti, almeno a livello locale, della sinistra, soprattutto marchigiana e romana, hanno fatto la stessa esperienza. Ciò ha trasmesso a molti dei disabili che sono ospiti “storici” presso la Comunità di Capodarco, l’attitudine di strutturare con le città ed i quartieri in cui la comunità stessa si è diffusa, nel Lazio e nelle Marche, un rapporto di “colonizzazione” territoriale e di forte integrazione con i “normali”, e quindi una corrispondente capacità di mescolare le diversità anche al proprio interno.
La Dr.ssa Meoni osserva che la Comunità di Capodarco appartiene a quelle esperienze di stampo basagliano antecedenti alla stessa legge 180, e cioè ispirate all’intento di “mattizzare la società”, ossia restituirle una quota fisiologica di follia, anziché “normalizzare i matti” ed adeguarli agli standard socialmente previsti. La differenza con il passato sta nel fatto che oggi i “matti” non guariti si trovano ormai sparsi in una miriade di realtà, comunitarie e non, ed anche nel fatto che le comunità terapeutiche di ogni tipo hanno sostituito, almeno in Italia, quel Manicomio che non esiste più, nella funzione di nuovi contenitori della follia e della diversità in genere.
Tornando poi al problema della colpevolizzazione, chiarisce come a suo giudizio, a prevalere sulla colpevolizzazione della madre da parte del disabile, ci sia l’auto-colpevolizzazione della madre stessa, la quale costituisce il fattore psico-dinamico primario nella relazione col figlio svantaggiato: un fattore che si riflette su di lui in vari modi, spesso devastanti.
La Dr.ssa Sgattoni, per sottolineare l’esattezza dell’ipotesi della Meoni, ma anche la costante circolarità fra madri e figli disabili, per quanto riguarda il discorso sulla colpa della disabilità stessa, e sui relativi standard sociali di appartenenza, porta l’esempio di una sorda la quale, alla madre che la definiva in maniera edulcorata e “politicamente corretta” come “ipo-udente”, replicava, urlandole con furia, di essere in realtà “sorda”, quindi, implicitamente, di appartenere ad una diversa etnia, del tutto dissonante dalle aspettative materne circa le sue possibili “prestazioni” ed i relativi standard sociali di appartenenza.
Il Dr. Lusetti fa presente come, secondo la sua esperienza pluriennale di primario psichiatra sul “territorio” e di Direttore di SPDC, le cosiddette “Comunità Terapeutico-Riabilitative” siano chiamate, in Italia, ad assolvere una funzione solamente ideologica, del tutto diversa da quello che dovrebbe essere il loro scopo (ossia quello di concentrare sforzi e risorse sulle psicosi giovanili ed esordienti, su particolari “target” curativi riguardanti le patologie del carattere e le doppie diagnosi, i casi particolarmente difficili, i disturbi dell’alimentazione, e simili): sono chiamate perciò a funzioni del tutto improprie ed assolutamente insostenibili nella realtà clinica: quella, in particolare, di sostituire da un lato il manicomio in qualità di contenitori di tutti i casi in vario modo “difficili”, anche sul piano sociale, che non si sa dove collocare, e dall’altro, contraddittoriamente, quella di dover guarire tutti ad ogni costo, in seguito ad un discutibilissimo mandato sociale di tipo “massimalistico” ed ipocrita: quindi, sono chiamate di fatto a dover fingere di trattare, a scopo di “guarigione”, malati gravissimi che, in altri contesti culturali, sarebbero collocati in strutture per cronici o per sub-acuti come un tempo erano i Manicomi; il risultato di ciò è assolutamente paradossale, ed è che una gran parte di questi malati vengono fatti transitare in permanenza fra SPDC, Cliniche private convenzionate (piaga tipicamente laziale) e CTR, strutture che non sono, nessuna di esse, in gradi di trattarli adeguatamente con progetti realistici e completi, e di integrarsi reciprocamente in forma efficace; ma in tal modo questi malati divengono, in taluni casi dei cronici itineranti all’interno di un circuito para-manicomiale allargato, ed in altri, dei malati perennemente sotto stress da prestazione (quindi sempre più violenti ed ingestibili); a fronte di ciò, quei pochissimi casi di integrazione davvero realizzati avvengono, significativamente, ad opera di altri “diversi”, quali appunto i disabili psico-fisici di Capodarco, i quali sanno offrire a questi soggetti particolarmente “fragili” quella protezione che il circuito dei servizi psichiatrici non sa assolutamente offrire: in particolare, un singolarissimo scambio “testa-contro gambe”, che assicura presupposti relativamente egualitari a questa simbiosi.
Si tratta però di un’esperienza “esemplare”, che come sempre in questi casi è solo un bicchiere d’acqua nel mare, mentre la realtà dei servizi resta quello che è: qualcosa di sospeso fra l’offerta più o meno “finta” di un’impossibile guarigione, ed un’altrettanto impossibile richiesta in questo senso, che proviene da un “sociale” e da sue istituzioni sempre più pervaso di negazione della realtà e di sostanziale disinteresse per essa; nella sua carriera ha però sempre constatato come i malati psichiatrici più violenti ed ingestibili siano proprio quelli cui, ad es. da parte dei genitori, viene richiesta a tutti i costi un’impossibile “guarigione”: ma ciò è proprio quello che sta accadendo alla maggioranza dei malati in Italia (o quanto meno nel Lazio), a dispetto di esperienze esemplari ma isolate come quelle di Capodarco. Altre eccezioni esistono (come quella della Comunità del Dr. Aldo Lombardo, che è condotta con criteri molto seri), ma sono appunto delle eccezioni, non certo la regola, né hanno, in base alle linee guida nazionali e regionali, alcuna speranza di generalizzarsi. E’ quindi sinceramente pessimista, dato il clima imperante di ideologia e di malafede, sulla possibilità di una reale integrazione dei malati di mente nel sociale, almeno in una percentuale apprezzabile di casi ed al di fuori di esperienze assolutamente minoritarie ed “esemplari” come quella citata, peraltro in tutto e per tutto encomiabile.
Il Dr. Zipparri evidenzia ciò che più lo ha colpito nella relazione, data anche la sua lunga esperienza manicomiale: il discorso sulla gestione comune del problema della morte, a qualunque etichetta diagnostica essa sia attribuibile. Una morte la cui presenza accomuna, nell’angoscia che trasmette, operatori ed utenti di qualunque struttura a carattere riabilitativo. L’eterna lotta degli operatori all’interno delle strutture psichiatriche, contro la malattia e lo stigma, trova costantemente il suo punto di partenza proprio in quest’angoscia, e nella reazione ad essa.
La Dr.ssa Sgattoni conclude citando il caso di una paziente di provenienza manicomiale, la quale per moltissimo tempo opponeva alla vita “esposta ai rischi” che conduceva in Comunità, quella “protetta” del Manicomio, malgrado gli elettroshock e la violenza delle altre pazienti (una delle quali ricorda ancora con terrore); insomma, l’incertezza di una vita non programmata dall’istituzione e non canalizzata dai suoi riti, quale quella vissuta ormai da molti anni a Capodarco, per un lungo tempo le ha fatto più paura della violenza che si produceva nell’Istituzione manicomiale, anche se, a poco a poco ha imparato ad apprezzare la quota di libertà di cui, malgrado questo prezzo di insicurezza, ora può godere: non è la guarigione, certo, ma ella riconosce finalmente che si tratta di una forma di vita più personale e più degna di essere vissuta.]


Note di redazione:
(r) elaborazione testi da registrazione vocale con revisione della relatrice
(t) testo relazione direttamente fornito dal relatore
Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com


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