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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2007 - 2008

Curare o prendersi Cura

Adriana Caterino
Coordinatore Dr.ssa Giuseppina Colangeli
(t) testo di relazione fornita dal relatore (r) elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani



La coordinatrice dell’incontro, Dr.ssa Giuseppina Colangeli presenta la Sig.ra Adriana Caterino che da 24 anni svolge la sua attività in ambiente ospedaliero come agente socio-sanitario, aiuto infermiere ed ultimamente. come assistente amministrativo. Presenta una relazione dal titolo “CURARE O PRENDERSI CURA”, di cui la relatrice dà lettura.

“Ringrazio innanzitutto il Prof. Pisani che mi conosce da molti anni, e visto il mio interesse per gli argomenti medici e psicologici, in segno di stima e forse anche di provocazione per la mia difficoltà ad espormi in pubblico, ha voluto coinvolgermi ugualmente in questa esperienza invitandomi ad elaborare il tema “CURARE O PRENDERSI CURA”. Ringrazio infinitamente la Dott.ssa Antonella Giordani che, su proposta del Prof. Pisani, mi ha accompagnata in questa ‘ avventura ’ offrendomi sostegno e competenze, collaborando con me alla stesura di questo seminario.
L’idea di affrontare questo argomento nasce da una lunga permanenza a contatto delle realtà e delle dinamiche che coinvolgono i vari ambiti ed i vari attori di quello che è uno dei più grandi nosocomi della nostra città nel quale lavoro da molto tempo.
Sarebbe riduttivo ricondurre le problematiche che vorrei sottolineare solo all’ambiente lavorativo. Spesso, in qualità di cliente/paziente, per me o familiari, nel dovermi avvicinare ad altre strutture pubbliche, mi sono trovata a scontrarmi con carenze ed inefficienze molto simili a quelle riscontrate in ambito lavorativo. C’è poi il mio vissuto personale di questi lunghi anni trascorsi nella realtà ospedaliera che sono stati anni in cui ho stratificato in me una crescente, disincantata, amarezza forse anche in relazione alle mie iniziali aspettative di giovane inesperta, con una visione del mondo ospedaliero e del medico ormai anacronistica, in cui avevo immaginato che il medico, l’infermiere o chiunque svolgesse una professione di aiuto, fosse una sorta di missionario. Persone con una predisposizione particolare, con un indole umanitaria protesa al conforto, che li rendesse in grado di affrontare l’arduo compito di curare, da un punto di vista strettamente strumentale e medico, e nello stesso tempo di accogliere, confortare, in altre parole “prendersi cura”.
In questo incontro, nel ruolo di personale operante nella struttura sanitaria, cercherò di affrontare i due concetti del curare o prendersi cura che non sono per me in contrapposizione, ma dovrebbero ‘fondersi’ in una collaborazione continua, in un interscambio dai confini sfumati in cui sia semplice e naturale curare la persona fisica e nello stesso tempo prendersi cura dei suoi aspetti più intimi e profondi. Prospetterò alcune problematiche che oggi, nel terzo millennio, alimentano e inaspriscono il dibattito ancora aperto tra “curare o prendersi cura” che si concretizza soprattutto nella qualità della comunicazione, sia nella relazione interpersonale tra medico e paziente, sia tra le diverse figure professionali: medici e operatori sanitari. La Medicina si occupa continuamente di tali problemi, ma fatica a districarli, rivelando aspetti contrastanti, talvolta decisamente contraddittori tra letteratura specialistica (conferenze, congressi, meetings..), progresso tecnologico-scientifico da una parte e dall’altra la realtà che, come nel mio caso, quotidianamente si vive nelle strutture sanitarie pubbliche.
Premetto che, in base all’esperienza che ho accumulato sul campo, ho scelto di dare voce soprattutto a ciò di cui sono stata testimone e che ruota intorno alla persona malata: mi si voglia perdonare se in alcuni casi le mie analisi e valutazioni andranno dal tono polemico fino alla esplicita denuncia.
Mi fa piacere pensare che la platea a cui mi sto rivolgendo, sia comunque ‘al di sopra delle parti ’ , in quanto composta essenzialmente da specialisti la cui professione ha per oggetto “la cura dell’anima”.
E non può esserci “cura dell’anima” senza “prendersi cura” delle persone. Il ritrovarsi insieme in questi seminari da ormai molti anni, presuppone già di per sé un voler comunque interrogarsi, mettersi in discussione, un voler andare oltre la conoscenza teorica, i dogmi scientifici, il punto di vista dei cattedratici .
Partirò proprio dalla mia esperienza quotidiana nello svolgersi della relazione medico-paziente in ambiente ospedaliero, riferendomi innanzitutto alla posizione attuale vigente nella sanità pubblica che identifica ormai da tempo, il sistema sanitario come una sorta di fabbrica dove SALUTE equivale a PRODOTTO e MALATO a CLIENTE e dove la scissione tra soggetto MALATO ed oggetto MALATTIA, è resa ancora più insanabile dai vari operatori del settore che rischiano sempre più di identificarsi con il sapere e saper fare, ma non con il saper essere.
Proprio in questo contesto sanitario ho visto emergere la privatizzazione della sofferenza e un dilagante sentimento di solitudine che non permette all’uomo malato di parlare del proprio dolore, dei propri bisogni e necessità, di fronte al quale reputo quanto mai urgente riaffermare la “centralità” della persona, soprattutto quella che soffre, ammalata e quindi vulnerabile e debole.
Ho visto l’attenzione dei professionisti della salute essenzialmente rivolta ad un curare che si esauriva nel gesto medico distaccato e non si occupava della comunicazione coi “pazienti” pronti a subire, accogliere, sopportare (a seconda dei casi e delle fortune), i disagi conseguenti una vicenda di malattia che riguardava il corpo: il suo guastarsi, il perdere per strada il corretto funzionamento, spesso il suo dolore fisico e tangibile. Erano, invece, esseri umani che vivevano intorno all’esperienza del dolore perplessità, dubbi, preoccupazioni non esprimibili, con un notevole carico di emozioni profonde, sentimenti intensi verso la malattia, di cui nessuno si occupava. Lontani dalla loro abituale condizione sociale e familiare, trapiantati in una situazione, quella ospedaliera, del tutto o quasi indifferente, i malati vivevano grandi momenti d’inquietudine, di ansia, paura persino panico. Depersonalizzati fin dal primo momento, vivevano in balia di eventi sconosciuti che non potevano dominare né correggere. Come anche Nietzsche scriveva, “ il malato soffre più dei suoi pensieri che della stessa malattia”. Per il personale medico e paramedico ………era semplicemente arrivato un altro paziente .
Nel tempo, attraverso testimonianze, ho raccolto le voci di pazienti smarriti, spaventati, disorientati a fronte di poche persone dell’ambiente sanitario, pre-disposte a colmare la devastante angoscia di vuoto e di morte che la malattia, la solitudine nella malattia, spesso generano.
Nella mia esperienza ho visto pazienti abbandonati dalle famiglie, genitori ‘dimenticati’ o ‘parcheggiati’ in ospedale dai propri figli, come un bagaglio troppo scomodo e fastidioso ma, con altrettanto fastidio ho visto medici e personale paramedico doversene occupare con forzata attenzione. Ho visto soprattutto pazienti la cui dignità era continuamente lesa, la cui privacy era negata, pazienti snobbati se non rappresentano un tornaconto economico per i medici e percepiti, sempre più, come uno scomodo ingombro da infermieri e sanitari.
Li ho visti vittime persino dei ricatti del personale sanitario: dalle cure igieniche prestate approssimativamente o scientificamente e volutamente in ritardo; da un cibo richiesto e non dato solo per antipatia o perché non abbastanza generosi nell’elargire regali o denaro.
Li ho visti ammutoliti in una sorta di silenziosa e annientante sudditanza di fronte all’inavvicinabile ‘casta’ dei cattedratici.
Ho visto pazienti in stoico silenzio di fronte ad ogni disagio psichico, morale e fisico per paura di possibili ritorsioni: “che poi gli infermieri, la caposala, potessero fargliela pagare”.
Ho visto timidi e coraggiosi temerari ‘ osare ’, semplicemente chiedere e venire zittiti sul nascere con lo stesso sentimento di disgusto con cui si scaccia con la mano una mosca fastidiosa.
Ho visto anche chi non ha avuto timore di denunciare disservizi e malcostume, ma li ho visti spesso vittime di vessazioni varie o nel migliore dei casi, essere apostrofati più o meno apertamente con epiteti non certo decorosi e classificati come scomodi rompiscatole, nel migliore dei casi come pazienti difficili.
In un contesto così disumanizzato, il paziente depersonalizzato, sperimentava un ruolo essenzialmente passivo, era un ‘contenitore da riempire’ e, a conferma dell ’immaginario collettivo diventava solo un numero, una patologia: “Come sta oggi ‘la milza’ ‘il fegato’, il 24 il 13?”. Ciò non toglie che medici e personale sanitario si stessero occupando di loro curandoli, ma di certo non ci si stava prendendo cura di loro.
Come una madre efficiente che accudisce e nutre, nella sua inappuntabile solerzia può essere, a seconda dei casi e delle situazioni sorda o cieca di fronte a bisogni più profondi.
Ritmi di vita pressanti, preoccupazioni, stanchezza, mancanza di consapevolezza, a volte solo distrazione, rendono capace di curare con efficienza, ma non di prendersi cura con efficacia.

E cosa significa in definitiva ”PRENDERSI CURA” ? Prendersi cura significa fondare la relazione medico-paziente guardando l’altro CUM PASSIO, rinunciare alla distinzione tra noi e loro, permettere che l’IO e il TU diventino un NOI, comprendere che l’assistenza, affinchè non sia solo efficiente ma efficace, implica riconoscere l’IDENTITA’ umana e non la diversità, significa CONDIVISIONE, significa passare da una fredda e distaccata sollecitudine all’EMPATIA.
EMPATIA……ecco ciò che fa principalmente la differenza nella relazioni interpersonali, in particolare tra medico-paziente! La disponibilità a facilitare la relazione con l’altro, basata sull’ascolto non valutativo, concentrato sulla comprensione dei sentimenti e dei bisogni di cura dell’altro.
L’empatia è quella capacità, che potremmo dire, ci consente di ‘leggere tra le righe’ di ciò che ci viene raccontato andando oltre quelli che sono i nostri propri schemi di attribuzione di significato. Sapersi calare nell’esperienza emozionale dell’altro, ci consente di provare ciò che l’altro prova, di sentirsi non solo al suo posto ma nella sua pelle.
L’abilità tecnica, separata da queste capacità empatiche che mostrano il lato umano di chi cura, non sa prendersi cura e, pur se sollecita nel paz. un affidarsi incondizionato al medico, può rivelarsi insufficiente e spesso dolorosa. Solo se chi si occupa della persona malata, riesce ad individuare modalità in cui il paz si senta coinvolto e partecipe nell’intero processo, il CURARE può trasformarsi in prendersi CURA ed il cieco affidamento, in RESPONSABILE FIDUCIA.
Nella pratica medica dell’ascolto, l’empatia si manifesta sin dal primo impatto se il medico sa farsi "recettore" di tutto ciò che un paziente "porta", dando attenzione al "terreno globale" emotivo - affettivo - corporeo - sociale in cui "vive" ed è "vissuta" la malattia.. Le capacità empatiche del medico emergono proprio nel riconoscimento di valori e potenzialità, di diritti e doveri, di bisogni e di opportunità, di realtà e di sogni del paziente che, se condivisi ,consentono a chi cura e a chi è curato di non focalizzare l’attenzione solo sulla malattia, ma ampliare il proprio campo visivo ad una visione d’insieme che mette medico e paziente, in grado di incontrarsi ed interagire nella dimensione del rispetto, con il coraggio e l’umiltà del medico di accettare in modo neutrale i modi, tempi, scelte del paziente.
E’quanto dimostrano le esperienze condotte nell’Ospedale di Reggio Emilia, attraverso le “storie di cura” che per brevità posso solo accennare ed eventualmente approfondire durante la discussione.
Negli ultimi anni c’è decisamente una maggiore sensibilizzazione che integra istanze che nascono da bisogni diversi e cerca soluzioni che tengano conto dei vari aspetti della ‘ cura ’. Le tematiche afferenti al concetto di responsabilità professionale di chi svolge professioni di aiuto stanno assumendo un interesse crescente. Ci si muove anche se lentamente, verso un’assistenza globale e personalizzata cercando di ‘ prendersi cura ’ della persona secondo un approccio olistico fino ad ora, in molti casi, poco considerato. La ‘narrazione’ è una delle metodologie di ricerca qualitativa fra le più adatte per riempire quella che può intendersi come ‘eccedenza della clinica’ nell’usuale ricerca medica.
Già da alcuni anni ‘LE STORIE DI CURA” sono strumenti che non solo permettono di guardare con chiarezza nella vita dei malati come gli altri strumenti tecnici permettono di guardare nei loro corpi, ma anche di accogliere e sostenere il legame umano fra paziente e professionista. Quando ci sono volontà , capacità di silenzio e di ascolto, (si può ascoltare solo se si è in silenzio) l’anamnesi , spesso unica occasione di vero incontro tra medico e malato, non è più mutilata .La raccolta della storia clinica, importantissima ai fini della diagnosi, diventa allora uno strumento di recupero di preziosi frammenti di passato, non più un passaggio scomodo da affibbiare agli ultimi arrivati. E se il malato percepisce interesse ed attenzione è incoraggiato a proseguire la comunicazione, ‘regala’ più volentieri e con più chiarezza dettagli ed informazioni relative alla sua personale storia e condizione clinica.
Tramite i “contenuti narrati” si cerca di creare idonei ponti relazionali fra il processo di cura e il vissuto dello stessa persona malata, affinché conservi l’umanità di tutta la propria esperienza di malattia evitando rassegnazione, illusioni o eccessive aspettative, accanimento o tentazioni di abbandono terapeutico. La persona malata potrà sentirsi unica e non solo un caso clinico se scoprirà che anche per il medico è importante quello che si dice, importantissimo come si dice ma di fondamentale importanza è a chi lo si dice.
Ciò non toglie che ciascun malato a seconda che la situazione di malessere faccia apparire in lui particolari aspetti della personalità, ha un modo differente di trattare la propria malattia, l'attenzione che gli viene data e la terapia medica.
Ci sono malati che accettano lucidamente e coraggiosamente la malattia. Si affidano con fiducia al medico ed a tutto il gruppo che lo assiste e lo cura. Ci sono malati che si rassegnano e si arrendono di fronte alla malattia. Ci sono invece malati che per difendersi negano la malattia, rifiutano le cure indicate, criticano e contestano diagnosi che considerano sbagliate. Ci sono malati che addirittura si compiacciono di essere malati, amano la loro malattia forse per i benefici secondari che essa genera (quando in ospedale il paziente gode di coccole, ha spesso visite di amici e familiari, l’attenzione è catalizzata sul suo essere malato).
In ogni situazione va comunque riconosciuto al malato in quanto persona il VALORE e la DIGNITÀ che sono considerati inerenti all’essere umano e che caratterizzano ognuno di noi quale essere unico e differente, con il dovere e il diritto di affermarsi, e realizzarsi in tutta la sua originale pienezza e completezza. Tuttavia quando una persona è colpita dalla malattia, spesso smarrisce il senso della propria dignità e del proprio valore non sentendosi altro che “un malato”.
Le parole malattia e malato, sono certamente quelle che più ricorrono nel linguaggio del medico o del personale sanitario in genere. Il lungo percorso, per esigenze di studio e di apprendimento, li porta ad occuparsi delle malattie, ma in realtà ci si trova ad assistere esseri umani. Sono gli individui malati che rappresentano la realtà da affrontare quotidianamente.
William Osler ( medico canadese umanista dell’inizio del 20° secolo ) diceva “…che è molto più importante sapere quale tipo di malato abbia una malattia che sapere quale malattia abbia un malato”. Non esistono solo malati ma individui malati, ed ogni malato vive e soffre la sua malattia in modo particolare e peculiare. Allo stesso tempo, la malattia non rappresenta solo un evento esclusivamente psicologico, biologico, sociale o economico ma è tutto questo insieme. Non dobbiamo dimenticarci che soprattutto il malato ospedalizzato si trova ad affrontare una situazione di particolare vulnerabilità. Una volta ricoverato egli assume un nuovo ruolo caratterizzato dalla dipendenza, evocata dalla separazione con il suo ambiente familiare, sociale e lavorativo. Di fronte alla malattia, tutto ciò che costituiva il suo’ mondo’ perde bruscamente importanza. La sensazione di essere ‘diverso’,’ di non essere più quello di prima’ si affaccia sempre con più pressione quasi come se egli fosse diventato ‘estraneo a sé stesso’. Questa sensazione di estraneità è alimentata naturalmente dall’ evento patologico che, anche se non provoca dolore, genera comunque ansia e paura. Emozioni, entro certi limiti, del tutto normali se non addirittura positive, ma l’ansia e la paura provocate dalla sofferenza, vengono spesso ampliate dal senso di insicurezza, dall’incertezza circa la natura e l’evoluzione della malattia. Tutto ciò che è oscuro ed incomprensibile genera il più delle volte sgomento e preoccupazione. Il paziente quasi sempre desidera sapere la natura della sua malattia, le cure a cui deve essere sottoposto, l’effetto di queste cure e l’evoluzione della malattia. Un medico che voglia prendersi cura del paziente, può farlo non solo attraverso le attività relazionali di "ascoltare" e "comprendere", che svelano più direttamente il livello emotivo della comunicazione medico-paziente, ma anche tramite lo "spiegare" che definisce il livello informativo della comunicazione. Tutti noi sappiamo che comunicare è qualcosa che va oltre le parole che pronunciamo e che riguarda gli aspetti non verbali della comunicazione. Il modo con cui il medico parla, il tono della sua voce e il trasporto o la tensione che esprime, determinano il modo in cui vengono percepite ed interpretate le sue parole: può essere devastante per i pazienti quanto riesca a “passare” nel contesto della comunicazione anche non verbale del medico o del personale paramedico, in cui automatismi, mimica, gestualità, postura e, soprattutto, non consapevolezza, agiscono e producono nel paziente difese, relazioni angosciose e l’attivarsi o il riproporsi di angosce di morte. Spesso i sentimenti e le azioni possono non coincidere. Come diceva Amleto nell’opera di Shakespeare,”Si può sorridere, sorridere ed essere ostili”. Una comunicazione efficace è, dunque, un valore imprescindibile del curare e soprattutto del prendersi cura.
L’essere umano ammalato e soprattutto non informato, è quasi obbligato ad aggrapparsi al suo passato per difendersi dalla solitudine,dall’apprensione, dall’ansia, dal dubbio che frequentemente lo rendono preda di reazioni depressive quali diretta conseguenza della diminuzione dell'autostima mentre si confronta, attraverso la malattia, con le limitazioni e le debolezze proprie della condizione umana. Nello stesso tempo può essere preda di reazioni regressive. Queste ultime, entro limiti ragionevoli, possono essere anche terapeutiche giacché la regressione implica una più o meno conscia accettazione della malattia e una diminuzione della normale capacità che il paziente possedeva prima della malattia stessa.
E’ un primo passo verso l'assunzione del "ruolo di paziente" che significa, tra le altre cose, permettere a sé stesso di essere aiutato e che ci si prenda cura di lui. Se però il paziente si sente trascurato ed indifeso, può accadere che regredisca quasi allo stato infantile di totale dipendenza, nel quale era alimentato concretamente ed affettivamente. Il malato torna a desiderare una sicurezza primordiale in cui attribuisce al medico il ruolo di un padre che sa e può tutto e l’infermiere/a o la caposala, diventano la madre che consola e ripara ‘ferite’. Non ci si rende conto che questo tipo di regressione di cui in genere il malato non è consapevole, è spesso involontariamente provocata e mantenuta da tutto il personale. Il malato non viene considerato un interlocutore valido, viene quasi totalmente escluso dalla conversazione (si pensi ad esempio al ’ solenne ’ rituale giornaliero della visita in corsia). Egli spesso carpisce le informazioni che lo riguardano dai colloqui tra medici e caposala e spesso lo fa in maniera distorta, senza comprendere. Come un bambino di fronte al padre e alla madre che parlano di ‘cose serie ’ viene tenuto fuori dalla conversazione, anche lui viene escluso da ciò che lo riguarda perché ‘non può comprendere ’ . Ma come dice Gianni Grassi – sociologo e paziente,”… se il medico è competente sulla malattia, il malato è l’unico competente a dire come la vive e soffre, il miglior esperto di sé stesso”. Riconoscendo l’ unicità, peculiarità e potenzialità alla persona, la si può aiutare a canalizzare ed utilizzare queste energie fondamentali per aiutare sé stessa nel processo di guarigione.
Medici, ed in generale tutti coloro che si occupano in qualche modo del malato, che siano in grado anche di prendersi cura, possono veramente fungere quasi da “ansiolitici”, in questo particolare contesto. Possono farlo informandolo correttamente sulla natura della malattia, sul decorso più o meno doloroso che essa potrà avere, sul tipo di indagini da affrontare che non siano solo un nome sconosciuto ed astruso ma qualcosa di accessibile, di comprensibile. Il malato si sentirà sicuramente rassicurato e sentendosi coinvolto e considerato, potrà perfino collaborare con loro nell’accelerare o almeno facilitare il proprio recupero.
Salvaguardando naturalmente le prerogative dei medici, il paziente ha, secondo me, il diritto, sulla base delle informazioni in suo possesso, di essere riconosciuto, ascoltato e di mantenere una propria sfera di decisione di responsabilità in merito alla propria vita e, quindi anche alla propria salute.
.Altro punto d’osservazione del divario tra curare o prendersi cura che affronterò, nell’ottica della ricaduta negativa sulla rete relazionale della struttura ospedaliera., deriva dal tema presentato in uno dei seminari dello scorso anno sui difetti di comunicazione tra le varie figure professionali.
Idealmente, l’attuale orientamento della medicina generale è indirizzato verso una nuova visione del lavoro del medico, in cui anche il ruolo svolto dai gruppi di supporto e che con lui interagiscono, diventi una risorsa sanitaria sempre più rilevante. Sono aumentati notevolmente in molti stati, e nel nostro stesso paese, i laureati in discipline non strettamente mediche e sono state varate leggi che accrescono il loro campo di competenze. Diversi studi hanno presentato un’analisi di una realtà in evoluzione nelle cure ambulatoriali: il ricorso a personale ospedaliero non medico. Sono figure professionali in crescita qualitativa e quantitativa a cui sempre più spesso il paziente si rivolge per consultazioni varie e, soprattutto, per terapie preventive. Parliamo di categorie professionali come quelle del logopedista, fisioterapista, infermieri professionali, ostetriche, assistenti sociali etc. .
Ma spesso, invece di avvalersi dei vantaggi della multidisciplinarità e dimenticando che al paziente non interessa tanto il tipo di figura che lo assiste, quanto che la terapia sia efficace ed incontri le proprie necessità, gli operatori sanitari sono ormai artefici di una scoordinata commedia in cui, appunto, uno dei difetti principali è la scarsissima comunicazione tra gli “attori” .
Nel mio lavoro ho esperienza di questa sorta d’ incomunicabilità tra professionisti: da una parte medici sempre più frettolosi e distratti, spesso dimentichi persino di trascrivere correttamente esami e terapie, dall’altra infermieri sempre più insoddisfatti ed insofferenti che lamentano bassi salari, turni impossibili, scarsa considerazione e riconoscimento per il proprio duro lavoro da parte del personale medico, da parenti e spesso dai pazienti stessi.
La logica del potere (io esisto) e del guadagno sembrano aver ormai preso ineluttabilmente posto di ogni altro aspetto di questo ingranaggio che è la “macchina sanitaria” e che dovrebbe avere come fine ultimo la salute ed il benessere del paziente.
Ho rilevato modi sgarbati, frettolosi, insofferenti persino annoiati da parte di medici sempre più sordi o ciechi di fronte ad ogni segnale o richiesta di aiuto, e di comprensione non solo dei pazienti ospedalizzati, ma anche degli operatori sanitari spesso abbandonati a se stessi e ai propri pensieri, dove le responsabilità sono spesso delegate o scaricate seguendo la gerarchia del potere.
Anche nell’avvicinarsi a servizi che erogano prestazioni ambulatoriali, si sperimenta la scarsa capacità del personale paramedico di prendersi cura dei pazienti, che si ritrovano spesso persi nelle maglie di un’eccessiva burocratizzazione e di insormontabili difficoltà nel prenotare esami, pagare tickets etc. , spesso con modalità poco chiare, con poco e disinformato personale. Indubbiamente il contatto con il pubblico può essere a volte estenuante. Avere a che fare con un’utenza variegata , spesso anche anziana o straniera e quindi con maggiori difficoltà di comprensione, non è decisamente facile. Ma sono ancora troppi ed ingiustificati i casi in cui è la scortesia da parte del personale a farla da padrona: c’è troppa poca consapevolezza che impedisce di ridurre il disagio, la sofferenza e colmare il vuoto che essa crea ampliando il divario tra il curare ed il prendersi cura.
E’ come se un’unica macrostruttura (l’intero Dipartimento ad esempio) sia il prodotto di conflitti di microstrutture che non hanno un collegamento efficace tra di loro, dove la comunicazione è frammentaria e in cui “l’altro” diventa spesso il proprio specchio, dove riflettono ricordi, difese, angosce, pressioni degli affetti.
E’ come se esistesse da una parte una realtà caratterizzata da un grande bisogno di unità simbiotica e senso di appartenenza tra le varie figure professionali e dall’altra una enorme frattura che conduce inevitabilmente a rapporti dettati da sentimenti di competizione, rivalità e rivalsa. Molto spesso la mentalità di alcune operatori sanitari proviene da un tipo di ideologia che li ‘educa ’ a diventare parte dell’”aristocrazia” del lavoro ospedaliero, ad invidiare ed imitare il ruolo dei medici: basta mettersi un camice e la competizione è avviata. Gli schieramenti si dichiarano guerra e quel che è tragico, la conducono sulla testa e sulla pelle dei ricoverati , alcuni di loro già fortemente provati , per dirla con parole del giornalista Tiziano Terzani, dai ’loro giri di giostra ’ nel viaggio terapeutico. (lunghi cicli di chemioterapia e radioterapia con effetti devastanti in termini di dolore e avvilimento. Si è deboli fisicamente e moralmente, perché spesso ‘si sente’ o ‘si sa’ che non ne vale la pena.)

Questo lungo excursus poco edificante nel sistema curante, non è chiaramente da intendersi solo nell’accezione negativa: le dinamiche relazionali sono molteplici e complesse, le personalità variegate e distinte. Ho incontrato curanti splendidi e attenti, personale paramedico accogliente e premuroso, così come ho incontrato pazienti difficili che mettevano a dura prova la mia ed altrui pazienza. Spesso anche i malati possono essere insofferenti, impazienti, ingrati. Nella maggior parte dei casi è il personale socio-sanitario che deve affrontare da solo ondate emotive e diventa il capro espiatorio di tanta disorganizzazione, di carenza ed inefficienze, mentre non si ha il coraggio di reagire e protestare nei confronti di medici e primari. Ma anche nella relazione medico-paziente, ho visto i ruoli spesso ribaltati: pazienti che rivendicano in modo assoluto la loro autonomia e diritto decisionale disconoscendo quasi totalmente il ruolo del medico. Questo ultimo viene visto solo come antagonista su cui riflettere sentimenti di opposizione e aggressività. In questo tipo di relazioni è il medico che, forse assumendo un atteggiamento di difesa rispetto al timore di essere accusato di negligenza, si nega di fatto il diritto di essere imperfetto; si blocca nell’intuizione e in virtù della sua professionalità, demanda e delega a specialisti la richiesta di esami che diventano spesso, misure cautelative.
La medicina diventa sempre più iper tecnologica a discapito nuovamente del prendersi cura autentico. Quando il momento strumentale prende il sopravvento su quello individuale e sopprime il senso della relazione interpersonale, l’avanzamento della tecnologia al servizio del curare, porta ad un’ involuzione clinica e soprattutto umana dove il malato continua ad essere vanificato nella sua solitudine. “ I malati formano un insieme di solitudini poiché non hanno la possibilità di rompere la loro.” ( Géneviève Bourgon – insegnante alla Scuola Intern. di insegnam. Inferm. di Lione)
Molti medici sono disposti a visitare, prescrivere enigmatici esami e sofisticate indagini; pochi, capaci di infondere fiducia e coraggio, offrire spiegazioni e chiarimenti desiderati, sono disposti ad accompagnare il malato ‘prendendolo per mano ’. In questo circolo vizioso, può essere il paziente stesso ad alimentare il sistema richiedendo il trattamento migliore identificato come quello tecnologicamente più avanzato. In ogni caso i progressi della scienza e della tecnica che hanno di fatto portato un enorme apporto alla professione medica rendendo più agevole, sia la diagnosi che la terapia di molte malattie, hanno per contro portato il rischio di distacco del medico dal malato, e viceversa, e la disumanizzazione della Medicina. Esistono limiti al curare, ma non esistono o non dovrebbero esistere limiti al prendersi cura. Per contro “la medicina oggi può forse curare come non mai, ma si può spesso dubitare che si curi di noi” .
In conseguenza dell’analisi fin qui condotta ritengo che l’’integrazione tra l’atto medico del curare che, per assicurare la qualità di diagnosi e di terapie conseguenti, richiede alte e complesse competenze mediche e quello umano del prendersi cura verso il paziente che pretende dal medico qualità umane e maturità emotiva, si possa realizzare innanzitutto nell’ambito della relazione interpersonale tra medico paziente che, agevoli il riconoscimento della persona proprio quando, contraendo una malattia, entra in contatto con la precarietà della condizione umana.
In realtà gli effetti della relazione e della comunicazione sul piano somatico sono enormi: non bisogna dimenticare che spesso l’operatore sanitario in genere, ma soprattutto il medico, hanno un effetto ‘placebo ’ sul paziente. C’è una somatizzazione della comunicazione per cui il medico è vissuto come farmaco, rappresenta lui stesso parte della cura. La stessa relazione medico-paziente è quindi uno degli strumenti fondamentali del prendersi cura che dispone il paziente ad accettare i consigli del medico e ad una generale favorevole collaborazione nell'evoluzione positiva e nel trattamento della malattia.
Mi ripeto, ancora una volta, sottolineando nuovamente l’importanza di dirigersi verso un cambio di mentalità ed un nuovo approccio che metta al centro non la malattia e il curare, ma la persona nel tentativo di prenderne cura, rendendo più umano e meno distante l’incontro tra operatori sanitari e pazienti. Recuperare un rapporto dalle dimensioni umane, è un passo fondamentale per umanizzare la condizione ‘del soffrire ’ e persino ‘del morire ’ . Per far questo, competenza e qualificazioni professionali non sempre bastano. Serve piuttosto, a mio parere, una presa di coscienza matura che vada oltre e che riporti la professione sanitaria ad essere vissuta come “SERVIZIO” fino in fondo .
Forse aiuterebbe fermarsi un attimo a riflettere con il ‘cuore vigile ’ , pensando alla tristezza della persona malata, allo smarrimento dovuti oltre che alla preoccupazione per la propria salute e al dolore fisico, anche alla lontananza dagli affetti e dal proprio ambiente.
Abbiamo visto che tutto ciò crea un stato di profonda angoscia nel paziente ma è difficilmente contenuta anche dagli operatori sanitari, che per proteggersi, ruotano intorno al paziente all’insegna di un’etica della distanza. E’ un atteggiamento distaccato che tutela dall’essere allagato dalla paura e dal dolore del paziente diventando così troppo vulnerabile ed esposto al rischio di burn out o essere divorato da richieste di aiuto e conferme che in realtà non può dare e che lo spingono a celare vulnerabilità e sofferenza dietro ad un camice. Ma il “camice” o “la divisa” dovrebbero perdere per il paziente l’aspetto di indumento che sancisce il distacco e diventare il morbido involucro che riscalda, accoglie, consola e ripara ferite, quelle più profonde dell’anima che una pur perfetta sutura chirurgica non sana; nello stesso tempo per lo staff sanitario dovrebbe attivarsi un nuovo modello di assistenza sanitaria basato sull’utilizzo della rete di comunicazione tra le varie figure professionali , in un’ottica di reciprocità in tutti i sensi, per assicurare autoricarica continua; per sconfiggere o arginare l’esaurimento che una professione così difficile, a contatto con una latente sofferenza, inevitabilmente comporta. In questa ottica circolare, il rapporto empatico, gratificante col paziente, proteggerebbe anche medici e loro collaboratori oltre che dalla vicinanza al dolore e alla sofferenza anche dall’impotenza che i limiti stessi della medicina provocano. Prendersi cura del paziente espone infatti tutti coloro che se ne occupano, al rischio di essere invasi da emozioni inconsce, da angosce che provoca questo tipo di professione, costantemente a contatto con il dolore, la malattia e la morte. Se è vero che nessuno è mai veramente pronto di fronte al lutto e alla morte, lo si è ancor meno nelle professioni sanitarie. I medici, soprattutto i neo laureati, forse per una carente preparazione, sono spesso smarriti al cospetto della morte oppure la fuggono come si fugge l’idea del fallimento, della sconfitta che costringe a ridimensionare l’idea di grandiosità del proprio valore salvifico . Ci si dimentica che invece, spesso la sofferenza più grande di un malato che sta per morire risiede proprio nella solitudine percepita, nell’essere diventata una persona ‘che non si riesce più a guardare ’, pur di allontanare il disagio di fronte all’idea della morte.
E’ certo emotivamente pesante, oltreché difficile, comprendere ed immedesimarsi e quindi tollerare tutte le dinamiche che un percorso di malattia inevitabilmente crea. Sono illuminanti in questo senso molte testimonianze di chi ad un certo punto si è trovato dall’altra parte. Ci sono medici che hanno attraversato l’esperienza della malattia e vissuto l’altro ruolo: i cosiddetti ‘guaritori feriti ’ . Trovandosi improvvisamente dall’altra parte della relazione, essi hanno trovato nella loro malattia un’occasione per interrogarsi, riflettere, per trasformare la sofferenza privata in pubblica ricerca , per rivedere e studiare la comunicazione tra ‘Camici & pigiami’ , dal titolo di un libro di Paolo Cornaglia Ferraris o , come descritto da S. Bartoccioni e F. Sartori, nel libro dal titolo “Dall’Altra Parte” . Anche il giornalista Tiziano Terzani, già in precedenza menzionato, nel suo ultimo libro scriveva : “Il cancro è una sorta di baluardo contro la banalità del quotidiano “.
Insomma bisognerebbe guarire oltre che i malati anche i guaritori. Il British Medical Journal, qualche anno fa, lanciò un’ipotesi di approfondimento aprendo un dibattito dal titolo: “Perché i medici sono tanto infelici?” . La risposta più diffusa è stata la cosiddetta sindrome del criceto, la sensazione di dover correre sempre più in fretta per rimanere fermi, ovvero “la divaricazione tra gli obiettivi per cui i medici sono stati addestrati e ciò che i pazienti si aspettano da loro”.
Per tale motivo prendersi cura del paziente non prescinde dalla cura psicologica del medico stesso come professionista e di conseguenza in relazione con il paziente.
Come un direttore d’orchestra sa individuare e seguire il suono dei singoli strumenti, così il medico e lo staff che con lui collabora, dovrebbero conoscere gli aspetti principali della psiche umana per essere in grado di riconoscere e comprendere il sentire dell’altro e il proprio e di restituirlo, in modo da fornire alla persona e a sé stessi quegli strumenti che consentono di attivare le proprie risorse endogene e di assumere il ruolo di protagonisti cooperanti.
Inevitabilmente emerge l’importanza della formazione in itinere volta a preparare equipes di personale multidisciplinare tramite un costante percorso formativo, non solo dal punto di vista prettamente teorico-scientifico, ma per acquisire e/o arricchire competenze psicologiche specifiche per ogni diverso tipo di operatore. Una formazione che contempli sia basi metodologiche, per conoscere gli aspetti principali della psiche umana, sia un percorso terapeutico individuale e/o di gruppo, che favorisca un lavoro di comprensione della propria personalità, del proprio ruolo professionale e in particolare delle interferenze emotive che intervengono nella relazione con il paziente. Purtroppo ho avuto più volte modo di constatare che alcune strutture di personalità sono una controindicazione a fare l’operatore sociosanitario: alcuni soggetti sono strutturalmente incapaci di svolgere “professioni di aiuto” .
Fortunatamente la psicologia comincia ad entrare nei protocolli di studio delle discipline mediche per colmare quel vuoto di competenze nell’impostare sane relazioni con le persone malate. E’ sicuramente un passo rilevante per riaprire la strada alla realizzazione di rapporti di fiducia e relazioni significative contro la tendenza a ridurre la malattia ai soli suoi aspetti biologici. Un percorso che porterà, mi auguro, anche a raggiungere quel rapporto di ‘corretta intesa ’ con gli altri professionisti con i quali confrontarsi e collaborare nel difficile compito di curare e prendersi cura. Aprire nuove possibilità di alleanza terapeutica al fine di restituire, per quanto possibile, al paziente e alla sua famiglia il ‘senso del futuro ’, la speranza ‘del giorno dopo ’ . Una rete , insomma, di “tante piccole virtù” che escludano la fretta: se si corre , se si ha fretta non si hanno il tempo e gli occhi per vedere la sofferenza; spesso,invece, i pazienti cercano un contatto umano, un atteggiamento di tipo affettivo, cercano qualcuno ‘che li guardi negli occhi ’ .

Vorrei qui riportare il testo di una canzone (realizzato dalla cantautrice Luisa Rossaro) dal titolo “Vede, dottore…” che sintetizza in modo molto toccante alcuni dei concetti che ho tentato di sviluppare in questo seminario:

“Scusi, infermiera/aspetto da due ore,/ non son la sola/ con me c’è almeno una trentina di persone/ tutte col ticket pagato/tutte con la prenotazione,/ io non vorrei sembrarle scortese/ ma ogni minuto, qui dentro sembra un mese.
Signor dottore,/ lei è davvero ben gentile/ a visitarmi/ con tutto quello, tutto quello che ha da fare,/ magari potesse farmi la cortesia/ di chiudere la porta dello studio/ finché son senza, sono senza biancheria.
Vede, anche il dolore/ diventa niente/ in mezzo a questo andirvieni di gente,/ vede, sono io, sono io con il mio male/ questo corpo che lei deve visitare
Grazie dottore,/ è stato molto chiaro/ e il suo ospedale è una struttura efficiente, efficiente e funzionale, /solo che io/ mi sento come una barca nelle onde, / tutti mi parlano/ ma non c’è mai nessuno che davvero mi raggiunge.
Vede, la malattia/ non è un incidente,/ occupa gli angoli più scuri della mente./ Vede, dottore/ dietro i pensieri sciocchi, se si fermasse/ vedrebbe i miei occhi.”

Concludo questa ‘avventura ’ , ringraziando di nuovo il prof. R. Pisani per avermi dato questa opportunità che spero offra utili ed ulteriori spunti di riflessione in noi tutti; ringrazio ancora la dr.ssa A. Giordani per la sua preziosa collaborazione, rimanendo in tema , per ‘ essersi presa cura di me ’ e ringrazio tutti i presenti per l’attenzione concessami.
Termino con un’ultima considerazione dicendo che è ancora tanto quello che resta da fare verso l’integrazione del curare con il prendersi cura, ma a dispetto di pur pessimistiche considerazioni, sull’onda della metafora del concerto, voglio ancora credere di essere capace con gli altri, di individuare il “giusto accordo” per avviare “armonicamente” un nuovo modello di “assistenza sanitaria” che , ponendo la persona malata al centro degli interessi di diverse figure professionali (mediche, infermieristiche, psicologiche ecc.), sappia operare in “sintonia”in un unico staff collaborativo, che, agendo secondo ‘scienza e coscienza ’ , si “prenda cura della sua sofferenza psicofisica rispettando la dignità di essere umano anche e soprattutto nel dolore” affinché basti vedere un camice per……”sentirsi comunque a casa”.


Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti:

La dr.ssa A.M. Meoni definisce la presentazione molto puntuale, attenta, ben descritta. L ’ha stimolata a tutto campo, tanto da dover operare una scelta tra le cose da dire. Un’osservazione le sembra elemento da chiarire in via preliminare prima di affrontare le dinamiche intrapsichiche tra chi cura e chi è curato: il fenomeno nuovo che è la mobizzazione del personale. L’assetto medico di una volta, e quando dice una volta parla del periodo di pre-aziendalizzazione e cioè prima del 1994, vedeva conflitti di potere ben precisi. Quella atmosfera ha dei risvolti letterari relativi alle storie di medici coraggiosi che andavano contro i sistemi di potere per affermare delle novità per il bene dei pazienti in campo sociologico e scientifico. Si riferisce a racconti letterari che descrivevano un certo tipo di conflittualità sociale quali, ad esempio “Per chi suona la campana”. Dal 1994 ad oggi la gerarchia è completamente cambiata e non incide solo l’insicurezza dei nuovi medici, a cui la relatrice ha fatto riferimento.
A. Caterino che, per problemi di tempo, non ha potuto leggere completamente la propria relazione, chiarisce che non si tratta solo d’insicurezza: c’è anche mancanza di preparazione. Da questo punto di vista andrebbe ampliata la formazione in itinere che non può coincidere ed esaurirsi nella formazione accademica. E’ importante la frequenza continua a corsi di aggiornamento e la preparazione psicologica. Fortunatamente la psicologia comincia ad entrare nell’ambito medico quale disciplina da studiare e quindi a preparare il personale nuovo ad essere più attento a certe dinamiche.
La dr.ssa Meoni si riferisce alla propria carriera nella quale ha incontrato molti giovani medici che all’inizio non sanno nulla. Lei stessa il primo giorno in cui è andata in ospedale, aveva in tasca un biglietto con l’indicazione delle cinque iniezioni da fare in caso di dubbio. Così comincia un medico, se è da solo, se invece è in equipe si affida ed impara dagli altri. Il medico giovane è comunque impreparato, per definizione. Oggi pur essendo impreparati anziché le iniezioni, in tasca hanno le linee guida del Ministero della Sanità, ampiamente condivise dal primario di quella struttura dove operano, perché si trovano tutti benissimo nell’applicarle. Lei spiega questa accondiscendenza con la mobizzazione. Non andare incontro alla burocrazia, può determinare risultati drammatici. Questo ambiente di mobizzazione, è la chiave per interpretare tutti i fenomeni alexitimici del personale e del paziente. Anche il paziente si è trasformato per un nefasto processo di divulgazione sanitaria nei mass media: per esempio programma TV “Elisir”. Quando il paziente arriva alla consultazione con il medico, ritiene di sapere cosa ha perché l’ha sentito in televisione. La Meoni descrive la situazione altamente imbarazzante tra il paziente, che già sa cosa ha e il medico che sa che gli deve dire che ha la cosa che hanno detto le linee guida del ministero della sanità: scoppia uno strano conflitto, che non è neppure un conflitto bensì un dialogo tra sordi. Si arriva a una relazione paradossale di falso sé, che è difficilissimo analizzare secondo i canoni classici dal punto di vista psicologico, psicoanalitico e sociologico, perché è un fenomeno completamente nuovo.
Il fenomeno antico è stato recentemente espresso dalla Marchesini che, intervenuta alla trasmissione “Che tempo che fa”, ha raccontato dell’ educazione ricevuta nel suo paese d’origine, a cultura contadina, dove i bambini venivano portati tutte le domeniche a trovare le persone ricoverate in ospedale, perché faceva bene e così si cresceva. In questa dimensione, vissuta da bambina, descrive la situazione dei ruoli tipici che restano anche nella malattia. Quando andava nel reparto maschile, insieme a sua madre, a sua sorella e alla moglie del malato, assisteva a questa scena: appena si arrivava in corsia, c’era chi lo accudiva; chi gli rimboccava le coperte; chi gli dava da mangiare; gli ponevano domande: se fosse passato il dottore e cosa gli avesse detto. Se invece andavano a trovare una donna ricoverata in corsia, nessuno si occupava di lei. Il marito stava in fondo al letto, in silenzio, fino a quando questa mezza moribonda , sdraiata sui cuscini cominciava a dare direttive, dicendo” hai chiamato tizio per sistemare.. imbiancare.. hai fatto questo… questo altro..”. La Marchesini ha descritto, in modo mirabile, la situazione nell’ambito di una corsia di ospedale nella quale, nonostante la malattia, i problemi sociali e le distinzioni dei ruoli permangono, come se la malattia non esistesse. Oggi questo è sparito completamente: il bambino non viene più portato in ospedale incontro alla malattia.
A. Caterino si richiama alla paura della morte. I bambini possono vedere cose terribili,a livello di giochi, videogiochi, ma vengono tenuti al riparo della sofferenza e della morte.
La dr.ssa Meoni evidenzia che questi bambini sono i medici che entrano adesso: hanno studiato anatomia patologica, ma la malattia vera, la morte vera, la sofferenza di contesto familiare, non l’hanno mai vista nella vita e quindi non sanno provare empatia nel momento in cui, indossando un camice di reparto incontrano queste realtà nella loro autentica espressione, sempre che siano liberi da eventuale situazione di mobbing, che annichilisce le capacità di provare empatia quando possibili.
A. Caterino non pensa dipenda solo da questi aspetti. In base alla propria esperienza, e quindi ad una visione soggettiva, reputa che esistano molte altre dinamiche che ha cercato di affrontare nella relazione.
La dr.ssa L. Di Gennaro si complimenta per la proprietà espositiva e chiede quale sia il sostegno che viene dato ad un infermiere, in un lavoro così faticoso ed estenuante.
A. Caterino risponde che praticamente è inesistente; viene demandato alle virtù personali di coloro che s’incontrano:clinici, medici che hanno rispetto sia per i pazienti, sia per il personale che lavora con loro. Ribadisce che riporta la propria esperienza personale e che non vuole generalizzare. Ha esposto soprattutto l’aspetto negativo, ma ha anche visto realtà ospedaliere che dal punto di vista del prendersi cura, erano accoglienti e molte efficienti. Sottolinea l’estensione ampia della realtà ospedaliera.
La dr.ssa Di Gennaro pone il problema di chi si prende cura dell’infermiere o del medico, dopo che si sono presi cura del malato.
A. Caterino sottolinea che il problema è come guarire i guaritori.
La dr.ssa Di Gennaro specifica che non si tratta tanto di guarire, quanto di sostenerli nello svolgimento di un lavoro molto pesante.
A. Caterino reputa che una risorsa in questo senso, provenga dalla gratificazione personale che si ricava, nel prestare un servizio, dal beneficio connesso all’essere utile a qualcuno e questo indipendentemente dall’indagare poi perché ci si assuma questo ruolo.

La dr.ssa G. Sgattoni nei commenti alla relazione, è stata colpita dal collegamento tra malato attuale e malato di un tempo, da cui emerge che ogni evento sociale che accade ad un essere umano, riflette il contesto in cui egli vive e quindi la funzione della rete familiare. Adesso si parla di rete, prima si parlava di legami familiari anche ritualizzati e che comunque rimarcavano ruoli e funzioni chiari. Le sembra che la realtà in cui viviamo, sia una realtà dove la solitudine è la sofferenza maggiore; di conseguenza uno dei modi per affrontare l’angoscia, legata alla malattia, è nel non sentirsi soli, vedersi tutti uniti. Così era nei riti funebri antichi, per tollerare un evento così angoscioso. Pensa al film “Sogni”di Kurosawa dove l’evento della morte, il funerale viene vissuto come una danza felice, perché non si è soli. Tutta questa narrazione ha messo in risalto il senso di anomia, di solitudine, di mancanza del senso di sé, ma anche questo rito di non comunicare e il trincerarsi dietro le classificazioni, quindi le linee guida, a discapito dell’empatia.
Per la dr.ssa Sgattoni si può essere empatici se ciò che arriva può essere filtrato. Il filtraggio degli aspetti angosciosi, necessitano di una formazione per decodificare la malattia, serve la capacità individuale, ma anche della rete. Ricorda che un tempo il medico curante era definito il medico di famiglia ed era incluso nel contesto familiare; poi invece è comparso il medico della mutua, ben rappresentato nel film di Sordi, e il dolore è diventato elemento di commercializzazione, che è stato un modo per negare il tema della morte. Le sembra importante questo collegamento, proposto dalla dr.ssa Meoni, anche perché non si può vedere tutto nell’ottica della preparazione. Si chiede in cosa consista la preparazione. Chiunque alle prime armi, ha sperimentato che c’è qualcosa che non si studia, ma che è frutto di esperienze di vita, di come ha vissuto, filtrato e imparato a filtrare la sofferenza e la morte; di come, all’interno di un contesto, si possa rivivere questa rete che filtra, senza delegare, altrimenti si finisce per fare il gioco dell’uomo nero, dove si spera che qualcuno se lo prenda. I meccanismi definiti sono il segno di qualcosa non filtrabile, da cui è meglio allontanarsi. Conclude affermando che è mutato proprio il sistema sociale.
A. Caterino sottolinea un’altra differenza, notata nel corso degli anni, che riguarda la separazione tra medici universitari ed ospedalieri. Questi ultimi meglio rappresentavano il vecchio medico di una volta poi, trasferiti altrove, sono scomparsi dal policlinico. Oggi la maggior parte dei medici rappresentano la realtà universitaria, della ricerca, della didattica che, seppur necessaria, perché le cose si imparano sul campo, ha aumentato questa distanza e ha tralasciato l’aspetto che i medici ospedalieri ancora mantenevano.
Il dr. S. Zipparri chiede alla relatrice se nella sua esperienza si sia confrontata con reparti differenti, cioè che curano patologie differenti e se abbia notato anche delle differenze rispetto al contesto nel quale si è trovata a lavorare. Si riferisce ad esempio a due estremi: un reparto oncologico che rappresenta una frustrazione immensa e un reparto maternità che, pur non avendo fatto nessuna delle due esperienze, è anche nel senso comune, un contesto che differenzia il tipo di reparto.
A. Caterino, che ha trascorso gli ultimi 15 anni in clinica ostetrica, ribadisce che non può parlare di una categoria, ad esempio le ostetriche, perché l’atteggiamento è demandato alle particolari attitudini e “virtù” delle singole persone. Così, accanto a ostetriche poco attente, ne ha incontrate altre molto impegnate soprattutto in questi ultimi anni, per quanto riguarda l’assistenza alle madri che accompagnavano in questo percorso. Ha notato una particolare attenzione per le donne straniere. Con molte di loro c’è diversità nell’affrontare la maternità poiché determinate società non vivono questo evento come una malattia; lei ha visto un’attenzione offerta a queste donne, con corsi di preparazione al parto tenuti nella stessa scuola delle ostetriche, presente al policlinico, in cui certi temi che richiamavano l’attenzione alla persona, erano molto presi in considerazione. Le maggiori carenze le ha invece constatate negli ambulatori dove il contatto si risolveva nell’indagine strumentale frettolosa. Ha osservato come l’assenza di spiegazioni, susciti molta ansia nelle pazienti che, accompagnate, non sapevano a quale esame dovessero sottoporsi, né perché. Una sorta di catena di montaggio. Altro reparto in cui ha riscontrato maggiore attenzione, è geriatria dove ha incontrato medici più disponibili al contatto con pazienti particolari e più presenti nell’accoglierli.
Il dr. V. Lusetti chiede quale differenza ci sia tra un reparto di psichiatria e gli altri
reparti, in quanto l’argomento non è stato toccato.
A. Caterino specifica di aver dato per scontato che c’è una differenza sostanziale.
Il dr. Lusetti, rispetto al tema del seminario “Curare o prendersi cura”, riflette che il paziente psichiatrico grave, è un paziente paradossale: da un lato è il massimo della negazione della malattia; è un paziente molto difficile che non collabora. Per altri versi però paradossalmente, attraverso metafore deliranti e la sua aggressività, si propone come persona. Nella sua esperienza quadriennale presso il reparto psichiatrico(SPDC) proprio perché il paziente psichiatrico ha queste caratteristiche non è che non si incontrino le stesse difficoltà: gli stessi profili caratterologici nel personale rispetto ad altre situazioni di malattia. Anche l’infermiere psichiatrico è un infermiere come tutti gli altri. Per i medici è un po’ diverso, ma l’infermiere non arriva nel reparto psichiatrico, per vocazione. Gli atteggiamenti che il personale può avere nei confronti del paziente psichiatrico sono quelli di tenere il paziente a distanza. Da un lato il paziente psichiatrico stesso non te lo consente, dall’altro lato c’è un maturarsi di strategie nell’equipe per cui le persone più disponibili, in qualche modo, vengono incastrate; le persone meno disponibili è come se si nascondessero nel gregge; si infilano nelle retrovie. Con un paziente psichiatrico queste strategie funzionano, almeno che non sia un cattereopatico o un disturbo di personalità, che non perdonano niente; col paziente psicotico invece se qualcuno si fa avanti, permette che gli altri restino indietro. Questo meccanismo compensa. Ci sono sicuramente reparti di psichiatria migliori, altri peggiori, però c’è una compensazione per questo meccanismo omeostatico. Chiede se abbia avuto esperienza in questo ambito.
A. Caterino chiarisce che ha lavorato alla neuro, ma nell’amministrazione e non in contatto con i pazienti.
Il prof. Pisani si complimenta per la relazione e propone delle riflessioni. In merito al rapporto medico, personale sanitario e pazienti non dovremmo tener in conto solo degli aspetti di tipo oggettivi, quali la mancanza di cura, ma anche cercare di capire le motivazioni ad un livello più profondo. Fermo restando che il giovane medico, ma anche quelli meno giovani, arriva con il manuale del Ministero della Sanità, occorre pensare alla motivazione, dei medici come del personale sanitario di assistenza. Noi sappiamo che medici, psichiatri, ma anche infermieri, fanno questo lavoro quasi per esorcizzare malattia, morte, vecchiaia. Questa esorcizzazione può innescare il meccanismo della materializzazione, della razionalizzazione, della tecnicizzazione, della teorizzazione. Questo è un meccanismo di difesa dei medici e del personale, per tenere a bada il problema fondamentale per cui operano in questo settore: la fobia della malattia, della vecchiaia e della morte. In un ottica analitica questa triade ha a che fare con delle angosce profonde: l’angoscia di castrazione, di separazione. La ferita narcisistica: chi è malato ha perciò perduto completamente il senso di onnipotenza che accompagna tutti, compresi i medici. Il malato è lo specchio del medico.
Il dr. M. Cecinelli evidenzia che la relatrice, trovandosi da molto tempo al Policlinico, avrà senza meno vissuto l’aziendalizzazione e quindi la produttività anche della malattia che ha generato un contesto in cui l’empatia scompare.
A. Caterino si rifà a quanto detto nella relazione: la salute equivale a prodotto; il malato a cliente.
Per il dr. Cecinelli, prima si poteva lavorare con più tranquillità, avevi un attimo di più per parlare col paziente,tranquillizzarlo. Oggi è come una catena di montaggio: c’è il budget da raggiungere, altrimenti chiude il servizio. Questa è mobizzazione e non è possibile lavorare bene in questi contesti.
A. Caterino sottolinea che il guadagno è rapportato in percentuale, alle prestazioni erogate.
La dr.ssa Meoni evidenzia che l’ aziendalizzazione è avvenuta nel ‘94, con il governo Berlusconi. C’è stato comunque un cambiamento per il quale, quando ha iniziato a lavorare, le hanno spiegato che doveva essere brava e perbene, poi, ad un certo punto, le hanno spiegato che doveva essere abile e furba.
Il dr. D. Surianello, dopo essersi complimentato per la relazione, dice che manca dal policlinico dal ‘93, ma che ha lasciato un ambiente completamente diverso. Si chiede se la responsabilità del cambiamento sia della riforma sanitaria, quindi politica; della scarsa preparazione a livello medico e paramedico; della scarsa organizzazione a livello della direzione sanitaria. Si chiede da dove provenga questo deficit nei confronti dell’assistenza, questa mancanza di empatia, anche se l’empatia è qualcosa che si sviluppa all’interno di un rapporto. Lui ha un paziente che va a vedere periodicamente per conto dello INPS. Abita al quinto piano :se vede lui, con cui ha stabilito un rapporto empatico, lo fa salire; se arriva qualche altro, con cui ha scarsa empatia, non risponde per niente; a qualche altro tira un secchio d’acqua. Chiede alle relatrice se, in base alla sua esperienza, attribuisca il deficit all’università o alla direzione sanitaria del policlinico.
A.Caterino reputa che siano un insieme di fattori a determinare la situazione:carenze organizzative, di annosa discussione per quanto riguarda l’azienda, quindi deficit economico dovuto a gestioni disastrose. Purtroppo gli scandali che sentiamo in TV, corrispondono a cose realmente accadute. Ormai la situazione è talmente incancrenita, che è difficile individuare la possibilità di risollevarla. Le carenze a livello organizzativo si vanno inevitabilmente a ripercuotere sulla qualità dell’assistenza erogata ai pazienti, sia da parte dei medici che, come è stato detto, debbono seguire le linee guida, sia per il personale che è costretto a svolgere un lavoro pesante in sottonumero, in contatto con persone malate, spesso con la morte. I fattori contingenti non aiutano a favorire questa predisposizione che, secondo lei, è in parte innata. Non si può imparare sui libri ad aiutare chi soffre; a capire i vari processi e le dinamiche psicologiche di fondo che scaturiscono nei rapporti con malati. Questa predisposizione ad interagire con gli altri c’ è o non c’è, ma non si impara, forse si può solo sollecitare a porre un’attenzione maggiore.
Il dr. Surianello fa presente che si è espresso allo stesso modo anche Fabrizio Guglielmi evidenziando un certo abbandono e la mancanza di considerazione da parte della struttura ospedaliera e politica.
La fisioterapista E. Cerignoli evidenzia una crisi profonda di valori spirituali: viviamo in un momento storico in cui siamo lontani dalla nostra anima. A livello politico, sociale si è perso il senso della comunanza tra esseri umani e questo a prescindere dalla destra o la sinistra, perché sono valori universali. Lei si trova qua ed è contenta di frequentare il Prof. Pisani e questo gruppo, perché ritrova questi valori, che va cercando e che avverte quale nutrimento profondo per l’anima. Sa che quello che sta dicendo, è scontato e ovvio, ma ribadisce la mancanza di ciò che determina la coesione tra le persone e della persona rispetto a quello che la circonda.]


Note di redazione:
(d) testi dialogo da registrazione vocale a cura di Antonella Giordani (t) testo relazione direttamente fornito dal relatore con il supporto di Antonella Giordani.
Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com


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