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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2006 - 2007

Fenomenologia dell’accoglienza, aspetti relazionali ed implicazioni terapeutiche

Prof. Fabio Mura
Coordinatore Dr.ssa Anna Maria Meoni
(t) testo di relazione fornita dal relatore (r) elaborazione testi dialogo a cura Dr.ssa Antonella Giordani



La coordinatrice dell’incontro, Dr.ssa Meoni, presenta il Prof. Mura che, docente di psichiatria presso l’Università di Sassari, attualmente in pensione da qualche anno, può vantare una lunga esperienza clinica universitaria, prima in Clinica Neurologica e successivamente in Clinica Psichiatrica e un ruolo prestigioso di insegnamento in cattedra e di attività di ricerca scientifica. Come psichiatra e psicoterapeuta ha un’impostazione fenomenologica; da tempo si interessa alla gruppoanalisi che ha inserito tra le attività di consulenza e di formazione nell’ambito delle istituzioni scolastiche essendo stato direttore della Scuola di Specializzazione per la formazione degli Insegnanti della Scuola Secondaria (S.S.I.S.S.).

Il Prof. Mura -dice la Meoni- parlerà questa sera degli aspetti dell’accoglienza del malato sotto il profilo strettamente psicoterapeutico e discuterà in particolare gli aspetti dello spazio e del tempo nel setting terapeutico, per discuterli con noi.

Ringraziato per aver accettato l’invito, il Prof. Mura ricambia e sottolinea che conosce il Prof. Pisani da qualche decennio ed è capitato più volte di aver collaborato con lui in ambito formativo; ricorda ad esempio quando Pisani è stato ospite presso l’Università di Sassari e hanno lavorato insieme applicando la metodica del median-group con gli studenti della Facoltà di Medicina con gli insegnanti di alcune scuole della città. Ringrazia i presenti, venuti per ascoltarlo e il Prof. Pisani, con il quale ha oggi ancora una volta il piacere di confrontarsi su argomenti che hanno più volte dibattuto insieme, quale per esempio la problematica dell’incontro e in particolare dell’accoglienza del malto di cui parlerà questa sera.

(t) [ “Fenomenologia dell’accoglienza, aspetti relazionali ed implicazioni terapeutiche.”

Premessa

Non vi nascondo che l'invito del prof. Pisani a partecipare anche quest'anno, come già altre volte in passato, al ciclo di seminari che ogni anno organizza, ormai da qualche lustro, qui a Roma, mi onora ma anche mi commuove perché non solo testimonia l'amicizia che ci lega ma è il segno che Rocco ha ancora il piacere di starmi ad ascoltare e a discutere insieme argomenti che hanno costituito per tanti anni comune interesse ed occasione d'incontro.

Ed il tema che quest'oggi vorrei trattare è proprio quello dell'incontro, ovviamente fra persone, e specificamente un aspetto particolare dell'incontro, quello dell'accoglienza che l'una persona riserva all'altra. Questo tema s'innesta in un filone che la psicopatologia, in particolare quella di scuola fenomenologica, ha da parecchi anni portato all'attenzione sia degli psichiatri che degli psicologi, in particolare di coloro che operano in ambito psicoterapeutico.

E' passato ormai qualche anno da quando Bruno Callieri, ad un convegno organizzato dal Centro Studi Fenomenologici all'Università di Sassari, apriva il suo intervento sul tema dell'incontro con la persona delirante affermando che " la presenza del soggetto delirante ci ostende in molte e diverse modalità che sembrano precludere radicalmente - sono sue parole – il coesistere con l 'altro e, quindi, vanificare ogni possibilità di incontro con esso", e dava corpo a questa affermazione argomentando che lo psicotico delirante non manca certo di argomenti in grado di comunicarci la sua situazione di sofferenza o di disagio col suo particolarissimo modo di essere nel mondo e di porsi in relazione agli altri, ma il linguaggio da. lui adottato si preclude al dialogo, al colloquio, a quel comune sentire e valutare che è mediato da domande e risposte in aderenza alla realtà.; per cui tutto si riduce ad un monologo che vanifica ogni possibilità di compartecipazione, di coesistenza, di rapporto dialogico. Pur facendo riferimento alle sindromi deliranti Callieri lasciava intendere che anche in altri tipi di patologia si manifesta con frequenza una difettiva co-presenza, tale da farci percepire i1 paziente come privo di quell'apertura al mondo umano comune, a quel comune modo di sentire e di agire che permette i1 compiersi reale dell'incontro; e citava Danilo Cargnello quando affermava: " è proprio in questa prospettiva che la psichiatria può essere intesa come una scienza di distorti, falliti, impossibili incontri”. Ma l'obiettivo di questa scienza, la psichiatria, è proprio quello di rendere possibile 1'impossibile, e non alimentando l'utopia (ad esempio quella di cambiare il mondo col sovvertire le categorie della logica o dell'etica) bensì accettando l'alterità umana nelle sue molteplici componenti, comprese quelle più aliene e socialmente inquietanti; ed è proprio questa modalità dell'accettazione “sine condicione” che costituisce il presupposto fondamentale della terapia: come posso, infatti, io medico curare i tuoi mali, accostarmi alla tua sofferenza se non 1'accetto per le modalità con cui si manifesta? Come posso io psichiatra venire incontro al tuo disagio nel tentativo di attenuarlo se non cerco in ogni modo di comprenderlo? E come posso comprenderti se non ti accolgo, se non accolgo i1 tuo modo di essere nel mio, pur se questo mio modo è intenzionalmente orientato, e per l'occasione specificamente rivolto alla tua cura?

L'accoglienza dell'altro (paziente o pazienti) costituisce quindi nel contesto terapeutico, in particolare in quello psicoterapeutico, un elemento d'importanza prioritaria meritevole di una riflessione che vorrei focalizzare, nel limitato tempo a nostra disposizione, su alcuni aspetti.

Un primo aspetto è quello del senso che si dà all'accoglienza.

Dovremmo chiederci, intanto, cosa s'intende per senso d'accoglienza: è la modalità usata nell' accogliersi o, piuttosto, l'interpretazione che ciascuno, l'accogliente e l'accolto, danno a quella modalità?

E se il senso dell'accoglienza (offerta o ricevuta) coincide col vissuto che ognuno ha di essa, allora l'attenzione va necessariamente rivolta ai parametri di valutazione messi in campo per definire quella stessa circostanza relazionale nel momento in cui si realizza; appare evidente, in tale prospettiva, che gli aggettivi comunemente usati per definire il modo d'accogliere come caldo, freddo, incoraggiante, distaccato, curioso, attento, distratto, entusiastico oppure gelido, o, semplicemente, buono o cattivo sono adeguati solo se rapportati alla condizione emotiva ed al peculiare, personale sentire dei protagonisti di quell'incontro; un sentire che si traduce nella percezione dell'altro, l’interlocutore, non solo per quello che è ma anche per ciò che rappresenta del contesto da cui proviene.

I padri fondatori dell'analisi gruppale, basti ricordare per tutti Foulkes, fanno riferimento al concetto di matrice di gruppo, ovvero a quella rete d'interazione per cui 1'equilibrio di ognuno ( e quindi la percezione del contesto che lo sostiene) è interdipendente da quello di coloro che costituiscono tale rete. Pisani ci ricorda, nei suoi saggi di gruppoanalisi, come sia importante tener conto del fattore "matrice", in particolare della " matrice di base” costituita dal patrimonio biologico e culturale che ciascun individuo eredita dal proprio ambiente di provenienza (genitori, famiglia, comunità sociale) e sviluppa nel corso della vita come esperienza di relazione e che, introiettata e rielaborata, viene rimessa in gioco ad ogni nuovo incontro con l'altro. Il senso che ognuno dà all'accoglienza e che dell'accoglienza percepisce è quindi inevitabilmente condizionato da quel terreno di provenienza che preesiste all'interazione del momento e tende ad orientarne il percorso.

Un supporto che può rivelarsi di grande utilità per smorzare gli effetti condizionanti della matrice (quelli che ostacolano o che facilitano pregiudizialmente 1'accoglienza) dandole maggiore respiro, è costituito dall'empatia, ovvero da quella immedesimazione nell’altro che consente di sentire così come l'altro sente e che facilita la comprensione del mondo nel quale questo è immerso.

Non andrebbe mai scordato che la fiducia del paziente nel terapeuta nasce dalla sensazione d'essere compreso e che tale sensazione (o sentimento) è dovuta principalmente alla capacità, attribuita al terapeuta, di sentire in modo analogo al proprio, e quindi di cogliere e portare dentro di sé (einfuhren), per sanarla, la profondità e la drammaticità della propria sofferenza.


Un secondo aspetto riguarda il tempo dell'accoglienza.

Non mi soffermerò più di tanto sulla distinzione tra la componente qualitativa e quella quantitativa, della quale peraltro bisogna tener conto, nell'approccio alla problematica dell'incontro.

Mi limito a ricordare come, nelle diverse fasi della vita ed a seconda delle situazioni, sia la qualità del tempo (espressa in termini di intensità affettiva) sia la quantità (espressa in termini di tempo a disposizione) conferiscano alla relazione interpersonale una specifica intonazione.

Per quanto concerne la qualità basti pensare al pathos della nascita e come sia carico di valenze emozionali il primo abbraccio della madre al suo neonato; ugualmente intenso, in un alto periodo della vita l'incontro col primo amore che, per l’appunto, non si scorda mai.

In quanto alla quantità, sappiamo tutti che per gli adolescenti il tempo futuro sembra infinito, e prendere tempo e rimandare una decisione è per essi fin troppo facile; non così per gli anziani che sentono il tempo sfuggire e vivono spesso 1'ansia di non averne abbastanza o di non poterlo utilizzare al meglio. Mantenendomi su un piano più generale vorrei, invece, distinguere il tempo dell'accoglienza in diverse fasi, la fase dell'attesa, la fase dello svolgimento, la fase del congedo, e tutte contribuiscono a caratterizzare 1'incontro in modo significativo.

Sul tempo dell'attesa molto si detto e scritto; ma per rimanere in un ambito più consono alla fenomenologia possiamo far riferimento ad Heiddegger ed al concetto di " decisione anticipatrice " che viene sviluppato in modo magistrale in Essere e Tempo. La decisione anticipatrice è quella che consente ad ognuno di vivere anticipatamente un evento nella prospettiva (e nella speranza) che questo si realizzi; capita a tutti, infatti, di decidere qualcosa, d'imbarcarsi in un'impresa, di fare un progetto e di vivere anticipatamente ciò che si immagina debba succedere nel momento in cui tale progetto verrà a realizzarsi.

Anche per quanto concerne l'incontro con l'altro, in particolare quello progettato ma anche quello casuale, succede spesso di vivere anticipatamente, immaginandolo, ciò che presumibilmente accadrà o che ci si aspetta che accada.

Possiamo affermare, pertanto, che il tempo dell'attesa si coniuga fortemente sul versante dell'aspettazione, inducendo colui che lo vive a svolgerlo in termini di tensione preparatoria ad un incontro che risulta quindi essere, in un certo modo, predefinito; ma proprio in questa predefinizione progettuale si annida, paradossalmente, il germe della costrizione, dell'obbligatorietà che, nel suo significato estremo, prelude all'arresto, alla fine, alla cessazione di ogni possibilità di sviluppo dell'incontro stesso.

Lo psichiatra accorto ed umanamente attrezzato ha consapevolezza della trappola insita nell'attesa, quella di predisporsi all'incontro col paziente secondo canoni di comportamento predefiniti, ma ciò non toglie che il rischio sia forte; rischio al quale difficilmente riesce a sottrarsi il paziente che, nell'incontro col medico, sa di trovarsi in una condizione di soggezione, se non altro per la posizione che la prassi gli conferisce, quella di oggetto e non soggetto della visita, dell'esame clinico, della cura.

Accade cosi che il paziente nell'attesa dell'incontro col medico assuma, consciamente o inconsciamente, una posizione difensiva; e tale posizione evoca quella ben note dell'incontro con l'estraneo, col nuovo, col diverso che, primariamente nel bambino, innesca timore ed apprensione, sentimenti che danno luogo ad atteggiamenti oppositivi.

I ritardi, i silenzi, gli appuntamenti mancati e le altre resistenze che in psicoterapia sono ben noti come espressione di oppositività o rifiuto della seduta denotano come sia sofferto, specie nel lavoro iniziale, l'incontro col terapeuta; ma denotano altresì che la modalità resistente altro non rappresenta che una difesa già preparata, predisposta nella fase dell'attesa.

E il terapeuta? Come si situa nella fase dell'attesa? Come si predispone all'incontro per evitare il rischio di predefinirsi in atteggiamenti o comportamenti viziati dalla ritualità che è sempre insita nello standard progettuale? Per spendere al meglio il tempo dell'attesa il terapeuta ha una carta vincente,

liberarsi da qualsiasi forma di pregiudizio e di ritualità in fieri; è pertanto opportuno evitare, nell'attesa dell'incontro col paziente, qualsiasi tipo di informazione (ricevuta o data) che non derivi dall'incontro stesso nel momento in cui esso si svolgerà; la stessa definizione del setting è un'operazione che andrebbe programmata e realizzata solo dal medico insieme a1 suo paziente e mai in modo mediato né al di fuori del contesto terapeutico.

L'astensione dal giudizio, l'atteggiamento di neutralità, che garantisce più d'ogni altro la possibilità d'espressione del modo di pensare e di sentire, e quindi di essere, consente anche di essere-in-terapia col più ampio margine di libertà.

P


er quanto concerne lo svolgimento dell'incontro terapeutico il principio di neutralità costituisce uno dei canoni fondamentali della prassi psicanalitica e la gran parte degli psicoterapeuti vi si attiene; ma non è difficile immaginare che, in altri contesti le cose non vadano allo stesso modo.

Succede, infatti, che il tempo dello svolgimento della gran parte degli incontri venga comunemente utilizzato dai più per formulare, seppure in termini di mero pensiero, dei giudizi sulle persone o sulla persona incontrata, anche se le impressioni ricevute, sulle quali si vanno costruendo le opinioni, non vengono di solito esternate (quanto meno nell'immediato).

Basti pensare ai vari contesti istituzionali in cui le persone s'incontrano con l'obiettivo di valutarsi, se non altro per capire se e fino a che punto 1'uno può essere utile all'altro, ad esempio negli incontri di lavoro; o quelli che si svolgono in ambito politico o amministrativo; ancor di più nel contesto scolastico in cui sulla valutazione di capacità e competenze sia degli alunni che degli insegnanti si gioca gran parte del percorso didattico; per non parlare del contesto giudiziario in cui l'attività giudicante (e quindi la formulazione del giudizio) costituisce fondamento istituzionale che garantisce rispetto del diritto e la determinazione della pena.

Il tempo dell'incontro, nel suo svolgersi, viene quindi scandito (almeno per ciò che comunemente accade) dal reciproco valutarsi per ciò che viene detto e fatto e per il beneficio che se ne ricava in termini di esperienza dell'altro da convertire in utile proprio (o, più estesamente, del gruppo o della comunità sociale di appartenenza); ma quando dall'incontro non scaturisce 1'impressione di una utilità fruibile, l'interesse per l'altro spesso si attenua fino ad esaurirsi in un rituale dialogico che ha diversi modi espressivi. L'accoglienza reale, allora, non ha più luogo; la comunicazione si affievolisce, 1'interazione si interrompe o si appiattisce su modalità di scambio solo formali. E quando nello sguardo dell'interlocutore non brilla l'interesse, è questo il segno che il tempo dell'accoglienza è scaduto, e ciò succede, talvolta, ancor prima che esso abbia inizio.

Il tempo che vola o che non passa mai, il tempo che s'illumina della curiosità o quello che s'ingrigisce della noia, il tempo che precipita nell'illusione, che si colora della speranza, che si arresta nella disperazione, altro non rappresenta pertanto che un fluire di immagini vissuto, a seconda dell'emotività e dell'affettività che le ha connotate, in modo assolutamente peculiare.

Alcune osservazioni (illustrate con grande finezza) sulla questione che andiamo discutendo, possiamo leggerle in un recente libro dal titolo “Come in uno specchio oscuramente”; l'autore, Eugenio Borgna, a proposito di quello che del proprio passato ciascuno si porta nel presente ad ogni incontro, scrive: "La memoria è immersa nel tempo; nasce dal passato e vive del passato e dalla memoria vissuta (la memoria interiore) rinascono continuamente i ricordi che si modificano di stato d' animo in stato d' animo, di situazione in situazione, e che si intrecciano senza fine con i modi con cui riviviamo, o ci è possibile rivivere, 1'avvenire, il futuro”- e continua in un passo successivo - " Dai vasti quartieri della memoria vissuta sgorgano sciami di immagini e di ricordi che si riflettono febbrilmente nel presente e che assumono i loro significati emozionali ed esistenziali solo se non è disturbata la continuità intenzionale del tempo”.

Ma cosa intende Borgna con 1'espressione “se non è disturbata la continuità intenzionale del tempo?” Si riferisce, evidentemente, all'evenienza, per nulla rara nell'osservazione psichiatrica che passato, presente e futuro non si correlino, non si integrino in un continuum unitario; per cui diviene difficile trovare, nelle parole o nei gesti di alcuni pazienti, un'aderenza alla realtà del momento, quella del tempo cronologico in cui si svolge 1'incontro. II tempo in questi pazienti appare coartato o dilatato, frammentato, arrestato nel passato o proiettato incontenibilmente nel futuro, tale comunque da distorcere od alterare il significato emozionale od esistenziale dell'incontro. Sul come e sul perché venga ad essere disturbata in alcune persone la continuità intenzionale del tempo la psicopatologia ha affacciato molte ipotesi, ma il discorso ci porterebbe lontano.

Per restare nel tema dell'accoglienza, in particolare di quella che riguarda il paziente psichiatrico, rimane un problema aperto per l'operatore (medico o paramedico) quello del tempo da riservare al paziente.

Da quanto si è detto a proposito del tempo-vissuto nelle diverse forme di patologia, appare naturale che il terapeuta debba posizionarsi, durante lo svolgimento di ogni incontro, sui parametri temporali adottati dal paziente, tenendo conto che questi possono modificarsi nel corso della cura; e questo non significa che debba egli stesso adottarli, bensì che debba prestare la massima attenzione agli effetti che producono sia per quanto concerne la forma espressiva che la sostanza in quanto, nel particolare modo di essere del paziente, l’una sostiene e giustifica l'altra.

Nell'accogliere un maniaco, ad esempio, il terapeuta si lascerà trasportare dalla marea della sua produzione verbale, dalle idee che si rincorrono e si accavallano, dalle associazioni che si succedono tumultuose, senza provare ad arrestarle ma, semplicemente, cercando di tenere i1 passo ovvero accelerando l'ascolto; ed osserverà i gesti concitati, la mimica variegata ed il moto irrefrenabile, senza provare a contenerlo ma solo incrementando 1'attenzione, per poter cogliere ogni sfumatura, seppur fugace, della caleidoscopica presenza dell'altro; e manifesterà la propria partecipazione rispondendo al suo sguardo e al suo sorriso, accompagnando il suo gesto. Così facendo eviterà di essere superato e distanziato o di essere travolto dal suo paziente; nel procedere con esso, mediante un' interazione che rispetta i suoi tempi ed accetta i suoi modi, riuscirà infatti ad affiancarlo facilitando l’accesso alla sua reale comprensione ed evitando che l'incontro si risolva in un monologo dispersivo, magari seguito da una diagnosi ed una prescrizione, ma privo di ogni valenza comunicativa.

Veniamo infine alla fase del congedo.

Anche in questa fase il tempo assume una specifica rilevanza nella caratterizzazione dell'accoglienza in quanto configura il momento conclusivo dell'incontro e lo suggella lasciando un'impronta che, forse ancor più dell'approccio iniziale, verrà conservata nella memoria dei protagonisti. I modi per descrivere un congedo si riportano ad espressioni di uso comune: “ci siamo lasciati con una stretta di mano" o "con un abbraccio" oppure "sorridendo” o “in lacrime”; ed ancora “è stato un addio” o “ un arrivederci”; frasi fatte, luoghi comuni che però, nell'album dei ricordi di ognuno evocano situazioni particolari, sempre diverse, più o meno importanti, più o meno felici, ma sempre incontri tra persone giunti alla conclusione.

II congedo dall'altro può essere vissuto in modo molto diverso a seconda che la relazione, nel suo svolgersi, sia stata piacevole o spiacevole: “non vedevo l'ora di andar via”, “è stata una liberazione” per alcuni, per altri: “sarei rimasto ancora per ore”, “è stato un peccato doverci lasciare”; ma, in tutti i casi, è 1'incombenza della fine che prevale e induce a chiudere, a voltar pagina.

Nel concludersi, peraltro, 1'accoglienza riesce a dare spesso il tocco finale all'incontro e lasciarsi dietro il profumo tenue della nostalgia o quello acre del fastidio.

E a proposito della nostalgia vale la pena di citare Minkowski quando, nel riportare alcuni fenomeni pratici in uno degli ultimi paragrafi del suo “Trattato di psicopatologia” scrive: "La nostalgia è indiscutibilmente un sentimento doloroso, come indica il termine stesso; ma non è soltanto questo; al pari del soffrire essa sembra comportare un'apertura verso il futuro e manifesta in ciò la sua portata positiva...” Un sentimento positivo, dunque, che attenua il dolore del distacco nella sua rievocazione lasciando spazio al desiderio di ritrovarsi e alla speranza che ciò accada.

Tutt'altro sentimento il fastidio che, se pervade l'esperienza relazionale appena vissuta, ne preclude il desiderio del ritorno ed ostacola la possibilità che essa riaccada. II congedo dal paziente, al termine della visita o della seduta, non fa eccezione da quanto detto; è anch'esso espressione di un modo preciso di accogliersi tra persone, ed è rivelatore del reciproco modo di percepirsi anche nel momento di separarsi.

Ricordo una paziente che, al termine di una seduta passata per tutta la durata nel più chiuso silenzio, mi disse con tono accorato: “E adesso cosa succede, ci dobbiamo lasciare?” In quella domanda colsi il suo rammarico per non aver saputo o potuto aprirsi al dialogo liberatorio, ed insieme l'apprensione per la fine dell'ora a sua disposizione e per l'imminenza del congedo. Colsi anche desiderio di prolungare il tempo della seduta e la speranza che io, violando i crismi del setting 1'accontentassi. Risposi che il tempo a nostra disposizione era finito e che sarei stato ben lieto di riprendere a parlarne alla successiva seduta. Ricordo che usai proprio quelle parole “riprendere a parlare” poiché con la sua domanda mi aveva dato prova, proprio nella fase del congedo, che nella seduta si era svolto, nonostante l'apparente silenzio, uno scambio partecipato, un dialogo silente fatto di parole ed emozioni non dette, di pensieri inibiti dal timore o dal riserbo, del tutto lasciato alla risonanza della situazione, del solo “co-esserci”, del " mit-dasein ", 1' essere-insieme in quella situazione. Lasciando che la seduta si concludesse nel tempo stabilito e rimandando il proseguimento dell'incontro alla seduta successiva, ho ritenuto di rispondere nel modo più accogliente, quello più rispettoso del setting (cioè degli accordi stabiliti in funzione della terapia) alla domanda della paziente e penso di aver favorito così intenzionalmente, la prospettiva di un tempo futuro (definito con 1'appuntamento per il successivo incontro) nel quale poter dare corso e sviluppo espressivo a ciò che aveva serbato dentro di sé per tutta la seduta non essendo ancora pronta a verbalizzarlo.

Un terzo aspetto è quello dello spazio riservato all'accoglienza

Ed è questo un aspetto non meno importante del precedente, e ad esso fortemente collegato. Sulla problematica dello spazio si svolge 1'annosa questione, di grande rilevanza in pedagogia, in psicologia ed ancor più in psicopatologia, della distanza che favorisce od ostacola, permette o esclude il contatto interpersonale. Gli educatori, gli insegnanti, i formatori, ma anche gli animatori, e tutti coloro che operano nel sociale sanno quanta importanza rivesta la distanza nel rapporto con l'utente, sia esso alunno, lavoratore, assistito. Ciascuno di noi, d'altro canto ritiene di saper distinguere quando è bene stare a più stretto contatto e quando, invece, è più opportuno “mantenere le distanze”.

E' certamente singolare il fatto che per alcuni sia più facile stare insieme in un ambiente raccolto, intimo, uno spazio piccolo, mentre per altri sia più gradito uno spazio ampio, magari aperto e movimentato; ma non si tratta solo di una questione generazionale anche se è ben nota la predilezione dei giovani per i luoghi d'incontro molto spaziosi ed affollati (le piazze, gli stadi, le discoteche) e quella degli anziani per i luoghi più raccolti e meno chiassosi; si tratta, soprattutto, di come le persone percepiscono la distanza dall'altro e di come questa, per il modo in cui viene percepita, sia in grado di modulare lo svolgimento del rapporto interpersonale.

Sostiene Callieri in un suo articolo sullo spazio vissuto: "La spazialità vissuta è interessata a tutto spessore dalla decisiva dichiarazione antropologica che io non sono rinchiuso nella pelle del mio corpo; esserci significa a essere qui ed essere là; sono qui dove occupo un posto, uno spazio, però sono anche là dove è il mio interesse"; e per sottolineare quanto ciò sia vero nell'incontro tra persone aggiungerei "sono soprattutto dove 1' altro accoglie il mio interesse, dove 1'altro mi dà spazio; così come 1'altro, il mio interlocutore, sarà più vicino a me se sarò capace di accendere il suo interesse per ciò che sono e faccio".

Condivido quindi pienamente la posizione di Callieri che fornisce con questa tesi un contributo di grande valore non solo alla psichiatria ma anche alla pedagogia e alla didattica; ma della spazialità vorrei, in questa sede, discuterne più che altro da psicopatologo e da psicoterapeuta pur non dimenticando peraltro di essermene occupato per parecchi anni da coordinatore didattico (direttore delta SISS Sardegna) nella formazione specialistica degli insegnanti della scuola secondaria.

La distanza reale o virtuale assume, infatti, in alcune forme psicopatologiche, una valenza molto particolare: si dilata o si riduce, altera la prospettiva, modifica i confini tra vuoto e pieno, distorce la forma delle cose e la presenza delle persone fino a fare assumere loro un significato nuovo, a volte piacevole, altre volte inquietante. Per tale motivo l’accoglienza del paziente, in specie del paziente psichiatrico, non può non tener conto di come ciascun paziente viva in modo del tutto singolare la propria e 1'altrui presenza, la distanza o la prossimità che intercorre tra oggetti e persone in relazione a quanto accade. Va da sé che alcuni gesti usuali come il saluto, ad esempio nel modo di stringere la mano o di atteggiare 1'espressione del volto, possono lasciare nel paziente un'impressione particolare e duratura del sanitario che lo accoglie, un'impronta in grado di condizionarlo durante lo svolgersi di quell'incontro ed anche in quelli successivi.

La prossimità tra le persone si accentua con la confidenza, che altro non è che donarsi reciprocamente fiducia (con-fide)); ma è questa una condizione che presuppone una conoscenza, una frequentazione, una familiarità, cosa che non si riscontra spesso tra medico e paziente, in particolare nei primi incontri, e quando infine si realizza, a volte solo dopo molte visite o sedute, è una specie di stato di grazia che si accompagna, come ho già detto in altre occasioni, ad un riconoscimento d'intenti e d'intendimenti, uno stato che Camus chiama “di riconoscenza” dove il riconoscere (o meglio il riconoscersi) definisce quella condizione in cui sboccia il sentimento di gratitudine per una appartenenza ritrovata, un ritrovato piacere dell' essere-con che muove dall'arcaico, primario piacere dell'abbraccio materno. E questo è lo spazio psichico, la distanza o la prossimità dall'altro per come questo viene percepito e vissuto.

Vi è poi lo spazio fisico del quale l'accoglienza non può non tener conto; ad esempio lo spazio dell'allettato, del malato che è costretto a letto da malattia o da invalidità; lo spazio del paralitico o dell'infortunato che vede nel proprio corpo impedito o mutilato i limiti della fruibilità dell'ambiente; lo spazio del carcerato che è limitato alla cella o al cortile della prigione.

In ciascuna delle condizioni citate il rapporto interpersonale viene ad essere fortemente influenzato da una spazialità obbligata che nutre desideri e frustrazioni, appetizioni, speranze e delusioni; condizioni certamente facilitanti l’instaurarsi di dinamiche conflittuali relazionali od intrapsichiche che, a volte, innescano processi psicopatologici.

La psicopatologia offre una vasta gamma di quadri clinici in cui traspare la deformazione spaziale dell'esistenza che assume, in alcuni casi un'evidenza altamente drammatica. Tra questi spicca la depressione che coarta lo spazio vitale della persona fino quasi ad annullarla, a consumarla nell'inazione e nell'inerzia fino ad impedirle il movimento fisico nell'arresto psicomotorio. Sul versante opposto la mania in cui la spinta a fare annulla il senso comune della distanza rendendo ogni percorso facile, ogni cosa fruibile, a portata di mano; ebbro di questa leggerezza il maniaco si sposta rapido e imprevedibile, mosso da una vivacità fugace che, lasciata a se stessa, può divenire travolgente.

Nel variegato mondo della schizofrenia lo spazio si irrigidisce o si anima a seconda delle forme in cui 1'angoscia si esprime. Nei quadri paranoici ogni possibile insidia, rappresentata da persone o cose, appare incombente e si propone con una prossimità minacciosa; nelle forme allucinatorie le ombre si animano, lo spazio si riempie di oggetti, persone, odori, suoni, proiezioni dei propri vissuti interni materializzate all'esterno; nelle sindromi catatoniche sembra quasi che lo spazio perda di fluidità imbrigliando la persona in una pastosità che invischia il movimento fin nella sua progettualità

Ma è nella fobia che la trasformazione dello spazio assume la maggiore drammaticità. Basti pensare al travaglio del claustrofobico a cui viene improvvisamente meno nell'autobus, nell'ascensore, nel chiuso di un ufficio o di un negozio lo spazio vitale; o all'angoscia dell'agorafobico immobilizzato dalla vertigine per l'ampiezza di una strada, di un campo, di una piazza; o al terrore del rupofobico, scatenato dall'idea del contatto, della prossimità inquinante e mortifera.

Come accogliere il paziente in questi casi così diversi? Come posizionarsi per rendere il luogo dell'incontro tra medico e paziente psichicamente abitabile e terapeuticamente fruibile?

La psichiatria fenomenologica nell'approccio antropoanalitico alla persona suggerisce di considerare il luogo dell'incontro come uno spazio da riservare alla presenza intersoggettiva, terapeutico in quanto aperto all' essere-insieme, alla noità in senso binswangeriano, ad un esistere comune che travalica ogni diversità e che accompagna i protagonisti della cura (il curante ed il curato) in un percorso di crescita dovuto fondamentalmente ad un continuo scambio, alla reciproca donazione di sensi e di vissuti.

Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti(r) :

Dr.ssa Meoni, mentre ascoltava la relazione, è andata con la mente agli esordi della sua attività di psichiatra che hanno coinciso con l’applicazione della L.180 e con l’apertura dei manicomi. Ricorda il luogo: il terzo piano di un reparto di medicina, la paziente era una signora catatonica e l’aspetto del luogo dedicato all’incontro e all’accoglienzaera era una sala multi visita cioè unaa corsia, come ce ne sono tante nei reparti di medicina. Nell’ incontro la paziente catatonica, non aveva fatto un fiato, ma lei la seguiva e tornava ad incontrarla nonostante il silenzio, i medici del reparto la chiamavano la dottoressa “ maga” , perché dicevano che stava molto meglio e che ciò corrispondeva alla prescrizione di aloperidolo (serenase). L’incontro era avvenuto a letto perché la paziente era immobile, rigida, non mangiava, non beveva. Con lei non c’era stato scambio verbale, l’aveva però toccata per poterla visitare e valutare l’oppositività. Prescritta la terapia, tutti i giorni andava a visitarla e constatava un miglioramento. Un giorno la trova vicino alla finestra, aperta, del terzo piano. Non ricorda se la paziente diceva qualche parola, ricorda che non si allontanava dalla finestra e neppure si buttava, non le è rimasto altro da fare che andare a vedere: quando si è avvicinata ha constatato che si stava specchiando sul vetro.

L’ascolto della relazione le ha ricordato i momenti salienti dell’incontro e poi dell’accoglienza in queste gravi patologie, come anche nella psicosi maniaco depressive, e ha capito che la stanchezza subentra nello psicoterapeuta perché deve accelerare il pensiero per seguire il paziente e fare qualcosa per lui, ed è faticosissimo.

Prof. Mura la ringrazia per queste suggestioni. Racconta un episodio analogo capitato a lui con una catatonica ricoverata in reparto di medicina, seguita da un collega più giovane che l’aveva chiamato in consulenza. Ricorda l’ansia, la faccia atterrita dei familiari che stavano fuori della stanza. E’ entrato e non ha fatto gran che se non cercare di comprenderla nella sua modalità espressiva. Dopo una mezz’oretta di silenzi la paziente ha avuto la classica reazione catatonica: si è sbloccata ed è uscita fuori come se nulla fosse. Ricorda la faccia dei familiari che si è illuminata come se lui fosse stato un santo che risolve la situazione in maniera imprevista ed imprevedibile.

Prof. Pisani si dichiara affascinato dall’analisi fenomenologica delle situazioni e si propone sempre d’integrare la propria cultura psichiatrica psicoanalitica di gruppo, con l’analisi fenomenologica. Reputa che il Prof. Callieri e il Prof. Mura gli offrano lo spunto per coltivare mentalmente questa intenzione. A proposito dell’accoglienza si è ricordato che ha conosciuto il Prof. Mura nell’ambito di un congresso della Società Italiana di Psichiatria dove il fenomeno dell’accoglienza era tutto al negativo, perché erano nel planner una ventina di persone: ognuno leggeva la propria relazione e poi se ne andava. Gli unici che ascoltavano erano lui e Mura. Tra l’altro erano ultimi nel presentare le loro relazioni e quando fu il loro turno, non c’era più nessuno. Così si sono ascoltati tra loro con molto entusiasmo ed è nata la loro profonda amicizia. Ascoltandolo questa sera ne ha avuto conferma perché, pur essendo entrambi pensionati dall’ambito universitario, ha sentito che il Prof. Mura ha continuato a coltivare la passione per queste cose, come lui coltiva la passione per il proprio lavoro, seppure nel privato.

Si riferisce a quanto detto dal relatore e che in sintesi si basa sul reale autentico interesse per gli altri. Stava riflettendo recentemente sui gruppi analitici e non analitici che si basano su questo fenomeno del reale, autentico, onesto interesse per gli altri. Nella situazione analitica ovviamente l’incontro si svolge nel lavoro di decifrazione, di traduzione del significato apparente di quelli che sono gli aspetti inconsci, i conflitti. Pensa sia molto più difficile mantenere la relazione sulle comunicazioni non analitiche. Proprio recentemente ha realizzato che forse il fenomeno più importante degli incontri non analitici è l’autenticità dell’ascolto e il reale interesse che fanno la terapia, anche se non si analizza nulla.

Ascoltando la relazione rifletteva anche su quanto possa essere importante il fenomeno dell’accoglienza in un setting gruppoanalitico in cui c’è un tempo ben definito: un’ora e mezza e uno spazio ben definito: il luogo ove avviene l’incontro. Sono gli aspetti strutturali: il tempo, lo spazio, la distribuzione dei posti, la loro vicinanza. Si chiedeva quanto possano essere importanti questi elementi in riferimento al fenomeno dell’ascolto senza il quale non si fa terapia: se non c’è ascolto non si fa terapia nè in un setting analitico, nè in un setting non analitico. Rispetto al tempo prefissato, che vale sia per l’aspetto gruppale che individuale, noi sappiamo debba esserci per stabilire un ordine ed evitare il caos: non si fa terapia se non si contiene il caos. Chiede di approfondire l’aspetto del rigore del tempo psicoterapico.

Prof. Mura fa presente che Pisani ha colto un problema senza via d’uscita perché è vero che le regole orientano la terapia e danno la possibilità di non uscire fuori dalla terapia, ma al tempo stesso l’imbrigliano e la costringono in uno spazio a volte un po’ asfissiante. Quindi quale è la modalità più accogliente? Quella di rispettare rigidamente le regole del setting, oppure quella di lasciare la speranza che il setting si allenti? Afferma di adottare quest’ultima modalità che è certamente una modalità ambigua per fare terapia,ma l’ambiguità è espressione dell’ umanità

Prof. Pisani chiede se così si favorisca o si ostacoli il fenomeno dell’accoglienza, se l’ accoglienza è basata sul reale, autentico interesse per l’altro.

Prof. Mura risponde che ha cercato di risolvere questo problema in termini un po’ superficiali, basandosi sul volto dell’altro, che può essere accogliente nelle sue espressioni, oppure può non esserlo per nulla nel suo modo di porsi. Allora più il volto dell’altro è meno accogliente, più sei un bravo medico nel momento in cui riesci a fare comunque accoglienza perché, nell’estremizzazione dell’alienità dell’incontro, è emblematica la figura del medico che riesce ad annullare questa distanza: è espressione dell’ accoglienza. Quindi devi trasformare la non accoglienza del paziente per la tua figura, in una tua accoglienza del paziente che per mille motivi è restato lontano. Questa è affettività.

Dr.ssa Valacca riprende il punto della neutralità in psicoterapia chiedendosi cosa voglia dire essere neutrale in una relazione basata sull’empatia. Secondo lei la neutralità è pensare eventualmente un giudizio, ma non lasciarsi troppo condizionare da questo giudizio, ed è anche non intervenire nelle cose pratiche. Si chiede allora quale potrebbe essere il setting corretto rispetto al terapeuta e al paziente in questa relazione continua di transfert e controtransfert. Crede che si possano dare alcun regole generali come appunto cercare di non farsi condizionare dal proprio giudizio o non dire al paziente quello che deve, non deve fare, ma non basta perché la neutralità si deve realizzare o non realizzare a seconda dello specifico momento dell’incontro. Qualcosa va detto, altrimenti non si è capiti o non si può capire; così alle domande, si risponde o non si risponde. E’ un’ ambiguità che non va vista come una manchevolezza, ma come una possibilità di apertura, di dare al paziente una possibile risposta, una soluzione.

Prof. Mura risponde che in fenomenologia se ne parla come “Astensione dal giudizio”. Sostiene però utile andare oltre: per una vera accoglienza lo psicoterapeuta dovrà mantenersi non tanto sul piano del Pathos quanto sul piano dellEthos. E’ una regola che ciascun psicoterapeuta può seriamente darsi, anche se non è facile.

Dr. A. Lombardo reputa utile fare una distinzione tra colloquio iniziale e colloqui terapeutici perché all’inizio l’interesse per i segnali di accoglimento è piccolo. Si può mantenere quando poi iniziano le sedute terapeutiche. Le cose possono cambiare dove i limiti di tempo possono essere utilizzati e costituire un tipo di esperienze nel cervello delle persone, dove l’esperienza del limite tollerato modifica la percezione di sé e della realtà. Spiega il suo intervento con l’ interesse per la corrispondenza tra esperienza in gruppo e modifica delle reti neurali del cervello. Si riferisce poi alla sua esperienza di terapia individuale e di gruppo, rilevando che quando si tratta di accogliere il paziente per modificare l’esperienza di se stesso, sente che c’ è una differenza tra l’atteggiamento psicoanalitico individuale e gruppale, dove ad accogliere il paziente non è solo una persona come avviene in terapia individuale. Chiede quale possa essere la differenza nell’accoglimento.

Prof. Mura ravvede una differenza fondamentale sul modo di procedere in terapia individuale e gruppale, avendo esperienza sia dell’una che dell’altra modalità terapeutica. Nel rapporto individuale il problema dell’accoglienza comprende totalmente il terapeuta come accoglienza dell’altro, fatta in prima persona che comporta, ovviamente, la necessità di farsi accogliere dall’altro. Nel gruppo l’accoglienza del singolo è mediata dal gruppo; in realtà è l’interazione di gruppo che accoglie il terapeuta. Il terapeuta non accoglie i singoli, ma è l’interazione che si stabilisce nel momento in cui il terapeuta è così bravo da non ostacolarla con l’operazione di conduttore. Quindi, mentre nella terapia individuale il terapeuta è accogliente con modalità di ascolto in prima persona, nel gruppo è mediato da questa presenza interattiva del gruppo che dà un senso anche alla sua presenza come conduttore. Riteniamo che molte persone nel gruppo potrebbero chiedersi cosa ci stia a fare il conduttore, ma nessuno se lo chiede mai perché ritengono che il conduttore sia fondamentale. Ha parlato del senso, del tempo, dello spazio, gli fa piacere aver potuto parlare anche del modo di procedere. Anche in terapia individuale c’è l’annosa questione del rapporto e dell’ascolto “ vis a vis “ : non è una questione secondaria. Ci sono alcuni terapeuti che usano sistematicamente la poltrona distesa; altri che usano la posizione “ vis a vis “; altri che usano quella di spalle; altri che, nel momento dell’incontro, chiedono al proprio paziente come preferisce sistemarsi. Lui predilige quest’ultima modalità: generalmente chiede ed è molto rispettoso, soprattutto nel primo momento, di come l’altro preferisce e questo gli dà anche il senso di come l’altro lo vede e lo sente, altrimenti avrebbe l’impressione di essere lui a porsi in un certo modo e questo gli darebbe il sapore di qualcosa che nasca in modo condizionato, anche se il setting è già di per sé condizionante.

Prof. B. Callieri evidenzia l’ uso da parte del relatore del termine “ accoglimento ” e sottolinea l’enorme differenza tra accoglienza e accoglimento in quanto hanno un loro distendersi temporale completamente diverso. Ascoltando la relazione ha pensato al pronaos del tempio greco dove si stava ad attendere di essere accolti. Mentre nell’ambito del tempio ebraico non c’era questa attesa: si entrava direttamente. Tutte e due queste civiltà, ebraico - cristiana e greco - latina, hanno visto questo accoglimento in un modo molto preciso, ma diverso. Qualunque terapeuta, di qualunque provenienza ne deve tener conto. Si riferisce poi alla parabola del figliolo prodigo: il padre lo accoglie, ma in questo caso nel testo latino e greco il termine è “ succidere ”; il padre andò ad accogliere sub - capio, prendere da sotto e riportare a sé. Tralascia questo aspetto perché richiederebbe competenze filologiche e sposta l’attenzione sugli psichiatri e psicopatologi per i quali l’accoglienza si rifà allo sguardo. Per lui l’accoglienza è questa, non è quella del lettino con uno che ci sta dietro: questa è una degenerazione radicale dell’accogliere : è porre l’altro in una condizione di passività. Sottolinea due aspetti che, dal punto di vista sia antropologico che psichiatrico, il relatore ha solo accennato data la grande quantità di temi, argomenti, idee che doveva affrontare. Un punto riguarda la neutralità legata al problema dell’empatia. Dà ragione a Kierkegaard che parla di “ aut aut”: è una scelta che deve fare lo psicoterapeuta. L’altro aspetto riguarda il tempo del silenzio. I grandi silenzi di cui sono costellati molti incontri psicoterapeutici. Racconta di aver inviato, tanti anni fa, a Isidoro Tolentino, che era uno psichiatra molto preparato, la sorella di un collega per un trattamento.

Le prime 10 sedute furono passate radicalmente nel silenzio. Lì si vede la tempra dello psicoanalista. Tolentino sostenne e mantenne vivo il colloquio in 10 sedute di 45 minuti di silenzio. Dopo la decima seduta gli fece sapere che la paziente aveva cominciato a parlare. Lo colpì molto, non tanto per la persona che conosceva, della quale non ha capito se si trattasse di un mutacismo vero o di uno pseudomutacismo isterico, quanto per la capacità del terapeuta di continuare a fare terapia, di svolgere il rapporto in un silenzio non di 10’ minuti, ma di dieci volte 45 minuti. Questa è stata per lui una grande lezione. Questo problema dei tempi del silenzio adesso sta nuovamente maturando. Porta ad esempio Serena Vitali che si sta occupando del silenzio e che ha evidenziato come le pause nelle poesie siano importanti. Diceva Manganelli “ le parole non dette sono più importanti di quelle dette ”. Nella musica le pause sono essenziali perché si possano catturare melodia e ritmo. Questo punto del silenzio, del quale ribadisce l’importanza, si collega alla prossemica, trattata dal relatore. Un conto è parlarsi da lontano e un conto è l’irruzione del maniacale che, mai visto prima, ti prende per la spalla, stravolgendo la prossemica. A questo proposito accenna appena che oggi siamo tutti radicalmente coinvolti dallo spazio dell’altro, dall’invasione; lo spazio intermedio quasi non c’è più; si riferisce in particolare all’invasione dello spazio dovuta agli sbarchi dei profughi. Qui l’accoglienza si fa rifiuto, ingabbiata com’è. Abbiamo allora l’ipocrisia, specie in psicosociologia, di usare il termine accoglienza, l’orpello dell’accoglienza, per una ferrea, densa, quasi ansiogena instaurazione di difese, d’ingabbiamento dell’altro, diciamo per accogliergli bene, ma contemporaneamente per isolarli, metterli da un’altra parte. Oggi, socialmente, questa dialettica dell’accoglienza, dovrebbe essere destinata a divenire il grande problema dei prossimi anni. Ogni altro tipo di accoglienza del singolo, persino l’accoglienza di sé con se stesso (basti pensare a quanti ipocondriaci non accolgono lo spazio interno del proprio corpo), sarà completamente messa da parte perché non sapremo organizzare la nostra capacità di accogliere senza essere sommersi. Tutto questo gli è venuto in mente di fronte alla bella parola “congedo”, usata dal relatore in riferimento all’accoglienza dello straniero. Sottolinea che il suo intervento è prevalentemente provocatorio.

Prof. Mura lo ringrazia dei vivaci spunti dati alla sua riflessione e all’approfondimento. Rispetto a molti riferimenti di Callieri alla sua relazione, fa presente di averli sentiti proprio da lui e di averli riproposti dopo la rielaborazione di argomenti trattati insieme o letti, basata sul proprio sentire. Riprende il concetto di congedo che ha posto provocatoriamente aspettandosi dall’uditorio domande sulla problematica dell’intervallo, da lui non affrontata. Il congedo da una parte interrompe, ma apre anche alla speranza di un nuovo incontro. L’intervallo tra un congedo e l’incontro successivo è anche questo un tempo terapeutico di cui non abbiamo parlato; dal punto di vista terapeutico è importante la definizione di questo spazio per dare continuità alla terapia.

Prof. Callieri collega il problema dell’intervallo non al paziente che fa terapia due volte a settimana per due anni, ma a quello che vedi una volta nell’ambulatorio interno.

Prof. Mura afferma che si rivolgerebbe a questo paziente dicendogli: “ Sarebbe opportuno che si facesse ricontrollare ”, lasciando anche a lui la scelta.

Dr.ssa Meoni, invitata a concludere l’incontro dal Prof. Callieri, per il quale il congedo è sempre una piccola lacerazione, si richiama a Minkokowski, con la riflessione che per congedarci, mantenendo la speranza di rincontrarci, dobbiamo vivere una nostalgia, aprirci a questo sentimento.

Dr. Lombardo aggiunge che si ricordano di più le cose non finite che quelle finite.]


Note di redazione:

(r) registrazione della lettura presentata così come il dialogo nel dibattito a seguire la registrazione vocale degli interventi dei partecipanti rivista dal relatore Prof. Fabio Mura.

Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com


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