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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2006 - 2007

Psicosi Atipiche:una via finale comune per le nostre ignoranze?

Prof. Bruno Callieri
Coordinatore Prof. Rocco Antonio Pisani
(r) elaborazione testi da registrazione vocale con revisione del relatore a cura Dr.ssa Antonella Giordani



In apertura del ciclo di seminari 2006-2007, il Prof. R. Pisani sottolinea che essi offrono ai partecipanti l’opportunità d’incontro delle menti, in senso dialogico, e permettono di approfondire la conoscenza in ambito scientifico, professionale ed umano. Rappresentano inoltre un’ ottima occasione per un incontro umano autentico e per coltivare il piacere di stare insieme. Ringrazia la Signora Pallai che ci ospita e il Prof. Bruno Callieri che, ricorda, è ospite d’onore dal 1989.
Il Prof. Bruno Callieri, in riferimento alla sua relazione “PSICOSI ATIPICHE: UNA VIA FINALE COMUNE PER LE NOSTRE IGNORANZE?”, manifesta l’intenzione di volerla soppesare attentamente per l’impegno teoretico e le implicazioni pratiche che comporta. Altri colleghi gli hanno proposto di accettare la terminologia di “Psicosi atipiche” come qualcosa di positivo mentre, secondo lui, è qualcosa di criticabile perchè sta ad indicare che vogliamo far rientrare tutto nelle nostre categorie mentali e chiamiamo “atipico” quello che non ci rientra.
Richiama la necessità attuale ed impellente del passaggio dalla nosologia, cioè da schemi e inquadramenti, alla clinica cioè all’incontro col singolo, nel quale tutti i nostri schemi mentali debbono essere messi da parte. Una cosa è, però, un accantonamento temporaneo al fine di poter colloquiare col singolo, e una cosa è l’approccio autentico col singolo. Qui spesso siamo in malafede: diciamo che siamo un io e un tu, quando in realtà abbiamo solo un coacervo di nozioni, più o meno ordinate, che non ci consentono il transito verso il rapporto alter-egoico.
Definisce “brutto” il concetto di psicosi atipiche, concetto che però è destinato comunque ad avere un sicuro successo: tutto quello che è atto a diminuire la fatica del nostro pensare, viene ben accettato; ad esempio è ben accettato il concetto di schizoaffettivo: quando non si colgono i limiti delle patologie, si assiste alla fusione in un’ unica categoria, risolvendo il problema attraverso la classificazione.
In ambito psicologico e psichiatrico questa modalità rappresenta una sorta di pulsione alla botanizzazione della psichiatria: noi classifichiamo, proprio come faceva Linneo in botanica.
Callieri sottolinea il lento progredire dall’umoralismo della dottrina ippocratica (che per secoli ha plasmato e creato il terreno di base del rapporto clinico e non categoriale tra il medico e il paziente) alla mitologia cerebrale di Churchland, oggi imperante. Prima si trattava di una mitologia anatomica, basata sulla identificazione di aree del cervello deputate alla corticalità, aree che andavano a costituire vere e proprie mappe corticali. Dalla prima mitologia anatomica, c’ è stata un’ evoluzione fino ad assumere una dimensione recettoriale: recettori dopaminergici, serotoninergici, gabaergici, adrenergici. Tutti i recettori sono stati investiti di una collocazione clinica che lega un disturbo ad un recettore e lascia da parte il confluire di fattori motivazionali di tipo storico, culturale, sociale, economico, relazionale. Il problema della relazione non gli pare di pertinenza recettoriale, ma oggi, con la dottrina dei neuroni-specchio, abbiamo la possibilità d’inquadrare nell’ambito recettoriale anche i moti più individuali: la simpatia, l’antipatia, l’ empatia. Con i recettori-specchio si riesce a inglobare, classificare e mettere sotto il vetrino dell’esame istologico anche il movimento più intimo e segreto che fa nascere l’incontro, cioè il rapporto d’animo che lega e, al di fuori di altre convenienze, costituisce l’ossatura del nostro modo di essere nel mondo, con un altro.
Quindi col transito dall’umoralismo alla mitologia recettoriale ci siamo sentiti legittimati a mettere insieme sintomatologie qualitativamente diverse, a volte anche contrastanti, per es. :l’autismo catatonico. L’incontro con un’autista è l’incontro con una muraglia senza porte e senza finestre, destinato al fallimento radicale. Nelle psicosi atipiche lo si pone accanto al rallentamento depressivo, mentre invece si tratta di due modalità d’esistenza completamente diverse; basti pensare al rallentamento del depresso, come lo percepiamo quando entra nella nostra stanza: quasi si trascina; ha un andatura lenta, pesante sotto il peso della colpa o della rovina o dell’ipocondria, cioè di questi nuclei esistenziali profondi, radicali, che emergono nell’ esistenza del singolo paziente che entra in contatto con noi.
L’analogia tra rallentamento depressivo e autismo catatonico, come spesso si sostiene per le psicosi atipiche, è qualcosa che ci mette fuori strada, e davvero non ci illumina; solo il capire le difficoltà che ci sono nel nostro sentiero e il non minimizzarle ad ogni costo, ci consente di vedere come esse si possono aggirare e modificare. Così come non si possono mettere insieme e far confluire in un tutt’ uno la perplessità schizofrenica e lo stupor crepuscolare da sostanze. Lo stupor, che viene da una specie di ubriacatura al negativo da sostanze; lo schizofrenico che è perplesso: si guarda le mani, le dita e si chiede cosa siano, a cosa servano. E’ una perplessità che non investe solo la presenza dell’altro, il “Perchè mi guardi?” dello schizofrenico, ma concerne la presenza di me a me stesso. Il perplesso schizofrenico si guarda allo specchio e smarrisce l’ identità; è la sua peculiare perplessità ad incidere su tutta questa delicatissima congerie di sfumature della vita quotidiana, che si compattano nel nostro sentirci identici a noi stessi di ieri e non continuamente rinascenti in mondi completamente diversi, in preda alla depersonalizzazione, alla derealizzazione.
Il Prof. Callieri si chiede come “noi psichiatri” siamo arrivati a ciò. Dice “noi” perchè nessuno è senza colpa e ciascuno ne è coinvolto. Egli ritiene insidioso e ambiguo il ricorso al concetto di COMORBILITA’ che assolve tutto. Certo, la comorbilità è accettabile quando due patologie diverse colpiscono lo stesso soggetto: ad esempio una tubercolosi polmonare e un’ osteite purulenta causata da una rottura femorale; ma non possiamo considerare come comorbilità la presenza di una venatura d’umorismo ipomaniacale accanto ad un’ impostazione di dissociazione schizofrenica.

Invita a scorgere la questione di fondo: quale sarà il futuro della psicopatologia seguendo l’iter che ha assunto? Ognuno è attaccato al proprio modo di costruire il sapere “de homine” (sull’uomo), ma saranno saperi di tipo scientifico o ideologico? L’epistemologia ce lo insegna: facciamo presto a dire di un dato che è scientifico, mentre invece esso è frutto di un nostro inquadramento ideologicamente condizionato di un dato, che dovrebbe essere elaborato scientificamente.
Come mettere insieme lo scientifico e l’ideologico, l’osservazione e la falsificabilità empirica, di cui Popper ci ha insegnato l’ importanza?
Come evitare il pesante rischio di restare sequestrati nell’angustia parcellare del proprio taglio analitico, del proprio codice categoriale?
E’ possibile ignorare disinvoltamente il gap, l’abisso che c’è tra ambito neuronale, psichico, relazionale?
I neurobiologi dicono che lo psichico è neuronale; i sociologi dicono che è relazionale. Questi dati sono quasi scontati; non si capisce che sono categorie diverse e che dobbiamo cercare di coglierle ognuna nel suo aspetto autonomo, per poi fare dentro di noi delle opzioni.
E’ inevitabile il confronto tra epistemologia delle neuroscienze e dimensione motivazionale del singolo psichiatra, che è una dimensione creativa: non si può fare il pesce in barile, ignorando questa distinzione.
Callieri si dichiara contrario ad ogni riduzionismo, inteso quale tentativo di semplificazione: dire che tutto è cervello o che tutto è mente, non risolve nulla, perchè non sappiamo né in cosa propriamente consista la mente, né cosa includa il termine cervello.
Basandosi su quanto esposto, Bruno Callieri riflette su quella che è la nostra utopia.
L ’uomo che ha questi problemi, che ci coinvolgono in pieno, è ESODO A SE STESSO . L’uomo sta qui, ma sempre per un là; è sempre un transito, un exodus, una via. L’unica cosa statica è il cadavere, l’uomo vivo è qualcosa che si muove, sempre spinto, “portato a”. L’essere-esodo è la radice costitutiva di ogni soggetto ovunque si trovi: nell’ospedale, nell’ospizio, in un lager.
Questo è stato ben capito dallo psichiatra, ebreo, viennese, Victor Frankl, al quale dovremmo un’inesauribile gratitudine, per averci dato “Lo psicologo nel lager”. Egli visse per anni nei lager eppure vi fu come continua apertura, come transizione, riuscendo a trasfondere il rapporto umano in questi esseri che ormai tendevano ad apparire quasi come congelati.
Noi medici dobbiamo temere il pericolo che è sempre presente nella nostra quotidianità: il rifiuto di ogni vera alterità, cioè il rifiuto interno della dimensione interpersonale, di quella dimensione che vuole cogliere il soggetto nella sua autentica relazionalità. L’altro, il “tu”, è relazione con me; e questo, ben oltre le semplici classificazioni, può essere focalizzato secondo i termini: appello, evento, incontro, volto dell’altro: le visage. Quando, nell’ Esodo, Javèh passa, Mosè non ne vede il Volto, ma ne sente l’andare come vento leggero; dell’uomo invece
può scorgere il volto, il volto dell’altro; Caino deve vedere il volto di Abele e viceversa. Il concetto del volto è stato ripreso da Emmanuel Levinas, filosofo lituano, ebreo, francese, che, secondo lui, ha superato persino la roccaforte del pensiero husserliano ed haideggeriano.
Osserva come questo rifiuto di ogni vera alterità sia il nostro peccato originale, perchè quando il medico incontra l’altro, ne fa oggetto della sua indagine: ecco allora che il rapporto duale svanisce, non c’è più il Volto dell’altro; non c’è più il Tu. E’ per questo che sfugge la radicale significatività del rapporto interpersonale. Quindi l’oggettivazione dell’altro lo mette fuori gioco; l’altro, il tu oggettivato, scade perchè solo il tu può essere un alter-ego. Come io debbo essere tu per te, tu devi esserlo per me; se io ti considero oggetto della mia indagine, non posso dire che sei un tu, non posso sostenere l’aspetto relazionale. L ’altro, il tu, proprio perchè è appello, evento, incontro, volto, non posso manipolarlo né empiricamente, né trascendentalmente. Il tu, resta sempre l’alterità che mi si pone di fronte, con le modalità ineludibili dell’incontro. Questo tu è presente, anche se giace irrimediabilmente in un fondo di letto, in situazione di metastasi terminali, quindi oggetto radicale delle mie manipolazioni di medico e delle mie indagini impersonali; anche qui c’è un tu e guai se lo consideriamo solo come un numero, del suo letto! Come non ricordare qui Dante: s’io m’intuassi come tu t’immii’?

Il Prof. Callieri si chiede e ci spiega cosa sia questa alterità. E’ STORICITA’.
L ’uomo è uomo in quanto si fa uomo; l’uomo è un continuo autonarrarsi e noi siamo pure una co-narrazione. Evidenzia l’attualità del problema, destinato a mutare le condizioni del rapporto psicoterapeutico, perchè lo psicoterapeuta capisce che più ha la consapevolezza del co-narrarsi, più riesce a mantenere un rapporto duale che altrimenti sarebbe condannato alla mera oggettivazione del paziente, ponendolo sempre sul lettino. L’alterità dell’altro è storicità che sussiste non come mera natura, come organismo, ma come cultura: lo storicizzarsi come cultura. Egli esprime in proposito, un suo dubbio sul concetto di natura, chiedendosi cosa sia. Per Hadot la verità della natura è lo svelamento di Iside: dietro il velo c’è la natura delle cose. Hadot evidenzia però come dietro il velo di Iside, ci sia un altro velo e un altro ancora; così come aveva detto anche Pirandello: levi la maschera e dietro ce ne è un’ altra. Allora: è la cultura che ci fa parlare di natura? E la natura cos’è? Il mondo del bosco, della selva, del lago, delle solitudini alpine: natura naturans. Noi però non pensiamo solo a quella natura, pensiamo ai nostri prodotti. E cosa vuol dire allora prodotto artificiale? Il prodotto dell’uomo è un prodotto della natura? Se noi siano natura, i nostri prodotti dovrebbero essere naturali: natura naturata. Qui siamo immersi in quello che Heidegger chiamava il sentiero che si perde nel bosco. Vai nel bosco: c’è un sentierino che, mentre cammini, si perde e allora speri d’imbatterti in una radura per potersi raccapezzare, ri-orientarsi, decidersi.
Callieri ci invita a pensare che per realizzarci come storicità, quindi per superare quello che da sempre abbiamo definito natura, dobbiamo dar vita all’incontro tra la realtà propria e la conoscenza dell’altro (da Lacan in poi, attraverso il linguaggio). Quando Lacan dice: “L’inconscio è il linguaggio dell’altro”, significa che il linguaggio è contemporaneamente corpo: aree di WernicKe, Broca, ma è anche storia. Fa notare che quello di cui ci sta parlando, ad esempio, è il condensato di una serie di riflessioni sedimentate in lui negli incontri con gli altri, attraverso una serie di con-versazioni, di riflessioni, anche con se stesso; attraverso una serie di sublimazioni, che non è solo il sublimato corrosivo o la sublimazione freudiana, ma è anche un uscire dal sub-limen, dal “sotto del limite”. Quindi è un linguaggio ricco di evocazioni, da un lato prettamente storiche, perchè c’è tutta la storia delle parole che noi usiamo; e dall’altro esso è evocatore di realtà interpersonali.
Come si fa ad incontrare una persona se non tramite un linguaggio, che può essere anche il linguaggio degli occhi? “Se tenir par les yeux” :tenersi con gli occhi ; non solamente “se tenir par la main”. Certo, due giovani che teneramente se tennient par la main è già molto duale, ma “se tenir par les yeux” è ancora più significativo, allusivo e importante. Noi spesso ci guardiamo allo specchio. Qui non è solo un guardarsi dell’io e dell’alter-ego, ma è il guardarsi Me-Io, davanti allo specchio. Qui c’è la storia , tutta la sua inerenza: il bambino al nascere non è storia; solo più tardi comincia a guardarsi allo specchio e si riconosce: “io sono me”. Il bambino si riconosce prima nel volto della madre: “se regarder dans le visage de la mère”; è da lì che il piccolo apprende a sentire “son visage”: aspetto spesso trascurato dagli psichiatri infantili che, a volte si rifugiano in categorie troppo precise, regolate in base a preordinati schemi di sviluppo.
Il Prof. Callieri chiarisce che quando noi parliamo di STORIA INTERIORE DI VITA, non ci riferiamo all’ANAMNESI che, pur se completa, perfetta, non corrisponde mai alla storia interiore di un individuo, fatta di piccole sfumature, che poi invece sono quelle massicce sfumature su cui si costruisce il nostro esserci individuale e duale, in tutti i suoi adombramenti. Sfumature di cui a volte non siamo nemmeno consapevoli, ma che ci danno la nostra individualità e che mettono in relazione me e te, l’io e il tu. Allora questo “regarder”, questo “se tenir par les yeux”, non è legato solo alla funzione ottica o visiva. Nella lingua tedesca c’è distinzione tra il vedere e il guardare; è lo sguardo che permette di cogliere le sensazioni di quello con cui ci incontriamo: il nostro paziente. Ciò è fondamentale per capire l’alterità radicale dell’altro che, anche se distorta, è un’alterità non oggettivabile, eppur sempre coinvolgente.
Egli sottolinea che l’’importanza dell’uomo è l’INDICIBILE e i SILENZI.
Indicibile è la regione di quello che non verbalizziamo non perchè ci manchino certe parole o il tempo, ma perchè è quell’atmosfera che si costituisce in noi ed emerge da un gesto, da una sfumatura, tramite la capacità verbalizzante della mimica: un semplice cenno può schiudere subito a un rapporto. Così ecco l’importanza dei silenzi: a volte quello che conta di più non è ciò che diciamo, ma i silenzi da cui il detto proviene. Non sono i silenzi che intervallano le parole, ma le parole che interrompono i silenzi, per dar loro tempo di comprendersi. Ci sono dei silenzi più significativi di tante proposizioni verbali, dietro le quali il paziente si maschera, si confonde con se stesso. Sono silenzi eloquenti.
Per il medico è basilare il LESSICO DEL CORPO; non soltanto come organi da esaminare, alla vecchia maniera che al medico consegnava la possibilità di palpare il corpo. Oggi alla nuova maniera, tramite le neuroimmagini, il discorso con l’altro è sempre più affievolito, non esiste più un altro: esiste il passaggio dal radiologo al neurologo, tramite le neuroimmagini.
Ciò è utilissimo, ma non basta nell’educazione universitaria del medico. Il lessico del corpo diventa, per il colloquio medico, un importante punto di riferimento iniziale per l’illuminazione clinica, il che significa apprendere a saper ascoltare le vibrazioni del corpo dell’altro per avere il senso della sua sofferenza: savoir, faire et savoir-faire, come dice George Lanteri-Laura. Si può spiegare un dolore, ma si perde il senso della sofferenza dell’altro e quindi perdere la possibilità del cumpatire, senza la quale il medico, psichiatra o psicologo, è destinato a perdere il contatto con la sua “meità”, col tu dell’altro, oggi sta smarrendosi l’enorme valore del rapporto duale. A lui con i suoi pazienti, con i quali ha sempre cercato di avere rapporti radicalmente umani, non è mai venuto in mente di by passare il rapporto, anche tattile e poi riprenderlo attraverso lastre fotografiche.
Ricorda il significato di coscienza incarnata nell’altro (Merleau-Ponty): lo sguardo, il tono della voce, i silenzi, i gesti, la mimica, lo stile motorio che contraddistingue ognuno. Tutte queste cose consentono la presa di coscienza di “lui sofferente” che viene da me, nella sua irriducibile ecceità, nella sua singolarità; Kierkegaard parlava d’irripetibilità della persona. Noi medici oggi tendiamo a vedere il corpo ridotto a mera costruzione; tutti i trattati di anatomia, d’istologia, di neurofisiologia sono perfetti, ma mera costruzione, cioè un modello stereotipo, una fiction.

Callieri termina dicendo che i fenomeni che ci sostengono nel singolo incontro, non sono mai osservabili in maniera neutrale e astorica perchè in questo modo vediamo la fettina al microscopio e non l’ individuo palpitante, vivo, così come non lo vediamo alla radiografia. Soprattutto come fenomenologo, ma anche come psichiatra e psicopatologo, pensa che la cosa più importante da dire è che tutti noi dovremmo realizzarci come antropologi: antropos, l’uomo per l’uomo.

Fa seguito alla relazione il dialogo tra i partecipanti:


Il Prof. R. Pisani lo ringrazia il Prof. B.Callieri per la lezione di antropofenomenologia. Evidenzia che nell’introduzione ha detto come questi seminari oltre l’opportunità di dialogare tra di noi per l’approfondimento della conoscenza, siano anche incontri dialogici autentici, che offrono il piacere di stare insieme.
Mentre ascoltava ha considerato l’ importanza del corpo: i neuroni specchio, le neuroimmagini, le catecolammine, sono solo un substrato che deve mettersi in contatto col mondo esterno.
Sottolinea come la differenza tra un approccio antropofenomenologico e uno gruppoanalitico consista solo nell’allargamento del noi, che è multipersonale.
Porta un’altra riflessione sul rispecchiamento e sulla risonanza che, come diceva Foulkes, sono gli strumenti fondamentali con cui noi entriamo in relazione con gli altri. Rispecchiamento è il se regarder: mentre parliamo con un altro vediamo una parte di noi; facciamo un continuo confronto tra ciò che l’altro rappresenta di me e ciò che lo differenzia da me.
La risonanza ha a che fare con la risonanza affettivo-emotiva. Se noi materializziamo il nostro approccio e lo riduciamo alle catecolammine, serotonine... perdiamo la parte più importante: l’incontro, non solo con il dolore come fenomeno fisico, ma anche con la sofferenza, che è un fenomeno affettivo.


Il Dr. W. Lusetti fa riferimento alla premessa che ha fatto da battistrada alla relazione: la tendenza alla botanizzazione della psicopatologia. La domanda è “Quando e come è cominciato questo processo nella psichiatria”? La sua ipotesi è che non ci sia un momento particolare, perché ciò attraversa tutta la cultura occidentale. Chiede allora che cosa abbia spinto la cultura occidentale verso questa misura estrema dell’oggettivarsi.

Il Prof. Callieri evidenzia la portata filosofica della domanda. Lascia la parola alla filosofia occidentale, a quando comincia il razionalismo, in epoca cartesiana e poi con l’illuminismo. Avverte tuttavia in sè una contraddizione perchè questo stesso divaricarsi della res cogita dalla res extensa, lo troviamo nel decadere della scolastica alla fine del XIII, inizi del XIV sec. e, se andiamo più indietro, nel III – IV sec. d.C. quando nasce la gnosi, la razionalizzazione del messaggio che era ad personam. Si riferisce a Cartesio che ci ha messo tutti in grande difficoltà, pur essendo un uomo completamente diverso dall’uomo che abbiamo conosciuto attraverso i manuali degli studi liceali. In una lettera dice che si sente come il nauta che guida la barca, ma e’ strettamente legato alla sua barca e fa tutt’uno con essa. Cosi’ la distinzione tra res extensa e res cogitans si annulla, pero’ intanto lui l’ha codificata e soprattutto quelli che sono venuti dopo e hanno aderito al cartesianesimo. Potremmo dire che oggi c’e’ un predominio assoluto delle scienze cartesiane, pero’ del Cartesio malinteso: l’aspetto delle lettere intime di Cartesio non viene toccato e viene privilegiato l’aspetto del dualismo cartesiano, per cui il medico deve studiare il corpo dell’altro. Io come res cogitans, studio il corpo come res extensa; io come chirurgo cogito e studio la mano malata, perchè la devo operare, ma la mano con cui io uomo, accarezzo l’amata, mi appartiene: sono io che accarezzo. Invece il corpo che dò al chirurgo non e’ un io, e’ un pezzo anatomico, pur vivente. Qui c’è l’equivoco tra cogitans ed extensa e noi ci siamo in pieno in questo equivoco, come dimostra il neurone-specchio: è un trabocchetto da cui è difficilissimo uscire.

Riprende la parola il Dr. W. Lusetti che, rispetto al perchè posto nella sua domanda, avanza l’ipotesi che la società occidentale abbia percepito la morte molto più massicciamente delle altre civiltà e abbia cercato di padroneggiarla, distanziandosene attraverso l’oggettivazione, altrimenti non si riesce a capire perchè proprio in Occidente sia nata questa dicotomia.

In risposta il Prof. Callieri dice di voler ricordare solo un dato storico. Si riferisce al prof. Danilo Cargnello, allievo di Binswanger e suo maestro in molti pensieri, il quale scrisse un saggio mirabile “ DELLA MORTE E DEL MORIRE IN PSICHIATRIA”, da lui ripreso in alcuni suoi lavori. Non è tanto il pensiero della morte, quanto il morire. Come fenomenologo, psichiatra, quale era lui, incontra il morire dell’altro. Si riferisce poi ad un libro che ha letto su come si muore, con pagine e pagine di descrizioni incredibilmente precise di sensazioni ricostruite, di colui che affoga, di colui che muore quando il cuore cessa di battere. Invece il morire come lo intendono gli antropologi, in psichiatria, è come muore l’individuo che ha un senso di colpa; come pensa al morire un individuo ateo; un individuo dilaniato da dolori atroci; quindi il morire come liberazione, ma allo stesso tempo l’affollarsi di pensieri. Di questo abbiamo libri meravigliosi come “La morte amica”, di M. De Hennezel, la psicologa di Mitterand, che ha studiato negli istituti parigini dei malati terminali, quando la morte è amica. Oggi stiamo rivedendo questo con la morte dignitosa, addomesticata, l’eutanasia che vede il coinvolgimento di tutta una serie di teoresi, ideologie, credenze e cosi via.
Il morire è un conto, la morte un altro. Il filosofo stoico non parla del morire, ma della morte. Seneca specula sul concetto di morte, quindi la cosmologia della morte. Il morire emerge all’inizio dell’ 800, con il romanticismo, con la psichiatria romantica. Il positivismo se ne impossessa, nel senso di “quanto tempo avrò per esalare l’ultimo respiro?” e il medico risponde “tra due, tre ore”, ma questa è un’altra cosa.

Il Dr.G. Gagliardi afferma che gli interventi del Prof. Callieri gli creano sempre una piacevole confusione. Osserva che egli è partito dalle psicosi atipiche, dal concetto di schizoaffettivo, convinto che questi concetti avranno notevole successo e poi invece si è detto pessimista rispetto al futuro in psicopatologia. Mentre lo seguiva pensava però alla pratica quotidiana. Chiede come l’ appello, l’evento, l’incontro, il volto dell’altro, possano conciliarsi con quello che viene richiesto a coloro che lavorano nei servizi; con gli aspetti legati al budget, alle classificazioni, al DSM che diventa fondamentale per il trattamento, per l’attribuzione e il tipo di terapia. Forse nello studio privato si possono considerare questi aspetti, non conciliabili nei servizi, legati alla carenza, alla mancanza di fondi che determinano il trattamento.

Il Prof. Callieri si riferisce alla politica di declassamento della professionalità psichiatrica e di devoluzione delle competenze diagnostiche e terapeutiche a figure professionali non mediche; la politica del cartello multinazionale degli psicofarmaci; la politica del riduzionismo operazionistico dei vari DSM: politica che senza dubbio ci rende schiavi. Evidenzia come gli aspetti toccati da questo intervento, siano un ulteriore rinforzo del timore che le cose divengano più forti di noi, ci prendano la mano, senza possibilità di nostra opposizione.
Bisognerebbe che nelle università, per i futuri medici ci fosse un aspetto non solo di etica professionale ma, come lo immagina lui, accanto allo studio della anatomia, fisiologia, psicologia, patologia, ci fosse uno studio di tipo antropologico che manca: e questo è un pesante ostacolo. D’altra parte, se operiamo con una professionalità essenzialmente pragmatista, tutto ciò non può interessare ai giovani medici. La medicina di 60 anni fa ora è solo un ricordo. Ricorda con emozione, durante il suo terzo e quarto anno di medicina, l’impostazione del prof. Pontano che pretendeva dai suoi studenti lo sguardo clinico, come irrinunciabile prerequisito alla professione medica, in contrapposizione alla fredda oggettivazione del prof. Frugoni.

La Dr.ssa L. Taborra ringrazia il Prof. Callieri per l’esposizione complessa, interessante, ricca, ma per lei anche inquietante. Si riferisce all’aspetto del linguaggio del corpo che è il linguaggio del cuore. La mimica, la gestualità tradiscono emotività, per questo le fanno venire in mente il linguaggio del cuore. Riflette che in una relazione duale o gruppale quello che passa non è il verbo, ma tutt’altro; anche il silenzio come stato emozionale, non verbalizzato. Quello che arriva all’altro, il tu, non è il verbo, ma ciò che ognuno ha dentro, cioè l’emozione che accompagna il verbo e che non sempre ne è in sintonia. L’ inquietante è che allora diventa una modalità invisibile. L ’uomo è governato nella relazione da un’ invisibilità: cognitivamente posso dire quello che penso, ma in realtà è l’invisibile quello che agisce. Si sofferma poi sull’empatia, a cui il Prof. Callieri ha accennato, che per lei, o si possiede o no: anche questo l’inquieta. Si chiede se rimarrà sempre così o si potrà apprezzare qualcosa di più in merito ad una didattica diversa nelle Università, che affronti ad esempio l’intelligenza emozionale.

Il Prof. Callieri evidenzia come l’attesa, che lo riguarda, sia ben diversa dalla speranza che ha lei, in quanto giovane e che potrebbe davvero angustiarsi se continuasse un trend di questo tipo.
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La Dr.ssa A.M. Meoni intende, con il proprio intervento, gettare uno sguardo al futuro. Mentre ascoltava ha avuto il pensiero dominante che lei è stata l’ultima ad avere maestri di un certo tipo. Dopo di che il “diluvio”, come le risulta dalla frequentazione dei giovani medici che iniziano a lavorare. Aggiungerebbe al titolo della relazione non solo “ignoranza”, ma anche “opportunismo”, sottolineando il peso delle due cose che si coniugano. Andando sul futuro, riferisce di aver letto un articolo sugli innumerevoli mezzi di comunicazione che oggi si hanno a disposizione sul piano dell’ alta tecnologia. L’autore concludeva evidenziando l’indecisione rispetto all’uso: per avere una comunicazione efficace, non conoscendo le abitudini dell’altro, non si sa quando usare un mezzo o un altro: il fax o il telefonino. Alla fine, con tutto il rispetto per le nostre preoccupazioni, le cose si rinvolgono. Alla fine ci si renderà conto che c’è bisogno di qualche cosa e si dovrà risalire la china dell’ignoranza, dell’opportunismo e mettere le gambe in spalla per recuperare. Quindi il mondo moderno occidentale, ma anche quello orientale, ha delle possibilità tecniche-comunicative molto grandi, ma ha l’impossibilità di utilizzarle perchè ha perso il sapore della relazione.

Per problemi di tempo il Prof. Pisani invita ad ascoltare altri interventi, proponendo al Prof. Callieri di unificare le risposte.

La Dr.ssa G. Valacca ha sentito tante cose coinvolgenti, ma in particolare ha avuto un’ immagine sentendo parlare dei neuroni specchio, che le danno l’idea della possibilità della relazione. Però una relazione è un concetto che mette insieme due ambiti distinti da collegare: da una parte è un concetto oggettivo che ha il neurone quale riferimento anatomico; dall’altra, possiamo intenderlo nella sua funzione psicologica. Il problema è allora collegare un ambito della morfologia, con un ambito della psicologia e diventa abbastanza complicato. Potrebbe essere un concetto che mette in evidenza l’inconciliabilità di ambiti del conoscere. Ha trovato però importante l’impostazione volta al recupero delle modalità. Parlando di empatia è basilare quella dello sguardo, non soltanto nell’ambito medico, ma anche nel semplice stare-con. Lei non pensa che le ultime generazioni non posseggano questa capacità di sguardo, ma lo impegnano in modo diverso da come noi potremmo immaginare. Pertanto se noi poniamo un percorso di conoscenza secondo uno schema percorribile, non tutti percorrono quello schema, ma un altro schema che lei non conosce e che loro stessi arrivano a conoscere solo dopo averlo già percorso, mettendo insieme delle forme di conoscenza e delle possibilità di giungere al sapere in un modo altro, forse anche destrutturato.

Il Dr. S. Zipparri si dichiara sempre ammirato dalle relazioni del Prof. Callieri, ma oggi ancora di più avendogli dato l’idea del vecchio saggio. Evidenzia che il suo riferimento è al concetto di vecchiaia che tutti sottoscriverebbero, avendo la possibilità di arrivare cosi lucidi, all’ età del professore. Su questa immagine di saggezza chiede cosa faccia sì che ci sia un distacco dalle mode, dai percorsi materiali; propone l’idea di una saggezza distaccata dal contingente, quale una delle maggiori risorse che si possono trasmettere nel rapporto col paziente.


La Dr.ssa G. Valacca interviene, non condividendo l’attribuzione al Prof. Callieri, di questa immagine di saggezza che le sembra molto da mezzo busto: una connotazione bloccante. Sottolinea invece l’importanza dell’aspetto dinamico, l’aspetto paritetico della comunicazione, testimone di vivacità.

Callieri, in merito ai problemi di tempo è d’accordo sul mescolare le risposte, contando sul fatto che ognuno colga il pensiero relativo al proprio intervento. Riporta il discorso nell’ambito della vitalità che è in ognuno di noi e che lo ha fatto ripensare ad una sua relazione a un convegno a Chiavari, con una discussione sulla vecchiaia tra emarginazione e creatività. Noi ci troviamo di fronte ad una creatività data gratis; nessuno sa se egli potrà continuare ad essere creativo. E’ una creatività concettuale che ti è data, ma che ti può essere tolta da un momento all’altro; ma non puoi eludere il compito di dominarla, manipolarla, riproporla a te stesso e agli altri. E’ stato anche detto che è in noi la minaccia dell’involutività, ma il vecchio percepisce anche l’essere messo da parte pian piano dagli altri. Questa marginalizzazione lenta, subdola, continua, una volta è motivata dal fatto che per un dolore non puoi andare a quella riunione, un’altra volta dal fatto che ti dimenticano. Sono una serie di considerazioni per cui ti accorgi di pensare al bicchiere mezzo vuoto.
Si riferisce poi all’interrogativo che lo ha turbato, sollevato dal rischio che tutti corriamo, tra episteme ed ermeneutica. L’intervento (dr.ssa Valacca) epistologicamente è perfetto, ma come ermeneutica lo colpisce in quanto è frutto di un’interpretazione. Nel gioco continuo e sghimbesciato tra epistemologia ed ermeneutica, lei da buona psicologa, psicoanalista, deve fare un’ opzione per l’ermeneutica. In questo senso siamo tutti più disposti a sacrificare un pò di epistemologia, pur di possedere la nostra capacità ermeneutica di cogliere qualcosa dell’altro da me.
Conclude, augurando che tutti abbiano molto tempo per elaborare ed arricchire interiormente questa capacità, perchè crede che la vitalità del pensiero dell’uomo sia proprio la sua capacità d’ermeneutica.


Note di redazione:
(r) registrazione vocale della lettura presentata così come il dialogo nel dibattito a seguire rivista dal relatore Prof. Bruno Callieri.
Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com

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