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Seminari
di Neuropsichiatria, Psicoterapia e Gruppo Analisi
2005 - 2006


Cannibalismo e Evoluzione

Dr. Volfango Lusetti



Il cannibalismo e l’origine della coscienza
Questo lavoro nasce da una certa sfiducia circa la possibilità che la Psichiatria di tipo “medico”, basata su discipline come genetica, biochimica, farmacologia e statistica, possa mai venire a capo, da sola, del mistero delle malattie mentali.
Tuttavia, una maggiore coscienza critica sui limiti di queste discipline sembra avere pervaso negli ultimi anni una parte della Psichiatria, dopo la sbornia riduzionista che ha imperversato a partire dagli anni Ottanta del secolo ventesimo; perciò speriamo che un’impostazione fortemente innovativa come quella che ci accingiamo a proporre possa suscitare almeno un po’ di curiosità.
Un approccio diverso, di tipo evoluzionistico, alle malattie mentali, è stato più volte immaginato possibile, e sempre abbandonato. Kraepelin, fondatore della Psichiatria nosografica, e lo stesso Freud, sono forse gli esempi più illustri di ciò; ma gli stessi Nesse e Williams, fondatori della medicina darwiniana, si sono in più occasioni dimostrati assai scettici in proposito. La principale ragione potrebbe risiedere nel fatto che la Psichiatria, la disciplina medica meno “falsificabile” nel senso popperiano del termine, ha sempre sofferto di un forte complesso di inferiorità nei confronti delle altre, ed in generale, verso le discipline “scientifiche”.
Infatti, anche studiosi del calibro di Arieti, Crow, Jaynes, non appena si sono cimentati con un’ipotesi evoluzionistica di spiegazione delle “malattie mentali”, sono stati letteralmente “fatti a pezzi” dalla Psichiatria accademica, e dall’insieme del mondo scientifico, quasi fino a perdere la loro credibilità. Ciò è avvenuto malgrado lo stesso Kraepelin, in una fase iniziale, fosse stato un evoluzionista, ed a dispetto della crisi sempre più evidente della Psichiatria, intesa come sistema nosografico medico.
Evidentemente, l’idea che gli inquietanti contenuti del pensiero delirante-allucinatorio siano il frutto di una “malattia”, è solo una delle numerose idee auto-consolatorie dell’uomo ha di sé stesso, e come le altre tende per sua natura a resistere strenuamente ad ogni evidenza; essa sembra infatti molto adatta rendere la coscienza collettiva più tranquilla, esattamente come il famigerato assioma di Griesinger, che coincise con la nascita della Psicopatologia: “Le malattie mentali sono malattie del cervello”. Del resto, gli stessi asili per “malati di mente”, i “Manicomi”, nacquero proprio per occultare la follia e per tacitare la coscienza collettiva; e ciò avvenne molto prima che Pinel ed Esquirol li mutassero in istituzioni “mediche” ed usassero così la medicina allo stesso fine di occultamento e di consolazione.
Tuttavia esiste un altro elemento, oltre la crisi della Psichiatria, che va a favore dell’approccio evoluzionistico alle malattie mentali: l’evoluzionismo può essere falsificato solo dall’osservazione delle variazioni fra specie affini; quella umana, però, più che ogni altra specie, è una specie “solitaria”, senza parenti stretti. Perciò, l’unico campo di osservazione a disposizione di un evoluzionista che voglia dedicarsi all’uomo è proprio la mente, con le sue enormi variazioni individuali e collettive: in particolare, le sue variazioni di ordine psicopatologico, le quali, data la loro presenza costante in tutti i tempi e le culture di cui si abbia memoria, sono suggestive di una qualche misteriosa “utilità”; e sembrano quindi un retaggio, enigmatico ma in qualche modo significativo, dell’evoluzione della specie.
Il sottoscritto, dunque, proporrà una serie di ipotesi sull’origine dell’uomo, della mente, del linguaggio e della coscienza, che di sicuro sembreranno a molti arbitrarie, troppo ardite ed ambiziose, indimostrabili, e quant’altro. Si tenga conto, però, che quanto segue è stato concepito in una forma ipotetica, dubitativa, quasi “narrativa”: senza pretendere cioè che gli eventi della storia della specie qui ipotizzati siano tutti “veri”; ci si accontenta che essi siano verosimili, perché ci sembrano seriamente suffragati da una ingente mole di indizi che in futuro potranno essere “falsificati”, quindi confermati o smentiti, da parte dell’antropologia come della psicopatologia, della paleontologia come delle neuro-scienze.
Ma soprattutto, la strada impervia che il sottoscritto ha seguito è forse l’unica strada possibile, per i motivi sopraccennati, se si vuole tentare di capire dal punto di vista scientifico l’evoluzione della natura umana e l’origine delle forme psicopatologiche.
Un simile obiettivo, infatti, comporta da un lato la necessità di fare prevalere decisamente il metodo ipotetico-deduttivo su quello induttivo-sperimentale (e quindi anche un uso, che può apparire sfrenato, dell’intuizione e della sensibilità soggettiva); dall’altro lato, comporta la necessità di “osare”, quindi di esaminare “radicalmente”, dal punto di vista biologico, anche i più complessi ed intricati problemi che la natura umana pone.
Il primo di questi problemi è il ruolo che il “male” sembra avere assunto come elemento centrale dell’intreccio, tipico dell’uomo, fra natura e cultura; il secondo, è il fatto stesso che un tale intreccio sia stato possibile; il terzo problema, infine, è quello di capire se per caso questo indubbio legame fra il “male” e la natura umana, tema finora considerato dominio esclusivo della religione, della morale e della politica, non sia un fatto indagabile anche scientificamente.

In questo lavoro viene dunque enunciato il problema teorico di partenza che ci siamo posti, e sono elencate le nostre ipotesi di base.
Il problema da cui siamo partiti è il seguente: la Psichiatria clinica e la Psicopatologia hanno finora cercato di individuare soprattutto nella qualità formale del pensiero e del comportamento, la chiave di volta per capire ed inquadrare i disturbi mentali.
Solo la Psicoanalisi si è sforzata di volgere la propria attenzione anche ai contenuti di questo pensiero ed alle possibili finalità di questo comportamento “patologico”, attribuendoli all’azione di “forze” psichiche ancestrali; ha ritenuto, cioè, che sforzandosi di illuminare la loro origine dal punto di vista antropologico, avrebbe potuto capire meglio la loro stessa dinamica.
Questo sforzo però, pur avendo fornito alla Psicoanalisi le sue basi teoriche e la sua stessa connotazione di Psicologia “dinamica”, si è interrotto ben presto: il pensiero psicoanalitico ha abbandonato precocemente l’ottica antropologica e filogenetica, ed è tornato a concentrarsi sugli aspetti “patologici” ed ontogenetici della sofferenza umana, riallineandosi così, quasi immediatamente dopo essere nato ed avere enunciato i suoi propositi rivoluzionari, alla Psichiatria di indirizzo medico.
La Psicoanalisi ha perciò finito per trascurare, dopo l’entusiasmo iniziale, proprio il suo punto di partenza, la sua specificità, ed ha finito per enfatizzare quello che la accomunava alla medicina: lo studio dell’anamnesi individuale, e delle relazioni fra quest’ultima e la presunta “malattia” che colpirebbe l’individuo affetto da “follia”.
Freud, in definitiva, esordì ponendo il problema delle malattie mentali, e quello dell’origine della mente umana, su un piano di ricerca assolutamente nuovo e rivoluzionario; poi, misteriosamente, rinunciò a questa impostazione, e tornò ad una visione molto più tradizionale delle cose, che la caratterizza tuttora.
Se dunque vogliamo tornare ad occuparci dei contenuti, davvero strani ed inquietanti, del pensiero dei malati di mente, e non solo della loro supposta genesi individuale o della espressione formale (che talora è molto alterata, ma altre volte quasi indenne), occorre partire dal fatto che questi contenuti sono caratterizzati da una cospicua componente persecutoria; e occorre poi chiedersi il perché di ciò.
La componente persecutoria permea di sé non solo i disturbi di tipo schizofrenico e paranoideo, ma la maggior parte dei disturbi di personalità, le psicopatie criminali, i disturbi “affettivi” maniacali e depressivi di tipo psicotico, i disturbi nevrotici e di “dipendenza”, la anoressia mentale, ecc.
Essa, inoltre, emerge con grande evidenza perfino nei disturbi di chiara matrice organica (demenze, epilessie, insufficienze mentali, autismo infantile).
Ancora, infiltra profondamente di sé istinti apparentemente lontani da quello predatorio, quale l’istinto sessuale, come bene si osserva nelle perversioni: in particolare, ciò avviene nelle due forme a nostro avviso più paradigmatiche del carattere predatorio della perversione, il sado-masochismo e la pedofilia.
Insomma, l’ideazione predatorio-persecutoria è un modello comportamentale di base che investe sia il comportamento esteriore della nostra specie che la sua interiorità, e si manifesta sia nelle situazioni di stress che nelle fantasie spontanee.
Una domanda, preliminare ad ogni altra, che dovremmo porci, dunque, nell’investigare la natura umana, è la seguente: come si spiega l’onnipresenza della componente persecutoria nei disturbi psichici? Ed in secondo luogo, come si spiega essa nel comportamento generale dell’uomo?
Dal primo punto di vista
, la ricerca psicopatologica ha finora indagato il decorso delle manifestazioni cliniche di tipo psichiatrico, il loro esito ed aggregazione in quadri coerenti (ad es. con Kraepelin), la qualità delle loro associazioni psichiche e la importanza “nucleare” di tale qualità per il decorso delle malattie più gravi (con Bleuler), il valore diagnostico differenziale dei loro sintomi (con Schneider), la loro comprensibilità empatica all’osservatore (con Jaspers), la loro genesi ed i loro precursori (con Huber); però ha sempre trascurato di porsi la domanda fondamentale sull’origine ed il significato del contenuto persecutorio di tali disturbi. Di Freud, abbiamo già detto.
Dal secondo punto di vista, quello dell’origine della mente umana e della coscienza, così come essa traspare dalla storia della cultura, occorre chiedersi perché mai il mito, la fiaba, la letteratura, le religioni, la magia, siano così pervase da elementi di tipo predatorio e persecutorio. Oppure (specie nel caso della magia e delle religioni), da “formazioni reattive” verso la persecuzione predatoria, che hanno il compito evidente di controllarla e di padroneggiarla.
Questa domanda, in realtà, gli uomini se la pongono da sempre, nella forma dell’eterno interrogativo religioso sull’origine del “Male”; ma quasi mai si sono chiesti perché fra la malattia di mente e la cultura umana esista un cospicuo elemento comune di carattere persecutorio, e perché esso possieda una così decisiva rilevanza per sia per il “normale” che per il “patologico”.
Un’altra domanda fondamentale circa la natura dell’uomo, poi, è forse ancora più importante ed intrigante di quella circa la natura persecutoria del suo modo di vedere il mondo, ed è la seguente: perché l’uomo, fra tutti gli animali, è quello che, più di ogni altro si dimostra abile nello sfruttare in vario modo (dal più violento e cannibalico al più pacifico e cooperativo) le risorse che provengono dagli altri uomini? Perché, insomma, egli è non solo uno degli animali più sociali che si conoscano, ma è anche quello più capace di sfruttare spietatamente, e fino all’osso, le potenzialità che da tale socialità derivano, estendendo poi questa sua capacità ad uno sfruttamento intensivo della natura stessa?
Detto in modo più chiaro ancora, perché egli è il più capace di usare sia i propri simili che il mondo intero? Ed ancora, perché riesce a tale scopo a fare coesistere, anzi ad intrecciare inestricabilmente, la propria sviluppatissima socialità con un’altrettanto elevata attitudine aggressiva e predatoria?

Il sottoscritto cercherà di rispondere ad entrambe queste questioni (quella dell’importanza degli aspetti persecutori nella vita mentale dell’uomo, e quella della sua incredibile capacità di servirsi dei propri simili, in forma sia servile che cooperativa, nonché dell’intreccio che esiste nella natura umana fra elementi predatori ed elementi sociali), e lo farà partendo da una serie di ipotesi, consequenziali l’una all’altra, che ora illustreremo.

La nostra prima ipotesi parte dall’idea che l’origine nell’uomo del problema predatorio e di quello persecutorio che vi è connesso risieda nel cannibalismo: in particolare, nel cannibalismo rivolto alla prole
Il nostro lavoro parte dall’ipotesi che tale cannibalismo, una volta innescato, abbia costituito una sorta di fattore selettivo, ossia che abbia esercitato sulla specie umana una pressione proveniente dalla specie stessa; questa pressione, proprio per la sua natura “interna”, è stata costante nel tempo ed ha spinto la specie ad una spettacolare evoluzione, in apparenza “finalizzata” al conseguimento dell’intelligenza.
Questa ipotesi centrale viene accompagnata da un insieme di ipotesi accessorie:

1) E’ verosimile che nel processo di evoluzione che ha portato alla nascita della nostra specie, abbiano ad un certo punto operato, con inconsueta intensità, fattori selettivi ambientali, molto violenti e “catastrofici” (ad es. una improvvisa penuria di cibo), i quali indussero i nostri progenitori ad una risposta di tipo cannibalico; ma questa risposta trasformò l’occasionale catastrofe esterna che aveva innescato il processo, in una permanente catastrofe “interna”, la quale innescò ed esercitò una continua pressione selettiva sulla nostra specie, proveniente però dal suo stesso interno.
2) Il cannibalismo degli ominidi può inoltre avere avuto, come precursore, un’attitudine predatoria occasionale rivolta a specie affini, quale quella che si osserva ad es. negli scimpanzè verso le “scimmie rosse”. Oppure il precursore del cannibalismo può essere stato di tipo opportunistico: infatti molti primati manifestano, in condizioni di penuria, comportamenti di sciacallaggio.
3) Tale cannibalismo comunque, predatorio o opportunistico che fosse, essendo nato nel contesto di condizioni ambientali fattesi improvvisamente proibitive e scarse sia di flora che di fauna, può essersi rivolto ad un certo punto verso la preda più facile: la prole, verso la quale, con ogni probabilità, già da tempo si indirizzavano i comportamenti aggressivi del maschio (come si osserva ancora oggi, sporadicamente, nei primati più vicini all’uomo, come lo scimpanzé).
4) Il cannibalismo verso la prole fu inoltre preceduto da alcune caratteristiche di base, le quali avevano reso la nostra specie molto plastica, ossia capace di inventarsi le più disparate strategie di sopravvivenza, ed anche di usare strumentalmente l’ambiente: il bipedismo, una grande abilità manuale, un alto grado di intelligenza sociale, una competizione riproduttiva basata sulla fertilità sessuale più che sulla forza fisica, una forte duttilità comportamentale, un’abitudine alla dieta onnivora, un’attitudine predatoria già sviluppata e volta prevalentemente verso specie affini. Perciò il cannibalismo, inizialmente, non fece altro che aggiungere, a tali caratteri “vantaggiosi”, il vantaggio decisivo di una dieta carnea sicura e continuativa, perché proveniente da una predazione relativamente “facile” e poco pericolosa: quella esercitata ai danni dei piccoli, ossia dei membri più indifesi della specie. Il cannibalismo perciò, sia in virtù del vantaggio nutrizionale che assicurava, sia in virtù dei suoi vantaggi selettivi di cui parleremo fra poco, divenne, nei nostri progenitori, un tratto così utile da non essere più abbandonato. Esso subì però, nel tempo, numerose trasformazioni che lo resero meno cruento e più compatibile con la sopravvivenza della specie.
5) Il cannibalismo, inoltre, fu agito non solo verso la prole, ma anche verso la femmina che la difendeva e verso i membri più deboli del gruppo, dando al maschio adulto, nell’immediato, un forte potere di selezione della specie.
6) L’attacco alla prole, in particolare, assicurava al maschio, oltre che una dieta carnea, un sicuro vantaggio genetico sui rivali: infatti secondo l’antropologia moderna i maschi dei nostri progenitori si comportavano probabilmente in maniera promiscua ed erratica, e vivevano perciò in gruppi a “scissione-fusione” continua (come del resto fanno tutt’oggi i nostri “cugini” più prossimi, scimpanzé e bonobo) piuttosto che in clans gerarchizzati e strutturati attorno ad un maschio dominante e stanziale e ad un “harem” di femmine che lo attornia (come fanno i maschi dei gorilla); ma per tali ragioni i maschi appartenenti alla specie dei nostri progenitori non avrebbe avuto altri maschi del gruppo con cui doversi confrontare in “tornei” per la competizione riproduttiva; la strategia riproduttiva di una tale specie, perciò, sarebbe potuta consistere, semplicemente, nello “sgombrare” il campo dalla prole di femmine così promiscue ed infedeli, al fine di avere maggiori probabilità di fare posto al proprio patrimonio genetico. Tutto ciò poteva peraltro avvenire senza che il maschio corresse rischi eccessivi di eliminare, col cannibalismo verso i piccoli, i propri stessi figli: infatti la sua erraticità lo portava a spostarsi continuamente rispetto alle femmine del branco, e rispetto ai branchi stessi, “seminando” così ovunque la propria progenie.
7) In queste condizioni, che avrebbero messo a rischio la sopravvivenza di qualunque specie, risultò decisiva, per la salvezza dei nostri progenitori, l’abilità della femmina nell’inventarsi di continuo strategie idonee a salvare la propria prole (e talora sé stessa) dal maschio cannibalico. Queste strategie si imperniarono, secondo noi, da un lato sull’abilità della femmina nel condizionare in vario modo il comportamento cannibalico dei maschi, e nel selezionare fra loro i meno cannibalici, al fine di accoppiarsi; dall’altro, sulla sua abilità nel selezionare la prole più intelligente, socievole e sessualizzata, cioè la più adatta a sopravvivere in un contesto sociale predatorio.

La seconda ipotesi è che il comportamento cannibalico maschile, per rimanere vantaggioso a lungo e non condurre nuovamente la specie all’estinzione, abbia richiesto degli imponenti correttivi biologici, la cui invenzione spettò al sesso femminile.
Tali correttivi furono inizialmente di ordine sessuale, e consistettero in una forte implementazione della vita sessuale della femmina: questa si ipersessualizzò, e ciò consentì alla specie di arginare il cannibalismo maschile verso la prole; infatti, l’ipersessualizzazione del comportamento dette alle femmine la possibilità di effettuare un inedito, e particolarissimo, scambio “sesso contro carne” col maschio cannibalico: quello del proprio sesso, contro la carne e la vita dei propri piccoli. Vediamo dunque uno per uno questi correttivi sessuali.

1) il ciclo sessuale della femmina, imperniato, in molti mammiferi ed in tutti i primati, sull’estro, e sulla conseguente ciclicità dell’accoppiamento nonché del richiamo sessuale femminile al maschio, venne superato: la vita sessuale della specie divenne perenne. La scomparsa dell’estro femminile rappresentò un evento unico, comparso solo nella nostra specie, e fu la chiave della risposta sessuale fornita dalla femmina al cannibalismo maschile verso la prole: infatti la sessualità perenne, rendendo la femmina sempre disponibile al coito, attraverso l’aumento dell’offerta sessuale “distrasse” il maschio dal suo comportamento cannibalico verso la prole; inoltre, almeno in un primo momento, ridusse di molto il vantaggio genetico che egli aveva nello sbarazzarsi della prole che attorniava la femmina; la sessualità perenne, infatti, diminuendo l’erraticità dello stesso maschio, aumentava per lui i rischi di eliminare i propri stessi figli, in caso di comportamento cannibalico verso la prole che attorniava la femmina. In altre parole, la competizione riproduttiva si spostò dalla strategia dell’eliminazione del patrimonio genetico dei rivali (rappresentata dalla precedente attitudine cannibalica maschile verso la prole), a quella dell’aumento della fertilità sessuale maschile, dell’aumento degli accessi alla femmina, e della permanenza più lunga possibile accanto a lei.
2) In un secondo momento, però, avvenne l’inverso: in una specie che di base era già molto promiscua, e nella quale non era mai esistito un unico maschio dominante (col suo harem di femmine e tornei per l’accoppiamento in occasione dell’estro), lo sparire della visibilità dei periodi fecondi della femmina, ed il parallelo crearsi della possibilità per ogni giovane maschio, in ogni momento, di un accesso pacifico alle femmine, cambiò nuovamente i termini della competizione riproduttiva: infatti aumentarono enormemente le probabilità di incesto madre-figlio, poiché la promiscuità femminile, con la scomparsa dell’estro, era aumentata, e si rivolgeva ormai anche ai maschi molto giovani (anche perché la diminuzione degli atti cannibalici verso la prole consentiva alla prole stessa di trattenersi presso la madre fino al compimento proprio sviluppo sessuale). La ricettività sessuale perenne della femmina insomma, dopo avere prodotto la diminuzione dei comportamenti cannibalici maschili (senza farli però scomparire del tutto, stante la permanente penuria di cibo), li fece di nuovo aumentare, a causa del risorgere della competizione riproduttiva: infatti in un gruppo promiscuo e con una femmina divenuta più ricettiva, il maschio giovane insidiava molto più di prima la femmina, e non era necessariamente “il figlio” biologico del maschio adulto; a quest’ultimo, dunque, convenne di nuovo eliminare la prole che attorniava la femmina (e che fra l’altro era di intralcio al coito), prima che potesse svilupparsi sessualmente.
3) si verificò allora, per contrastare il risorgere del cannibalismo maschile contro la prole, un’altra importante innovazione biologica nella sessualità femminile: la menopausa, o interruzione del ciclo mestruale nella femmina matura (altro fenomeno, questo, unico della specie umana, e sconosciuto agli altri primati). Questo fenomeno, nella sua enigmaticità, potrebbe spiegarsi con il fatto che, come si è detto, il cannibalismo maschile verso la prole, pur inizialmente attenuato dalla ipersessualizzazione della femmina, era risorto, a causa dell’ingombrante presenza della prole attorno ad una femmina perennemente ricettiva sul piano sessuale; insomma, il cannibalismo maschile divenne nuovamente minaccioso per la sopravvivenza della specie. La specie allora, con la menopausa, creò una categoria di femmine che, non avendo più esigenze riproduttive, e quindi non essendo più oggetto dell’interesse sessuale maschile, poteva dedicarsi all’accudimento della prole ed alla sua protezione dal cannibalismo: in particolare, le femmine anziane poterono dedicarsi all’accudimento della prole delle proprie figlie, la sopravvivenza della quale assicurava anche a queste femmine in menopausa, la perpetuazione del proprio patrimonio genetico. Questa ipotesi, in termini diversi e meno radicali, è stata formulata da alcuni antropologi, sotto il nome di “teoria della nonna”, proprio per spiegare la singolarità della menopausa della femmina umana. La menopausa sarebbe stata, insomma, un’altra risposta della specie al cannibalismo maschile: una risposta che ebbe l’effetto di creare una sorta di “”enclave”, di “zona franca” per la prole minacciata, fatta da un “clan di donne”, formato essenzialmente di nonne.
4) Una terza innovazione biologica, anch’essa di tipo sessuale, questa volta riguardante la prole, fu rappresentata dalla cosiddetta “neotenia”. Essa, costituisce una terza specificità biologica della nostra specie (anche se è presente, in forma meno accentuata, in altre specie). In senso stretto, la neotenia rappresenta una pre-maturazione sessuale della prole, che precede la conclusione dello sviluppo psicofisico. La nostra ipotesi prende spunto, oltre che dal dato (assolutamente reale) della spiccata pre-maturazione sessuale che investe, attorno agli undici-dodici anni, i giovani della nostra specie, a fronte della continuazione per almeno altri sei-sette anni dello sviluppo psico-fisico, dall’idea freudiana dello “sviluppo a due tempi” della sessualità umana; questo sviluppo a due tempi (che corrisponde alla pre-maturazione neotenica) si rifletterebbe, per Freud, nel complesso di Edipo, e si collocca nella prima infanzia, attorno ai tre-quattro anni. E’ dunque possibile supporre che la pre-maturazione sessuale neotenica specifica dell’uomo sia servita alla prole della nostra specie ad arginare sessualmente la predazione cannibalica paterna (una predazione che né la sessualità femminile perenne, né la menopausa femminile, erano ancora riuscite ad eliminare del tutto). Con la neotenia, dunque, forse la prole si rese disponibile a fornire “in proprio” una prestazione sessuale al maschio cannibalico, in cambio della propria sopravvivenza; ossia, si rese capace di realizzare essa stessa uno scambio “sesso contro carne”. Attraverso la neotenia, dunque, la predazione cannibalica maschile verso la prole si trasformò in una forma di predazione sessuale. Nacquero a questo punto, come evoluzione “secondaria” del cannibalismo (cannibalismo che potremmo a questo punto definire, in termini psicopatologici, “psicopatia primaria”), la pedofilia e le perversioni sessuali sado-masochistiche; ed in queste ultime la difesa sessuale dal cannibalismo acquisì il suo corrispettivo di piacere sessuale, sia nella preda (masochismo) che nel predatore (sadismo).
5) Nacque inoltre, come derivato della neotenia, l’omosessualità: quella maschile rappresentò la difesa sessuale di un maschio più giovane dall’aggressione di un maschio adulto e cannibalico. L’omosessualità femminile, invece, rappresentò probabilmente, insieme alla fuga femminile dal maschio cannibalico, anche l’appropriazione, da parte della femmina, di alcune delle caratteristiche predatorie e aggressive del maschio, ed il loro uso finalizzato alla pacificazione della rivalità fra femmine; l’omosessualità femminile, infatti, ebbe anche lo scopo di pacificare le diverse generazioni di femmine, fino ad allora nemiche, a causa delle pratiche incestuose della femmina adulta.
6) Infine nacque la misteriosa anoressia mentale, la quale rappresenta il risultato della multiforme pressione predatoria del maschio sulla femmina giovane; questo comportamento alimentare femminile apparentemente indecifrabile in realtà, seguendo la nostra ipotesi, aveva una sua logica precisa: in primo luogo consentiva alla femmina a sottrarsi, attraverso un dimagramento di entità tale da renderla meno appetibile sotto tutti i profili, al pericolo di essere predata sessualmente, o addirittura direttamente cannibalizzata. In secondo luogo, il cannibalismo verso la prole e la predazione sessuale che lo accompagnava sempre più spesso indussero la femmina anoressica alla sospensione delle mestruazioni ed all’implicito rifiuto della gravidanza: infatti la magrezza le serviva, fra l’altro, a nascondere al predatore la propria potenzialità riproduttiva ed a rimandarla a momenti più tranquilli, in particolare all’incontro con partner meno cannibalici. Infine, la reale avversione per il cibo che accompagna l’anoressia deriva forse dall’esigenza dell’anoressica di sottrarsi alla memoria dell’antico compromesso cannibalico col maschio, che le imponeva di divorare insieme con lui parte della prole: rifiutando il cibo, tutt’oggi, essa forse rifiuta anche, implicitamente, un cibo “cannibalico”.

La terza ipotesi è che la femmina, quando questi strumenti di difesa anticannibalica (sessualità perenne, menopausa, neotenia, anoressia), non bastarono più ad arginare il cannibalismo maschile, abbia direttamente preso in mano il meccanismo di selezione della specie: ciò da un lato scegliendo quali fossero i figli da salvare e quali da sacrificare alla predazione del maschio, dall’altro lato scegliendosi, come partners, i maschi meno predatori e più condizionabili sul piano sessuale e cooperativo.
La femmina scelse insomma di salvare la prole più dotata in senso anticannibalico, sia intellettualmente che in termini di capacità cooperativa, duttilità e ricettività sia sul piano comunicativo che sessuale; ma per far ciò, essa dové realizzare un compromesso predatorio col maschio; e lo realizzò compensandolo con la predazione della prole più inadatta alla sopravvivenza, ed associandosi a lui in tale predazione.
Ma per far ciò essa dové anche scegliere, come partners, i maschi più inclini al compromesso, ossia a loro volta più cooperativi e più soggetti alla influenza femminile; ma il profilo di questa tipologia maschile corrispondeva in tutto e per tutto, per la femmina, a quello dei propri stessi figli, divenuti ne frattempo neotenici, e quindi sessualmente ricettivi ma soggetti ad una dipendenza prolungata da lei!
L’incesto divenne perciò il principale strumento di selezione materna della specie, ed i suoi svantaggi genetici furono ampiamente compensati dai vantaggi selettivi legati alla trasmissione alla progenie di tratti sempre meno cannibalici e sempre più brillanti su un piano cognitivo e sociale (e dato anche il fatto che la eventuale nascita di figli malformati poteva essere ovviata semplicemente attraverso l’implementazione degli infanticidi!) .
Con questi due meccanismi riuniti in uno solo, dunque (selezione cannibalico-incestuosa dei figli, e selezione oculata dei partners sessuali, in gran parte i propri stessi figli), la femmina divenne il principale agente della selezione della specie; essa, selezionando la prole ed i partners, filtrò la predazione cannibalica maschile sulla specie, salvandola dall’estinzione.
Ciò implicò però l’inizio impetuoso di un esercizio diretto della predazione da parte della femmina, evento che si riflette ancora oggi nella frequenza dell’infanticidio da parte delle madri (a fronte della maggior frequenza della pedofilia, o predazione sessualizzata, nei maschi).
La femmina, inoltre, ad un certo punto cominciò ad usare la prole maschile (la cui alleanza si era procacciata attraverso profferte sessuali e di protezione) contro il padre cannibalico, al fine di alleggerirne ulteriormente la pressione predatoria sulla specie.
Le conseguenze dell’appropriazione, da parte della femmina, del meccanismo selettivo predatorio sulla specie, furono due:

1) Il comportamento sempre più ipersessuale, predatorio ed incestuoso della femmina rese necessaria una risposta anche culturale, e non solo biologica, alla furiosa reazione del maschio: e questa risposta fu il tabù dell’incesto; con quest’ultimo evento, la specie disinnescò gran parte della rivalità sessuale padre-figlio. Questa rivalità infatti, a dispetto della forte promiscuità sessuale che aveva da sempre caratterizzato le società di ominidi, era riemersa col dilagare dell’incesto, e di nuovo minacciava la sopravvivenza della specie. La femmina, come si è detto, da un lato prese a selezionare ed a salvare dal cannibalismo paterno quella parte della prole che si era rivelata più dotata in senso anticannibalico ed antipredatorio: si trattava dei figli maggiormente sessualizzati, oppure di quelli più cooperativi e comunicativi sul piano linguistico, ed intellettualmente più dotati per sfuggire alla predazione del maschio adulto. Dall’altro lato, la femmina prese a selezionare come propri partners i maschi meno erratici, perché erano anche i meno predatori. Ma, ancora una volta, quali partners più stanziali, antipredatori e collaborativi poteva essa scegliere, di quelli selezionati da lei stessa ed allevati a lungo presso di sé, ossia i propri stessi figli, resi dalla neotenia sempre più sessualizzati, ma anche sempre più dipendenti dalla madre? La selezione materna della prole condusse, insomma, non solo ad un’implementazione dell’incesto madre-figlio, ma ad un suo uso sistematico ed “intelligente” (visto che i suoi vantaggi per la selezione della prole, come abbiamo detto, ne controbilanciavano abbondantemente gli svantaggi genetici). L’incesto aveva però uno svantaggio che alla lunga non fu possibile bilanciare in nessun modo, ed al quale abbiamo già accennato: la lotta feroce fra le generazioni, maschili e femminili, che esso induceva, e che minacciò nuovamente la specie di estinzione. L’incesto, infatti, non era stato affatto superato dalla menopausa, né dalla conseguente diffusione di femmine “caste” e dedite all’allevamento della prole (le “nonne”); esso permaneva, e comportava uno stato di guerra permanente fra le generazioni, dovuta alla rivalità sessuale. Si rese dunque necessaria l’istituzione di un apposito tabù che lo evitasse.
2) Infine, malgrado tutte queste innovazioni (sessualità permanente, menopausa, neotenia, omosessualità, perversioni, anoressia, incesto e tabù dell’incesto), il permanere della predazione sotto forma sessualizzata ed il dilagare dell’incesto e della lotta fra le generazioni fecero sì che la selezione materna dovette cominciare porsi come obiettivo primario quello di implementare, al posto della sessualità, un tratto antipredatorio più efficace e meno infiltrato di predazione: ossia, la selezione materna ella prole dovette acconciarsi a produrre, anziché una prole solamente sessualizzata e disponibile al condizionamento materno di carattere sessuale, una prole sempre più intelligente, cooperativa e dotata sul piano linguistico e simbolico: in altre parole, più capace di resistere alla pressione predatoria maschile, contro la quale le armi della sessualità, da sole, non bastavano più (essendosi la predazione cannibalica trasformata in una feroce predazione sessuale, ossia in un strumento implacabile di asservimento della prole e della stessa femmina).

Queste prime tre ipotesi ci conducono ad una considerazione di ordine generale, e successivamente ad una quarta ipotesi.

Per quanto riguarda la considerazione di ordine generale, vediamo come le armi antipredatorie messe in atto dalla specie contro il cannibalismo (in particolare la sessualità, ma anche le altre armi che vedremo meglio fra poco, prime fra tutte l’intelligenza linguistico-simbolica e la coscienza) abbiano avuto la necessità, per neutralizzare la predazione che erano state chiamate a fronteggiare, di farla almeno in parte propria, ossia di incorporarla in sé e di riproporla, anche se in forma molto attenuata e comunque differente da quella originaria: in altre parole, i correttivi e contrappesi antipredatori messi in opera dalla specie non poterono mai fare a meno di divenire, in parte, essi stessi predatori, ed in senso metaforico, cannibalici; ciò consentì loro, peraltro, di perpetuare all’infinito la spinta selettiva sulla specie che il cannibalismo originario aveva innescato, agendo, come abbiamo detto, come una sorta di “catastrofe interna”; e questa catastrofe interna spinse sempre più avanti, fino a noi, l’evoluzione della specie degli ominidi da cui discendiamo.

E veniamo ora alla quarta ipotesi: il linguaggio simbolico e la coscienza (un’altra unicità umana, dal punto di vista biologico), furono il risultato ultimo della selezione materna della prole: e furono un risultato indotto anch’esso dal cannibalismo maschile.
Linguaggio simbolico e coscienza, ad un certo punto, sostituirono la sessualità nella lotta contro la predazione, poiché questa aveva ormai infiltrato, anzi letteralmente intasato di sé la sessualità, fino a renderla inservibile ai propri fini (visto l’alto grado di violenza predatoria e di asservimento che erano connaturati, in particolare, alle perversioni sessuali di tipo sado-masochistico ed alla pedofilia).
La nuova arma antipredatoria a disposizione della prole, il linguaggio verbale, si sviluppò secondo noi a partire dagli elementari messaggi materni di cura verso di essa: questi messaggi materni alla prole però divennero, dopo la pre-maturazione neotenica di questa, non molto diversi da quelli di richiamo sessuale emessi dalla femmina stessa verso il maschio; ma questi ultimi a loro volta contenevano, oltre che messaggi di semplice richiamo sessuale, anche messaggi di pericolo e di patteggiamento sessuale antipredatorio; ancora una volta, sesso contro carne.
Il linguaggio madre-figlio, insomma, fu di accadimento, poi fu sessuale, ed ancora, antipredatorio; perciò esso, una volta fatto proprio dalla prole, trasmise al predatore tutta l’ambiguità tra questi istinti, la quale rifletteva l’ambiguità delle relazioni sociali proprie di un contesto predatorio e cannibalico. Un tale linguaggio produsse sul predatore effetti ipnotici e di blocco: esso era infatti basato su messaggi binari, allo steso tempo bloccanti ed influenzanti, inibitori e mobilitanti, del tipo “Sta attento-non muoverti, sei in pericolo-compiaci il predatore”. Il pianto disperato dei bambini di oggi al primo segnale di pericolo, naturalmente, sembra smentire clamorosamente la nostra ipotesi; tuttavia alcuni comportamenti autistici dei bambini sono appunto di blocco, di immobilizzazione, di filtro all’invasione dell’altro; sembrano perciò potere essere interpretati come residui di questa fase persecutoria dello sviluppo psichico infantile; l’aspetto di tipo suggestivo-influenzante, invece, pur essendo abbastanza assente nei bambini autistici, è molto presente nell’autismo schizofrenico, con i suoi aspetti di pensiero magico.
Il linguaggio primitivo conteneva dunque messaggi di pericolo, di allarme, ed insieme di seduzione sessuale: era cantilenante e suggestivo, ipnotico ed ambiguo, a metà fra una richiesta di protezione contro il predatore ed una di pacificazione sessuale: fu insomma uno strumento di difesa e di influenzamento, che la prole mutuò integralmente dalle madri.
Successivamente questo strumento comunicativo, che era ancora molto primitivo, si trasformò in un più articolato codice antipredatorio madre-figlio: esso fu interiorizzato dalla prole in forma allucinatoria, quale programma di istruzioni per difendersi dal predatore, e come tale fu impiegato, nella comunicazione con il predatore, anche in assenza della madre, e dunque con enormi vantaggi per le possibilità di sopravvivenza della prole.
Con il codice allucinatorio, i pericoli di ordine predatorio vennero fatti introiettare dalle madri alla prole, sempre come segnali di allarme binario ed ambivalente: “Stà attento alla ferocia del predatore-egli però è buono se lo assecondi e lo compiaci”. La risposta suggerita dalle madri alla prole, contenuta in tale ambigua segnalazione di pericolo, era insomma simile al primitivo modello femminile: “ho bisogno di aiuto contro di te-dunque mi prostituisco a te”. Ma un tale codice, nella sua ambiguità, funzionava per l’appunto come codice di blocco; anzi, più ancora, come un codice di “apertura” dei rigidi riflessi predatori ed auto-difensivi, operante sia nella preda che nel predatore attraverso quell’autentico grimaldello rappresentato dalla seduzione sessuale; ciò, però, per insinuarvi subito dopo un secondo grimaldello, ancora più efficace e potente del primo: quello rappresentato dal linguaggio suggestivo-influenzante.
In seguito all’elaborazione interiore, poi, tale linguaggio divenne ancora più articolato, e si arricchì ulteriormente di contenuto informativo: esso allora fu fatto proprio dal predatore per dare ordini alla preda e per porla in una condizione servile, almeno nell’ambito del rapporto genitori-figli; divenne quindi un codice di istruzioni predatorie che la preda-figlio doveva interiorizzare ed eseguire alla lettera, a pena della propria stessa sopravvivenza, e che il predatore poteva usare a proprio piacimento, disponendo così “in toto” del comportamento della preda; in ciò si vede, con la massima evidenza, come anche nel linguaggio simbolico si verifichi il fenomeno che abbiamo già notato nella sessualità: sia la sessualità che il linguaggio sono potenti armi antipredatorie, che però per funzionare devono far propria a loro volta la predazione, incorporarla, sia pure allo scopo di volgerla contro la predazione stessa; questo succede nelle perversioni, poi si ripete nel linguaggio simbolico, ed ancora avviene (come vedremo fra poco) nei codici simbolici collegati alla coscienza (in primo luogo, quello della colpa).
Queste istruzioni predatorie servilizzanti, inoltre, provenivano in primo luogo dal maschio adulto, ma spesso venivano mediate dalla madre, dopo che questa le aveva “discusse” col predatore; questa mediazione, che all’inizio fu necessaria per l’estrema immaturità della prole, consisteva in una sorta di trattativa madre-padre, quasi di un compromesso cannibalico verbale della femmina col maschio, il cui oggetto era la scelta della prole che doveva essere sacrificata oppure risparmiata, e del suo esito finale decideva anche la capacità e la prontezza della prole nel captarla ed adeguarvisi: ciò si evince chiaramente dalle allucinazioni a contenuto dialogante, malevolo o benevolo.
Chi conosce la natura ambivalente delle allucinazioni uditive, in parte persecutorie, in parte seduttive, fatte di ordini e di commenti, amichevoli od ostili, al comportamento (ed in particolare al comportamento sessuale), troverà evidenze della verosimiglianza di questo modello.
Il codice linguistico antipredatorio madre-figlio fu via via interiorizzato dalla prole in una forma sempre più articolata ed allucinatoria, fino a divenire un programma permanente di istruzioni: infatti era riproducibile interiormente (ovvero “autisticamente”), anche in assenza delle madri; e questa caratteristica ne costituì il principale vantaggio iniziale, che consentì alla prole neotenica di gestire sempre più “in proprio” il linguaggio, sfruttando le sue valenze cantilenanti, ipnotiche e seduttive. Ciò ne determinò lo sviluppo e l’elaborazione interiore, di tipo delirante-allucinatorio, nonché la successiva diffusione all’esterno.
Attraverso questo codice, le madri trasmettevano dunque alla prole il messaggio di allarme anti-predatorio originario, in una forma che era fin dall’inizio ambigua, perché sessuale e di allarme, seduttiva ed allo stesso tempo auto-difensiva, insinuante ed ipnotica, quale il comportamento delle madri ipersessuali doveva necessariamente essere, di fronte ad un maschio cannibalico, predatorio, quindi fortemente pericoloso.
Ed infatti la risposta appresa dalla prole fu anch’essa seduttiva: essa fu costituita da proposte di alleanza e di pacificazione col predatore, che ebbero inizialmente un contenuto sfumatamene sessuale ed una forma ipnotica e cantilenante; questa forma comunicativa sessualizzata, però, corrispondeva più alle possibilità delle madri che a quelle della prole; quest’ultima, per neotenica e sessualizzata che fosse, non aveva di certo grandi possibilità di offrire vere e proprie prestazioni sessuali al maschio adulto (perlomeno nell’età più tenera).
Questi messaggi di richiesta di cure ed allo stesso tempo “erotici”, dunque, una volta adottati dalla prole e da questa riproposti al predatore, divennero rapidamente, da quell’equivalente di proposte di pacificazione sessuale che erano stati per le madri, dei messaggi di tipo sempre meno sessuale e sempre più comunicativo, anche se inizialmente più che altro suggestivo, influenzante ed ipnotico; essi presero gradualmente ad assomigliare al pianto “manipolativo” dei bambini di oggi.
Nella prole meno immatura, invece, la sessualità si era ormai sviluppata a causa della neotenia, dunque la prole era già più pronta ad usarla in funzione antipredatoria ed anticannibalica; in essa, perciò, i messaggi preda-predatore conservarono, probabilmente per lungo tempo, il primitivo carattere di proposte si pacificazione sessuale; anch’essi però ebbero in seguito una evoluzione comunicativa, suggestiva ed ipnotica, trasformandosi in un linguaggio articolato ed alla fine simbolico. Questo linguaggio ebbe il compito di offrire al predatore, oltre alla prestazione sessuale, anche una prestazione di tipo servile e su base comunicativa, da realizzarsi attraverso l’introiezione allucinatoria di programmi comportamentali impartiti dallo stesso predatore: ossia, di programmi di prestazione servile che erano provenienti quasi sempre dai genitori. E’ bene chiarire che, quando ci riferiamo a prestazioni servili, non ci riferiamo al formarsi di gerarchie sociali in seno al gruppo primitivo, che anzi rimase per un tempo lunghissimo, estremamente ugualitario e ferocemente omologante (nel senso che chi non si adeguava alle innovazioni sessuali e linguistiche richieste dalla esigenza antipredatoria, veniva prontamente eliminato); le prestazioni servili, invece, improntarono sempre di più il rapporto genitori-figli, sostituendo la sessualità, ed inducendo omologazione comunicativa ed obbedienza assoluta ai contenuti della comunicazione stessa.
In definitiva, l’elemento di tipo suggestivo, ipnotico e servile, finì a poco a poco col prevalere sull’elemento della difesa sessuale, nel rapporto genitori-figli; e la difesa linguistico-comunicativa prese il posto, gradualmente, di quella sessuale.
La progressiva evoluzione della originaria offerta di pacificazione sessuale in un senso nuovo, linguistico, metaforico e simbolico, poté avvenire, nella prole, perché il codice linguistico antipredatorio madre-figlio era già basato in partenza su una unità comunicativa strutturalmente ambigua come quella sessuale, che si basava sia sulla comunicazione suggestiva, sia sulla sessualizzazione della predazione. Questa unità comunicativa di base, perciò conteneva il binomio “comunicazione linguistica del pericolo predatorio-opportunità seduttiva”, ossia la continuità fra l’istinto predatorio (e di reazione primitiva alla predazione), in gran parte disattivato sul piano motorio, e quell’istinto sessuale che aveva operato, attraverso forme di linguaggio ipnotico-influenzante, la disattivazione stessa.
In base a questa continuità, divenne perciò possibile alla specie costruire gradualmente una risposta alla predazione, del tutto diversa da quella sessuale: una risposta linguistico-comunicativa, che introduceva l’istinto sociale, al posto dell’istinto sessuale, nel ruolo di istinto deputato al compito di mescolarsi con l’istinto predatorio e di neutralizzarlo.
L’istinto sociale, dunque, tramite il linguaggio e la comunicazione, subentrò progressivamente a quello sessuale, mescolandosi con l’istinto predatorio, e divenne uno strumento di disattivazione della predazione molto più potente della sessualità. Questa disattivazione avvenne tramite l’identificazione mimetica della prole con l’adulto predatore; essa fu finalizzata sia ad influenzare il predatore ed a bloccare il suo comportamento aggressivo per una via esclusivamente linguistico-comunicativa, sia a disattivare le reazioni auto-difensive di tipo predatorio nella prole stessa.
Perciò, l’obbligo di prestazione sessuale da parte della preda fu gradualmente superato da un comportamento dapprima suggestivo ed ipnotico, poi imitativo e mimetico, poi comunicativo: e quest’ultimo fu il vero precursore del linguaggio.
La preda, in sintesi, offrì al predatore, al posto della prestazione sessuale, un’offerta comunicativa la quale, attraverso l’imitazione, prefigurava una prestazione servile.
Ma poiché lo strumento comunicativo per realizzare tale prestazione servile era ormai di tipo linguistico, e la sua continua elaborazione interiore, attraverso le allucinazioni, implementava sempre più i processi mentali di rappresentazione simbolica, il linguaggio antipredatorio madre-figlio si trasformò, da semplice strumento di arginamento filiale della predazione da parte della figura maschile adulta, o “paterna”, in un vero e proprio linguaggio simbolico preda-predatore: un linguaggio che era capace di veicolare fra preda e predatore, in entrambe le direzioni, una quantità sempre maggiore di informazioni a contenuto servile; e ciò a vantaggio sia della preda che dello stesso predatore.
A questo punto, il linguaggio simbolico divenne inscindibile dalla prestazione servile. Il linguaggio però, rendendo la prestazione servile stessa molto più efficace della prestazione sessuale perché più capace di evolvere all’infinito in senso interattivo, fece sì che la preda potesse liberarsi almeno in parte della predazione; ciò avvenne attraverso l’identificazione simbolica reciproca di predatore e preda, col suo correlato di percezione dell’altrui intenzionalità a partire dalla propria. Questo percorso tracciò anche la strada verso la nascita della coscienza.
Gli indizi circa la verosimiglianza di questo modello provengono dalla Psicopatologia, e dalle sue forti analogie con la struttura del pensiero magico. Per la Psicopatologia, vi accenneremo fra poco.
Per quanto riguarda il pensiero cosiddetto “primitivo”, ci sembra che l’ipotesi sull’origine cannibalico-predatoria della mente umana renda ampiamente conto del suo carattere magico, basato sul potere di influenzamento e di suggestione dell’altro.
Sappiamo che il pensiero logico-razionale è il risultato finale di un lunghissimo processo di elaborazione del linguaggio simbolico, la cui tappa intermedia è stata rappresentata da forme di pensiero e di linguaggio magico e proto-simbolico.
Sappiamo che tale pensiero e linguaggio si sono basati a lungo sul padroneggiamento dei pericoli attraverso la magia e la suggestione; ossia, attraverso un linguaggio influenzante, rivolto agli oggetti ed agli eventi più disparati del mondo reale.
Ma a chi era rivolto in origine tale linguaggio? Quale utilità pratica poteva avere, in un mondo fatto di penuria di mezzi materiali e di necessità vitali improrogabili, nel quale le cose non rispondevano di certo all’influenzamento magico?
Un linguaggio ed un pensiero che pretendevano di “influenzare” la realtà (una realtà peraltro percepita, misteriosamente, come ostile e persecutoria), e che intendevano neutralizzarla facendosela “amica”, per potere avere avuto una qualche utilità non possono essere stati rivolti altro che ad un tipo di realtà assai particolare: insomma, una realtà che rispondeva davvero a tale influenzamento; in altre parole, dové trattarsi di una realtà animata, l’unica che non solo era realmente ostile e persecutoria, ma interagiva con il soggetto, anzi ne era realmente influenzata; e che inoltre parlava, letteralmente, la sua stessa lingua.
E’ logico pensare che sia possibile influenzare col linguaggio solo pericoli che sono accessibili al linguaggio stesso; ma essi, per essere accessibili alla comunicazione linguistica, devono necessariamente essere provenuti dall’interno della specie.
L’uomo si è sempre mosso, secondo noi, in un ambiente “naturale” molto particolare, perché in esso la quota maggiore dei pericoli ambientali e “naturali” proveniva dall’interno stesso della specie: si trattava insomma di un ambiente cannibalico, dal quale provenivano non solo i pericoli, ma anche le principali risorse vitali (ad es. alimentari e sessuali).
In un tale ecosistema però, il quale era prevalentemente umano, più che “naturale” in senso stretto, i principi “naturali” di causa-effetto che sono alla base dell’apprendimento animale, e degli stessi istinti inerenti la caccia, l’alimentazione, il sesso, la socialità, devono essere divenuti significativi solo all’interno dell’interazione interumana e linguistico-comunicativa; il linguaggio e la relazione di gruppo infatti, erano divenuti i principali mediatori della relazione fra uomo e natura, quindi gli strumenti per decifrare, oltre che il comportamento degli altri membri della specie, anche i pericoli che provenivano dall’esterno, dall’ambiente “naturale”.
Perciò sia la percezione e l’intelligenza, sia gli istinti stessi, devono essere stati ad un certo punto incorporati nel sistema di segnalazione linguistica.
A quel punto, però, percezione, intelligenza ed istinti, ossia l’insieme di strumenti di segnalazione e di reazione ai pericoli che la specie aveva fino ad allora elaborato (e che quindi aveva forgiato come sistemi piuttosto rigidi, sul genere del “tutto o niente), cominciarono ad avere a che fare con segnalazioni di pericolo o di opportunità vitale molto più complesse: infatti queste provenivano dall’interno della specie e dell’apparato mentale, ed erano segnalazioni ambigue, infide, dal significato incerto, da decifrare continuamente, prendendosi tutto il tempo necessario per farlo.
A tal fine occorreva una plasticizzazione della risposta agli stimoli, ossia un blocco della risposta motoria immediata, ed una sua trasformazione in rappresentazione interiore, comunicabile all’altro: ovvero, una forma primordiale di coscienza.
Inoltre, occorreva servirsi di tali segnalazioni ambigue per rivolgere la loro ambiguità contro la sua stessa fonte esterna, al fine di influenzarla, di bloccarla o di rendersela “amica”; ma a tal fine occorreva un meccanismo simbolico di identificazione con l’aggressore, ossia di mimesi e di influenzamento dello stesso; in definitiva, occorreva qualcosa di molto simile ad un pensiero magico.
La mente umana poi, una volta attrezzata a fronteggiare per via magica i pericoli cannibalici che provenivano dalla sfera sociale, quando fuoriuscì dalla fase più speitata della selezione cannibalica di gruppo e poté distogliersi un poco dal mondo sociale, per rivolgersi più direttamente al mondo naturale, trasferì necessariamente su quest’ultimo, in forma animistica, le rappresentazioni interiori, di tipo proto-cosciente, ed i rapporti di influenzamento magico, che aveva istituiti in ambito sociale e linguistico, sotto la spinta della pressione predatoria.
Ma con tale operazione, l’intero mondo naturale divenne influenzabile come quello sociale: gli oggetti acquisirono un’anima, divennero “amici” o “nemici”.
Per l’animista, come si sa, ogni oggetto della realtà è animato; ma ciò, a ben vedere, avviene solo perché ogni oggetto viene considerato come vivente e potenzialmente nemico, persecutorio: perciò da influenzare e da “ingraziarsi”, tramite rituali magici.
Viceversa, se un oggetto è visto come alleato ed “amico”, esso lo è solo perché ci se ne è potuti procacciare in qualche modo la benevolenza, neutralizzandone preliminarmente la potenziale “maleficità”, ovvero ostilità di base.
Per lo stesso motivo, nel pensiero animistico (ed anche in quello infantile, come notò Jean Piaget) non esistono cose “naturali” che non siano allo stesso tempo anche “artificiali”, ossia opera dell’uomo e da esso “fabbricate”; ma dietro questa “creazione artificiale” delle cose, esiste un creatore che, come insegna la Bibbia, è sempre vagamente persecutorio e predatorio; persecutori e predatori sono quasi tutti gli “spiriti” che nelle religioni primitive stanno dietro agli oggetti ed alle forze del mondo naturale, ed anche i bambini, come si sa, guardano il mondo degli “oggetti inanimati” con un certo timore persecutorio, e cercano continuamente, nei suoi confronti, la rassicurazione degli adulti.
L’artificialismo infantile, insieme all’animismo dei primitivi, è dunque la conferma più convincente del fatto che il rapporto dell’uomo con le cose inanimate si modella interamente su un pre-esistente rapporto interattivo fra gli uomini; ed anche, che tale modello animistico ha uno “sfondo” invariabilmente persecutorio.
Che l’intelligenza e la stessa corteccia cerebrale si siano sviluppate su base sociale, lo afferma anche l’antropologia più classica: ad es. il primatologo ed antropologo Robin Dunbar, nella sua teoria dello sviluppo corticale su base sociale.
Ma, secondo noi, l’unico possibile rapporto sociale così “forte” e carico di impatto evolutivo da indurre a rappresentare le cose inanimate come vive, minacciose, ed allo stesso tempo influenzabili magicamente tramite il pensiero, fu il cannibalismo.
Anche nella tematica del “Totem”, indagata da Freud in “Totem e tabù”, l’ipotetica sostituzione simbolica dell’animale totemico alla figura paterna, acquista un senso solo se si ammette una forte pressione cannibalico-predatoria del padre sulla prole.
Tale pressione, infatti, da un lato può giustificare l’importanza totemica della figura paterna, e la sua stessa presenza simbolica sotto la figura dell’animale del totem; dall’altro può avere reso possibile, gradualmente, via via che il cannibalismo padre-figlio si decantava e diveniva sempre più metaforico ed incruento, la sostituzione, nel simbolismo del Totem, dell’animale ancora feroce al padre, ormai domato.
L’uomo forse poté addomesticare gli animali solo quando ebbe imparato ad “addomesticare” il padre predatorio e cannibalico; solo allora poté raffigurare l’immagine terrifica del padre, sotto la forma totemica dell’animale “domato”.
L’addomesticamento degli animali, e la stessa caccia, forse furono individuati come fatti cruciali dell’evoluzione umana, e come tale rappresentati per migliaia di anni nelle pitture rupestri, proprio perché sulle figure di animali, come a suo tempo col padre predatore, era possibile agire per via “magica”, tramite l’imitazione della figura, del gesto e del verso emesso, come fanno ancora oggi, ad es., i cacciatori, e gli “uccellatori” di vario genere.
Domare gli animali o cacciarli, insomma influenzarli, fu una conquista che conseguì a quella, ben maggiore, dell’avere domato ed influenzato il padre predatore; e fu per questo che essa meritò di essere immortalata.
Ma perché mai il pensiero magico, alla fine, declinò così sensibilmente, e scomparve poi quasi del tutto dal pensiero e dall’animo umano?
La risposta sta nella progressiva interiorizzazione e metaforicizzazione della spinta predatoria, avvenuta attraverso il linguaggio simbolico; questa spinta, infatti, una volta divenuta padroneggiabile interiormente tramite il linguaggio e la coscienza, non ebbe più necessità di essere padroneggiata anche esternamente, nella relazione fra gli uomini, mediante le categorie dell’influenzamento magico; l’uomo, una volta divenuto “cosciente” e quindi capace di auto-controllarsi e di auto-influenzarsi, divenne anche capace di elaborare le più articolate strategie antipredatorie all’interno della propria stessa mente; ma a questo punto, un influenzamento prevalentemente esercitato sugli altri, e per linee esterne, divenne superato, ed anzi controproducente,.
La magia, insomma, divenne sempre più inutile e tese tendenzialmente a scomparire, (anche senza mai farlo del tutto!) non appena la mente umana fu in grado di padroneggiare interiormente ed individualmente le proprie spinte predatorie; fu questa l’innovazione che rese inutile il loro padroneggiamento esterno.
L’unica forma di pensiero antipredatorio esteriore, collettivo, che sopravvisse al pensiero magico (e che sopravvive ancora oggi) fu il pensiero religioso.
La religione rappresentò la necessità di continuare a padroneggiare in ambito collettivo, nell’ambito della relazione fra gli uomini, quel residuo di predazione che l’acculturazione dell’umanità, nonostante l’interiorizzarsi della dialettica predazione-socialità e la formazione della coscienza, non era ancora riuscita a controllare.
Con l’avvento della religione, però, il padroneggiamento collettivo della predazione, anziché espletarsi apertamente, in riti dal significato evidente a tutti, come era avvenuto nel pensiero magico, fu “relegato” in riti di tipo iniziatici; il significato di essi, infatti, doveva rimanere segreto, o essere conosciuto solo da pochi: in particolare, da una casta separata dal resto della popolazione, i sacerdoti.
L’etimologia della parola “religione”, del resto, suggerisce proprio questo: essa significa, oltre che unificazione, legame, anche “relegare” in un ambito separato qualcosa che non può essere pienamente conosciuto, e con cui non è bene entrare in contatto diretto; da questo punto di vista, il significato della parola “religione” appare analogo a quella di “sacro”, che significa anche “esecrabile”, da non toccare.
Ciò fa supporre che una parte importante della spinta predatoria potrebbe riemergere alla coscienza, ove non fosse contrastata dalla religione, e compromettere la funzione più nobile della coscienza stessa (il pensiero simbolico), asservendola nuovamente alla sua funzione primitiva: quella dell’influenzamento degli altri per via magica.

Veniamo così alla quinta ipotesi: essa riguarda proprio la vicissitudine che portò alla liberazione dell’uomo dalla schiavitù degli istinti, ed alla nascita della coscienza.
Si tratta, come si vedrà, di una ipotesi molto speculativa.
La coscienza umana potrebbe essersi sviluppata sulla base della pre-esistenza del linguaggio simbolico: potrebbe cioè avere utilizzato le possibilità che esso offriva di compiere, interiormente, un’identificazione con l’altro e con la sua intenzionalità, ed una parallela auto-identificazione. Ciò allo scopo di vigilare in continuazione sia l’ambiente esterno che quello interno, e di potersi muovere in una società cannibalica.
La coscienza, dunque, sarebbe nata al fine di prevedere e di neutralizzare, nel modo più continuativo ed efficace possibile, il comportamento predatorio di membri della propria stessa specie, che si aggiravano continuamente nel gruppo, che entravano in intimità con ogni individuo, che tendevano ad asservirlo o a predarlo in tutti i modi possibili, e che parlavano la propria stessa lingua. Questi predatori, dunque, potevano essere influenzati tramite il linguaggio, ed influenzare a loro volta la preda nello stesso modo; perciò il linguaggio stesso andava controllato, al pari delle azioni motorie, ossia monitorato, esaminato nelle sue sequenze narrative, richiamato alla memoria della preda, ed utilizzato, nelle sue caratteristiche simboliche, che permettevano un’identificazione sempre più fine con l’altro, allo scopo di bloccarlo.
In definitiva, tutta la vita psichica ed interiore del soggetto, in un contesto cannibalico, andava costantemente auto-controllata, perché era proprio in essa che si celavano sia gli istinti predatori da arginare che quelli sociali, i quali servivano al loro arginamento; ed inoltre, proprio nella vita psichica risedeva la memoria narrativa delle esperienze precedenti (creata dalle allucinazioni, e dal pensiero “autistico”). Allo stesso modo andavano monitorati ed auto-controllati gli istinti, e poi trasformati continuamente in risposte di tipo rappresentativo che fossero atte ad influenzare il comportamento del predatore. Ma la coscienza poteva fare tutto ciò, solo se si dissociava dal soggetto, se era capace di osservarlo dall’esterno, come un oggetto, e si poneva dal punto di vista del predatore, sia per accontentarlo che per manipolarlo.
La chiave dell’autocoscienza (la forma più completa della coscienza umana), starebbe perciò nell’identificazione linguistico-simbolica con un predatore, nel porsi dalla sua parte, auto-osservandosi e modificando i comportamenti del sé osservato.

Questa identificazione col predatore avvenne all’interno del sé, tramite forme di trasformazione simbolica degli istinti: infatti, per influenzare l’altro, la preda doveva sfruttare la propria istintualità sociale, con la quale mobilitava gli istinti sociali del predatore; ma per far ciò, doveva aver prima bloccato in sé stessa quelli predatori.
E per far tutto ciò, la preda aveva un continuo bisogno di “guardarsi dentro”, al fine di riconoscere i propri stessi istinti, di vagliare la propria risposta sociale o aggressiva, di controllarla e di evitare che divenisse controproducente (ad es. spingendola ad una reazione aggressiva, o ad una fuga, improvvide).
Insomma, la preda, di fronte al proprio predatore aveva un continuo bisogno di auto-controllare le proprie reazioni istintuali, e di trasformarle in rappresentazioni omologabili alle percezioni del predatore stesso; ma per compiere tale operazione, doveva anzitutto discriminare l’ambiguità delle proprie percezioni, per poi identificarle e farle proprie; perciò, oltre che guardarsi “dentro”, doveva anche continuamente “guardarsi da fuori” con l’occhio del predatore.
Questa continua necessità di vigilare, con un “colpo d’occhio unico”, sia l’ambiente esterno che la propria interiorità, al fine di controllare sé stessi ed allo stesso tempo di immedesimarsi nella reazione del predatore, potrebbe spiegare sia la continuità nel tempo e nello spazio, sia il carattere auto-osservante e “morale” della coscienza umana (ossia, il suo porsi, in un certo senso, dal punto di vista di un ipotetico osservatore esterno).
Ma guardare contemporaneamente dentro e fuori di sé, e guardarsi dentro dal di fuori, cos’altro è, se non un metodo efficacissimo per disattivare i propri ed altrui istinti predatori, facendo leva sui propri ed altrui istinti sociali?
Anche la tematica della colpa, del resto, si ricollega alla necessità strutturale, tipica della coscienza, di auto-controllare gli istinti predatori, anche in base all’acquisita capacità umana di prevedere una possibile ritorsione collettiva contro di essi, ed in definitiva di tenerli a freno volgendo contro di essi lo stesso istinto predatorio: non c’è nulla di più crudele e sadico del senso di colpa di un depresso, come ben sa chi si occupa di malati di mente.
Questa caratteristica auto-lesiva, oltre che auto-controllante, della coscienza linguistica (evidente già in quell’autentico embrione di coscienza che è rappresentato dalle allucinazioni uditive auto-accusanti), ci mostra dunque come anche il linguaggio simbolico e la coscienza condividano in pieno con la sessualità perversa una caratteristica generale, da noi già citata, degli strumenti antipredatori messi a punto, nel corso della sua storia, dall’uomo: quella di incorporare la predazione, di farla propria, di assorbirla nel momento stesso in cui la affrontano, sia pure al fine di rivolgerla contro la predazione stessa, ed almeno in parte, di trasformarla.
Perciò l’insieme delle nostre ipotesi ci porta a ritenere che il cannibalismo, creando un ambiente sociale fortemente predatorio ed agendo dall’interno della specie, abbia esercitato sulla sua biologia e sui suoi pattern istintuali un’enorme pressione selettiva che ha prodotto, alla lunga, una dissoluzione, quindi una mescolanza ed una integrazione dei pattern istintuali di tipo predatorio con quelli di tipo sociale.
Questi due istinti però, mescolandosi fra di loro, oltre che depotenziarsi sul piano reattivo e motorio hanno acquisito una forte potenzialità rappresentativa e simbolica.
L’ambigua pressione selettiva proveniente dal cannibalismo, mescolando socialità e predazione, dovette creare apparati percettivi e reattivi così sofisticati da consentire di decifrare questa ambiguità, e di usarla contro gli altri.
La creazione di questi apparati, che abbiamo descritto sopra sia in termini linguistici che di autocoscienza, fu perciò resa possibile dalla fusione e dalla destrutturazione degli istinti predatorio e sociale, nonché dalla loro trasformazione in formazioni post-istintuali, molto più plastiche, mentalizzate e di carattere rappresentativo.
Insomma, si produsse una sorta di metaforizzazione e di simbolizzazione degli istinti: in essa, sia l’istinto predatorio che quello sociale, mescolandosi, si attenuarono nelle loro caratteristiche motorie, e guadagnarono in termini di rappresentabilità e di possibilità di essere manipolati come metafore: quindi si trasformarono in simboli misti, predatorio-sociali, ed insieme, motorio-rappresentativi.
Le formazioni post-istintuali createsi dalla mescolanza degli istinti di base, contennero questi simboli misti, in diversa proporzione: una di queste due formazioni, infatti, fu prevalentemente a contenuto predatorio, l’altra, a contenuto prevalentemente sociale; ma entrambe contenevano istinti trasformati, resi non solo rappresentabili in sé alla coscienza, ma capaci, ciascuno, di rappresentarsi all’altro istinto, e quindi di disinnescarlo.
La coscienza, ed in particolare l’auto-coscienza, divenne perciò, accanto al linguaggio simbolico, uno strumento di padroneggiamento non solo dell’ambiguità socialità-predazione, ma degli istinti che la componevano.
Ma per svolgere tale compito, la coscienza dovette imparare ad alternare, nella mente, le stimolazioni sociali a quelle predatorie, per compararle ed effettuare fra di loro un complesso e continuo bilancio.
A tale scopo essa utilizzò le formazioni post-istintuali che abbiamo descritto, e cominciò ad alternarle in opposizione di fase, compensando interiormente la socialità con la predazione, e viceversa.
Questa fu, secondo noi, l’origine della ciclicità maniaco-depressiva. Questa ciclicità consentì di sottoporre la mente a stimolazioni sociali e predatorie di origine interiore, ed “a rischio costante”; queste continue stimolazioni fecero costituire alla mente un patrimonio di memoria dolorosa, ma non più episodica, bensì narrativa; essa infatti conteneva e richiamava continuamente le principali esperienze fornite dalla dialettica predazione-socialità.
Questa attività di integrazione ciclica fra istinti diversi, secondo noi, fu poi resa possibile dal precedente sviluppo di una funzione mentale di plasticizzazione e di mescolamento istintuale, definibile come “funzione mentale di integrazione”: essa era stata la matrice del pensiero delirante-allucinatorio, ossia dell’origine del linguaggio; poi lo fu del pensiero ciclico, narrativo, che originò la coscienza.
La funzione mentale di integrazione socialità-predazione, in altre parole, sostituì la sessualità nel compito di neutralizzare la predazione cannibalica; essa, al posto del rapporto sessualità-predazione pose il rapporto socialità-predazione quale elemento centrale nella vita della specie.
Mentre la sessualità si era limitata a neutralizzare la predazione attraverso il rozzo scambio “sesso contro carne”, la socialità (specie nelle sue forme linguistiche e “coscienti”) andò ben oltre: trasformò la predazione, da reazione motoria immediata a pericoli evidenti ed inequivocabili, in rappresentazione interiore prolungata, ed in blocco, della reazione auto-difensiva “ambigua” (cioè potenzialmente predatoria ma anche potenzialmente sociale) innescata nella preda da una ambiguità parallela: quella appartenente ad un predatore appartenente alla propria stessa specie.
Fu per acquisire la capacità di svolgere questi compiti, che la coscienza adottò la strategia di effettuare un continuo bilancio interiore fra predazione e socialità: fu tale bilancio, ciò che rese la comunicazione fra membri della nostra specie, pur nei suoi momenti più automatici, imitativi e mimetici, qualcosa di ben diverso dalla mimesi di carattere “inferiore” e non mentalizzata, ampiamente presente nel mondo animale: la mimesi umana, infatti, si basava sul mescolamento istintuale, e sulla trasformazione degli istinti in metafore, in rappresentazioni degli istinti stessi.
La mescolanza istintuale aveva fatto sì che ciascuno dei due istinti, venendo in contatto con l’altro, lo attenuasse, lo trasformasse in senso rappresentativo e metaforico e lo facesse divenire parte di sé stesso; questo processo di mescolanza degli istinti, era infatti il presupposto necessario perché ciascun istinto riconoscesse l’altro, quindi lo potesse inibire sul piano motorio; ma il riconoscere l’istinto opposto all’interno di uno stesso soggetto, era a sua volta il presupposto per metaforizzarlo.
Una volta, dunque, operatasi questa destrutturazione istintuale e la trasformazione degli istinti in rappresentazioni, l’uomo manipolò non più gli istinti (come fanno gli animali), ma le loro rappresentazioni metaforiche; in tal modo rappresentò delle rappresentazioni, spingendo la mente in direzione del simbolismo.
Questa doppia rappresentazione consentiva di rappresentare in termini simbolici la propria e l’altrui intenzionalità, di inibirla e di manipolarla in forma non più imitativa ed automatica, come le scimmie e i pappagalli, bensì cosciente ed auto-cosciente.
La coscienza umana fu auto-osservante in virtù della mescolanza istintuale: fu questa a rendere l’uomo cosciente oltre che della propria, anche dell’intenzionalità altrui (in particolare, di quella di un predatore a lui molto simile); fu per questo che egli dovette porsi dal punto di vista del predatore, ed è questo l’elemento che da l’impressione di una dissociazione fra l’Io osservante e l’Io osservato.
La coscienza dunque, per potere svolgere le proprie funzioni di autodifesa (basata sull’identificazione con l’altro, più che sul suo influenzamento mimetico), dové sostituire all’espressione motoria una rappresentazione interiore dell’intenzionalità altrui; ma per far ciò, dové divenire preliminarmente una struttura auto-osservante, perennemente a caccia di reazioni predatorie interiori, da neutralizzare e da trasformare in rappresentazioni.
La coscienza acquisì allora la connotazione di coscienza “morale” (che significa auto-inibente sulla base delle esigenze sociali ed ambientali), e si mutò in auto-coscienza.
La coscienza ebbe però all’inizio, come sappiamo, anche un altro compito, quello prioritario, che stava alla base della sua stessa origine: oltre che trasformare le reazioni motorie immediate di ordine predatorio, in rappresentazioni integrate, rappresentativo-motorie, ad uso interno, essa aveva prima dovuto rendere queste rappresentazioni utilizzabili all’esterno, per i “primitivi” fini suggestivi e mimetici.
Ma per fare ciò la coscienza, prima di imparare a guardare continuamente verso l’interno, verso gli stessi livelli istintuali del soggetto, aveva dovuto imparare a guardare perennemente l’ambiente esterno, ed i pericoli che da esso provenivano.
E la coscienza, ancora oggi, deve tuttora tenere costantemente d’occhio, ed in perenne equilibrio, tutti i livelli istintuali in gioco: quelli predatori e quelli sociali, i propri e quelli appartenenti al predatore; per di più, deve farlo mantenendosi sul piano rappresentativo.
Essa poi deve evitare di cedere allo scarico motorio: sia allo scarico dell’istinto sociale (che può essere troppo “aperto” all’altro, e troppo poco attento all’esperienza che proviene dalla memoria, e dalle esigenze di sopravvivenza che provengono dal sé), sia a quello dell’istinto predatorio (che può essere al contrario troppo “chiuso”, sicuro di sé, e poco attento al punto di vista dell’altro).
Per questo motivo la coscienza è interattiva, contenitiva ed auto-compensativa, come del resto anche l’etimologia di coscienza, “cum-scientia”, suggerisce; infatti, con essa, ad interagire fra di loro sono non solo i livelli istintuali del soggetto fra di loro, ma anche i livelli istintuali del soggetto con quelli del suo interlocutore.
Per lo stesso motivo, la coscienza costituisce una rappresentazione unitaria e sintetica di tutti i livelli istintuali, interni ed esterni, messi gioco dalle stimolazioni predatorie: fu questo carattere che le consentì di essere una struttura motoria disattivata, e trasformata in rappresentazione: cioè dissociata dai livelli motori, ma con essi comunicante.
Essa è insomma un’istanza allo stesso tempo rappresentativa e decisionale: parte da una “visione d’insieme” del bilancio predazione-socialità per giungere, dopo una adeguata rappresentazione ed elaborazione simbolica interiore di tale bilancio, a porre fine alla dissociazione mente-motricità, ai fini di una decisione motoria.

Veniamo ora alla sesta ed ultima ipotesi, che riguarda le malattie mentali:
Secondo questa ipotesi, i principali disturbi psicopatologici derivano dalla matrice cannibalica dell’evoluzione umana; ed in particolare, da un duplice scacco, esperito dall’individuo, nell’operare il suo bilancio interiore fra predazione e socialità:

a) Lo scacco dell’individuo che non riesce ad appropriarsi e ad assimilare, ovvero a padroneggiare senza una eccessiva alterazione del proprio equilibrio interiore (e delle proprie strutture istintuali predatorie) i comandi antipredatori, il più delle volte sociali, che gli giungono dal collettivo. Questo primo scacco da luogo a profonde destrutturazioni, che si svolgono in prevalenza all’interno dell’individuo e lo portano a reprimere la propria istintualità, per salvarsi dall’eliminazione che il collettivo, in caso contrario, gli promette.
b) Lo scacco dell’individuo che non riesce a restituire al collettivo (in una forma da quest’ultimo assimilabile ed utilizzabile) i risultati delle trasformazioni interiori che i comandi ed i messaggi sociali hanno prodotto in lui, e prevalentemente nelle sue strutture istintuali predatorie. Questo secondo scacco da luogo ad un tentativo, non riuscito, dell’individuo, di ottenere una rivalsa predatoria sul collettivo; ossia ad un disturbo esterno delle relazioni dell’individuo con il collettivo.

Il primo scacco produce destrutturazioni della personalità e della biologia individuale, nonché del rapporto dell’individuo con sé stesso, provocate dalla pressione della socialità e del collettivo, e che potremmo definire come “patologie in entrata”; in esse l’individuo subisce il collettivo, che “entra dentro di lui” con la propria socialità, ed esercita una pressione che altera i suoi livelli istintuali predatori, li invade e li de-struttura. Tutto ciò produce stati autistici, allucinazioni, psicosi inibite o “negative”, forme ebefreno-catatoniche, depressioni, anoressia mentale, forme ossessivo-fobiche, disturbi psicosomatici o ipocondriaci, stati di panico.
Il secondo scacco produce invece quelle forme psicopatologiche che denotano un disturbo nella capacità individuale di proporre al collettivo la propria spinta predatoria in termini da esso accettabili, e che potremmo definire come “patologie in uscita”; infatti in tali patologie è l’individuo, con i suoi livelli istintuali predatori, che fuoriesce da sé stesso, tentando di influenzare il collettivo, di assumerne più o meno impropriamente la leadership e di alterarne la struttura istintuale, che è prevalentemente sociale; tuttavia (salvo rari casi di leadership riuscita, passati al mito come “eroi”, “profeti”, o addirittura “dei”), egli esce sconfitto e destrutturato da questo confronto, in genere assolutamente impari. Questa sfida temeraria dell’individuo al collettivo produce deliri di tipo eccitatorio e “positivo”, espansivo, oppure incoerente e bizzarro (ad es. deliri megalomanici, paranoidi-persecutori, mistici, profetici, erotomanici, querulomanici, ecc.); inoltre, psicopatie criminali, comportamenti sessuali patologici e predatori (pedofilia, sado-masochismo), stati maniacali, disturbi di personalità narcisistica o antisociale o “borderline”, tossicodipendenze.
La Psicopatologia, comunque, verrà trattata più in dettaglio nei capitoli del testo.

Concludiamo con un breve accenno al mito del peccato originale.
Il simbolo del “frutto proibito che dona la sapienza”, ossia il “Peccato Originale”, allude innanzi tutto alla prole che il maschio adulto mangia, e la cui predazione spinge la specie, tramite la selezione materna, a conseguire una spettacolare evoluzione intellettuale e linguistica, la quale culminerà nella coscienza
Ma quest’evoluzione, causata dalla pressione cannibalica del padre sul figlio, passa attraverso la selezione materna di figli sempre più sessualizzati, incestuosi, intelligenti ed alleati della madre, ed in quanto tali destinati prima o poi al successo contro il padre (il che spiega abbondantemente la sua “collera”, nel passo biblico).
Questo processo, inoltre, fa sì che i figli, una volta divenuti padri, e dopo avere riprodotto sui propri figli il comportamento predatorio che avevano in precedenza subito, periscano a loro volta per mano di “figli” divenuti più evoluti di loro.
Dunque il “frutto proibito” predatorio acquisisce la connotazione di una vera e propria mela avvelenata: essa spinge il padre, uccidendo molti dei propri figli, a favorire negli altri un’evoluzione che permetterà loro, in un lontano futuro, di rubargli la chiave dell’evoluzione stessa (la predazione) e di ucciderlo a loro volta, sopravvivendogli in quanto “variante” più intelligente ed evoluta.
L’evoluzione intellettuale, poi, avvenne al prezzo della dolorosa acquisizione della coscienza; con essa i nostri progenitori pagarono il prezzo di avere nozione della presenza del “male” predatorio (e quindi della morte) al loro stesso interno; proprio alla coscienza, infatti, allude la cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre dell’inconsapevolezza.
L’essere tale “frutto proibito” (la prole) offerto al maschio cannibalico dalla donna, su tentazione di un Serpente, allude poi alla fine dell’estro ed all’insorgere della sessualità perenne nella femmina. Questo evento è rappresentato dal Serpente, animale nascosto e subdolo, quindi particolarmente adatto a rappresentare quella parte della biologia femminile (i periodi fecondi) che con il superamento dell’estro diviene invisibile ed incontrollabile per il maschio.
Però la sospensione dell’estro sessualizza l’intera specie, compresa la prole (neotenia); essa spinge il maschio a predare la prole sessualmente, trasformando il cannibalismo in predazione sessuale (ciò è rappresentato dalla vergogna della nudità nei “figli di Dio” Adamo ed Eva, al cospetto del Padre). Il “frutto proibito”, dunque, simboleggia anche la predazione sessuale ai danni del figlio, “offerta” al maschio adulto dalla sessualizzazione della specie (e dalla neotenia infantile che ne consegue) causata dalla fine dell’estro femminile.
Infine, l’inimicizia che sorge fra la donna ed il Serpente, cui al donna schiaccerà la testa con il tallone, allude all’evento biologico della menopausa: ossia all’interruzione del ciclo sessuale (nonché della fecondità femminile) nella donna matura, ed al depotenziamento sessuale della donna, che esso implica.
La menopausa, come abbiamo già detto, fu dovuta alla necessità di salvare la prole allontanandola dalla femmina feconda; quest’ultima infatti, malgrado il suo forte potere “contrattuale” sessuale nei confronti del maschio cannibalico, per altri versi ne eccitava gli aspetti predatori verso la prole, proprio in ragione della sua sessualità incestuosa; questa esponeva i figli, nuovamente, alla “gelosia paterna” ed alla probabilità di un preventivo attacco cannibalico maschile.
Pertanto la menopausa costituì la prima risposta antisessuale, ed insieme antifemminile, che la specie pose in atto per arginare strapotere sessuale acquisito dalla femmina adulta, dopo la fine dell’estro: uno strapotere divenuto ormai pericoloso per la stessa prole, oltre che per la specie in quanto tale.
La seconda risposta antisessuale sarà rappresentata, come abbiamo accennato, dal tabù dell’incesto (dei riferimenti al quale, i passi successivi della Genesi, e l’insieme del testo biblico, sono letteralmente pieni). ]

Note di redazione:
(t) testo relazione direttamente fornito dal relatore
Antonella Giordani agior@inwind.it e Anna Maria Meoni agupart@hotmail.com


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