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A. M. P.
SEMINARI STRAORDINARI 2000

"Pensare la psicoanalisi"
Dedicato a Rosario Merendino
Anna Ludovico

Sulla natura del pensiero. Ricordando Rosario Merendino


Nella sua Prefazione a 'Pensare la psicoanalisi' Rosario Merendino invita il lettore a continuare la composizione del testo scritto con la riflessione su di esso, che inevitabilmente e proficuamente amplia il campo degli argomenti proposti dall'autore.
Così facendo Merendino ridona spazio a quella "costrizione" cui necessariamente va incontro la stesura grafica di esperienze vissute nel dialogo orale e ripropone lo scambio delle idee che è il tessuto stesso del processo conoscitivo. Accettando l'invito al lettore, desidero esprimere alcune considerazioni che la mia attenzione di filosofa
della scienza ha elaborato soprattutto dalla lettura di tre dei saggi che compongono il volume in questione, e precisamente: Sulla struttura mente-corpo, Sulla comunicazione inconscio-coscienza e Perché siamo angosciati?. Cercherò di srotolare la matassa dei miei pensieri prendendo il bandolo proprio dalla domanda che titola l'ultimo saggio menzionato. Infatti, sulla traccia offerta da Merendino, vorrei portare in superficie quello che mi sembra essere il nocciolo incandescente della sua ricerca teorica e pratica: quale sia il nesso tra pensiero agito e pensiero pensato, ovvero quale sia la natura del pensiero. Si dà ovviamente per scontato che la psicoanalisi si occupa esclusivamente di esseri umani e che quindi, qui, si sta riflettendo sul pensiero umano, tralasciando qualsiasi - sia pure interessante e possibile - riferimento al mondo e alle società di animali non umani. Dunque, secondo Merendino, l'angoscia di noi umani deriva dal sentimento di non soddisfacimento del bisogno di appartenenza, di quella appartenenza che è propria di ciascuna coppia madre/figlio-a, che è connaturata alla nostra nascita e che contraddistingue la relazione sociale primaria, ossia l'iniziale scambio di informazioni biologiche, affettive, conoscitive, linguistiche, modello e stampo formatore di tutte le successive relazioni interindividuali tese a costituire una società umana: "Chiamiamo madre semplicemente il mondo umano da cui siamo nati e in cui noi oggi siamo immersi e di cui siamo parte" (Merendino 1997: 205). E' questa l'appartenenza originaria che dobbiamo sentire soddisfatta e soddisfacente perché non si sviluppi l'angoscia, "l'angoscia passiva e ... inerme, cioè la disperazione". La disperazione non è tanto e solo un'appartenenza non adeguatamente soddisfatta, ma piuttosto è il riconoscimento mancato di una simile soddisfazione, è il non sapere che ci è stato negato un diritto primario perché non si conosce questo diritto, non si sa in che cosa esso consista. La disperazione, quindi, non pertiene alla sfera dei bisogni fisiologici della sopravvivenza biologica, bensì a quelli culturali della relazione sociale, che è scambio di parole e di pensieri, intreccio di "visioni del mondo" che rendono vivibile una società che si definisce umana. "Ci darà la storia presente forme di appartenenza tali da soddisfare il bisogno elementare ed essenziale di stare all'interno di relazioni valide e funzionali alla vita?", questo è l'interrogativo finale posto da Merendino, nel quale la parola "vita" va intesa come una inscindibile unità di corpo pensante, come simbiosi di nascita biologica e mentale, entrambe realizzate e mutuate dalla madre: la prima relativa all'avvenuto soddisfacimento dei bisogni fisiologici; la seconda relativa al soddisfacimento del bisogno di appartenenza. "Perché non c'è solo la nascita fisiologica: c'è, ed è determinante, la nascita mentale, il cui atto costitutivo è dato dal soddisfacimento del bisogno di appartenenza che, solo, sottrae l'uomo, nel suo nascere al mondo, al senso disperante dell'impotenza e del nulla". Merendino pone una equivalenza immediata tra madre e istituzioni, facendo coincidere il modello relazionale madre/bambino con le relazioni sociali nel loro insieme. Ora, però, aggiungerei un tassello a questo mosaico. A mio avviso, non è tanto il bisogno di appartenenza quanto il riconoscere tale bisogno che trasforma un rapporto sociale in un rapporto istituzionale, che, cioè, permette l'identificazione di Sé come diverso dall'Altro, mediante la separazione distanziante e conoscitiva dalla propria madre. Separazione che può avvenire soltanto se si interpone un terzo elemento estraneo alla relazione diadica primaria, l'elemento "padre", che spezza l'omogeneità della linea retta madre-figlio-a allargandone lo spazio prospettico in un triangolo di relazioni reciproche madre, padre, figlio-a. Affinché l'interposizione del padre non venga vissuta come intrusiva deve necessariamente essere operata dalla mediazione materna che "presenti" il padre al figlio-a facendolo riconoscere come elemento estraneo all'immediata sopravvivenza corporea ma contemporaneamente costitutivo della relazione tra individui interagenti. Insomma, il figlio può sviluppare il sentimento di appartenenza solo se "sa" di appartenere e cioè solo se è distinto da chi appartiene, solo se può formulare il pensiero "io non sono il corpo di mia madre, così come il corpo di mia madre non è il corpo di mio padre, e non sono il corpo di mio padre così come il corpo di mio padre non è il corpo di mia madre". La nascita mentale, che è data dal soddisfacimento del bisogno di appartenenza, è il primo atto conoscitivo della differenza tra il proprio corpo e quello dei genitori: il frapporre una cesura al continuum biologico è un atto mentale. Esso risulta non disperante nell'esatta misura in cui è mediato dalla madre che ad un tempo allontana e riunisce a sé il figlio rendendolo partecipe di un'appartenenza allargata e perciò differenziata in tre termini relazionali, tutti distinti e tutti congiunti in un interscambio affettivo-conoscitivo vitale e fondante l'istituzione. Sicché l'istituzione è tale se è insieme espressione del bisogno di appartenenza (funzione diadica madre/figlio-a) e affermazione della propria appartenenza a qualche cosa attraverso il riconoscimento di Sé e dell'Altro (funzione triadica madre/padre/figlio-a). Nei termini di Freud e di Merendino il riconoscimento dell'altro da sé transita per il principio della negazione, poiché si può negare qualcosa, se e solo se si mettono di fronte due cose e se ne osservano le uguaglianze e le differenze. Ciò permette non puramente di vivere il mondo ma anche di pensarlo: si introietta ciò che buono, che va bene per la sopravvivenza (operazione di uguaglianza), si rigetta ciò che è cattivo, che non va bene per la sopravvivenza (operazione di disuguaglianza). Il nostro primo giudizio è basato su una scelta tra ciò che è buono e ciò che è cattivo, ed è ovviamente un atto sensoriale metabolico, che però stabilisce una connessione di conoscenza: ciò che è buono è uguale a sé e ciò che è cattivo è diverso da sé. La prima sensazione di identità non può che essere di tipo corporale: la madre-seno-latte è buona e quindi è uguale a sé. Mentre il corpo-padre non fa parte della prima configurazione sensoriale-conoscitiva del neonato, esso rappresenta la possibilità di stabilire una differenza-negazione del corpo-madre-sé in quanto è estraneo, esterno-non introiettato metabolicamente. Sicché: introiettato-interno = Sé; non introiettato-esterno = Altro. E quindi in una percezione primaria l'Altro equivale a cattivo. Può dunque essere soltanto la mediazione materna - che è buona - a modificare e correggere il tiro di questo giudizio primevo: l'Altro è cattivo solo quando non sta in una relazione vitale e accrescitiva con Sé, solo se non viene conosciuto e riconosciuto come appartenente alla relazione di sopravvivenza. E' in questo modo che la sopravvivenza biologica diventa sociale e culturale: in questa transizione dal biologico al sociale consiste l'individuazione del Sé come appartenente, facente parte, di un tutto organizzato in corporeità-personalità diversificate e non uguali. Così il contrassegno di "bontà" viene spostato dal singolo unico corpo-madre a una pluralità di corpi-madre-e-padre distinti ma unitari nella reciprocità delle interrelazioni direzionate a mantenere il buon funzionamento della totalità delle azioni comuni. "Il pensiero insomma governa l'apparato psicofisico umano secondo modi e funzioni che abbracciano il giudizio sensoriale-percettivo, il giudizio intellettuale nell'ambito dell'esame di realtà, l'investimento affettivo orale e quello genitale, la fantasia creativa, il senso estetico ed etico, la visione simmetrica ed asimmetrica di sé e delle cose e l'intuito della scoperta scientifica, in sintesi l'Io-piacere e l'Io reale" (Id: 197). Potremmo dire che la persona umana, l'Io-piacere-reale è il risultato di un giudizio di contrasto (del tipo figura/sfondo) in un atto mentale di separazione-affermazione di sé che coinvolge il riconoscimento dell'uguale e del disuguale nel frazionare in parti distinte il tutto indiviso fusionale madre/figlio-a e nel dare un nome, circoscrivendo un concetto, a ogni parte. "Egli [Freud] concepisce il concetto di pensiero come la struttura originaria che organizza l'apparato psicofisico umano in un insieme di funzioni finalizzate alla conoscenza e alla utilizzazione soddisfacente della realtà ai fini della vita, finalizzata cioè alla costruzione di relazioni cognitive-affettive col mondo esterno a tutti i livelli, da quello più elementare della sensorialità orale-epidermica a quello più astratto del puro concetto" (Id: 196). Allora, forse, possiamo dedurre che l'organismo umano, unità di corpo e mente ("il corpo .. non vuole indicare come concetto solo la fisiologia del corpo, ma la rappresentazione mentale di esso attraverso il linguaggio corporeo" (Id: 155)) è una unità relazionata nel senso di dire che l'attività mentale "non starebbe in relazione isomorfa o di pura imitazione - una sorta di "doppio" - rispetto all'attività puramente fisiologica, ma starebbe in relazione significante e unificante: essa trasformerebbe, come di fatto trasforma, l'attività fisiologica in un insieme di relazioni affettive-conoscitive di senso e quindi in un sistema linguistico, che va dal primo elementare coordinamento delle sensazioni e delle percezioni al più alto livello delle rappresentazioni simboliche" (Id: 155). Ovvero: la rappresentazione mentale del corpo si attua in una struttura neurofisiologica autorappresentativa che costituisce un "linguaggio corporeo" pre-verbale del riconoscimento del proprio confine "epidermico"; l'attività mentale, così instaurata, trasforma - dopo la nascita e nel corso dell'età evolutiva - l'attività fisiologica in un insieme di relazioni affettive-conoscitive dotate di senso, ossia riferite a esperienze vissute non solo corporalmente, ma significate "nominalmente" dalla differenziazione linguistica. Nello sviluppo umano il linguaggio verbale è il fattore trasformativo fondamentale dell'esperienza corporale in esperienza cognitiva. La cognizione è tale in quanto può essere comunicata - anche a se stessi - pure in assenza dell'esperienza di fatto immediata: posso raccontare e raccontarmi l'accaduto, una volta che ho imparato a riferire la verbalità simbolica alla non-verbalità fisiologica, una volta che ho imparato a tradurre in parole, in immagini verbalizzate, le sensazioni e le percezioni. Cosicché ci ritroviamo, alla conclusione di questa riflessione, con una mente formata da un pensiero preverbale di organizzazione neurofisiologica dell'apparato senso-motorio che definisce i confini corporei e un pensiero verbale di organizzazione, direi, neurolinguistica dei sentimenti e delle azioni che relaziona tra loro organismi di individui diversi in una attività accomunata. Mi pare di interpretare nel testo di Merendino una coincidenza tra pensiero preverbale e inconscio, e tra pensiero verbale e conscio. La "traduzione" del primo nel secondo sarebbe proprio quell'attività mentale trasformativa detta poc'anzi, che relazionerebbe la fisiologia all'affettività non in modo speculare bensì in modo simbolico: non facendo una copia esterna della strutturazione neurofisiologica interna, ma facendo "combaciare" l'ordinabilità corporea con quella interpersonale attraverso il riconoscimento di una appartenenza comune nella diversità. L'insieme di relazioni ordinate che costituiscono l'organismo corporeo è di natura biochimica, mentre l'insieme di relazioni ordinate che costituiscono l'organismo sociale è di natura cognitivo-affettiva e linguistica: il far corrispondere i due ordini diversi dà forma al mondo e alle nostre visioni di esso, ossia alla possibilità di esprimerle verbalmente. Poter conoscere questa corrispondenza vuol dire mettere in comunicazione inconscio e coscienza, e "La comunicazione tra inconscio e coscienza ... è una, e forse la più importante, funzione del pensiero" (Id: 200).


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