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A. M. P.
SEMINARI 1997 - '98
Giancarlo Petacchi

L'intrapschico e il relazionale in psicosomatica alla luce dell'osservazione del lattante


La tradizione vuole che quando si propone un proprio contributo, si dica qualcosa d'introduttivo.
Vorrei rispettare la tradizione raccontandovi un episodio che è accaduto a me, a poca distanza da qui, ma a molta distanza di tempo.
Era l'inizio degli anni '60; frequentavo il reparto neuro I che aveva come responsabile Aldo Laterza.
Un pomeriggio, tornando in reparto e passando davanti alla medicheria del neuro II, vedo un'infermiera in lacrime, sgomenta, confortata da un'altra infermiera del reparto.
Cos'era accaduto? Era accaduto che lei era andata nel bagno delle donne del suo reparto per lavarsi le mani e aveva lasciato l'orologio col braccialetto d'oro sul lavandino: quando era tornata, dopo un po' di tempo, non l'aveva più trovato. C'era molto affezionata perché, con ogni probabilità, era uno di quei regali che si ricevono in occasioni particolari: un matrimonio o un compleanno.
Fui molto colpito e partecipai molto dello sgomento di questa giovane donna e dopo qualche momento, potrà essere passato un minuto o due, mi venne un'idea che ancora oggi mi sorprende per la sua originalità. In quei tempi c'era a Roma un maresciallo della polizia che si chiamava Maimone il quale aveva un cane lupo che era famoso non solo in tutta Roma, ma anche in Italia, un po' come il cane di quello sceneggiato televisivo che fanno adesso perché questo cane aveva partecipato a molte operazioni per rintracciare col fiuto persone o cose.
Allora io ebbi questa idea: mi presentai nella corsia delle donne, che era almeno di dodici letti e dissi che era stato rubato l'orologio col braccialetto d'oro, dissi che io avrei chiuso tutte le imposte, tutte le finestre, avrei spento la luce e avrei lasciato la corsia al buio per un po' di tempo perché, se poi non rispuntava fuori il braccialetto d'oro, io avrei chiamato il maresciallo Maimone col suo cane, gli avrei fatto annusare un indumento dell'infermiera e il cane avrebbe ritrovato il braccialetto dell'infermiera. Così feci: spensi la luce, feci un buio totale, chiusi la porta e dopo un po' di minuti tornai: andai nel bagno e sul lavandino c'era l'orologio dell'infermiera la quale non vi sto a dire quanto fosse fuori di sé dalla gioia, al punto che poi a distanza di anni, io mi ero anche un po' dimenticato di questo episodio passai in reparto, la rincontrai e ancora mi fece dei festeggiamenti, dei ringraziamenti, come se fossi stato, il suo salvatore.
Come vedete non è che di per sé l'avvenimento sia qualcosa di eccezionale, tranne quest'espediente che avevo escogitato.
Adesso però vi voglio far conoscere un frammento di autoanalisi che ho fatto a molta distanza di tempo da quando era accaduto l'episodio.
Il fatto è questo, che le basi emotive di quel mio gesto sono completamente nella mia infanzia perché questa infermiera assomigliava a mia mamma da giovane: le assomigliava un po' per i capelli neri, per la corporatura; le assomigliava per l'impegno che metteva nel suo lavoro, per la dedizione, per la cura con cui si occupava delle persone e per l'essere molto disponibile. Non era di quelle infermiere strafottenti come possono essere a volte infermieri e medici: indifferenti ai bisogni, alle necessità di chi sta male. Ne abbiamo tutti molti esempi, forse saremo stati anche noi presi dalla fretta; presi da dei nostri bisogni, saremo stati un po' indifferenti alla richiesta di qualche ammalato.
Questa donna io notavo che era molto premurosa, molto attenta a quello che le succedeva intorno, quindi aveva abbastanza caratteristiche per essere, a livello mio inconscio, avvicinata alla figura di mia mamma e tra l'altro il fatto che io l'avessi vista piangente, sicuramente mi deve aver evocato qualche momento in cui avrò visto, da bambino, mia mamma che piangeva per qualcosa che l'addolorava. Allora, la situazione emotiva era che un equivalente di mia mamma, una figura che richiamava mia mamma, aveva subito un furto, aveva subito un'offesa, aveva subito un'aggressione e quindi c'era una figura cattiva, la donna che aveva rubato, che aveva fatto del male ad un personaggio buono: l'infermiera.
Ora questo fatto del furto, del rubare, credo che abbia rievocato i miei desideri di bambino di rubare mia mamma, di rubarla a mio padre per averla per me e vi posso dire che tra gli episodi che si collocano tra i miei quattro, cinque anni, c'è un discorso con mia mamma, che poi lei mi aveva raccontato, in cui le dicevo che da grande l'avrei sposata, cosa che è abbastanza frequente nei bambini di quella età; che l'avrei sposata e alla sua domanda " E papà"? le dissi "Se ne prenderà un'altra".
Quindi non lo lasciavo solo, gli davo un suo benessere, ma con un'altra donna, non con mia mamma: l'edipico c'era in pieno.
Poi il fatto del cane poliziotto, del fiuto. Io ricordo molto bene ed è una cosa che succede ai bambini, di distinguere bene gli odori dei genitori, il profumo della mamma da quello del babbo e mi ricordo ancora che a quei tempi, vi posso anche dire un episodio di vita familiare, a quei tempi usavano ancora gli orinali in camera da letto ed io sentivo la differenza tra il vaso da notte che aveva la pipì di mia mamma, da quello di mio padre: era qualcosa di molto diverso, di molto caratteristico per ognuno di loro due. Quindi il fatto dell'olfatto, dell'annusare deve avermi messo in moto un'idea che riguardava di far venire il cane poliziotto che avrebbe annusato "la mamma" e avrebbe riconosciuto quello che le avevano tolto.
Quindi quella paziente che aveva rubato il braccialetto all'infermiera non era altro che io stesso che rubavo qualcosa a mia mamma e quindi l'insieme del meccanismo è un meccanismo riparativo che io rapidissimamente, a mia insaputa, completamente incosciente e senza ricordare nulla di quegli episodi della mia infanzia, avevo messo in moto; questo meccanismo riparativo che si doveva attuare attraverso un alleato: il cane lupo, che dentro di me poteva rappresentare un alleato di me e di mio padre, contro il me che voleva rubare la mamma, come dire......un cane lupo paterno buono che difendeva la mamma.
Vi ho voluto raccontare questo per darvi l'idea di come nella nostra vita dei gesti possono avere una motivazione inconscia che ci sfugge e affondare le loro radici in qualcosa di lontano del nostro passato infantile.
Vedrete che qualcosa di questo, dell'importanza dell'infanzia, lo ritroveremo nel corso di quello che adesso vi propongo.
Se io dovessi dare un titolo a quello che sto per descrivervi, un titolo un po' complicato, se vogliamo, direi che vi parlo dell'influenza della vita emotiva sulla salute fisica e il titolo potrebbe essere così: "L'intrapsichico e il relazionale in psicosomatica alla luce dell'osservazione del lattante".
Inizio raccontandovi un episodio che riguarda un piccolo cane lupo: una lupacchiotta di due mesi circa che poco prima era stata tolta dalla cucciolata, separata dalla madre perché la mamma aveva fatto quasi una decina di cuccioli e il contadino cercava di liberarsene, di affidarli a qualcuno altrimenti sarebbero stati eliminati. Una mia amica aveva preso questa cuccioletta di circa un mese e mezzo e dopo pochi giorni che l'aveva a casa, la cagnetta si ammalò di una forma estremamente violenta di quella che i veterinari chiamano "piodermite precoce".
Una forma da strafilococco che loro ritengono sia in relazione col distacco precoce, troppo presto, del cucciolo dalla mamma e dalla cucciolata.
Questa cuccioletta era stata considerata con pochissime speranze di potersi salvare perché era proprio devastata da questa infezione che soprattutto l'aveva colpita al muso e quindi fu sottoposta ad un trattamento con cortisone in quantità rilevanti, e con antibiotici e lentissimamente, nel giro di un mese, questa infezione si risolse.
Allora: un distacco troppo precoce di un cucciolo dalla madre, può essere causa di una maggior facilità di contrarre un'infezione. Qui c'è poi il problema del'immunità trasmessa attraverso il latte, una quantità di problemi collaterali da considerare, però fermiamoci al dato di base dì un distacco precoce.
Il secondo episodio riguarda una ragazza madre che aveva avuto un primo bambino da un uomo dal quale si era poi separata e quando questo bambino aveva quattro, cinque anni, rimase incinta di nuovo da un altro uomo.
Questa volta nacque una bambina. La mamma non si sentì d'accudirla e la portò al befotrofio dove andava giornalmente a darle il latte. La bambina s'ammalò nelle prime settimane di vita di una forma emorragica intestinale che assunse un andamento sempre più grave. Era in condizioni di grande decadimento, però continuava a vivere. La mamma, come dicevo, l'andava a trovare ogni giorno e una volta una delle infermiere le disse queste testuali parole: "Signora non venga più, perché se lei continua a venire la bambina non riesce a morire"!
Questa fu l'espressione agghiacciante che questa mamma si sentì dire.
Credo che abbia continuato ancora ad andare a vederla, ma dopo pochi giorni la bambina è morta: aveva circa un mese di vita: una separazione così precoce dalla mamma può essere causa di una sofferenza che porta a morire.
Sempre a proposito di befotrofi vi voglio dire che a me capitò, circa una quarantina di anni fa , di visitare il befotrofio di Penne, in Abruzzo, il paese dove era nato il mio maestro: Nicola Perrotti.
Insieme ad altri colleghi facemmo una visita a questo befotrofio e così venni a sapere che in quel befotrofio non si era mai verificata la morte di un bambino, tranne un caso di un bambino che era entrato già con una febbre elevata. Per il resto non avevano avuto nessun decesso e loro lo attribuivano al fatto che le cure dei bambini venivano affidate a delle donne del posto, a delle contadine, ognuna delle quali si prendeva cura di uno o due bambini, in modo che ogni bambino era accudito sempre dalla stessa persona che lo accudiva nella sua crescita.
In quello stesso periodo c'erano stati i lavori di Spitz sull'ospedalizzazione e Spitz aveva fatto vedere che in un grandissimo befotrofio degli Stati Uniti, la mortalità per infezioni nel primo anno di vita era all'incirca del 40%. Questi due dati a confronto, quello dell'ospedale di Penne e del grande befotrofio statunitense, sono abbastanza istruttivi.
Adesso vi descrivo invece la vicenda che riguarda una giovane mamma indiana. Questa vicenda mi è stata raccontata da una collega che stava facendo il corso per ottenere il master in psicoterapia per l'infanzia attraverso la Tavistoch di Londra e nel fare l'osservazione del lattante, si era imbattuta in questa situazione che ora vi descrivo.
Aveva cominciato ad osservare una giovane mamma indiana che s'era rivolta per aiuto alle strutture della U.S.L. di un paese vicino Roma; nella U.S.L., sapendo dell'interesse di questa psicoterapeuta per i lattanti, le avevano proposto di occuparsene e lei aveva cominciato a fare la sua osservazione.
L'osservazione del lattante sapete che si svolge in una forma il più possibile distaccata, cioè senza interagire con la mamma e con la famiglia, un'ora la settimana, possibilmente in momenti diversi della giornata.
Una volta alla settimana, per un'ora, l'osservatore partecipa della vita del lattante.
Quando questa collega aveva cominciato a occuparsene, la bambina di cui parliamo aveva pochi giorni e aveva un vomito continuo, rimetteva, si può dire, ad ogni poppata per cui era molto deperita ed era fonte di preoccupazione per la madre che riteneva che il suo latte non fosse buono, che lei non fosse una mamma in grado di accudire bene la propria bambina.
Aveva un maschietto di qualche anno più grande ed anche lui, quando era lattante, aveva avuto un vomito precocissimo che si era protratto per tutto l'allattamento.
La storia che la mia collega venne a conoscere è questa: questa mamma indiana, quando nacque, non fu tenuta dai genitori che erano estremamente poveri, che la dettero, l'affidarono a delle suore.
Dopo un po' di tempo le suore la dettero ad una famiglia indiana un po' più benestante, che la tenne in casa insieme ai propri figli, ma quando all'età della scuola, si trattava di farla studiare, le fu spiegato che loro non potevano mantenerla agli studi, non potevano mandarla a scuola e che doveva rimanere in casa per aiutare, perché lei non era loro figlia: l'avevano presa, l'avevano fatta crescere, perché lei era stata abbandonata dalle suore.
Crescendo questa bambina, diventata signorinella, fece una volta un viaggio in Italia con le sorelle, le piacque molto l'Italia e il suo sogno divenne quello di sposare un italiano.
In un secondo viaggio, a distanza di qualche anno, tornando in Italia conobbe un giovane italiano che viveva in un paese vicino Roma; faceva l'operaio e le cose andarono che, dopo un po' di tempo, si sposarono.
La famiglia di lui lo diseredò, gli dette l'ostracismo, non vollero più avere nulla a che fare con lui per il fatto che aveva sposato un'indiana: i giovani sposi fecero la loro vita in questo paesetto, ebbero quel primo bambino e poi ebbero la seconda bambina con gli stessi disturbi di vomito, come il primo.
La collega notò che progressivamente, di volta in volta, il vomito si riduceva e dopo cinque, sei sedute di osservazione, il vomito scomparve. Quindi, quando la bambina ebbe intorno ad un mese e mezzo, due mesi, gli episodi di vomito erano molto sporadici, molto lievi e poi scomparvero.
Mi preme sottolineare che questa collega è molto attenta, molto scrupolosa e non fece mai nessun intervento diretto di psicoterapia, ma solo qualche volta di commentare che non era sicuro che il latte non fosse buono, che il disturbo poteva benissimo scomparire e non era imputabile al latte della mamma.
Questa donna si era sentita fin dal primo incontro molto rassicurata, molto contenta di avere questa osservatrice e un giorno che stava allattando la bambina avvenne questo fatto che ora vi descrivo: la collega vide la donna molto assorta mentre aveva la bambina al petto; molto assorta e con l'aria, appunto, di stare a pensare a qualcosa d'importante e le chiese: "A cosa stai pensando"? E la risposta incredibile di questa donna fu questa : " Sto pensando a come sarebbe felice mia madre se mi vedesse adesso che sto dando il latte alla mia bambina".
Questo episodio l'ho voluto citare perché mi sembra il massimo che si possa immaginare, il massimo della possibilità di esprimere quello che si dice "la madre interna" cioè l'immagine materna che uno ha dentro di sé, quale tipo di mamma porta in sé, perché se pensiamo che questa giovane donna non aveva conosciuto la propria madre che l'aveva abbandonata, che non sapeva neppure se era viva e dove fosse, il fatto che potesse pensare che questa mamma sarebbe stata felice di vederla dare il latte alla propria bambina, si può veramente considerare un'espressione intensa, forte di quella che possiamo chiamare: la presenza di una buona madre interna.
L'osservazione è poi continuata per altri due anni, questa bambina è cresciuta bene, non ha più avuto problemi di vomito.
Questo ci dice come la sola presenza di una figura materna benevola, nella vita di una giovane mamma, possa influenzare favorevolmente l'allattamento al punto che, in coincidenza con questa presenza, si ha una scomparsa degli episodi di vomito nel lattante.
Vi propongo ora un episodio ricavato dalla mia esperienza di analista: in una fase avanzata dell'analisi, un paziente mi parla della sua bambina di circa cinque mesi che presenta un eczema delle guance comparso da circa due mesi con andamento ingravescente; sono stati consultati successivamente tre pediatri: uno ha detto di usare del cortisone localmente, uno di fare accertamenti e uno di non fare niente. Le guance della bambina si presentavano di colorito rosso violaceo intenso, la pelle ispessita e desquamante; conoscendo il carattere della madre della bambina, propongo al paziente di dire alla moglie di allattare la bambina rimanendo, lei completamente nuda e tenendo anche la bambina nuda completamente. La signora accetta molto volentieri ed essendo inverno si copre solo con una vestaglia appoggiata sulle spalle. L'indomani il paziente riferisce che al mattini il colorito rosso violaceo si è leggermente attenuato. Nei giorni seguenti si assiste ad una progressiva attenuazione dei sintomi e dopo circa un mese il rossore è completamente scomparso e l'eczema è regredito. La mamma, da parte sua, ha vissuto con gioia intensa l'esperienza del nuovo modo di allattare al punto che quando è accaduto che la bambina, durante una poppata, le abbia fatto la cacca addosso, non si è minimamente scomposta e, dopo essersi rapidamente pulita, ha ripreso la poppata.
Adesso dedichiamoci allora a un fatto sperimentale che ha dell'incredibile: un'esperienza fatta su dei topi. Ha dell'incredibile al punto che quando è accaduto, in un piccolo gruppo di lavoro, di citare questa esperienza che è stata poi confermata da esperimenti successivi, quando è stata citata questa esperienza, uno degli immunologi presenti, che non conosceva questa ricerca, si rifiutava di credere che fosse possibile.
La ricerca è questa: partiamo dalla ciclofosfamide che è un antiblastico, cioè una sostanza che distrugge le cellule in fase di replicazione, in fase di riproduzione, nella fase della mitosi una sostanza che viene usata a scopo terapeutico nei tumori.
E' molto conosciuta, è da moltissimi anni, da decenni che si usa; ovviamente è anche una sostanza molto tossica e non si deve superare un certo limite di distruzione delle cellule, perché naturalmente distrugge anche i globuli bianchi che sono cellule nucleate, mentre non distrugge i globuli rossi che sono quelli circolanti e sono cellule prive di nucleo.
Ripeto, è stata data la ciclofosfamide ai dei topi.
Insieme alla ciclofosfamide è stata data dell'acqua dolcificata con saccarina, la
somministrazione è avvenuta a più riprese, con intervalli di tempo, per fare in modo che i globuli bianchi risalissero, dopo la caduta a cui vanno soggetti ad ogni somministrazione.
Quindi: somministrazione di ciclofosfamide; caduta dei globuli bianchi; intervallo di tempo; risalita dei globuli bianchi; nuova dose di ciclofosfamide e, come dicevo, insieme alla ciclofosfamide è stata data dell'acqua dolcificata ogni volta.
Dopo alcune somministrazioni è stata data dell'acqua dolcificata e basta, senza la ciclofosfamide.
Ora la cosa che ha dell'incredibile è che si è avuta una diminuzione, una caduta dei globuli bianchi, come quando veniva data insieme alla ciclofosfamide e naturalmente questo si è ripetuto alcune volte in forma sempre più attenuata, finché, dopo qualche volta, quando si è perduta "la memoria" dell'azione della ciclofosfamide, l'acqua dolcificata non ha avuto più effetto sui globuli bianchi; ma per alcune volte l'ha avuta e questo naturalmente ha chiamato in causa i meccanismi di regolazione del sistema immunitario che fanno capo al sistema nervoso.
Questa esperienza ha una spiegazione anche in ricerche successive perché si è visto che i globuli bianchi hanno dei recettori verso i neurotrasmettitori cerebrali; si è visto che i mediatori chimici del sistema nervoso possono essere captati dai globuli bianchi che quindi vengono influenzati direttamente.
Questa sarebbe, secondo gli immunologi, la spiegazione più attendibile del fatto che ci possa essere una caduta dei globuli bianchi anche dopo somministrazione solo di acqua dolcificata.
Ho voluto ricordare questa ricerca perché ci dà l'idea di quali possibilità abbia un organismo animale e pensando all'organismo umano dobbiamo pensare che, se questi fenomeni sono successi nei topi, si potrebbero verificare con ogni probabilità anche negli umani, nel bene e nel male.
Facciamo ora una divagazione che riguarda l'arte culinaria. Come sapete, sia la maionese che la crema possono "impazzire", quando perdono l'amalgama e la fluidità che sono loro proprie, ma impazziscono in modi diversi. Quando la maionese impazzisce ciò accade perché la componente acquosa si separa da quella grassa; infatti se si prende un altro rosso d'uovo, aggiungendo olio si prepara un'altra maionese e dopo un po' si può unire a poco a poco la maionese impazzita che, così facendo, si riamalgama perfettamente con la nuova maionese. Potremmo dire che questo "impazzimento" è affine ad una psicosi isterica o ad un episodio maniacale.
Quando invece "impazzisce" una crema fatta di latte, zucchero e rosso d'uovo (e senza farina) vuol dire che invece di prepararla a bagnomaria la si è fatta bollire, anche se solo per poco: in questo modo si coagulano le proteine per alterazione irreversibile della loro struttura, si formano vari grumi e la crema non è più recuperabile: potremmo paragonarla ad una forma ebefrenica. Ho fatto questa divagazione per darvi un'idea concreta di quello che succede con la ciclofosfamide: le cellule vengono danneggiate in modo irreversibile e muoiono; se pensate che questo può avvenire per l'azione della sola acqua dolcificata potete riflettere su quali forze possono agire in un organismo, nel bene e nel male.
Si può ben immaginare di quali potenzialità siamo in possesso perché così come si possono distruggere i globuli bianchi, si può pensare che esistano risorse di difesa dalla distruzione e quindi che il sistema nervoso e il sistema immunitario, nella loro correlazione, siano in grado di determinare morte o vita, a seconda di come funzionano e quindi, quando parliamo di sistema nervoso noi dobbiamo tener conto che il sistema nervoso è la sede anche delle emozioni e quindi della vita psichica e di tutto ciò che esiste e si manifesta nell'attività psichica dell'essere umano.
E' per questo che vi propongo di spostarci dall'immunologia sperimentale alla poesia.
Vi leggo una poesia che s'intitola "La medicina" e che ha una dedica:

"Alla Signora C. R. dalla bella voce"

Non so che triste affanno mi consumi:
sono malato e nei miei dì peggiori....
Tra i balaustri il mar scintilla fuori
la zona dei palmeti e degli agrumi.

Ah! Se voi foste qui, tra questi fiori,
amica! O bella voce tra i profumi!
Se recaste con voi tutti i volumi
di tutti i nostri dolci ingannatori!

Mi direste il Congedo, oppur la Morte
del Cervo, oppure la Sementa... E queste
bellezze, più che l'aria e più che il sole,

mi farebbero ancora sano e forte!
E guarirei: Voi mi risanereste
con la grande virtù delle parole!

Questa poesia è di Guido Gozzano che l'ha scritta alcuni anni prima di morire di tubercolosi.
Proviamo a considerare questa poesia dal punto di vista del rapporto del soggetto con se stesso e con gli altri, cioè la verticale e l'orizzontale, come dice Armando Ferrari oppure anche l'intrapsichico e il relazionale.
Come vedete questa poesia comincia proprio con un "Non so". L'apertura è su un piano di confusione : "Non so che triste affanno mi consumi: sono malato e nei miei dì peggiori".
C'è questa consapevolezza di sé e poi la mente del poeta, l'animo del poeta si sposta sul paesaggio: "Tra i balaustri il mar scintilla fuori la zona dei palmeti e degli agrumi".
A questo punto entra in scena l'altra persona, l'amica dalla bella voce alla quale il poeta dice: "Ah! Se voi foste qui tra questi fiori, amica"!
Tutto quanto è centrato sul fatto che quella donna non c'è, che però se ci fosse avrebbe un effetto meraviglioso, un effetto risanatore: "E queste bellezze, più che l'aria e più che il sole, mi farebbero ancora sano e forte".
Lui però non la cerca, non manda qualcuno a chiamarla, non le scrive, non le chiede di venire, non si fa portare lui, non va lui o non si fa accompagnare dove questa donna vive; dopo questa poesia lui è stato in grado di fare dei viaggi: è stato in India, quindi se è riuscito ad andare in India, poteva benissimo andare anche da questa donna.
No! Lui si limita ad invocarla, a pensarla e dice: "E guarirei: Voi....", voi: la sua salute dipende da quella donna, " ....Voi mi risanereste con la grande virtù delle parole".
Il poeta con se stesso si è arreso, dice: "Non so che triste affanno mi consumi: sono malato e nei miei dì peggiori" e finisce : "E guarirei: Voi mi risanereste con la grande virtù delle parole".
Adesso vediamo un'altra poesia di un altro poeta, che è datata maggio 1945 ed è stata scritta o meglio pensata, perché non c'era modo di scriverla, è stata pensata a Mathausen-Gusen, in un campo di sterminio.
La poesia è questa.

Ho fame, non mi date da mangiare,
ho sete, non mi date da bere,
ho freddo, non mi date da vestire,
ho sonno, non mi lasciate dormire!

Sono stanco, mi fate lavorare,
sono sfinito, mi fate trascinare
un compagno morto per i piedi,
con le caviglie gonfie e la testa
che sobbalza sulla terra
con gli occhi spalancati.....

Ma ho potuto pensare una casa
in cima a uno scoglio sul mare
proporzionata come un tempio antico.

Sono felice: non mi avrete.

Questa poesia, come vi dicevo, è stata pensata da Ludovico Belgioioso, mentre era internato in un campo di concentramento in Germania a Mathausen dove si trovava da molti mesi; era ridotto allo stremo, eppure è riuscito a sopravvivere.
E una parte di questa sopravvivenza è dovuta certo anche alla sua forza d'animo: lui dice che la poesia gli ha salvato la vita perché, siccome non poteva scrivere poesie perché non aveva né carta né penna e poi sarebbe stato pericolosissimo farsi trovare addosso delle cose scritte, lui le pensava, se le imprimeva nella memoria e poi quando è tornato in Italia le ha scritte.
Con gli altri prigionieri ognuno diceva, ripeteva le poesie che conosceva a memoria e quindi si ridicevano le poesie che avevano imparato negli anni di scuola.
Come vedete che questa poesia comincia prima completamente sul piano relazionale perché lui dice: "Ho fame, non mi data da mangiare". Quindi : ho fame, ho sete, ho freddo, ho sonno, sono stanco, sono sfinito. Gli inizi dei primi versi sono questi: in essi c'è la sua condizione in relazione a quello che gli succede: non mi date da mangiare, non mi date da bere, non mi date da vestire, non mi lasciate dormire, mi fate lavorare, mi fate trascinare un compagno morto per i piedi.
In questa poesia c'è una presenza violenta del rapporto con l'altro, con gli altri che sono i suoi aguzzini; c'è in primo piano l'aspetto interpersonale, sul piano di ciò di cui lui ha bisogno e che gli viene negato, di ciò che subisce.
Poi quando c'è il passaggio brusco con il "Ma", mi pare che si definisca una congiunzione avversativa, con il ma ci sono questi pochi versi finali che riguardano se stesso: "Ma, ho potuto pensare una casa, in cima ad uno scoglio sul mare, proporzionata come un tempio antico".
Vedete come qui il poeta riesce a trovare, può trovare dentro di sé un punto di forza che è d'immaginare questa casa in cima ad uno scoglio sul mare: allora c'è il mare, c'è l'elemento acqua; c'è lo scoglio che è certamente qualcosa di solido; in cima allo scoglio c'è una casa e c'è un'idea di bellezza perché "proporzionata come un tempio antico" e l'ultimo verso è così: "Sono felice: non mi avrete".
Guardate la differenza tra Gozzano che dice "Ah! Se voi foste qui tra questi fiori" ed è tutto in un aspettativa e invece Belgioioso che dice: "Ma, ho potuto pensare una casa... Sono felice, non mi avrete" ,mentre Gozzano dice: "Voi mi risanereste con la grande virtù delle parole".
Sono due mondi assolutamente diversi: uno poggia sull'aspettativa e su quello che può ottenere dagli altri, l'altro invece è un mondo interno dove c'è una forza che gli consente, a Mathausen, di dire: "Sono felice, non mi avrete" e bisogna pur dire che non l'hanno avuto perché è tra i pochi che sono sopravvissuti.
Mi pare che se ripercorriamo i momenti di questo nostro incontro, di quello che vi ho proposto e cioè la separazione della cucciola di cane lupo dalla mamma e dalla cucciolata; la bambina che è morta all'età di un mese in un befotrofio mentre la mamma non riusciva a starle vicina altro che qualche momento; la mamma indiana che pensava alla gioia della propria madre mentre lei allattava la propria bambina, l'eczema delle guance che è scomparso con l'allattamento di madre e bambina nude, allora, se questi elementi li confrontiamo e li mettiamo nella cornice di queste due poesie, direi che ci fanno vedere come chi non ha una mamma interna soccombe, può solo esprimere un'aspettativa, un desiderio di essere aiutato e invece chi ha una figura forte di madre interna, come Belgioioso, può invece far forza su questa immagine interna e ricavarne una possibilità di darsi aiuto e di trattarsi come una madre avrebbe potuto trattarlo, cioè dandogli aiuto: ha potuto darsi aiuto da se stesso.
Per concludere vorrei accennare a quella che si chiama la coppia genitoriale, perché oltre la madre interna esiste la coppia interna di genitori: i genitori interni.
Vi accenno alla situazione di un mio paziente che durante l'analisi ricordava che da bambino verso i cinque, sei anni, quando doveva andare a far pipì nel bagno al mattino, doveva attraversare la stanza da letto dei genitori. Ricorda che spesso aveva un eccitamento, si trovava con un'erezione ed era molto soddisfatto, era trionfante di poter passare vicino al loro letto con il pigiamino sollevato dall'erezione che aveva.
Questa sua caratteristica lo faceva sentire in competizione col padre e con un senso di sfida e di esibire alla mamma la sua virilità, il suo eccitamento.
A distanza di qualche anno, sul finire dell'analisi espresse uno stato d'animo, sotto forma di fantasia, in cui lui usciva dalla stanza dei genitori immaginandoli nel loro letto matrimoniale, immaginava di uscire in punta di piedi, di socchiudere piano, piano la porta e di andare via, di allontanarsi pensando "Siate felici, perché se siete felici voi, potrò essere felice anch'io" A me questo sembra una delle immagini più belle che ci possono essere di superamento del complesso edipico.
Con questo mi riallaccio a quello che vi dicevo all'inizio sull'episodio del cane lupo e del recupero dell'orologio dell'infermiera perché vorrei rimarcare l'importanza di questa situazione di immagini interne e quindi concludo sostenendo che quell'immagine poetica che Belgioioso esprime quando dice " Ma ho potuto pensare a una casa in cima a uno scoglio sul mare....." ecco io credo che quell'immagine lì che è molto bella sul piano estetico, sul piano descrittivo, io credo che simbolicamente ci possa far pensare e riflettere sulla possibilità che il mare, la roccia francese mare e madre hanno addirittura la stessa parola; la roccia potrebbe essere e la casa siano un simbolo di una situazione di coppia cioè il mare, al madre; in l'elemento maschile e la casa è il risultato di una coppia che sta bene insieme, di una coppia non devastata dall'invidia, dalla violenza, quindi un immagine di un uomo che ha dentro di sé l'idea di una coppia genitoriale unita e bella.
Quindi credo che quell'immagine lì si possa riferire, anche per Belgioioso ad una qualità, a come lui sentiva i suoi genitori uniti e belli dentro di sé; tra l'altro anche questo nome "Belgioioso" mi pare che sia un nome che indica bellezza e gioia, anche la mamma di un bambino che si chiama Belgioioso credo che possa indicare una qualità amorosa e se voi leggete di Belgioioso "Notte e nebbia" e "Come niente fosse" vi renderete conto di come quest'uomo abbia una qualità amorosa interna che gli ha consentito di superare dei momenti veramente catastrofici per quello che si svolgeva attorno a lui.
Per finire debbo dire che sono molto grato all'avvocato Manlio Magini di Roma che è stato compagno di prigionia di Belgioioso per alcuni mesi nel lager dove si trovavano. Sono stati compagni di prigionia, compagni di lager, mi ha fatto conoscere un suo libro "Un itinerario per il lager" e mi ha raccontato di come si svolgeva la loro vita, in quali condizioni estreme di privazione si trovavano ogni giorno a lottare per sopravvivere.
Mi congedo quindi da voi con un pensiero rivolto a coloro che sono sopravvissuti, che sono stati distrutti dalla cecità mentale dei loro carnefici e non hanno potuto farci conoscere la loro creatività.

c Copyright G. PETACCHI 1999.


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