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A. M. P.
SEMINARI 2003 - 2004
Salvatore Zipparri

Psicoanalisi e Religione


1. Premessa
Parlare di psicoanalisi e religione significa affrontare un argomento che presenta perlomeno quattro diversi aspetti tra loro intercorrelati ma che tutavia è opportuno trattare separatamente.
Si tratta del rapporto che la psicoanalisi può avere, rispettivamente: a) con la fede; b) con le "visioni del mondo"(weltanshauung ) ebraica e cristiana; c) con il "sacro" e, infine, d) con l'esegesi e la teologia.
A tutto ciò va aggiunto il discorso della psicopatologia legata a particolari modi di vivere la religiosità. Non ci si dilungherà più di tanto su quest'ultimo punto. Com'è noto esso costituisce, nella storia della psicoanalisi, la base di partenza delle ricerche psicoanalitiche sulla religione e la posizione di Freud a questo riguardo è esplicitata chiaramente in un suo scritto del 1907 in cui le pratiche rituali di carattere religioso sono assimilate ai cerimoniali tipici della nevrosi ossessiva.
L'idea di Freud era che la religione potesse considerarsi una sorta di nevrosi ossessiva dell'umanità e, ancora più precisamente, che la nevrosi ossessiva stessa fosse una specie di religione privata del nevrotico. Il ruolo giuocato dal senso di colpa è, a questo riguardo, cruciale.
Naturalmente una simile posizione teorica è stata considerata logicamente collegata all'ateismo di Freud. Rimandando a quanto ho già scritto su questo nel quarto capitolo del mio "Psicoanalisi e cultura" (Edizioni Armando) e ricordando che quanto svilupperò qui di seguito è frutto del lavoro che ha portato alla redazione, oltre che di altri capitoli di quel mio stesso libro, anche e soprattutto del mio precedente saggio di psicoanalisi e religione "Nel nome del Padre e di Edipo" (Edizioni Armando), affronterò perciò qui di seguito per prima la questione del rapporto tra la psicoanalisi e la fede. Passerò quindi a considerare, nell'ordine, i rapporti della psicoanalisi con le "visioni del mondo" (weltanshauung ) ebraica e cristiana; con il "sacro" e, quindi, con l'esegesi e la teologia. Alcune considerazioni conclusive sull'ermeneutica e il "pensiero debole" chiuderanno il presente intervento.

2. Psicoanalisi e fede
Peter Gay, storico dell'illuminismo oltre che autorevole biografo di Freud, in un suo lavoro dedicato ai rapporti della psicoanalisi con la religione ha sottolineato con enfasi l'inequivocabile ateismo del fondatore della psicoanalisi.
In effetti, in una lettera del 1929 al suo amico e discepolo Oskar Pfister, pastore protestante interessato a fondere la psicoanalisi con la "cura d'anime" cui era chiamato dal proprio magistero, Freud sostenne drasticamente che la psicoanalisi si basava <<su un'universale concezione scientifica del mondo, con la quale quella religiosa resta incompatibile>>.
In altri contesti aveva tuttavia sostenuto una posizione più morbida. Nel 1909, sempre allo stesso Pfister, aveva detto che la psicoanalisi non era in sè <<nè religiosa nè irreligiosa>> ma, come la scienza in generale, era improntata ad un atteggiamento di "scientifica neutralità".
E con un tono analogo, nel suo importante "L'avvenire di un'illusione" del 1927, scrisse che la psicoanalisi era un <<metodo di ricerca, uno strumento imparziale, come il calcolo infinitesimale>> di cui i difensori della religione potevano servirsi tanto quanto i suoi avversari.
E' in questa stessa opera che Freud espone la sua celebre teoria della religione come "illusione" (assimilandola ai deliri dei paranoici). Un'illusione è per lui una credenza nelle cui motivazioni prevalga l'"appagamento di desiderio".
Così scrive: <<Un'illusione non è la stessa cosa di un errore, e non è nemmeno necessariamente un errore. [...] Una ragazza borghese può ad esempio concepire l'illusione che un principe la chiederà in sposa. E' un evento possibile, che in alcuni casi si è verificato. [...] Diciamo dunque che una credenza è un'illusione qualora nella sua motivazione prevalga l'appagamento di desiderio, e prescindiamo perciò dal suo rapporto con la realtà, proprio come l'illusione stessa rinuncia alla propria convalida>>.
Per Freud, mano a mano che l'umanità si sarebbe affrancata dai desideri infantili che alimentano il suo bisogno di illusioni, la religione si sarebbe dimostrata niente di più che una fase, necessaria ma tuttavia transitoria, lungo la strada che conduce alla possibilità di confrontarsi con la realtà con l'ausilio delle sole capacità razionali. E ancora nel 1933, nella nuova serie di lezioni di introduzione alla psicoanalisi, riaffermò l'adesione ad una concezione del mondo che considerasse quale unica fonte di conoscenza solo i dati empirici e la loro rigorosa elaborazione intellettuale.
Nell'ultima opera cui lavorò prima di morire, significativamente dedicata a "L'uomo Mosè e la religione monoteistica" e definita da lui stesso un "romanzo storico", si lasciò tuttavia andare ad una vera e propria "fantasia", delirante ed illusoria, sulle origini egizie del fondatore dell'ebraismo.
Con tutte le considerazioni che contiene sul valore di verità dei deliri (il "granello di verità" su cui si strutturerebbero), quest'opera fondamentale rappresenta paradossalmente un'implicito riconoscimento dell'importanza vitale, per l'attività speculativa, della "funzione delirante" del pensiero.
Senza mutare di una virgola le sue posizioni di ateo convinto, cioè, introduceva surrettiziamente l'idea che qualcosa di simile alla "religiosità" potesse avere a che fare con la psicoanalisi. Del resto, più esplicitamente, ne "L'avvenire di un'illusione" aveva riconosciuto il carattere "illusorio" (basato cioè sul "desiderio" ma non verificabile nè tantomeno, diremmo oggi, "falsificabile") della propria aspettativa secondo cui la scienza si sarebbe gradualmente sostituita alla religione nella sua pretesa di spiegazione del mondo.
Nonostante ciò il suo ateismo resta comunque fuori discussione. E (considerando Jung un caso a parte) il tentativo di Pfister di avvicinare la psicoanalisi alla fede religiosa rimane certamente unico tra i suoi primi seguaci (e sostenibile con una certa difficoltà nel caso di un'attività che dovrebbe essere improntata appunto a "scientifica neutralità").

3. Psicoanalisi e "visioni del mondo" ( weltanshauung ) ebraica e cristiana
Pfister si trovava comunque profondamente d'accordo con la critica che Freud muoveva alla "falsità" dei rituali religiosi e alla "dogmaticità" di una religiosità vissuta poco consapevolmente che, dal suo punto di vista di credente, facevano perdere del tutto quanto di più autentico si celava nel messaggio evangelico.
In questo senso va letta la sua famosa affermazione secondo cui non vi sarebbe stato "miglior cristiano" di Freud. Al di là dell'ingenuità con cui Pfister la espresse (l'ebreo Freud avrebbe potuto risentirsi di questo "riconoscimento" e, in effetti, sua figlia Anna, leggendo anni dopo la lettera in cui Pfister si era così espresso, si indispettì non poco per un'asserzione che poteva far presupporre una considerazione negativa della condizione di ebreo del padre), la definizione di "miglior cristiano" riferita a Freud mirava a sottolineare quell'"amore per la verità" che contraddistingueva Freud e che, a giudizio di Pfister, era al tempo stesso la base più autentica della predicazione del Cristo.
Sotto questo aspetto, nella storia del pensiero psicoanalitico, l'accostamento tuttora più convincente fra la psicoanalisi ed una weltanshauung di ispirazione cristiana è stato quello portato avanti da Erich Fromm.
L'"umanesimo sociologico" di Fromm si ispirò infatti sia ai principi psicoanalitici che ai valori cristiani. Lungi dall'essere in opposizione, per Fromm sia la psicoanalisi che il cristianesimo perseguono le medesime finalità: occuparsi dell'anima umana e cercare di restituire significato alla vita dell'individuo.
Nota biografica non priva di interesse è il fatto che, nonostante Fromm provenisse da una famiglia di ebrei ortodossi e avesse ricevuto una educazione religiosa in tal senso, pur senza abbandonare del tutto la religione ebraica, pose al centro delle sue riflessioni la figura del Cristo e dell'"amore fraterno" da questi predicato contro qualsiasi forma di "idolatria".
Ma le sue posizioni teoriche, improntate ad un sostanziale ateismo, rimangono (a differenza di quelle di Pfister) perfettamente inscrivibili nel solco del pensiero freudiano originario.
Così che, a proposito di Fromm, Peter Gay scrive della sua <<fervente (i suoi critici direbbero messianica) ambizione di costruire una fede con cui gli uomini potessero vivere>> (una specie di "religione senza Dio"); come pure del fatto che, per Fromm, la psicoanalisi era essenzialmente una "ricerca religiosa". Ma riconosce nella critica di quest'ultimo alla civiltà consumistica e falsamente idolatra un <<buon esempio di psicoanalisi>>. Pur se non manca di distinguere tra il tono esaltato e sentimentale di Fromm e quello <<asciutto >> , <<energicamente pessimista>> e <<più vicino alla realtà>> di Freud.
Si può inoltre affermare che un certo grado di "anti-dogmaticità" e di "anti-autoritarismo", che contraddistinsero il cristianesimo delle origini (e che soprattutto la riforma protestante cercò di recuperare), caratterizzarono similarmente il pensiero psicoanalitico freudiano degli inizi, giustamente salutato dai suoi contemporanei come una teoria "rivoluzionaria".
Ma a queste convergenze con taluni valori cristiani, e a maggior ragione date le origini ebraiche di Freud, si deve aggiungere che anche molti aspetti dell'ebraismo (e della weltanshauung ad esso collegata) confluiscono nella teoria psicoanalitica.
A parte le analogie individuate tra certi metodi interpretativi psicoanalitici e la "kabala" pratica come pure tra il tipo di consuetudine che si instaura con lo psicoanalista e certi aspetti della relazione che, presso le comunità ebraiche, gli ebrei praticanti stabiliscono con la figura del "rabbino", qui non si può neppure omettere di menzionare l'importanza centrale che hanno i sogni nel mito biblico di Giuseppe il quale, proprio in veste di "interprete dei sogni", acquisì una posizione di rango presso la corte del faraone d'Egitto.
Ma è soprattutto l'idea stessa del "monoteismo" che impregna di sè il pensiero freudiano traducendosi in concezioni che tendono intensamente verso la ricerca di "universali".

4. Psicoanalisi e "sacro"
Di portata ancora più ampia sono i rapporti intercorrenti tra la psicoanalisi freudiana ed il "sacro", tanto che si può ravvisare proprio in questo ambito la caratteristica più peculiare (e interessante!) dell'approccio freudiano alla problematica religiosa.
Concetto sfuggente e di difficile definizione, con il termine "sacro" si cerca di designare in antropologia tutta una serie di fenomeni che rientrano nell'ambito delle premesse fondanti le pratiche religiose in uso soprattutto (ma non solo!) presso i popoli primitivi.
Senza usare mai esplicitamente questo termine Freud affrontò direttamente le questioni del "sacro" nel suo celebre "Totem e tabù", non solo considerato giustamente da molti come il suo più importante lavoro sulla religione ma, da lui stesso, giudicato una delle sue opere più significative in assoluto.
Senza pretendere di dare qui una definizione esaustiva del "sacro", si possono tuttavia elencare i fenomeni che sono stati di volta in volta collegati a questo concetto dai vari studiosi che se ne sono occupati.
Il "sacro" è stato così messo in relazione da un lato con la morte e la malattia (e la "pazzia" in particolare), dall'altro con i fenomeni naturali come i terremoti e le catastrofi o, più semplicemente, come le pioggie e i tramonti. Da un certo punto di vista, infatti, è stato detto che l'idea del "sacro" scaturisce allorchè l'uomo <<si trova di fronte all'esorbitanza del mondo, a qualcosa di eccessivo che non si riesce a comprendere o a razionalizzare, che rimane al di fuori del suo controllo e causa la sensazione di un potere soverchiante>> (Levi della Torre).
E altri hanno sottolineato come esso implichi sempre e comunque anche un certo grado di "misconoscimento".
E' stata evidenziata, poi, la radice etimologica comune per gli opposti significati delle parole "sacro" ed "esecrando". In linea con questa osservazione gli antropologi hanno individuato nel "sacro" la compresenza simultanea di dicotomie concettuali: di modo che, ad esempio, se per un verso il "sacro" designa l'impurità, l'intoccabilità o la paura del contagio (il termine indoeuropeo "sacro" deriverebbe appunto da "separato"), dall'altro sono considerati "sacri", al tempo stesso e paradossalmente, i rituali di "purificazione" volti ad evitare che un possibile contagio si propaghi.
Anche molte manifestazioni della sessualità presso i popoli primitivi sono state da sempre un territorio di indagine privilegiato dagli studiosi del "sacro" (che spesso per l'elaborazione delle loro concezioni hanno fatto esplicito riferimento alle teorie di Freud e, soprattutto, al Freud di "Totem e tabù").
René Girard, non tanto in contraddizione con le ipotesi antropologiche che si richiamano al "pansessualismo" freudiano quanto piuttosto in vista di un'ulteriore e ancora più profonda loro riduzione esplicativa, ha invece posto al centro delle sue riflessioni il ruolo giocato dalle dinamiche della violenza all'origine dei riti di "sacrificio" e del "sacro" in generale.
Freud doveva aver vagheggiato, sia pure in modo confuso, qualcosa del genere quando osservò, in una comunicazione privata, che nella perversione si potevano forse scorgere gli equivalenti di una "religione satanica" o i <<residui di un ancestrale culto sessuale>>?
In ogni caso è fuori discussione che l'"esperienza del sacro" rappresenti, comunque e soprattutto, l'incontro dell'uomo con l'antico, l'arcaico.
Sessualità, violenza, impurità, misconoscimento, arcaico... Ce ne sarebbe già abbastanza per dire che tra il concetto di "sacro" e quello di "inconscio" le interrelazioni devono essere strettissime.
Si potrebbe forse affermare, in analogia con l'impiego che si fa in psicoanalisi del concetto di inconscio, che il "sacro" costituisca il nucleo profondo, "vero" ed autentico, alla base dei miti, dei riuali e delle codificazioni religiose rispetto al quale questi ultimi non ne sono che una versione attenuata ed edulcorata, solo lontanamente evocativa del carattere originario di quello.
Risiederebbe in ciò il motivo per cui le istituzioni religiose, spesso (anche se non sempre!), anzichè favorire l'apertura al sacro, la osteggiano e ostacolano in ogni modo.
Come è stato argomentato da qualcuno (Levi della Torre) la religione, nella sua versione dogmatica e cerimoniale, rappresenterebbe addiritura un antidoto al sacro, il controllo "in statu nascendi" del sentimento che ad esso si collega, il tentativo di imbrigliare e neutralizzare l'esperienza del sacro. Però, mano a mano che la ripetitività dei rituali religiosi, la stereotipizzazione dei miti e la fissazione dei dogmi si allontanano da quel nucleo originario, il loro senso ultimo tende a perdere di significato, divenendo alla fine vuoto e falso.
Perciò, nella sua ambizione di avvicinare tale nucleo profondo, di addentrarsi in questo territorio interdetto, inaccessibile ed inavvicinabile, la psicoanalisi compie un'operazione che, se da un lato può essere giudicata "blasfema" dalle istituzioni religiose, dall'altro mira (senza che in ciò si debba necessariamente vedere una sorta di nuova "rivelazione"!) a produrre una "ri-significazione" dei contenuti religiosi divenuti scialbi, contribuendo così indirettamente ad una rigenerazione e riattualizzazione del loro senso assopito.

5. Psicoanalisi, esegesi e teologia

Non che la psicoanalisi non corra essa stessa il rischio, come la religione, di trasformarsi, da processo di ricostruzione di senso (liberatorio ed eversivo), in una nuova forma di codice ritualizzato e vuoto, allorchè fissa in rigide formule stereotipate il valore ultimo delle proprie ipotesi interpretative.
Il "dogma religioso", infatti, imbriglia e neutralizza il sacro proprio fornendo letture definitive di un determinato testo e del mondo in generale (le "verità rivelate"), non più suscettibili di essere riconsiderate e discusse.
Questa operazione di imbrigliamento, che il dogmatismo religioso condivide con le ideologie totalitarie e perfino con un certo modo di intendere la psicoanalisi, va così di pari passo con la soppressione di quel processo infinito di lettura della realtà sostenuto dagli orientamenti di pensiero più autenticamente ermeneutici.
Ogni lettura di un testo e ogni interpretazione dovrebbero infatti avvenire nella consapevolezza che non saranno le ultime nè quelle definitive (il che non vuol dire che se ne possano proporre di lacunose, imprecise o incomplete: esse debbono comunque presentarsi come qualcosa di "finito" in sè). Le visioni totalitarie del mondo interrompono invece questo processo di "interpretazione interminabile", assolutizzando i significati attribuibili a determinati significanti.
<<Prendere alla lettera i testi sacri (come avviene nei fondamentalismi religiosi) vuol dire proporre una lettura definitiva e assoluta di quel testo stabilendo che una e una soltanto è l'interpretazione possibile ed autentica (idolatria dell'interpretazione)>> (Levi della Torre).
Contro questa forma di "dogmatismo interpretativo" è andata sviluppandosi dentro e fuori il mondo psicoanalitico, spesso in contrasto con le posizioni teologiche ufficiali, tutta una corrente di studi esegetici che hanno fatto oggetto di interpretazione psicoanalitica molti dei miti e delle vicende narrate nel Vecchio e nel Nuovo Testamento.
Fra gli autori che maggiormente hanno fatto uso della psicologia del profondo per proporre una lettura dei testi sacri alla luce delle teorie psicoanalitiche si può qui citare Eugen Drewermann.
Non si mancherà di osservare, al riguardo, che le applicazioni psicoanalitiche all'esegesi e alla teologia, come quelle di Drewermann, vanno in un certo senso nella direzione inversa a quella che caratterizza i tentativi teorici di autori come Pfister. Quest'ultimo, infatti, si serviva della religione per orientare la pratica della psicoanalisi (tradendo così l'atteggiamento di "neutralità" che dovrebbe caratterizzarne l'impiego); nel caso della "teologia psicoanalitica", invece, sono i costrutti e gli strumenti della psicoanalisi che vengono utilizzati per farci avanzare nella comprensione di taluni "misteri" teologici.
Un tentativo abbastanza simile è quello che io stesso ho tentato in uno scritto incluso nel mio "Psicoanalisi e Cultura" (Edizioni Armando, 2003) e intitolato: "Il sesso degli angeli: una provocazione", dove ho cercato di interpretare il sogno di un mio paziente, riferito al tempo stesso ad un transessuale ed ad un angelo, alla luce dell'ambiguità (di genere e non solo!) con cui si contraddistinguono in teologia le creature angeliche: per metà celesti per metà terrestri, ora visibili ora invisibili, ora fatti di materia ora di puro spirito ecc.
Precedentemente, in: "Nel nome del Padre e di Edipo " (Edizioni Armando, 2000), basandomi sull'antitesi segnalata da Freud in "Totem e tabù" tra ebraismo (in quanto religione "del padre") e cristianesimo (in quanto religione del "figlio"), avevo cercato di conciliare gli aspetti più stridenti di questa dicotomia utilizzando la teoria freudiana dello sviluppo psicosessuale (ripresa da Janine Chasseguet-Smirgel per descrivere la struttura di personalità dei perversi) e discutendo delle analogie e delle differenze tra i modelli di soluzione del "conflitto generazionale padre-figlio" suggeriti rispettivamente dal mito di Lucifero, dalla vicenda storico-simbolica di Gesù Cristo. dal riferimento all'osservanza della "legge del padre" implicito nel monoteismo ebraico.

6. Considerazioni conclusive
Prima di concludere vorrei infine accennare (rimandando chi fosse interessato a quanto ho scritto in proposito nei lavori già citati) al rapporto che sussisterebbe tra ogni tentativo di abbordare il discorso su psicoanalisi e religione e le visioni "anti-dogmatiche" sostenute dalla filosofia del "pensiero debole" e tra ogni medesimo tentativo e l'ermeneutica.
E' un fatto che, a prescindere dalle modalità con cui l'approccio a queste problematiche è stato condotto (e che qui si è cercato di riassumere nei rispettivi orientamenti di Pfister, Fromm, Freud e Drewermann) è l'accostamento in sè che ha esposto automaticamente al "doppio fuoco incrociato" proveniente dagli "opposti fronti" del mondo della religione e di quello della scienza.
Si è già avuto modo di accennare alla natura delle obiezioni più generali provenienti dal mondo religioso. Perfino il più prudente tentativo di Pfister, perfettamente inscrivibile nel solco delle posizioni religiose più ufficiali, potrebbe esser giudicato comunque dai credenti più intransigenti, soprattutto per la sua apertura alla tolleranza in fatto di sessualità, una forma di "affievolimento" del rigore morale raccomandato dalle istituzioni ecclesiastiche.
All'estremo opposto, l'applicazione dell'"ateo" Freud di costrutti psicoanalitici alla spiegazione della religione, quando non è stata cosiderata semplicemente inutile e superflua da molti uomini di scienza non credenti, è stata rifiutata, in ragione della manifesta infondatezza storica delle ipotesi di "Totem e tabù", come un'inaccettabile venir meno dell'empirismo e dell'obiettività di Freud persino da coloro che sono propensi a considerare scientificamente plausibili altri aspetti più dimostrabili delle sue teorie.
Evidentemente comunque si maneggino questi due elementi (la psicoanalisi e la religione) si produce inevitabilmente una qualche forma di contaminazione (stavo per scrivere "contagio"!) consistente nella commistione "spuria" di linguaggi (quello scientifico e quello religioso) che a parere di molti (credenti e non) sono e sarebbe bene che continuassero a rimanere "separati".
A parte le singolari analogie che si possono scorgere tra questo tipo di preoccupazioni e quelle che spingono ad interdire ogni "apertura" al sacro(che, come si è detto, presuppone spesso un confronto con il "separato" e l'"impurità") dovrebbe essere chiaro, a questo punto, che ogni discorso su psicoanalisi e religione, da qualunque parte lo si affronti, finisce inevitabilmente per implicare un certo grado di mancanza di "purezza" e che questa mancanza di "purezza" consiste, soprattutto ed essenzialmente, nell'"indebolimento" delle proprie posizioni di partenza che conduce a sbarazzarsi di qualcosa che, primariamente, si era portati a credere costituisse una componente fondamentale vuoi della religione vuoi della psicoanalisi o della scienza, mentre in realtà, ad un più attento esame, non si rivela che la sua caratteristica più superficiale ed esteriore coincidente con ciò che si suole indicare appunto con il termine di "dogmatismo".
Del dogmatismo religioso si è già detto. Il dogmatismo in psicoanalisi è invece spesso identificato con l'"ortodossia". Il che è vero se per ortodossia si intende la vuota e stereotipata ripetizione di formule interpretative enucleate dal loro contesto, assolutizzate oltre ogni misura, non sottoponibili più a verifica e discussione ulteriori ecc.
Ma un' altra forma ancora in cui può esprimersi il "dogmatismo ortodosso" in psicoanalisi è quella che fa derivare l'apprezzamento del valore di un'interpretazione particolare o di una determinata ipotesi esplicativa non dalle qualità intrinseche dell'interpretazione o dell'ipotesi stesse quanto piuttosto dall'autorità della personalità che le ha enunciate (idolatria dell'interprete).
Quando invece con il termine "ortodossia" si vuole indicare il "ritorno a Freud" (come quello che caratterizza anche le proposte qui avanzate) o il rigore filologico con cui si cerca di enucleare, al di sotto delle apparenze di superficie, il senso ultimo di certe peculiarità del discorso psicoanalitico, ecco che questa operazione ricorda piuttosto la riscoperta (tutt'altro che dogmatica) che in ambito religioso la riforma protestante faceva del cristianesimo delle origini o il senso della predicazione del Cristo contro l'ipocrisia farisaica o, ancora, lo spirito che animava San Francesco contro l'opulenza della chiesa cattolica dimentica delle originarie povertà ed umiltà di Gesù.
In analogia con quanto si è detto a proposito della stessa "esperienza del sacro", che implica il raggiungimento di quei nuclei profondi su cui si strutturano successivamente i vuoti rituali, tutte queste operazioni combattono contro il dogmatismo ed hanno in realtà valenze liberatorie (quando non addirittura eversive).
E veniamo, infine, al discorso sul "dogmatismo scientifico". A prima vista si potrebbe dire infatti che la scienza non è mai dogmatica dal momento che è sempre disposta a rinunciare ai propri assiomi allorchè ne risulterà dimostrata l'infondatezza.
Tuttavia essa spesso può esprimere il proprio dogmatismo "sacralizzando" i propri metodi: rifiutando "a priori", cioè, qualsiasi altra fonte di conoscenza sulla realtà che non derivi direttamente da essi (concependo addirittura gli stessi con criteri più o meno restrittivi tanto da includere od escludere, a seconda dei casi, le scienze umane e la stessa psicoanalisi o limitare il proprio campo di pertinenza alle sole e più esatte scienze biologico-fisiche).
E' il caso in cui, piuttosto che porsi come lo strumento più altamente sofisticato, specializzato e tecnologicamente evoluto che finora l'umanità abbia prodotto per perseguire quel più vasto e complessivo progetto ermeneutico di "conoscenza della realtà" che da sempre viene portato avanti servendosi al tempo stesso della mitologia, della religione, dell'antropologia, della filosofia, della letteratura, dell'arte ecc., la scienza pretenda di esaurire da sola il progetto medesimo assolutizzando e considerando esclusivamente valide solo le proprie procedure di "lettura" (idolatria del metodo interpretativo).
Come si vede, qui non si tratta di contrapporre l'ermeneutica alla scienza, la scienza essendo, in una sua accezione "debole", essa stessa un'ermeneutica e cioè uno dei tanti modi con cui progrediamo nel nostro lavoro di costruzione di una "interpretazione del mondo".
In conclusione, esiste perciò il rischio concreto che un discorso su psicoanalisi e religione possa condurre allo sgretolamento di alcune delle nostre certezze più consolidate sia in campo religioso che psicoanalitico e scientifico. In questo risiederebbe, d'altronde, l'elevatissima carica trasformativa di un discorso siffatto. E, del resto, il fatto stesso di intraprendere un simile discorso non trae in fondo proprio origine dalla più o meno chiara consapevolezza che ognuno dei due termini del confronto preso isolatamente e in un particolare momento probabilmente ci lasci in uno stato di relativa insoddisfazione rispetto alle possibilità di afferrare determinati problemi nella loro totalità?
Eppure, mano a mano che si procede su questa strada si è spesso colti dal profondo timore di perdere una qualche sorta di "integrità" e di andare incontro ad una sorta di distruzione irreversibile. Freud stesso dovette percepire acutamente sentimenti analoghi quando sostenne che "l'abbraccio tra la psicoanalisi e la religione avrebbe condotto alla rovina entrambe".
Forse ad un'obiezione del genere si può solo tentare di rispondere, col vecchio adagio francese, che "il faut casser des oeufs pour faire une omelette". O meglio ancora, dato l'argomento, che se non si passa attraverso la "morte di Dio" ben difficilmente lo si potrà vedere risorgere.

Bibliografia
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Peter Gay, "Un ebreo senza Dio. Freud, l'ateismo e le origini della psicoanalisi", Il Mulino, Bologna, 1989.
René Girard, "La violenza e il sacro", Adelphi,
Sigmund Freud, (1907) "Azioni osessive e pratiche religiose", Opere vol.5, Boringhieri, Torino, 1976.
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---------- -------, (1927) "L'avvenire di un'illusione", Opere vol.10, Boringhieri, Torino, 1978.
---------- -------, (19133) "Verso una Weltanshauung", in "Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Lezione 35, Opere vol.11, Boringhieri, Torino, 1979.
---------- -------, (1934-38) "L'uomo Mosè e la religione monoteistica: tre saggi", Opere vol.11, Boringhieri, Torino, 1979.
Sigmund Freud e Oskar Pfster, (1909-1939) "Psicoanalisi e fede. Lettere tra Freud e il pastore Pfister ", in "Epistolari ", Boringhieri, Torino, 1970.
Erich Fromm, (1950) "Psicoanalisi e religione", Mondadori, Milano, 1987.
Stefano Levi della Torre,"Zone di turbolenza ", Feltrinelli, Milano, 2004.
Salvatore Zipparri, "Nel nome del Padre e di Edipo. Appunti di psicoanalisi e religione per il nuovo millennio", Armando, Roma, 2000.

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