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A. M. P.
SEMINARI 2003 - 2004
Prof. Aldo Rossi *

Linguaggio e Società


Indice

1. Introduzione
2. Interazioni sociali
2.1. Forme di associazione
2.1.1. Le aggregazioni
2.1.2. Le associazioni anonime
2.1.3. Le associazioni individualizzate
2.1.3.1. Riconoscimento degli affini
2.1.4. La solidarietà
2.1.5. Le società animali
2.1.5.1. Procarioti, Eucarioti e Metazoi inferiori: l'autoriconoscimento del sé dal non sé.
2.1.5.1.1. Il coordinamento operativo nei batteri
2.1.5.1.2. Il coordinamento operativo nelle amebe
2.1.5.1.3. Il coordinamento operativo nelle spugne
2.1.5.2. Metazoi superiori a simmetria bilaterale: dall'individualismo all'ordine sociale
2.1.5.2.1. La cooperazione conspecifica nei coccodrilli
2.1.5.2.2. La cooperazione conspecifica nei dinosauri
2.1.5.2.3. La cooperazione conspecifica negli uccelli
2.1.5.2.3.1. Come individuare un proprio parente nella colonia
2.1.5.2.3.2. Comunicazione posturale
2.1.5.2.3.3. Comunicazione vocale
2.1.5.2.3.4. Come chiedere cibo al proprio genitore
2.1.5.3. Cooperazione e ordine sociale nei Mammiferi
2.1.5.3.1. La cooperazione conspecifica nei leoni
2.1.5.3.2. L'organizzazione sociale dei licaoni
2.1.5.3.3. Evoluzione ed organizzazione sociale degli Ominoidei
2.1.5.3.3.1. L'organizzazione sociale delle scimmie antropomorfe
2.1.5.3.3.2. L'organizzazione sociale umana
2.1.5.3.3.2.1. Le origini dell'uomo moderno
2.1.5.3.3.2.2. La cultura nella Mezzaluna Fertile, sorgente delle civiltà euroasiatiche
2.1.5.3.3.2.3. Dall'organizzazione sociale dei cacciatori-raccoglitori a quella dello stato
2.1.5.3.3.2.4. Le prime civiltà della Mesopotamia
4. Appendice
5. Bibliografia


1. Introduzione
Ogni organismo vivente deve necessariamente interagire con altri membri della stessa specie, e da questa attività morfofunzionale ne derivano vari livelli di comportamento sociale. Ogni specie ha una storia filogenetica ed ontogenetica diversa da quella di tutte le altre, e conseguentemente ogni individuo esprime un modello comportamentale unico. Due e più specie di animali possono manifestare modelli di comportamento sociale simili, derivati però da meccanismi e processi diversi. Per esempio, nelle società altamente evolute sia delle formiche sia umane gli individui hanno funzioni diversificate nel quadro della divisione del lavoro all'interno della rispettiva categoria sistematica. Tuttavia, l'attività lavorativa che una particolare formica svolge nella cooperazione globale intraspecifica è modulata da stereotipate esigenze funzionali del suo tipo di società, mentre l'attività lavorativa che svolge un uomo deriva da molti fattori convergenti quali lo stato sociale, la condizione economica, il livello d'istruzione, la cultura religiosa, le preferenze personali, etc. Inoltre, ogni modello di interazioni fra formiche di uno stesso nido si fonda su risposte a un numero limitato di stimoli tattili e chimici; nelle società umane, gli individui interagiscono in modo molto più complesso, sulla base di una grande varietà di linguaggi, primariamente vocali, ma anche mimici, posturali, visivi e di quant'altro sia dipendente dai patrimoni culturali (musica, danze etc) delle rispettive etnie locali e del pianeta.

2. Interazioni sociali
Nel Regno animale vi sono associazioni di individui conspecifici (della stessa specie) tendenti a perseguire un fine comune (alimentazione, caccia, segnali di pericolo, difesa della prole etc. ). Esempi di cooperazione si trovano a anche a livello cellulare e molecolare (Scott e Pawson 2000). Il cardine di queste associazioni è la comunicazione intraspecifica tramite un'ampia gamma di segnali che possono essere di natura chimica, elettrica, ottica, acustica e tattile. La comunicazione fra conspecifici è una trasmissione di informazioni fra un emettitore, per esempio un uccello che canta, e un ricevitore, che può essere un altro uccello. Nel canto è incluso un messaggio che viene codificato dall'emettitore, trasmesso in presenza di altri segnali (rumore di fondo - Moss et al. 1995; Narins 1995), e successivamente viene decodificato dal ricevitore. Il senso del messaggio è condizionato a) dallo stato ambientale e neurofunzionale dei partner durante la trasmissione del messaggio (Seyfarth e Cheney 1993) e b) dal compromesso tra la massima chiarezza informativa ai conspecifici e il massimo mimetismo ai predatori. Tutto ciò presuppone l'esistenza di regole comuni tra emettitore e ricevitore: si tratta quindi di un sistema di comunicazione che implica una reciprocità, dal momento che l'emettitore si attende il beneficio di una risposta da parte del ricevitore (Jouventin 2002a). Nel variegato quadro dei meccanismi d'informazione tra conspecifici, svolgono un ruolo determinante i recettori cellulari degli organi di senso (Liem K. E. et al. 2002, Cap. 12) e quelli molecolari intracellulari (Wolfe 1996, Cap. 6) che selezionano e traducono i segnali, contenuti in ogni messaggio.

2.1. Forme di associazione
Un gruppo di animali può operare coordinatamente sulla base di interazioni temporanee senza attrazione sociale oppure stabili: quest'ultime regolano in vario grado l'organizzazione sociale degli individui. A questo proposito Eibl-Eibesfeldt (1976) ha proposto una graduatoria di questi modelli comportamentali.

2.1.1. Le aggregazioni
Occasionalmente, diversi individui di una o più specie possono essere indotti a convivere dall'attrazione esercitata da determinate condizioni ambientali. Ad esempio diverse farfalle, anche di differente specie, possono così adunarsi nei luoghi di abbeveramento: in mancanza di una qualche attrazione sociale si parla di aggregazioni.

2.1.2. Le associazioni anonime
Qualora gli animali siano uniti da una attrazione sociale, senza che si sviluppi tuttavia il vincolo proprio della conoscenza individuale, si parla di associazioni anonime che possono essere aperte o chiuse. Una associazione anonima aperta può accogliere un conspecifico in qualsiasi momento. I singoli membri possono essere scambiati a piacere con altri della stessa specie: ne è un esempio il branco di pesci che viene tenuto insieme da semplicissimi segnali tipici della specie.

2.1.3. Le associazioni individualizzate
Quando un gruppo di animali è tenuto unito dal vincolo della conoscenza personale, si forma una associazione individualizzata, la cui organizzazione sociale può essere resa estremamente complicata dall'esistenza di un ordine gerarchico, che può sorgere all'interno di un gruppo in seguito a lotte occasionali. Nel corso dei conflitti ciascun membro del gruppo si ricorda di chi gli è superiore e di chi gli è inferiore, e si comporta di conseguenza. Una volta stabiliti i rapporti, è raro che si verifichino nuovi combattimenti: in genere è sufficiente una lieve minaccia da parte di un individuo di alto rango per mettere a posto un animale di rango inferiore. L'individuo di alto rango gode di certi vantaggi, ad esempio il diritto di essere il primo a mangiare oppure di scegliere il posto migliore per dormire; all'occasione, però, si assume anche la protezione del gruppo nei confronti dei predatori o difende i singoli membri del gruppo dai loro simili. Si preoccupa della coesione del gruppo sedando le liti, e assolve certe funzioni di guida, ad esempio decidendo il momento della partenza o la direzione della migrazione. Il ruolo di protettore fa degli individui di alto rango il polo attorno al quale si riunisce il gruppo.
Un ordine gerarchico presuppone non solo che: I) alcuni membri del gruppo si rivestano di una certa autorità, lottando per raggiungerla o dando prova di altre prestazioni speciali, ma anche che II) i subordinati riconoscano questo ordinamento. Solo questa capacità e la prontezza alla sottomissione rendono possibile la creazione di società stabili. La presenza di un individuo di alto rango influisce sul comportamento di un inferiore in moltissimi aspetti. Ad esempio, i piccioni di basso rango in presenza di un superiore imparano a distinguere colori e posizioni meno bene di un animale di posizione elevata. I piccioni di basso rango allevati da soli imparano il compito altrettanto bene dei piccioni di alto rango. Inoltre i piccioni di basso rango inferiore abituati a vedere zimbelli che si ritraggono ogni volta, sviluppano una notevole aggressività. In questo modo, Diebschlag (1940)[1] ha reso gradualmente sempre più bellicoso un piccione di rango inferiore, il quale, riportato nell'antico ambiente, ha vinto l'individuo fino allora a lui superiore. Messi poi a confronto ambedue con un compito, anche le sue prestazioni di apprendimento si rivelarono superiori.

2.1.3.1. Riconoscimento degli affini
Secondo la teoria dell'idoneità complessiva (Hamilton 1964)[2], nella competizione per la sopravvivenza, l'evoluzione non fa alcuna distinzione tra gli alleli [Nota 1.] trasmessi attraverso i discendenti diretti, cioè i figli, e quelli trasmessi attraverso consanguinei diversi dai discendenti diretti, come i fratelli. La selezione naturale deve favorire gli individui che aiutano un loro affine, qualunque esso sia, perché, così facendo, accrescono la loro rappresentanza genetica totale. Hamilton ha dato a questo suo concetto il nome di fitness (idoneità) complessiva, perché include sia i geni che un individuo trasmette attraverso i figli, sia le copie di quei geni che un individuo contribuisce a propagare attraverso parenti che sono in grado di riprodursi. La teoria dell'idoneità complessiva può spiegare l'evoluzione dell'altruismo, per esempio nei particolari casi in cui alcuni membri di certe specie non si riproducono, ma si dedicano esclusivamente ad accudire i loro parenti, come nel caso delle operaie delle termiti tra gli invertebrati (Chauvin 1976, pag.119; Prestwich 1983) e degli individui non riproduttori dell'eterocefalo glabro tra i vertebrati (Sherman et al. 1992).
Secondo la teoria dell'esoincrocio ottimale (Bateson)[3] si spiega invece perché molti animali preferiscano accoppiarsi con partner che non siano né troppo vicini né troppo lontani come parentela. Questo comportamento è dipendente da due vincoli naturali: a) l'inincrocio (inbreeding) praticato tra consanguinei molto vicini (per esempio tra fratello e sorella) provoca spesso la comparsa di caratteri nocivi nella prole, e b) l'accoppiamento tra individui molto diversi sotto il profilo genetico può produrre effetti negativi in quanto elimina le combinazioni geniche che si sono dimostrate positive.
I meccanismi per distinguere i propri parenti (affini) esistono sia negli organismi più semplici (Losick e Kaiser 1997; Gaino et al. 1999) che nei più complessi. I Vertebrati utilizzano due meccanismi per identificare gli affini. In alcune specie l'identificazione può avvenire sulla base caratteri fisici (fenotipo) che consentono il riconoscimento diretto della parentela. Altrimenti può avvenire il riconoscimento indiretto sulla base di indizi correlati al tempo o al luogo. Un segnale di riconoscimento diretto può essere costituito da un qualsivoglia carattere fisico che possa essere correlato in modo affidabile con la parentela. I segnali di questo tipo differiscono molto da specie a specie. I riferimenti visivi sono comuni tra quegli animali, come per esempio i primati, il cui senso più importante è la vista (Seyfarth et al. 1993). I segnali di riconoscimento indiretto vengono utilizzati dagli animali che devono attrarre i propri partner sessuali da una certa distanza, e per di più nell'oscurità, come le rane, si servono viceversa di segnali acustici (Narins 1995). I segnali chimici che trasmettono l'informazione con accuratezza (Taramelli Rivosecchi et al. 1989) e in particolare quelli odorosi (Bagnères et al. 2002), sono importanti segnali di riconoscimento a distanza per numerose specie animali. Alcune specie fanno ricorso a una combinazione di metodi diretti e indiretti come ad esempio la rondine Riparia riparia. Queste rondini, in veste di genitori, identificano i loro piccoli in maniera indiretta, imparando a riconoscere la posizione della buca che hanno scavato nella sabbia. Però, dopo che i piccoli hanno imparato a volare, le nidiate si mescolano ampiamente: a questo punto i genitori devono ricorrere a segnali diretti per poter essere sicuri di continuare a provvedere soltanto ai propri figli. Quest'ultimi quando arrivano a 20 giorni di età, emettono segnali vocali caratteristici che consentono loro di essere riconosciuti dai genitori (Pfenning et al. 1995).
In alcune specie l'identificazione degli individui affini avviene attraverso segnali genetici. I tunicati [Nota 2.], in particolare la specie Botryllus schlosseri, si sviluppano a partire da larve planctoniche che poi si fissano sugli scogli e si moltiplicano per via asessuale, formando una colonia i cui componenti, geneticamente e strutturalmente identici, sono interconnessi. Di tanto in tanto due colonie tentano di fondersi. Gli organismi di maggiori dimensioni sopravvivono meglio di quelli piccoli: pertanto, l'unirsi ad altri può rivelarsi chiaramente vantaggioso. Se le larve si fissano vicino a organismi geneticamente simili, si possono fondere con essi. Se invece un tunicato tenta di unirsi a una colonia non affine, i componenti di questa seconda colonia emettono sostanze tossiche che respingono l'invasore (Pfenning et al. 1995). Un identico comportamento viene messo in atto dai Poriferi (vedi Punto 2.1.5.1.3., pag. 8). Grosberg e Quinn[4] hanno individuato nei tunicati, la regione del cromosoma codificante per quelle sostanze che, come parte del sistema immunitario, consentono a un organismo di riconoscere il sé dal non sé. Quest'area del cromosoma controlla quindi la risposta di riconoscimento: infatti le larve si fissano vicino a colonie i cui componenti hanno lo stesso allele [Nota 3.] nel sito del complesso di istocompatibilità [Nota 4.]. I due ricercatori hanno anche trovato che i tunicati si possono fissare vicino ad altri tunicati non affini, purché questi siano stati manipolati geneticamente in laboratorio allo scopo di ottenere la stessa versione del gene nella posizione chiave; viceversa, tendono a non fissarsi vicino a tunicati affini che sono stati manipolati in modo da avere una versione alternativa dell'allele.
Anche il topolino domestico (Mus musculus) si basa sul complesso di istocompatibilità per riconoscere la parentela. Dato che i geni presenti in questo complesso influiscono sull' odore corporeo, si può dire che il topolino domestico dipenda da quest'ultimo carattere per distinguere gli affini. Proprio come per i tunicati, i geni presenti nel complesso di istocompatibilità del topo sono estremamente variabili, ma nei membri di una stessa famiglia gli alleli tendono ad essere gli stessi. Pertanto, gli individui che hanno lo stesso odore sono in genere affini. Le femmine del topolino domestico tendono ad accoppiarsi con maschi che abbiano un odore diverso, con lo scopo evidente di evitare l'incrocio (ovvero l'incrocio tra parenti stretti secondo la sopraccitata teoria dell'esoincrocio ottimale). Formano tuttavia nidi comunitari con femmine che abbiano lo stesso odore, per esempio sorelle, il che contribuisce ad assicurare la sopravvivenza sia dei figli sia dei nipoti di entrambi i sessi (Pfenning et al. 1995).

2.1.4. La solidarietà
La selezione naturale incoraggia il successo riproduttivo individuale e questo meccanismo è l'antitesi del comportamento altruistico, perché favorisce altri a spese della propria stessa progenie. Per interpretare questa contraddizione sono stati proposti due distinti concetti che vanno sotto il nome di selezione familiare e di aiuto reciproco. La selezione familiare ha radici genetiche (Pfennig D. W. et al. 1995): se un gene contribuisce al successo riproduttivo di parenti stretti del suo portatore, favorisce la riproduzione di copie di se stesso. L'aiuto reciproco è sostanzialmente uno scambio economico fra i componenti del gruppo, ma questo meccanismo funziona in modo meno diretto della selezione familiare ed è quindi più soggetto all'abuso da parte di uno dei due partner (Nowak et al. 1995).
La solidarietà tra i componenti di una associazione individualizzata viene modulata dalla dinamica delle scelte individuali (Glance et al. 1994). Olson[5] e Trivers[6], per analizzare concretamente questo problema hanno confrontato le reazioni comportamentali di due volontari (che svolgono il ruolo dei "prigionieri") sulla base delle regole del gioco noto come dilemma del prigioniero: a ciascuno "prigioniero" è stato chiesto se l'altro abbia commesso un crimine e se vuole cooperare con l'altro. Se entrambi decidono di cooperare ottengono un compenso di tre punti ciascuno. Se entrambi non cooperano, ciò defezionano, ottengono solo un punto ciascuno. Ma se un giocatore defeziona riceve cinque punti, mentre il giocatore che ha scelto di cooperare non riceve nulla. La decisione dei prigionieri chiarisce la differenza tra ciò che è bene dal punto di vista individuale e ciò che è bene dal punto di vista della collettività. Questo conflitto mette in pericolo quasi tutte le forme di cooperazione perché la ricompensa per la reciproca cooperazione è maggiore della punizione per la reciproca defezione, ma una defezione unilaterale è più remunerativa della ricompensa e fa fare al cooperante sfruttato la figura dello stupido, il che è ancora peggio di una punizione. Questa sequenza - tentazione, ricompensa, punizione, figura dello stupido - implica che la mossa migliore sia defezionare sempre, indipendentemente dalla mossa dell'avversario.
La logica porta dunque inevitabilmente alla defezione reciproca, ma nella realtà dei fatti, risulta che gli individui spesso cooperano, sulla base di sentimenti di solidarietà o di altruismo (Nowak et al. 1995). Avvalendosi di potenti calcolatori, Glance e Huberman (1994) sono giunti alla conclusione che: a) l'atteggiamento di cooperazione totale fra gli individui è dipendente dall'equilibrio specie specifico della dimensione critica del gruppo; b) il livello critico della dimensione dipende da quanto tempo gli individui associati si aspettano di trascorrere nel gruppo e dalla quantità di informazioni in loro possesso; c) tanto la cooperazione quanto la defezione si possono produrre repentinamente e in modo del tutto inatteso. Queste conclusioni sono in linea con quelle precedenti di Olson[5] il quale aveva osservato che: d) è più facile che la cooperazione si affermi spontaneamente nei piccoli gruppi che in quelli più ampi; e) ripetute iterazioni di una situazione tendono a stimolare comportamenti cooperativi e f) la cooperazione aumenta ulteriormente quando si consente la comunicazione tra i soggetti.
Una classe di problemi seri e complessi con cui la società umana deve continuamente misurarsi può essere esemplificata dall'interpretazione del gioco del dilemma del commensale senza scrupoli. Un adeguato esempio pratico è il seguente: gruppo di cinque amici decidono di andare a cena in un ristorante di classe con l'accordo implicito di dividere la spesa in parti uguali. Se uno dei commensali ha gusti dispendiosi, ha la possibilità di cogliere l'occasione per godersi una cena superlativa a buon prezzo, dato che il totale delle spese finali verranno divise con gli altri. Ma se ciascuno si comporta come lui, il gruppo si troverà a dover pagare un conto astronomico. Il commensale pertanto può rinunciare all'idea di scegliere un pasto dispendioso per il timore che questo autorizzi gli altri amici a fare ordinazioni troppo sontuose al successivo incontro. Determinante in tal senso è la dimensione del gruppo: il commensale si rende conto che le sue azioni diventano meno influenti con il crescere della dimensione del gruppo. Infatti se quest'ultimo è numeroso, il commensale può ragionevolmente aspettarsi che la propria azione non cooperativa sul gruppo abbia un effetto più scarso (un aggravio del conto ha meno importanza se viene diviso tra 30 persone invece che tra cinque). Questo modello di dinamica quotidiana delle scelte sociali, fa intuire che la cooperazione totale diventa insostenibile in gruppi che superino una certa dimensione. La probabilità di subire conseguenze negative da una defezione è così bassa che la defezione non viene scoraggiata. Glance et al. (1994) sono giunti alla conclusione che la dimensione critica del gruppo dipende dalla lunghezza dell'orizzonte dei compartecipanti: più a lungo i partecipanti suppongono che il gioco debba durare e più sono disponibili a cooperare. Questa conclusione rafforza la ragionevole idea secondo la quale è più probabile che si sviluppi cooperazione in piccoli gruppi dove le interazioni sono di lunga durata.

2.1.5. Le società animali
L'affinità è il principio fondamentale nell'organizzazione di qualunque società e il fine della comunicazione fra affini è il coordinamento della vita sociale dei singoli individui: i sistemi di comunicazione più sofisticati si riscontrano nelle società animali più complesse. Nel Regno animale si sono evoluti vari livelli di vita solitaria, di cooperazione e di ordine sociale: questi comportamenti possono essere indipendenti dal livello dell'organizzazione neuroanatomica degli individui: ad esempio, quasi tutti i ragni conducono vita solitaria, alcune specie, tuttavia, sono gregarie e altre costruiscono addirittura grande ragnatele comuni (Burgess 1976). A livello cellulare, di procarioti e di eucarioti, la comunicazione fra affini viene modulata da molecole che guidano l'orientamento della migrazione, il riconoscimento e l'aggregazione cellulare. A livello dei Metazoi superiori la comunicazione fra affini viene modulata da vari tipi di stimoli come sostanze chimiche (Taramelli et al. 1989), di allarme (Pfeiffer 1963; Todd 1971; Smith 1986) e feromoni (Brain et al. 1987; Trotier et al. 2000; Bagnères et al.2003), visivi (Buch et al. 1976; Nijhout 1982; Bonnaud et al. 2002; Dugatkin et al. 2002; Théry 2002), acustici (Thorpe 1973; Nottebohm 1989; Bennet-Clark 1998; Moss et al. 1995; Naris 1995; Zorpette 2000; Jouventin et al. 2002; Hausberger 2002; Leroy 2002; Nguyen 2002), olfattivi (Malacarne et al. 1986; Axel 1995; Cassing 2002; Zerani et al 2000), gustativi (Ciofi 1999; Smith et al. 2002), tattili (Kennedy 1997; Gentaz et al. 2002), elettrici (Lissmann 1963), posturali (Andrew 1965; Langerholc 1991; Hickok et al. 2001; Garrigues 2002), mimetici (Nicolai 1975; Giannini 2000) etc. Il linguaggio vocale associato alla scrittura rappresentano la più sofisticata evoluzione della comunicazione animale e della trasmissione delle culture derivate dall'interazione degli individui appartenenti alla specie Homo sapiens.

2.1.5.1. Procarioti, Eucarioti e Metazoi inferiori: l'autoriconoscimento del sé dal non sé.
Si ritiene che tutti gli organismi viventi sulla Terra derivino da un'unica cellula primordiale nata più di tre miliardi di anni fa. Una pietra miliare del suo cammino evolutivo si definì circa 1,5 miliardi di anni fa, quando si verificò la transizione dalle cellule piccole a struttura interna relativamente semplice - le cosiddette cellule procariotiche (significa «prima del nucleo»), che comprendono vari tipi di batteri - alla fioritura delle cellule eucariotiche (significa «ben nucleata»), più grandi e radicalmente più complesse, che si rinvengono nelle piante e negli animali superiori (Alberts et al 1991) Tutti gli organismi eucarioti unicellulari, comprendenti alghe e protozoi, appartengono al regno Protista (protisti). È opinione generale che la vita pluricellulare si sia originata da forme unicellulari. Poiché tutti i membri del regno animale sono pluricellulari, l'origine della pluricellularità fu un importante evento nell'evoluzione degli animali, insieme agli eventi associati della specializzazione delle cellule a formare tessuti, della divisione del lavoro fra cellule e tessuti, e della separazione delle cellule riproduttive dalle cellule non-riproduttive. Si ritiene che dal tronco principale dei Metazoi ancestrali siano derivati parecchi phyla animali: la pluricellularità in una forma molto semplice è rappresentata nel sottoregno Parazoa (Myxozoa, Mesozoa, Placozoa e Porifera). Le spugne (phylum Porifera), sono prive di tessuti ben sviluppati e sono costituite da aggregati di un numero relativamente piccolo di tipi di cellule. A differenza della maggior parte degli animali con tessuti e organi definiti, le cellule dei poriferi sono capaci di riaggregarsi dopo essere state separate. Con riferimento alla loro semplicità come organismi pluricellulari, gli animali appartenenti a questi phyla sono detti spesso Metazoi inferiori: come gruppo, i metazoi inferiori presentano una scarsa somiglianza con gli altri animali nell'embriologia o nella forma del corpo (Mitchell 1992).

2.1.5.1.1. Il coordinamento operativo nei batteri
La semplicità strutturale dei batteri non lascia presagire la loro straordinaria capacità di comunicare l'uno con l'altro ed anche con le cellule degli organismi superiori. I batteri vivono in colonie e sono in grado di comunicare per mezzo di sostanze chimiche, come è emerso da indagini su batteri marini luminescenti (Nealson e Hastings, 1970)[7]. Uno di questi batteri, Vibrio bischeri colonizza l'organo luminoso della specie Euprymna scolopes, un cefalopode che quando va in cerca di cibo di notte, trae beneficio dalla presenza dei batteri luminescenti in quanto questi lo mimetizzano, nascondendolo ai predatori che si muovono più in profondità e nel contempo i batteri traggono beneficio dal fatto che l'invertebrato fornisce un rifugio protetto e ricco di cibo. L'attivazione della luminescenza è il risultato di un raffinato processo di comunicazione conspecifica: i batteri liberano un messaggero molecolare, denominato «autoinduttore», appartenente ad una famiglia di molecole di piccole dimensioni, i lattoni dell'omoserina [Nota 5.] che agiscono come dispositivi per misurare la densità cellulare (segnali di densità della popolazione cellulare). I lattoni dell'omoserina, si diffondono nei batteri e attivano la proteina Lux R [Nota 6.] che a sua volta può stimolare l'espressione dei geni che codificano per l'enzima luciferasi e quindi l'emissione della luce. Quando i batteri sono liberi nel mare non emettono luce perché è estremamente bassa la concentrazione dell'autoinduttore, ma nello spazio limitato dell'organo luminoso i livelli di concentrazione cellulare e molecolare aumentano fino a raggiungere un livello critico che consente l'emissione della luminescenza. Questa prima tornata di sintesi proteica crea un anello di retroazione positiva che dà luogo a una maggiore produzione di autoinduttore, a una più intensa attività genica e, infine, a un'esplosione di luce (Losick R. et al. 1997).
Il processo di formazione dei corpi fruttiferi è un'ulteriore prova delle capacità di coordinamento operativo fra batteri conspecifici. I mixobatteri, in condizioni ambientali ottimali, si sviluppano in tutti i suoli coltivati, come singole cellule mobili. Quando l'acqua o le sostanze nutritive scarseggiano, migliaia di cellule di una stessa specie si riuniscono nelle strutture pluricellulari dei corpi fruttiferi [Nota 7.] sufficientemente grandi da essere visibili anche a occhio nudo. I corpi fruttiferi permettono a migliaia di spore [Nota 8.] di essere prelevate e trasportate da vettori fisici o animali, in sedi più idonee per stabilire una nuova colonia. La maggior parte delle cellule che partecipano alla formazione dei corpi fruttiferi si sacrifica per far sì che altre cellule possano generare spore e sopravvivere fino a riprodursi. Le cellule bastoncellari del batterio Myxococcus xanthus, circa quattro ore dopo che hanno cominciato a percepire la carenza di cibo, si mettono in moto da varie parti della comunità per aggregarsi in punti focali. Al termine della migrazione, in corrispondenza di ognuno di questi punti si accumulano circa 100 000 cellule che formano un monticello in grado di raggiungere un'altezza di un decimo di millimetro [Nota 9.]. A 20 ore dall'inizio della carenza alimentare, alcune cellule cominciano a differenziarsi in spore e, circa quattro ore dopo, l'assemblaggio della struttura di base è completo. Questo coordinamento operativo è il risultato di una specifica comunicazione intraspecifica supportata da messaggeri chimici, il fattore A serve far aggregare le cellule in un punto focale e il fattore C serve a far completare l'aggregazione e ad avviare la produzione di spore (Losick R. et al. 1997).
La formazione dei corpi fruttiferi in Myxococcus xanthus, è sotto il controllo dei fattori A e C: il primo è necessario per far aggregare le cellule in un punto focale, mentre il secondo serve a far completare l'aggregazione e ad avviare la produzione delle spore. Il fattore A (come i lattoni dell' omoserina) è un segnale di densità della popolazione cellulare, che viene liberato nell'area extracellulare e induce l'aggregazione solo quando raggiunge una determinata concentrazione soglia [Nota 10.]. Il fattore C entra in gioco dopo che è cominciata l'aggregazione in corrispondenza di un punto focale: questa proteina è di piccole dimensioni rimane fissata alla cellula che lo produce e sporge dalla sua superficie. Le cellule bastoncellari per aggregarsi più strettamente, devono entrare in contatto lungo i fianchi e agli apici e, per far questo, devono muoversi. Quando viene raggiunto un allineamento idoneo, il fattore C che sporge dalle cellule in contatto tra loro comunica ad altre cellule che l'operazione è riuscita. Un'abbondanza di segnali di C informa la comunità che è stata realizzata un'aggregazione ottimale (cioè uno stretto impaccamento). A questo punto, le cellule cessano di muoversi e si attivano i geni necessari per la formazione delle spore: il messaggio di C segnala quindi l'elevata densità delle cellule e l'adeguato completamento delle prime fasi di formazione del corpo fruttifero.
Un'intensa trasmissione di segnali è stata scoperta anche in un'altra famiglia di batteri del suolo, gli streptomiceti: le colonie si sviluppano in una rete ramificata di lunghe cellule fibriformi, o ife. Quest'ultime penetrano nella vegetazione degradandola e alimentandosi del materiale in decomposizione. Quando le risorse alimentari diminuiscono, la colonia collabora nella produzione di spore. Molte ife della colonia puntano verso l'alto: ciascuna delle ife aeree, consiste inizialmente di una singola lunga cellula, che successivamente diventa settata e si differenzia in una lunga catena di spore dal robusto rivestimento (il micelio aereo simile a un filo di perle). All'interno della comunità, uno scambio attivo di segnali chimici regola l'innalzamento delle ife aeree. Una fra le meglio studiate di queste sostanze è ancora una volta simile ai lattoni dell'omoserina; presumibilmente questo segnale promuove la formazione di ife aeree quando un numero sufficiente di batteri che vivono nel suolo avverte una riduzione delle risorse alimentari disponibili. Le cellule della comunità batterica cooperano anche secernendo SapB, una piccola proteina che si accumula copiosamente all'esterno delle cellule. Sembra che questa sostanza partecipi direttamente alla costruzione delle ife aeree, come ha scoperto da Willey (1990)[8]. Essa riveste la superficie della colonia, aiutando forse i filamenti posti più in alto a vincere la tensione superficiale e a sollevarsi da terra. Così, l'innalzamento delle ife aeree è una specie di impresa comunitaria, in cui le cellule coordinano le loro attività attraverso lo scambio e l'accumulo di varie sostanze chimiche (Losick R. et al. 1997).

2.1.5.1.2. Il coordinamento operativo nelle amebe
La forma ameboide della muffa mucillaginosa, Dictyostelium discoideum, è una cellula eucariota il cui genoma è solo 10 volte più grande di quello di un batterio e 100 volte più piccolo di quello di una cellula umana. Questi organismi vivono sul terreno delle foreste in forma di cellule mobili indipendenti, dette amebe, che si nutrono di batteri e di lieviti e, in condizioni ottimali, si moltiplicano per scissione binaria ad intervalli di poche ore. Quando si esauriscono le riserve di sostanze nutritizie, le amebe smettono di dividersi e si ammassano formando minuscole strutture (1-2 nm), pluricellulari e vermiformi, che avanzano lentamente strisciando come lumache luccicanti, e lasciando dietro di sé una traccia viscida.
Ogni «lumaca» è formata dall'aggregazione di non meno di 100 000 cellule e mostra una varietà di comportamenti che non si osservano nelle amebe (che vivono in forma di cellule singole). La lumaca è estremamente sensibile alla luce e al calore e tende a muoversi in direzione di una sorgente luminosa (anche debole come un orologio fosforescente: presumibilmente questo comportamento serve a guidare la lumaca verso ambienti favorevoli). Mentre la lumaca si muove, le cellule incominciano a differenziarsi, iniziando un processo che terminerà con la produzione di uno stelo e di un corpo fruttifero, circa 30 ore dopo l'inizio dell'aggregazione. Il corpo fruttifero contiene un gran numero di spore che possono sopravvivere per lunghi periodi di tempo anche in ambienti estremamente ostili. Le cellule che si trovano nella parte anteriore della lumaca formano lo stelo, quelle che seguono si differenziano in spore, e quelle di coda formano il piede. Solo quando le condizioni ambientali saranno nuovamente favorevoli le spore germineranno e produrranno singole amebe che ricominceranno il ciclo.
In risposta alla carenza di sostanze nutritizie, le amebe iniziano a produrre e a secernere AMP ciclico, che serve da segnale chemiotattico per attrarre le altre amebe. Varie cellule possono iniziare a secernere AMP ciclico (cAMP) e ad attrarre altre cellule, divenendo così i centri di aggregazione. L'AMP ciclico che queste cellule producono viene secreto in modo intermittente e si lega a specifici recettori sulla superficie di altre amebe contigue digiunanti, orientandone quindi il normale movimento nella direzione della sorgente di cAMP. Questa risposta chemiotattica si può dimostrare direttamente applicando per mezzo di una micropipetta una piccola quantità di cAMP in qualunque punto della superficie di un'ameba a digiuno. Il risultato è l'immediata formazione di uno pseudopodio che cresce in direzione della micropipetta: lo pseudopodio aderisce alla superficie su cui è posta la cellula e la tira nella stessa direzione.
Una volta che incomincia a formarsi un centro di aggregazione, la sua area d'influenza si allarga rapidamente, perché le cellule in aggregazione non solo rispondono al segnale lanciato dal cAMP, ma lo ritrasmettono dall'una all'altra. Ogni emissione di cAMP induce le cellule circostanti a muoversi verso la sorgente di emissione e a secernere esse stesse la loro quota di AMP. A sua volta, questa nuova emissione di cAMP, ritrasmessa dopo un breve ritardo, orienta le cellule vicine e induce una nuova emissione di cAMP da parte loro, e così via. In questo modo, a intervalli regolari di tempo, onde pulsanti di cAMP fluiscono da ogni centro di aggregazione, inducendo le amebe più distanti a dirigersi verso il centro in onde spiraliformi o concentriche, che possono esser messe in evidenza mediante riprese cinematografiche intermittenti . Il vantaggio di un simile sistema di ritrasmissione consiste nel fatto che il segnale si rigenera ripetutamente non appena emanato dal centro, cosicché si propaga su un'ampia area senza diminuire di intensità.
La carenza di sostanze nutritive, oltre ad attivare il sistema di segnalazione del cAMP, induce nelle amebe Dictyostelium l'espressione di centinaia di nuovi geni, alcuni dei quali codificano le molecole di adesione cellulare coinvolte nel processo di aggregazione delle cellule. Si ritiene che una lectina (proteina che si lega agli zuccheri) la discoidina-1, sia secreta dalle cellule private di cibo per fornire una forma primitiva di orientamento. Si ritiene infatti che tale proteina possa - come la fibronectina nella migrazione cellulare durante la gastrulazione - agire da guida verso i centri di aggregazione. Infatti, le amebe che si legano alla discoidina-1 fruendo della medesima sequenza tripeptidica di legame cellulare (Arginina-Glicina- Acido aspartico) presente nella fibronectina ed in molte altre proteine di adesione.
Varie proteine appena sintetizzate promuovono il processo di adesione intercellulare che consente alle amebe migranti di aderire saldamente tra di loro e di riunirsi in un organismo pluricellulare. Durante le prime 8 ore di digiuno, le cellule aderiscono tramite un meccanismo Ca2+-dipendente cui partecipa una molecola di adesione intercellulare detta sito di contatto B. Dopo 8 ore, entra in. giuoco un secondo sistema di adesione, nel quale le cellule aderiscono tramite un meccanismo non più Ca2+-dipendente, che coinvolge una molecola di adesione intercellulare detta sito di contatto A.
Si pensa che il sito di contatto A leghi le cellule insieme con un meccanismo omofilo (molecole presenti su una cellula possono legarsi ad altre molecole dello stesso genere situate su cellule adiacenti). Infatti accoppiando sperimentalmente la proteina con perline sintetiche, le perline si legano solo alle cellule che manifestano un sito di contatto A, e il legame non si stabilisce se le cellule sono state precedentemente trattate con un anticorpo che agisce contro il sito di contatto A. Le ricerche compiute sulla sequenza del DNA mostrano che il sito di contatto A è una proteina transmembrana monopasso, apparentemente priva di parentela con alcuna proteina di adesione intercellulare dei vertebrati finora caratterizzata (Bonner J. T. 1969; Alberts B. et al. 1991).

2.1.5.1.3. Il coordinamento operativo nelle spugne
I Poriferi sono animali sessili fissati su un substrato rigido, marini e di acqua dolce, e rappresentano il tipo di organizzazione più semplice fra i Metazoi propriamente detti. Le spugne hanno tre forme di complessità organizzativa del corpo [Nota 11.]. Le spugne hanno a) un organizzazione che può essere ricondotta ad un tipo di simmetria radiale, che si perde nell'adattamento della loro forma alla costituzione del substrato: mancano di veri organi e b) una organizzazione cellulare a tessuti, mancano di elementi cellulari recettori e nervosi (D'Ancona 1953). La maggior parte delle spugne hanno tre strati di cellule simili a tessuti. Uno strato esterno, simile alla cute, detto pinacoderma, formato da un singolo strato di cellule dette pinacociti o exopinacociti o pinacociti, capaci di sintetizzare il collagene. Un secondo strato interno simile ad tessuto, detto coanoderma, formato da un singolo strato di cellule delle coanociti, tappezza certe camere acquifere interne: altre camere sono rivestite solo da pinacociti. Il terzo strato, detto mesoila è compreso fra il pinacoderma e il coanoderma. La mesoila è una matrice gelatinosa contenete proteine fibrose e/o spicole inframmezzate con varie cellule ameboidi (Mitchell et al. 1992). Cellule della mesoila sono: gli spongociti o cellule sferiche, indirettamente coinvolte nella produzione di fibre di spongina; gli sclerociti, che secernono spicole; i miociti che formano delle bande muscolari intorno agli osculi o ai pori nella parete del corpo, gli archeociti potenzialmente capaci a differenziarsi in tutti i tipi cellulari e vengono pertanto definiti totipotenti; le cellule grigie, contenenti glicogeno, associate a processi citotossici ed infine i collenciti, destinati alla sintesi del collagene extracellulare (Mitchell et al. 1992; Gaino et al. 1999).
Alcune spugne producono composti organici (terpenoidi e benzochinoni) che sono repellenti o tossici per i predatori e secernono composti organici contenenti bromo che inibiscono l'accrescimento altri invertebrati sessili (come i coralli), permettendo con successo di competere per lo spazio necessario al loro accrescimento (Mitchell et al. 1992). Nelle spugne adulte, è stata analizzata sperimentalmente la loro capacità di reazione d'istocompatibilità sia nelle parabiosi [Nota 12.] mettendo a stretto contatto gli strati esterni intatti del pinacoderma [Nota 13.] di due o più colonie conspecifiche (parabiosi alloplastica) o di differente specie (p. xenoplastica), sia negli aggregati cellulari (Gaino et al. 1999). Le spugne sono dotate di un alto potere di rigenerazione, e Wilson (1907) ha osservato per primo che le cellule dissociate (facendole passare attraverso una garza), dopo lo spappolamento del corpo della spugna, si riaggregano spontaneamente in modo specie-specifico. Esperienze in cui vengono miscelate cellule separate di due specie di spugne hanno dimostrato che le cellule di ciascuna specie sono capaci di riconoscersi e di aggregarsi fra loro, ma non con quelle dell'altra specie.
Le spugne, malgrado la loro primitiva organizzazione hanno differenziato un complesso sistema di riconoscimento comportante differenti meccanismi che proteggono la loro integrità. Infatti gli studi su spugne in toto e sull'aggregazione in vitro, hanno dimostrato che le spugne possono distinguere il sè da non sé. Meccanismi molecolari che portano al riconoscimento cellulare possono essere a) espressi da proteoglicani [Nota 14.] specie-specifici della superficie cellulare (molecole di glicoconnettine), oppure b) possono richiedere un differenziato sistema di riconoscimento delle membrane che media le reazioni immunosimili di istocompatibilità con proteoglicani sintetizzati extracellularmente (molecole di galectina). Queste molecole associate specie-specificatamente con le membrane cellulari, sono coinvolte nei processi di rigetto e accettazione. Questa specie di capacità nei Poriferi è di rimarchevole importanza nell'ambiente in quanto le spugne hanno evoluto un efficiente sistema per espandere il loro circostante spazio per l'accrescimento, per discriminare il cibo dal non cibo e per proteggersi dagli attacchi microbici (Gaino et al. 1999).

Ogni specie sembra avere il proprio fattore di riconoscimento chimico, una glicoproteina specifica sulle proprie superfici cellulari. Le molecole chiave per il riconoscimento cellulare del sé e del non sé è dipendente da molecole glicoconiugate. Specifici studi (biochimici, microscopia elettronica, analisi di diffrazione raggi X) sui glicoconiugati della superficie cellulare, hanno mostrato che i proteoglicani si estendono dalla membrana plasmatica più di altre macromolecole (Misevic, 1999). Popescu e Misevic (1997) hanno dimostrato che i proteoglicani della superficie cellulare rappresentano le molecole chiave dell'autoriconoscimento. In questi esperimenti, le cellule di tre spugne marine portanti proteoglicani di superficie (appartenenti alle specie Microciona prolifera, Halichondria panicea e Clona celata) sono state mescolate fra di loro. Tra 5-15 minuti sono avvenuti sia l'autoriconoscimento sia l'adesione cellulare specie-specifica, in presenza di Ca2+. Dopo lavaggi selettivi dei proteoglicani dalle superfici cellulari, in nessuna delle tre specie è avvenuta l'aggregazione cellulare. Il processo è stato restaurato dopo l'aggiunta al mezzo di proteoglicani purificati. Analisi biochimiche hanno comprovato che questi proteoglicani differiscono da quelli dei mammiferi e rappresentano una nuova classe di proteoglicani primordiali glicoconnettina 1 (in Microciona prolifera), glicoconnettina 2 (in Halichondria panicea) e glicoconnettina 3 (in Cliona celata). Quando le glicoconnettine 1,2,3, sono state attaccate a perline di latex di differente colore e i tre tipi di perline sono stati mescolati in acqua marina artificiale (tecnica "colour-coded bead"), l'aggregazione specie-specifica è avvenuta in 5-15 minuti, e ciò conferma l'ipotesi che è specifico il legame glicoconnettina-glicoconnettina. Gaino et al. (1999) ritengono che queste interazioni possano essere state un evento di base che hanno permesso la comparsa della multicellularità negli organismi viventi.
Müller (1982) ha distinto in G. cydonium due principali passi nell'aggregazione cellulare: 1°) aggregazione primaria, senza l'intervento di nessun fattore che conduce alla formazione di piccoli aggregati (60-200 µm) e 2°) aggregazione secondaria che, grazie ad un fattore diffusibile, conduce alla formazione di grandi aggregati cellulari. In precedenza Humphreys (1963) e Moscona (1963) avevano dimostrato in Microciona prolifera, che l'aggregazione dipende da tre principali fattori: 1) recettori cellulari di superficie; 2) Ca2+ ; 3) una sostanza di aggregazione. Questa sostanza è stata chiamata «fattore di aggregazione cellulare» (AF) ed è un proteoglicano intercellulare di peso molecolare plurimilionario [Nota 15.]. Müller (1982) ritiene che le cellule mucoidi (exopinacociti ?) siano le responsabili della secrezione del fattore AF rilasciato negli spazi extracellulari. Gli anticorpi per il fattore AF di G. cydonium inibisce specificatamente l'aggregazione secondaria (Conrad et al. 1981). Di conseguenza, dopo una iniziale fase, nella quale l'aggregazione è un "processo a casaccio", le cellule stanno probabilmente per acquisire la capacità di sintetizzare il fattore AF diffusibile e per segregarsi specificatamente. Una conferma indiretta di questo processo di selezione (segregazione specifica) può essere dedotto dagli esperimenti dimostranti che la specificità viene raggiunta 48 ore dopo la dissociazione iniziale, quando viene ristabilita l'attività metabolica cellulare (Sarà 1956; John et al (1971).
L'importanza del fattore AF nel mediare l'aggregazione cellulare è stata dimostrata in M. prolifera (Henkart et al. 1973; Weinbaum & Berger, 1973) e in Geodia cydonium (Müller & Zahn, 1973), due demospongie marine [Nota 16.] che cono diventate modelli animali per le successive ricerche in questo campo. Il fattore AF agisce come un "collante" intercellulare che mantiene insieme le cellule delle spugne ed è coinvolto nella segregazione specie-specifica fra le cellule sperimentalmente dissociate e mescolate a caso. Vi è una convincente prova che il sistema di adesione cellula-cellula, consiste di due principali elementi: il fattore AF intercellulare e il recettore di aggregazione (AR) associato alla superficie cellulare al quale si lega. Kuhns e Coll. (1997) hanno suggerito che la presenza di acido jaluronico (HA) come componente del fattore AF, potrebbe avere un rilevante ruolo, in M. prolifera, nel permettere il legame AF-recettore cellulare tramite il collegamento AF-HA. I residui glucoronici del AF, vengono riconosciuti dai specifici recettori di membrana (ARs) che costituiscono le molecole chiave coinvolte nell'adesione delle superfici cellulari (Weinbaum & Burger 1973; Burger & Jumblatt 1977).
Dall'insieme dei dati risulta che nelle spugne la segregazione specie-specifica fra cellule viene modulata, dall'interazione tra il fattore AF e il recettore AR. La prima importante dimostrazione di questa interazione è stata data da Müller et al. (1974): quando AR è stato assorbito da perline di agarosio la loro aggregazione è stata accelerata in presenza del AF omologo. John et al (1971) hanno osservato che la selezione specie specifica si manifesta quando gli archeociti si aggregano con le cellule mucoidi le quali, come sopraddetto, rilasciano il fattore AF negli spazi extracellulari. Wagner-Hulsmann e Coll. (1996) e Müller & Uhlenbruck (1997) hanno trovato che AR è associato al fattore AF legato alla membrana plasmatica tramite delle proteine, le galectine che si trovano in diverse isoforme e che potrebbero rappresentare altre molecole chiave nell'adesione cellule-cellula. Le lectine sono proteine che si legano agli zuccheri: pertanto le lectine si legano alle glicoproteine, ai proteoglicani e ai glicolipidi della superficie cellulare. Alcune lectine, come le galectine, sono presenti alla superficie cellulare, e partecipano al riconoscimento intercellulare (Alberts et al. 1991). Infine, Müller e Coll. (1997) hanno individuato un polipolipetide 140 KD del complesso AF probabilmente interagente con una galectina. Questa polipolipetide lega un singolo AF ad AR sulla membrana plasmatica. In presenza di Ca2+, una seconda molecola di galectina si lega a quella precedente, formando così un ponte che associa due cellule. È appena il caso di sottolineare che, in G. cydonium, le analisi immunoistochimiche hanno rilevato la presenza di galectina nelle cellule sferiche, ma non AF (Müller 1997).

In conclusione, nei batteri, nelle amebe delle muffe mucillaginose e nelle cellule dissociate delle spugne, il coordinamento operativo è il risultato di una specifica comunicazione intraspecifica supportata da simili messaggeri chimici. Il fattore A nei mixobatteri, l'AMP ciclico, la discoidina-1 nelle amebe e le glicoconnettine 1,2,3 nelle cellule dissociate di spugna, presenti o liberati negli spazi extracellulari, sono potenti fattori di comunicazione intraspecifica che modulano l'orientamento e il riconoscimento cellulare nei punti focali di aggregazione. I lattoni dell'omoserina nei batteri, le molecole di adesione intercellulare Ca2+-dipendenti nelle amebe, l'interazione fra il fattore AF e il recettore AR e le galectine Ca2+-dipendenti nelle cellule dissociate di spugna, rappresentano le molecole chiave dell'adesione cellulare. Nei Metazoi superiori, il coordinamento operativo degli individui apparentanti ad una specie, è dipendente in parte a molecole chimiche liberate nell'ambiente e in gran parte da altri stimoli che vengono letti da specializzati recettori degli organi di senso e interpretati da sofisticate reti neuronali del sistema nervoso centrale.

2.1.5.2. Metazoi superiori a simmetria bilaterale: dall'individualismo all'ordine sociale
I Metazoi con organizzazione più complessa di quella dei sopradescritti Metazoi inferiori, appartengono al sottoregno Eumetazoi. Si ritiene (Mitchell et al. 1992) che vi siano state due distinte linee evolutive degli Eumetazoi, il ramo Radiata e il ramo Bilateria: quest'ultimo ha dato origine alla grande maggioranza degli animali. Il corpo di un individuo a simmetria bilaterale ha una metà destra e una metà sinistra, specularmente identiche, e un'estremità anteriore e una posteriore. Può essere diviso ugualmente da un singolo piano longitudinale (piano sagittale mediano), contenente l'asse anteroposteriore e l'asse dorsoventrale. Le parti del corpo degli animali a simmetria bilaterale sono adattate per il movimento a testa avanti attraverso l'ambiente. Di conseguenza, le strutture sensoriali e nervose risultano concentrate nel capo, dove possono rivelare e integrare gli stimoli ambientati quando l'animale l'incontra per la prima volta. Anche le strutture deputate alla presa e pretrattamento (meccanico e/o chimico) del cibo sono situate nel capo.
L'organizzazione del corpo dell'animale a simmetria bilaterale idoneo al movimento direzionale, ha favorito le relazioni sociali fra gli individui affini nel territorio in cui vivono. Negli Invertebrati, le termiti (Prestwich 1983), le formiche (Hölldobler 1971; Topoff 1973, 2000; Wilson 1975) e le api (Morse 1972; Wilson 1973), hanno raggiunto livelli molto avanzati di organizzazione sociale. Fra i Vertebrati, vi sono numerosi esempi di cooperazione e/o di organizzazione sociale. Limitando l'orizzonte ai soli Vertebrati terrestri, va considerato che: a) gli Anfibi hanno interrelazioni individuali solo durante il periodo della riproduzione e manifestano limitati ma peculiari casi di "cure parentali" della prole (ad es. il maschio di un anuro dell'America meridionale, Dendrobates silvestonei, trasporta i suoi pochi girini sul dorso [Mittchel et al. 1992, pag 768]); b) anche tra i Rettili, in generale, le interazioni individuali sono temporanee e dipendenti dalla riproduzione: solo i grandi coccodrilli manifestano alcuni comportamenti di cooperazione conspecifica; nei Rettili del passato, alcune specie di dinosauri, hanno lasciato prove di comportamenti finalizzati alla protezione dei nidi e di successiva tutela della prole (Horner 1984; Bozzi et al. 1992); c) gli Uccelli - i quali derivano da antenati dinosauri saurischi - hanno sviluppato avanzati modelli di cure dei nidiacei, ma anche specifici comportamenti di tipo cooperativo nelle grandi colonie di riproduzione; d) i Mammiferi, in particolare i Placentati, hanno cure parentali molto prolungate finalizzate all'addestramento della prole: in taluni casi ciò ha favorito l'aggregazione, temporanea o durevole, di più individui affini della stessa specie che per la cooperazione conspecifica, hanno sviluppato differenziati tipi di comunicazione e fra questi il linguaggio vocale che nell'uomo ha consentito lo sviluppo di differenti culture e società.
Qui di seguito vengono riportati alcuni esempi che riguardano i rettili, gli uccelli, i mammiferi, con particolare riferimento agli ominidi.

2.1.5.2.1. La cooperazione conspecifica nei coccodrilli
Prolungate osservazioni sistematiche hanno evidenziato che il grande coccodrillo del Nilo (Crocodilus niloticus) [Nota 17.] è un efficientissimo predatore con un ciclo vitale che include notevoli componenti sociali. Il coccodrillo ha sensi ben sviluppati e un sistema nervoso specializzato, facoltà neurofunzionali che facilitano la sua cooperazione con altri coccodrilli nella cattura e nello smembramento della preda. Le ipotesi che i coccodrilli abbiano una organizzazione sociale avanzata per procurarsi il cibo è confermata da osservazioni su individui che chiaramente cooperavano tra loro nel catturare le prede. La modalità più frequente di comportamento cooperativo consiste nel fare a pezzi determinate prede in modo che possano essere facilmente inghiottite. In queste occasioni si sono osservati alcuni coccodrilli spingere la carcassa della preda verso un compagno. Questo addenta la carcassa e la trattiene mentre il primo coccodrillo ruota su se stesso, oppure entrambi compiono rotazioni in direzioni opposte. Ciascun coccodrillo mangia i pezzi che si staccano senza mostrare alcuna ostilità reciproca. Un altro esempio di cooperazione nella caccia si può osservare all'inizio della primavera, quando i fiumi sono in piena e l'acqua scorre in canali che sfociano in pantani o depressioni naturali lungo i fiumi. I coccodrilli subaduIti spesso formano un semicerchio nel punto in cui i canali si riversano nella depressione e osservano l'acqua pronti ad afferrare i pesci che da essa si fanno trasportare. Ciascun coccodrillo resta al suo posto e non si verificano combattimenti per impadronirsi della preda. Qualunque cambiamento di posizione, ovviamente, creerebbe un vuoto nel semicerchio formato dai coccodrilli e permetterebbe al pesce di scappare, cosicché il vantaggio momentaneo di un membro della comunità finirebbe con il danneggiare tutti gli altri. (Pooley et al. 1976).
Nell'Africa meridionale questi rettili raggiungono la maturità sessuale tra i 12 e i 15 anni d'età; in questo periodo essi sono già lunghi da 2 a 3 metri e pesano tra i 70 e 100 chilogrammi. Sembra che tra i maschi maturi, all'inizio della stagione della riproduzione, si stabilisca una gerarchia. La dominanza tra due maschi viene stabilita dopo un'esibizione reciproca: quando uno dei due accetta la supremazia dell'altro si volta e fugge via a grande velocità; il maschio dominante, di solito il più grosso, lo insegue minacciando di morderlo. Le coppie di coccodrilli del Nilo restano unite almeno per un certo periodo. La specie sembra essere monogama almeno durante il periodo di attività sessuale del ciclo riproduttivo annuale. Il maschio e la femmina si uniscono dopo un complesso corteggiamento rituale durante il quale avvicinano e alzano insieme le teste strofinandosi le mascelle. Quando si avvicina il periodo della deposizione delle uova, la femmina si dirige verso il luogo adatto per il nido. Questo luogo rimane lo stesso anno dopo anno e la femmina vi si ferma dopo l'accoppiamento difendendolo dalle altre femmine fino a deposizione avvenuta. La femmina resta nel luogo scelto in attesa di deporre le uova per alcuni giorni, quindi, una notte scava un buco con le zampe posteriori, vi mette le uova e le seppellisce sotto uno strato di 30-45 centimetri di terra. Essa rimane ancora presso il nido o nelle sue immediate vicinanze e difende un territorio abbastanza vasto caricando qualunque intruso. II periodo di incubazione dura da 84 a 90 giorni.
Al tempo della schiusa i piccoli coccodrilli cominciano a chiamare dall'interno dell'uovo. Il suono che producono è abbastanza forte da attraversare il terreno che copre le uova e da essere udito a 20 metri di distanza. La femmina sente il richiamo, si avvicina al nido e comincia a scavare, lavorando con le zampe anteriori, grattando e asportando la terra servendosi anche delle mascelle. Quando il nido è aperto la femmina prende in bocca uno per uno i neonati e li porta nell'acqua. Quando tutta la nidiata è stata raccolta, la femmina entra in acqua e lascia andare i piccoli aprendo la bocca e inclinandola prima da una parte e poi dall'altra nell'acqua bassa. Una volta ripuliti dalla sabbia del nido, i piccoli nuotano verso riva e girano intorno al bordo dell'acqua emettendo stridii intermittenti. Questo coro sollecita una risposta vocale da parte dei coccodrilli adulti e dei subadulti delle vicinanze. I genitore maschio a questo punto si avvicina alla femmina ed è salutato con un sommesso «gorgheggio». Quando se ne presenta l'opportunità, anche il maschio raccoglie i piccoli in bocca e li deposita nell'acqua. Il maschio rompe perfino le uova per liberare i piccoli. Lo fa prendendo l'uovo in bocca e rotolandolo avanti e indietro tra la lingua e il palato. Se si pensa che il rapporto di peso tra l'adulto e il neonato può essere perfino di 4000 a uno, sia la raccolta dell'uovo da parte del maschio, sia il successivo rotolamento in bocca, sono una dimostrazione di una eccezionale sensibilità orale e di un altrettanto eccezionale controllo muscolare. Se uno dei giovani di un gruppo è disturbato o si trova in qualsiasi difficoltà nel periodo in cui fa ancora parte della nidiata, emette un richiamo di pericolo lungo, forte e alto: gli altri piccoli possono associarsi e continuare il coro per almeno 30 secondi. Tutti insieme i piccoli cercano riparo, fuggendo nell'acqua o nascondendosi nella vegetazione. Tutti i coccodrilli adulti che si trovano nelle vicinanze rispondono al richiamo di pericolo muovendosi verso il luogo di provenienza del suono, lasciando a volte anche l'acqua. I coccodrilli subadulti, però, non reagiscono.
Per circa tre mesi i piccoli restano coi genitori e ne vengono accanitamente difesi: alla fine di questo periodo i giovani coccodrilli gradualmente si disperdono, cercando stagni e corsi d'acqua che non sono abitati da subadulti o adulti. I giovani cominciano presto a usare mascelle e denti per scavare un tunnel nella sponda: l'azione di scavo è qualche volta comunitaria, con diversi giovani che si dividono il lavoro. I tunnel sono lunghi fino a tre metri e gli animali li usano come rifugio finché raggiungono l'età di 5 anni circa. La temperatura dell'aria all'interno dei tunnel può essere da otto a dieci gradi centigradi superiore a quella dell'acqua del fiume. I tunnel sono quindi ambiente favorevoli per la regolazione termica dei piccoli corpi giovanili e nel contempo offrono protezione ai giovani contro vari predatori, tra cui i coccodrilli adulti. L'abitudine dei giovani coccodrilli di scavarsi un tunnel e la loro capacità di nutrirsi a temperature corporee al di sotto della soglia normale di ingestione dell'adulto sono meccanismi che proteggono i giovani animali e ne accelerano il passaggio attraverso lo stadio critico delle piccole dimensioni.
Le gerarchie di dominanza tra gli adulti contribuiscono molto a spiegare come le popolazioni di coccodrilli riescano a vivere senza aperte ostilità in località dove l'area disponibile è a volte limitata. Il coccodrillo del Nilo si è adattato con successo a un'ampia varietà di habitat africani, per la sua peculiare capacità di interagire con individui conspecifici. La sua grossa taglia presenta un vantaggio selettivo, dato che l'adulto combina una formidabile potenza e velocità a una straordinaria agilità: più grande è la sua mole corporea, meno probabile è che sia preda di un altro animale. I maschi di dimensioni maggiori risultano vincitori nei confronti degli altri maschi per la dominanza sul territorio. Anche le femmine di dimensioni maggiori, che depongono uova più numerose e più grandi, sono in grado di difendere meglio la prole (Pooley et al. 1976; Frugis 1980b).

Fra i coccodrilli del Nuovo Mondo, l'alligatore del Mississippi (Alligator mississippiensis) è il più grande (può raggiungere la lunghezza di 4 m. e nel passato, molto diffuso nei fiumi e nei laghi degli USA). Gli alligatori del Mississippi hanno una sorta di organizzazione sociale con un maschio alfa, che conquista la sua preminente posizione combattendo contro gli altri maschi. La posizione alfa conferisce al coccodrillo la possibilità di avere sia un territorio entro cui non può assolutamente entrare un altro maschio, sia la possibilità di accoppiarsi con più femmine trasmettendo quindi il suo patrimonio genetico a un maggior numero di discendenti rispetto a quelli derivati dagli altri maschi sottomessi. Il possesso del territorio è segnalato con potenti "splash" provocati sul pelo dell'acqua dall'improvvisa chiusura delle mascelle.
Esiste anche una posizione alfa per le femmine: la femmina alfa ha diritto di possedere il territorio migliore in cui farà il proprio nido, si lascia corteggiare da più maschi e fra questi sceglie solamente quelli che decide lei. La femmina può accettare l'accoppiamento oppure muggire dolcemente e brevemente per quattro o cinque volte, girarsi ed allontanarsi. Il corteggiamento inizia con l'incontro dei due partner: la femmina si avvicina al maschio e si ferma ad una cinquantina di centimetri da lui, allunga il muso fino a toccare il compagno che a sua volta gira la testa e appoggia la punta del muso contro la potente muscolatura golare di lei. Durante questa fase di corteggiamento nel maschio si evidenzia una ghiandola golare (altrimenti nascosta), il cui significato non è del tutto chiaro: il fatto che la ghiandola venga sfregata spesso contro la femmina potrebbe essere considerato come segnale feromonico (Bagnères et al. 2002).
Durante il periodo di nidificazione la femmina scoraggia tutti i tentativi di corteggiamento, diventa ancora più aggressiva e attenta nella difesa del suo territorio. Il territorio oltre che con gli "splash" viene evidenziato anche con potenti muggiti. Sia i muggiti che gli splash vengono usati, a seconda dei casi, come segnali territoriali o come segnali di corteggiamento. Se un maschio non dominante riesce ad attirare una femmina a sé dopo aver fatto sentire i suoi muggiti e i suoi "splash", può avvenire il corteggiamento. Se il maschio alfa non gradisce questa unione, allora interviene, insegue il maschio sottomesso e può anche sfidarlo in un duello.
La costruzione del nido da parte di una femmina dura per circa una settimana: di notte la futura madre si reca sulla terraferma e nel posto prescelto ammucchia rami e frasche usando la coda e spingendo col corpo e le zampe. Il nido, una volta terminato, è alto fino a 90 cm con al centro una depressione che ospiterà le uova. Terminata la deposizione, la femmina copre il nido con altra vegetazione aiutandosi con le zampe posteriori. Durante l'incubazione delle uova le femmine stanno sempre nelle vicinanze del nido per difenderlo e sono pericolosissime anche per l'uomo. È appena il caso di accennare che anche in due specie del genere Caiman (C. sclerops e C. latirostris) di piccole dimensioni (lunghezza massima di 2 m.), le femmine costruiscono i loro nidi con vegetazione che ammucchiano alla maniera dell'alligatore del Mississippi e talora più femmine possono fare il nido in gruppo a poca distanza l'una dall'altra.

2.1.5.2.2. La cooperazione conspecifica nei dinosauri
Nel ricostruire la biologia dei dinosauri, i paleontologi sono giunti alla conclusione che questi rettili del passato siano stati dei vertebrati capaci di comportamenti complessi, dotati di metabolismo elevato attribuibile a meccanismi a) di termoregolazione nei corpi di piccola mole e b) di endotermia sostenuta dalla lenta dispersione termica dai corpi di grande mole. Dalle impronte fossili lasciate sul terreno dai Sauropodi [Nota 18.] risulta che durante la migrazione, gli individui giovani si trovavano al centro del branco, protetti perifericamente dagli individui adulti. Questo ordine di marcia appare analogo a quello messo in atto oggi dagli elefanti e dai babbuini, dove vige un ordine gerarchico regolato da un individuo anziano (Eibl-Eibesfeldt 1976, p. 442-3).
Come genitori, alcune specie di dinosauri hanno lasciato inequivocabili tracce di nidificazione e di cure parentali in due siti del Montana (Stati Uniti) dove sono stati trovati associati scheletri di adulti e le loro uova, e questi resti fossili hanno fornito indizi sul comportamento sociale di tre tipi di dinosauri (Horner 1984). I paleontologi ritengono che al tempo della riproduzione, gli Adrosauri [Nota 19.], i Ceratopsidi [Nota 20.] e gli Ipsilofodonti [Nota 21.], migrassero verso le Montagne Rocciose, per raggiungere zone meno umide e meno densamente popolate, dove costruivano nidi per la deposizione delle uova. I Paleontologi hanno osservato inoltre che gli adrosauri, usando forse il fango, costruivano un nido circolare rialzato da terra, come un catino, con un diametro di 2 metri e la profondità di uno. È probabile che questi dinosauri siano tornati ogni anno nello stesso luogo e che abbiano ricostruito lo stesso nido, come fanno molti uccelli migratori attuali quando tornano ai siti di riproduzione.
Gli adrosauri, lunghi fino a 7-10 metri, avevano scarse capacità di difesa e per questo, forse si riunivano a nidificare in folti gruppi. Risulta infatti che i nidi erano addossati gli uni agli altri, a distanza pari alla lunghezza di un animale. Questa distanza costante (limite estremo per qualsiasi animale alla cova) è considerata una prova a favore dell'ipotesi che gli adrosauri abbiano covato le loro uova. La nidificazione in gruppi a difesa delle uova e dei piccoli si è realizzata più volte nel corso dell'evoluzione e oggi è adottata da molti uccelli coloniali come gabbiani, albatros e pinguini (Frugis 1980): anche nel loro caso le distanze fra i nidi dipendono dalla grandezza degli animali e sono ridotte al minimo indispensabile. I nidi degli adrosauri erano in parte coperti con vegetali che, fermentando, producevano forse calore, come avviene oggi in molte specie di coccodrilli e di uccelli che nidificano al suolo: ciò potrebbe essere considerata un'ulteriore prova a favore dell'ipotesi che i genitori, o uno solo di essi, covassero le uova. Al momento di allontanarsi in cerca di cibo, essi avrebbero usato quel materiale come coperta per mantenere calde le uova o i piccoli, fino al loro ritorno.
Quando le uova infine si schiudevano, venivano alla luce piccoli dinosauri lunghi a malapena 30 centimetri, che essendo inetti, potevano lasciare il nido solo quando avevano raggiunto l'età opportuna per per nutrirsi da soli e per avventurarsi all'aperto alla ricerca del cibo con gli adulti (Horner 1984). I genitori provvedevano anche a questo, come fanno oggi uccelli e mammiferi, e portavano al nido semi, bacche, frammenti di arbusti e altri vegetali. Forse i giovani adrosauri, incapaci di difendersi, erano facile preda dei carnivori, e l'atteggiamento di guardia degli adulti doveva essere di tipo collaborativo e, al comparire del pericolo, probabilmente emettevano grida di allarme (Bozzi et al. 1992). A questo proposito Horner e altri ricercatori (Hopson e Weishampel) [9] sono giunti alla medesima conclusione che gli adrosauri siano stati in grado di lanciare segnali vocali di allarme per mettere in guardia altri membri di una colonia o di un branco.

2.1.5.2.3. La cooperazione conspecifica negli uccelli
Gli albatri [Nota 22.] offrono un idoneo spunto per alcune considerazioni di carattere generale sul comportamento degli uccelli marini che formano grandi colonie di riproduzione. È ben noto che questi siti sono caratterizzati dalla riduzione degli spazi per il sovraffollamento su territori ristretti: ne deriva che ogni specie è indotta mette in atto uno specifico comportamento riproduttivo cooperativo.
Durante il periodo non riproduttivo i maschi e le femmine di albatro mettono in atto un modulo comportamentale con il quale ciascun animale esprime la propria individualità: gli albatri adulti trascorrono la vita in pieno oceano, ove generalmente veleggiano ad ali immobili (volo planato) per lungo tempo e per distanze veramente incredibili: il loro cibo è costituito prevalentemente da calamari. All'inizio del periodo riproduttivo, la formazione della coppia comporta l'abbandono del comportamento individuale a favore di quello sociale per stabilire la necessaria intimità tra i due partner: gli etologi hanno chiamato questo complesso fenomeno display, un termine che sta a indicare quel complesso di atteggiamenti ed esibizioni che costituiscono il corteggiamento e i rapporti tra individui connessi in qualche modo con il ciclo riproduttivo. Negli albatri il display è reciproco (gli atteggiamenti cioè sono spesso identici nel maschio e nella femmina): ciò è possibile anche perché questi uccelli sono monogami, coniugi fedeli che di regola si dividono equamente le incombenze della difesa del nido, della cova e dell'allevamento dei piccoli. Tra l'altro le cerimonie nuziali spesso continuano anche dopo l'accoppiamento e la schiusa delle uova con lo scopo di mantenere stretti i legami di coppia. Il display reciproco è dunque una specie di "legame emotivo" utile per il loro successo riproduttivo: esiste una serie completa di cerimonie di corteggiamento stereotipate che possono essere ridotte tutte ad uno schema fondamentale: coda aperta a ventaglio, ali distese, capo e collo protesi, quindi la punta del becco viene nascosta tra le scapolari e sono emessi suoni decisamente curiosi, come gorgoglii, latrati, fischi e soffi. Spesso il legame coniugale dura tutta la vita.
Per nidificare gli albatri scelgono isolotti remoti, dove si riuniscono in colonie numerose (ad esempio, la Georgia del Sud, terra insulare subantartica, ospita almeno 5000 coppie nidificanti l'albatro urlatore) [Nota 23.], ove il nido può essere una semplice buca nel fango o un monticello di terra ed erbe pressate, in cui viene deposto un unico uovo. Come altri uccelli marini, l'albatro che nidifica in spazi ristretti, insieme a numerosissimi conspecifici e di uccelli di altra specie (per esempio pinguini): pertanto lo spazio fra i nidi corrisponde a quello che il suo collo riesce a percorrere per beccare un vicino (Mitchell et al. 1992, cap. 32, § 983). Il periodo riproduttivo è piuttosto lungo: dopo un periodo di incubazione di tre mesi nasce un pulcino cieco e inetto (detto nidicolo) dallo sviluppo molto lento: lo stadio di nidiaceo ha infatti la durata di oltre nove mesi, durante il quale i genitori nutrono il piccolo a intervalli sempre più lunghi. Quando, durante la cova, un predatore tenta di avvicinarsi al nido, l'albatro urlatore si mette subito sulla difensiva pronto a scagliarsi contro l'intruso, mentre contemporaneamente batte i due grandi astucci cornei (che rivestono le mandibole e le mascelle) del becco producendo un forte rumore che assomiglia al battere delle nacchere: in taluni casi emette anche grida molto forti e sgraziate. Anche i giovani mettono in atto un peculiare meccanismo di difesa quando un estraneo si avvicina al nido: sputano contro il disturbatore una secrezione oleosa e maleodorante dello stomaco.

2.1.5.2.3.1. Come individuare un proprio parente nella colonia
Tutti abbiano abbiamo fatto più volte l'esperienza di percepire una frase pronunciata a minor volume rispetto a quello delle conversazioni in un ambiente affollato, soprattutto se quanto viene detto include il nostro nome. Questa tipo di percezione, che viene definito «audizione intelligente» o «effetto cocktail-party», può essere preso come esempio per introdurre il problema su come, durante il periodo della riproduzione, alcuni uccelli marini riescano a individuare il proprio partner o la loro prole nella moltitudine della colonia. Questo interessante problema di comunicazione animale è stato esaminando nei suoi vari aspetti nelle colonie dei pinguini [Nota 24.]: attualmente sono viventi 18 specie di pinguini (suddivise in 6 generi) e fra queste il pinguino imperatore (Aptenodytes forsteri), il pinguino reale (A. patagonica), il pinguino Adelia (Pygoscelis adeliae) e il pinguino saltaroccia (Eudyptes cristatus), hanno fornito precise informazioni sui modelli di comunicazione e di cooperazione conspecifica (Jouventin et al. 2002).

2.1.5.2.3.2. Comunicazione posturale
I pinguini hanno un abito con un precise funzioni di mimetismo per sfuggire, in mare, alla predazione di foche leopardo, di orche o di squali. Infatti, se osservato dall'alto, il dorso nero di un pinguino che nuota si confonde con lo sfondo scuro del mare, mentre, se visto dal basso, il ventre bianco si confonde nel chiarore della superficie marina. Inoltre le ornamentazioni dei pinguini si trovano concentrate nella parte superiore del corpo che è la sola parte del corpo emergente dall'acqua. I ciuffi di penne dette egrette o le colorazioni della testa (a seconda dei generi), sono segnali di adunata che permettono di raggrupparsi in mare. Sul terreno, i pinguini hanno un aspetto buffo, barcollante vagamente umano e i punti cruciali del riconoscimento interindividuale avvengono attraverso segnali posturali e vocali.
I segnali posturali consistono in gesti codificati e stereotipati: la cosiddetta posizione estatica a testa levata viene esibita (in tutte le specie salvo il pinguino imperatore) da uccelli non accoppiati, più spesso di sesso maschile e sul proprio nido: la sua funzione biologica corrisponde alla ricerca del partner, e questo spiega perché questa postura, visibile da lontano, sia assunta generalmente all'inizio del periodo riproduttivo. I profili della testa permettono di distinguere i diversi tipi di pinguino, ma non i sessi e men che meno gli individui. Jouventin e Coll. (2002) hanno cercato di interpretare il ruolo delle egrette e delle macchie (formate dalle penne colorate) che ornano la testa, per quanto riguarda la formazione della coppia. A uno dei due pinguini di una coppia neoformata, hanno tagliato le piume ornamentali del capo e quindi lo hanno lasciato libero nella colonia; l'altro pinguino è stato lasciato indenne ma rinchiuso in un recinto inaccessibile al suo partner. Il pinguino lasciato libero ma solo, si è messo presto alla ricerca di una compagna, ma dopo una settimana, la sua probabilità di accoppiarsi è risultata quasi quattro volte inferiore nel pinguino crestato, e quasi undici volte inferiore nel pinguino reale. La seconda parte dell'esperimento è stato quello di liberare anche l'altro pinguino, il quale molto spesso è stato capace di ritrovare il suo partner grazie al ricordo del suo canto, e di ristabilire la coppia dopo un'accesa disputa con il pinguino che aveva preso il suo posto.
Da queste esperienze si possono trarre le seguenti conclusioni: le piume colorate della testa svolgono un significativo ruolo nella formazione delle coppie, ma il ricordo del canto del partner prevale su quello della visione delle piume colorate del capo. Allo stato attuale si può presumere che nelle fasi della formazione della coppia, le piume ornamentali del capo forniscano un'informazione reciproca sulla «condizione fisica» del partner. Durante il periodo della riproduzione, i due stimoli convergono ai fini della formazione della coppia, infatti ogni segnale ottico è frequentemente associato ad un segnale sonoro (canto di corteggiamento). Diverse specie non si limitano all'associazione fra postura e canto, ma aggiungono a questi due fattori anche quello dei movimenti del corpo. Ad esempio, in questa preliminare fase del comportamento riproduttivo, il pinguino di Adelia si comporta come una specie di semaforo sonoro perché oltre ad emettere, a testa levata, un canto spezzettato (e quindi facilmente localizzabile grazie alle sue proprietà acustiche) associa anche il battito delle alucce finalizzato all'invio di alternativi stimoli visivi, neri e bianchi provenienti dalle parti dorsali e ventrali dei due arti anteriori a paletta. In questo modo il maschio, in posizione al di sopra del proprio nido, con il becco rivolto verso il cielo, si distingue dai maschi già accoppiati nell'ambito della colonia riproduttiva e ciò facilita l'incontro con una femmina pronta per la riproduzione.

2.1.5.2.3.3. Comunicazione vocale
I pinguini non sono uguali di fronte alla difficoltà di ritrovare il proprio partner, perché le specie che si riproducono su un nido, al ritorno delle loro battute di pesca in mare aperto, dispongono di un «indirizzo» al quale dirigersi direttamente. In questo caso il problema del pinguino non è quello di trovare il partner, ma è quello di verificare se il timbro della voce del pinguino che occupa il nido corrisponde esattamente a quello del suo partner. Altre specie, come i pinguini reale e imperatore, non costruiscono un nido, dato che covano l'uovo e allevano il pulcino, sul dorso delle zampe termicamente protette da una soffice piega cutanea. Il pinguino reale, al ritorno dal mare, si dirige subito verso la parte della colonia dove sa di avere lasciato il proprio partner o il piccolo. Diversamente il pinguino imperatore che rimane sulla banchisa per espletare il compito delle cure parentali, può eseguire importanti spostamenti all'interno della colonia. Di conseguenza, il partner che ritorna dopo molti giorni dal mare, si trova innanzi sia un difficile problema di identificare i suoi familiari (dal momento che non vi è alcun riferimento spazi sulla banchisa), e sia una favorevole sorta di «regola di galateo» che facilita la sua ricerca: il pinguino che lancia per primo il segnale di identificazione agisce sui pinguini che si trovano nel raggio di una decina di metri in modo tale che il silenzio viene mantenuto per tutta la durata del canto, permettendo così al segnale di emergere meglio dal rumore di fondo. Il pinguino imperatore, emette un richiamo molto complesso che viene selettivamente riconosciuto da suo partner o dal suo affamatissimo piccolo. Quest'ultimi a loro volta emettono un richiamo di riconoscimento, si spostano verso la fonte del richiamo, e continuando il «duetto», fino a incontrasi in un punto della colonia.
Non vi è dubbio che il riconoscimento individuale avviene solo attraverso segnali acustici perché è stato dimostrato (Jouventin el al. 2002) che chiudendo il becco (con nastro adesivo) dei pinguini di ritorno alla loro colonia, divengono incapaci di emettere il loro richiamo: non venendo più riconosciuti dal rispettivo partner, spesso vengono cacciati. Inoltre il richiamo registrato di un pinguino rientrato dalla caccia, fatto risentire tra la folla di uccelli della colonia, innesca la risposta del partner (o del piccolo) il quali, a sua volta, risponde e si dirige verso la fonte dello stimolo sonoro (altoparlante). In definitiva, il segnale di riconoscimento acustico funge da firma vocale individuale peculiare di ogni pinguino.
Jouventin e coll. (2002) hanno utilizzato metodi informatici per decodificare le firme vocali nel canto dei pinguini reale e imperatore, presenti nelle grandi colonie di riproduzione. Il canto del pinguino reale è costituito da una successione di sillabe e quando il piccolo percepisce l'inizio della prima modulazione, è già in grado di ricostruire il resto del canto [Nota 25.]. Queste firme vocali sono talmente efficaci che un pinguino reale reduce dalla caccia in mare impiega spesso meno di due minuti per trovare il partner o il proprio piccolo tra diverse migliaia di uccelli. In merito all'elevata capacità di discriminazione del segnale vocale da parte dei piccoli, è stato osservato che a) se il canto del genitore dura da quattro a cinque secondi, al piccolo sono sufficienti solo due decimi di secondo per riconoscerlo, e b) se si ricopre il canto del genitore con cinque canti di pinguini estranei, il pulcino è in grado di riconoscere comunque quello del genitore, anche se mascherato dagli altri emessi a un volume di sei decibel superiore. Le grandi variazioni di ampiezza del segnale presentate dal canto del pinguino reale consentono di confrontare meglio i suoni che pervengono a ognuno dei due orecchi e sono molto importanti per localizzare chi canta: infatti sopprimendo le modulazioni di ampiezza del canto registrato del genitore, il piccolo riconosce molto bene la firma vocale paterna, ma quando accorre verso la fonte del segnale acustico, non riesce a «localizzarlo» e quindi quando passa davanti all'altoparlante prosegue e si perde nella folla.
Il pinguino imperatore, ha un canto di corteggiamento non modulato come quello del pinguino reale, ma più spezzettato, e questa successione di treni d'onda costituisce un codice di identificazione molto efficace, analogo al codice a barre applicato su molti prodotti in commercio. La maggior parte degli uccelli possiede una sorgente sonora nel punto d'innesto di ciascun bronco nella trachea (la siringe, vedi Padoa 1969, p. 607). I pinguini, reale e imperatore, emettono dunque due voci, con un leggero sfasamento che varia da un individuo all'altro. Se per mezzo di particolari metodi di filtrazione si sopprime una delle due voci, il canto così modificato non viene riconosciuto dal partner. Il «sistema delle due voci» costituisce dunque un secondo sistema di identificazione che completa il primo e rende ogni firma vocale ancora più unica. In effetti, questo sistema supplementare aumenta in maniera esponenziale le combinazioni possibili vocali e la specificità di ciascuna firma vocale nell'ambito di un grande numero di segali contemporanei espressi da una moltitudine di individui.
Modificando la durata o la frequenza del segnale acustico, è stato possibile precisare quali siano i parametri significativi nell'identificazione. Jouventin e Coll. (2002) hanno dimostrato infatti che sopprimendo sperimentalmente i singoli parametri di una firma vocale, il canto non veniva più riconosciuto dal partner che lo doveva ricevere. Operando in questo modo i ricercatori hanno ottenuto direttamente dal pinguino dati precisi su quali siano i parametri necessari per riconoscere il membro della sua famiglia non identificabile per via visiva.

2.1.5.2.3.4. Come chiedere cibo al proprio genitore
In questo complesso quadro di rapporti cooperativi conspecifici, all'interno di una colonia spesso sovraffollata e quindi competitiva (problemi analoghi emergono nelle megalopoli umane Waal F.B.M. et al. 2000), è stata posta particolare attenzione nello studio degli stimoli e delle specifiche risposte che consentono l'alimentazione dei nidiacei da parte dei propri genitori. Hailman (1970) si è posto il problema se nei Vertebrati gli istinti in parte vengano appresi: allo scopo di controllare questa interessante ipotesi ha scelto il comportamento nutrizionale del gabbiano. Molte sono le interazioni fra genitore e neonato. Il genitore abbassa la testa e punta il becco verso il basso in direzione del piccolo: quindi fa dondolare dolcemente il becco da una lato all'altro e ciò eccita le beccate del piccolo. Quest'ultimo, con un movimento di beccate complesso ma coordinato, prende di mira il genitore, e ruotando la testa afferra il suo becco e lo tira verso in basso. Dopo ripetute beccate, il genitore rigurgita il cibo parzialmente digerito, in quanto il movimento di beccata del piccolo viene interpretato dal genitore come una forma di richiesta del cibo. Il perfezionamento di questo modello comportamentale viene completato nel piccolo entro l'arco di una settimana.
Hailman, innanzitutto ha analizzato (con profili molto schematici di gabbiano adulto disegnati su cartoncini: quest'ultimi sono stati fatti oscillare ritmicamente davanti al soggetto preso in esame) la precisione della beccata del piccolo fin dal giorno della nascita. I test hanno provato che in media solo un terzo delle beccate del neonato colpiscono il modello. Nel primo giorno della nascita risultano precise più della metà delle beccate. Nel secondo giorno dopo la nascita la precisione raggiunge un livello di oltre il 75 per cento. Se però, durante questo periodo critico, i piccoli vengono allevati al buio, la mancanza di esperienza visiva riduce notevolmente la precisione della loro beccata: la pratica visiva è quindi necessaria per lo sviluppo di una completa precisione nella beccata.
La mancata esperienza di beccata altera inoltre la parte del comportamento relativa alla rotazione della testa nella beccata. Il piccolo del gabbiano allevato naturalmente, non presenta la componente relativa alla rotazione della testa, ma la acquisisce dopo e la migliora rapidamente con l'aumento della precisione delle beccate. Diversamente i neonati allevati senza esperienze di beccata presentano raramente un miglioramento della componente rotatoria della testa effettuando le beccate.
Molto interessante è l'esame degli eventi temporali necessari al pulcino del gabbiano per riconoscere e beccare il becco del genitore. Con l'uso di modelli del profilo della testa del gabbiano adulto è stato constatato che i neonati di gabbiano comune (Larus ridibundus - testa nera e becco tutto rosso) non sanno distinguere un modello dell'individuo adulto della propria specie da quello di un gabbiano reale (Larus argentatus - testa bianca e becco giallo con una macchia rossa sulla mandibola). I piccoli del gabbiano comune infatti sono attratti sia dal becco tutto rosso tipico della propria specie che dalla macchia rossa situata sul becco mandibolare del gabbiano reale. Anche i neonati del gabbiano reale non sono in grado di distinguere il modello dell'individuo adulto della propria specie da quello del gabbiano comune. Inoltre che i neonati e i giovani di gabbiano comune, sottoposti al test nei riguardi di cinque modelli della testa del genitore - fra i quali uno rappresentava il profilo solo del becco rosso e uno solo della testa nera - capivano soprattutto le immagini del becco del genitore e scarsamente a quella della sola testa. Sembra quindi che il piccoli del gabbiano delle due specie nascano con un innato orientamento verso il bersaglio rosso che caratterizza il becco dell'individuo adulto. La correttezza di questa conclusione è confermata dal fatto che il neonato becca la macchia rossa disegnata sulla parte anteriore del modello della testa dell'adulto mentre ignora il becco lasciato totalmente bianco.
Nel complesso schema degli stimoli e dei movimenti fra genitore e neonato, il gabbiano adulto abbassa la testa e punta il becco verso il basso in direzione del piccolo. Nell'ambito di questo specifico comportamento è stato studiato quale sia il movimento del becco del genitore che agisce da stimolo ottimale per provocare le beccate del pulcino. Al neonato è stata presentata verticalmente e poi orizzontalmente un'asta rossa di vari spessori, in posizione statica e in movimento sia in senso verticale che orizzontale. É risultato che lo stimolo ottimale per ottenere la più alta percentuale di beccate è l'asta larga circa otto millimetri in posizione verticale, mossa in senso orizzontale alla velocità di 12 centimetri al secondo. Appare quindi che la preferenza verso la grandezza e il movimento del becco sia innata nel neonato del gabbiano: questa preferenza concorda con la grandezza media del becco (10,6 millimetri anteriore e 3,1 mm posteriore: media 8 mm) e con i movimenti naturali del capo dell'adulto (che tendo il becco verticale lo fa oscillare in senso orizzontale davanti al suo pulcino alla velocità di 14,5 centimetri al secondo).
Il neonato inesperto inizia il suo rapporto con il genitore beccando prevalentemente il bersaglio rosso del becco ma becca anche altre parti dell'individuo adulto che tra l'altro ha le zampe rosse. La ragione di questa preferenza è stata valutata stimolando la beccata del neonato inesperto verso l'asta rossa che è stata fatta perviene all'altezza del suo occhio, dall'alto e dal basso. La preferenza manifestata dai soggetti sottoposti a questo test è per l'asta che proviene dall'alto: anche questa preferenza appare innata e concorda con il comportamento naturale della testa del genitore quando abbassa il becco verso il piccolo.
I sopradescritti test sono stati effettuati nell'arco di una settimana con i pulcini dei gabbiani comune e reale, allevati dai propri genitori: i neonati all'inizio non facevano una netta distinzione fra i modelli delle due specie, ma successivamente, quanto più a lungo essi avevano vissuto nel nido, più forte risultava la loro risposta verso il modello del genitore e sempre più debole a quello del genitore dell'altra specie. Per analizzare se il cambiamento di percezione sia dovuto al condizionamento provocato dall'esperienza indotta dal genitore che gli dava il cibo, pulcini di gabbiano reale, nati in incubatrice, sono stati suddivisi in tre lotti. I pulcini del gabbiano del primo lotto hanno ricevuto un po' di cibo quando hanno dato un certo numero di beccate al modello del gabbiano comune. Quelli del secondo lotto hanno avuto un po' di cibo solo quando hanno dato un certo numero di beccate al modello della proprie specie. I pulcini del terzo lotto (di controllo) hanno avuto cibo senza beccare previamente alcun modello. Al termine del secondo giorno di allenamento, i pulcini dei tre lotti sono stati sottoposti al test di discriminazione dei modelli ed è risultato che ogni gruppo rispondeva maggiormente, al modello con cui era stato allenato. Questo risultato sembra dimostrare quindi che il neonato apprende progressivamente l'immagine mentale del genitore mentre quest'ultimo gli porge il cibo. In natura il piccolo sviluppa un'immagine mentale del genitore molto più specifica: infatti i piccoli di una settimana beccano solo modelli che somigliano strettamente al genitore.
È stato analizzato anche il quesito riguardante la capacita del neonato a riconoscere il cibo. Le esperienze hanno dimostrato che i piccoli possono imparare rapidamente ad identificare il cibo o almeno a riconoscere il luogo dove questo si trova. In natura, la covata del gabbiano è costituita da tre uova e la schiusa dei pulcini avviene ad intervalli di 12 ore. In questo modo quando il primo pulcino ha appena mangiato, nasce l'ultimo pulcino delle tre uova deposte. Quando quest'ultimo becca il becco del fratello più anziano, mentre questi sta mangiando, beccherà anche il cibo e se ne ingoia una parte e in questo modo apprende rapidamente a riconoscere il tipo di cibo idoneo alla sua alimentazione.
Se un gabbiano reale, appena nato in incubatrice, viene messo isolato in un contenitore, perde molto tempo ad individuare il cibo. Questo tempo si riduce se due neonati inesperti vengo messi insieme nella stesso contenitore. La presenza reciproca del compagno inesperto stimola ambedue a muoversi di più e quindi a trovare il cibo più rapidamente di quanto faccia un neonato isolato nel contenitore. Il tempo di ricerca si riduce ancora se un neonato inesperto viene messo insieme ad un pulcino esperto. In definitiva il pulcino del gabbiano, pur non conoscendo né il cibo né il luogo dove trovarlo, lo cerca istintivamente. Su questa base operano gli stimoli visivi - provenienti sia dal genitore (bersaglio rosso e movimento del becco) e sia dalla presenza competitiva dei fratelli - che operano a favore del rapido apprendimento gustativo del cibo oltre che della sua principale fonte alimentare.
Per concludere, durante il breve periodo critico che segue la schiusa dall'uovo, il nidiaceo del gabbiano apprende in modo irreversibile le modalità del linguaggio specie-specifico necessario per ottenere il cibo rigurgitato dai genitori. L'insieme del linguaggio stereotipato appreso subito dopo la schiusa, integra quindi la componente del comportamento alimentare innata (già presente) alla schiusa dei nidiacei del gabbiano.

2.1.5.3. Cooperazione e ordine sociale nei Mammiferi
In questa categoria sistematica si sono evoluti vari modelli di cooperazione sociale. Gli esempi qui di seguito riportati servono a tracciare una sintetica linea che connette la più semplice aggregazione di individui in un branco a quella più complessa in una società come quella variabilmente diversificata dell'uomo moderno.

2.1.5.3.1. La cooperazione conspecifica nei leoni
L'unità sociale dei leoni è il branco familiare e il suo nucleo permanente è formato da un gruppo 3-12 femmine adulte imparentare fra di loro. Il branco comprende inoltre almeno due maschi (ma il numero può variare da uno a sei), i cuccioli di varia età (si chiamano cuccioli, o leoncini, di età inferiore a due anni) e i leoni subadulti (di età compresa tra due e quattro anni). Ogni femmina nasce e si sviluppa entro questo gruppo sociale nel quale convivono sorelle, madri, nonne, e così via: all'età di circa tre anni una femmina subadulta può venir resa a tutti gli effetti membro del branco oppure venire scacciata (è più probabile che una leonessa divenga membro effettivo del branco quando il gruppo comprende relativamente poche femmine adulte). Una femmina che diviene membro del branco ha una vita più facile e più produttiva: partorisce infatti generalmente la sua prima cucciolata all'età di circa quattro anni e continua a riprodursi con regolarità una volta ogni due anni, prima di morire all'età media di 18 anni (una femmina di questo tipo ha quindi un periodo riproduttiva di circa 13 anni). Una leonessa espulsa diventa nomade, abbandona il territorio del branco e vaga in cerca di sostentamento. Pertanto vive meno a lungo e non si riproduce facilmente come le femmine residenti nel branco: le sue eventuali cucciolate sono numericamente piccole e i cuccioli hanno minori probabilità di sopravvivere.
Per maschi subadulti il corso normale degli avvenimenti ha un andamento del tutto diverso, poiché a circa tre anni abbandonano il branco in cui sono nati: partono in gruppetti (ciascuno dei quali comprende al massimo mezza dozzina d'individui) che stanno di solito uniti. A questa età i maschi subadulti sono già sessualmente attivi e si accoppiano con le femmine nomadi in fase di estro, cacciano da soli ma non disdegnano le carcasse di animali morti per varie cause. Dopo circa due anni di questa vita i subadulti raggiungono le dimensioni e i caratteri sessuali secondari del leone adulto. A questo stadio del ciclo vitale i giovani leoni "pretendenti al trono" sono strutturalmente e fisiologicamente pronti per scacciare i maschi adulti di un branco che di norma non è quello in cui essi sono cresciuti. Di conseguenza la struttura genetica del branco si fonda su un gruppo permanente di femmine imparentate e un gruppo più piccolo di maschi affini tra loro, ma non alle femmine a cui si sono aggregati. La durata del periodo in cui i maschi rimangono nel branco varia: in media passano due o tre anni prima che essi, a loro volta, vengano espulsi da un nuovo gruppo di maschi, più giovani, più robusti o semplicemente più numerosi. Le condizioni di vita per i maschi espulsi diventano obiettivamente difficili: non possono reinserirsi facilmente in un altro branco perché da soli dovrebbero competere una impari lotta contro altri giovani leoni dominanti e inoltre sono diventati meno efficienti nella caccia, perché abituati a dipendere dalle femmine per procurarsi il cibo.
Ogni branco occupa un territorio di alcuni chilometri di diametro da cui gli intrusi, specialmente se sono maschi, vengono allontanati. I confini del territorio non sono nettamente definiti (ad esempio nel Parco nazionale del Serengeti è stato osservato che la distanza massima fra due gruppi sociali è di 7-8 km - Bertram 1977): perciò vi possono essere alcune zone di sovrapposizione e altre di terra di nessuno. La maggior parte dei leoni maschi che collaborano con il maschio dominante nella difesa del territorio è costituita da affini (fratelli o cugini) allevati nella stessa crèche: altri maschi non parenti si possono aggregare alla «coalizione» e cooperano come gli affini nella difesa del territorio. Ne deriva che il successo riproduttivo di un leone maschio dipenderà direttamente da quanto la sua coalizione sarà idonea a contrastare la sfida di altri gruppi di maschi. I leoni maschi del branco mostrano dunque tutta la loro attitudine al lavoro in gruppo quando devono fronteggiare invasori conspecifici, i quali costituiscono la minaccia più seria al loro autointeresse comunitario. Di notte i maschi perlustrano il loro territorio, lanciando minacciosi avvertimenti sotto forma di sonori ruggiti: poiché sono molto aggressivi, più sono le fonti del ruggito maggiormente gli intrusi valutano il numero dei rivali che dovranno affrontare nell'eventuale scontro. È stato osservato che in alcuni casi le reazioni dei maschi dominanti rasentano il comportamento suicida: essi si dirigono verso il diffusore sonoro anche quando il rapporto tra il loro numero e quello dei leoni di cui si udiva il ruggito era di uno a tre. Nelle dispute di confine, quando le femmine devono difendere i territori di caccia e le fonti di acqua, seguono una strategia più prudente dei maschi: é stato dimostrato (con le registrazioni dei ruggiti) che le femmine tentano di respingere gruppi fittizi di femmine solo quando questi risultino inferiori al loro gruppo di almeno due unità. Le femmine sanno contare, e preferiscono un margine di sicurezza. I numeri sono una questione di vita o di morte. I branchi più numerosi dominano quelli più piccoli e le femmine attaccano e uccidono le loro concorrenti sconfinanti.

Oltre ai leoni che vivono in branchi in un dato territorio, vi sono esemplari nomadi (il 15% dell'intera popolazione di leoni), molti dei quali sono rappresentati dai i sopraddetti maschi subadulti in via di sviluppo morfofunzionale e i rimanenti sono leonesse espulse dal loro branco.
Le femmine di un branco, di norma, sono spesso in calore contemporaneamente [Nota 26.] e questa sincronia dell'estro comporta la nascita dei cuccioli all'incirca nel medesimo periodo (Bertram 1977). Nei branchi numerosi di solito è un solo maschio a generare l'intera cucciolata. Per gli altri maschi del branco a lui affini non è un grave problema se il maschio più prolifico è un fratello o un cugino, perchè con questa dinamica "riproduttiva per procura" viene garantito un popolamento del territorio con individui che recano i propri geni.
Tutte le leonesse del branco, sono altamente cooperative quando giunge il momento di allevare i piccoli: esse formano una crèche (nido d'infanzia) che è il centro sociale del branco, e rimangono in associazione pressoché costante per un anno e mezzo prima di riprodursi di nuovo. Packer e coll (1997) hanno riscontrato che a ogni piccolo è consentito poppare da tutte le madri del gruppo. L'allattamento comunitario è l'aspetto più importante dell'attitudine cooperativa del leone. Però, come la maggior parte delle cooperazioni tra leoni, questo comportamento non è così nobile come sembra. Rientrando dalle lunghe escursioni di caccia, le madri crollano di stanchezza e lasciano che i loro piccoli vengano allattati da altre femmine mentre esse dormono. Le leonesse di una crèche si cibano delle stesse prede e tornano dai loro piccoli nel gruppo (formato da sorelle,madri, figlie, altre ancora solo cugine). Alcune madri hanno un solo piccolo, altre ne hanno quattro, la maggior parte due o tre. Dal momento che tutte le femmine del branco producono approssimativamente la stessa quantità di latte, le madri che hanno un solo piccolo cedono una maggiore quantità del loro latte alla prole altrui. Queste femmine sono più generose quando il grado di parentela con le compagne di crèche è più stretto. Perciò la distribuzione del latte dipende in gran parte dalla sovrapproduzione e dalla consanguineità. [Nota 27.]. Di rado i leoni maschi dominanti si affezionano alla prole, ma i loro pattugliamenti territoriali garantiscono ai piccoli una buona protezione.
In passato si riteneva che le leonesse vivessero in gruppo per trarre beneficio dalla caccia cooperativa (le femmine cacciano più spesso dei maschi), ma Packer e coll (1997) hanno constatato che i gruppi di leonesse cacciatrici non si nutrono meglio delle femmine solitarie. In realtà i grossi gruppi finiscono per essere svantaggiosi, perché spesso i componenti rifiutano di cooperare alla cattura della preda e nella spartizione del cibo.
Quando una femmina incomincia a cacciare, le sue compagne valutano il tipo di preda. Infatti se una cacciatrice solitaria può bastare a se stessa a catturare la preda, come uno gnu o un facocero, le sue compagne di branco non collaborano perché potranno ottenere un pasto gratis, evitando uno spreco di energie e l'eventuale rischio di pericolose ferite. Se invece la preda è abbastanza grossa da sfamare l'intero branco, come un bufalo o una zebra, si attiva il meccanismo cooperativo della caccia di gruppo: quando il successo è certo, il vantaggio dell'assistenza del partner che ha iniziato la caccia, può decisamente superare i costi. Nel Serengeti, quando i leoni cacciano in gruppo, si sparpagliano su un ampio territorio: ciascuno di loro si avvicina furtivamente alla preda, che così viene circondata. Una preda che tenta di sfuggire a un leone può entrare nel raggio d'azione di un altro, dal quale può essere abbattuta. La caccia in cooperazione fornisce di solito buoni risultati rispetto alla caccia solitaria e le femmine svolgono il compito più importante, tanto che si può pensare che siano più abili dei maschi. Tutti i leoni che hanno partecipato alla caccia se ne cibano: tuttavia i maschi, essendo più robusti delle femmine, possono aver la meglio nella spartizione di qualsiasi preda (la femmina adulta pesa infatti circa 120 kg mentre il maschio può pesare circa 180 kg). Se la preda è nelle vicinanze, le madri vi conducono i piccoli; in caso contrario provvedono alla loro nutrizione con l'allattamento.
Quando in un territorio le prede sono veloci e vigorose allora la cooperazione nella caccia è una costante necessità: nel Etosha Pan, in Namibia, le leonesse sono specializzate nella cattura, su terreno aperto e pianeggiante, di una delle prede più veloci africane, l'antilope saltante. Da sola, una femmina non riuscirà a catturarla, per cui le leonesse adottano strategie di caccia comparabili alla tattica di una squadra di rugby, dove le ali e il centro si muovono in modo coordinato per circondare l'ovale. Questo lavoro di gruppo altamente specializzato si differenzia notevolmente da quello di caccia dei leoni del Serengeti (Packer et al. 1997).
I leoni maschi che si apprestano a cacciare i leoni dominanti di un branco, formano gruppi stabili con un massimo di otto individui, non tanto per spirito fraterno, ma piuttosto per massimalizzare le possibilità riproduttive. Quando la coalizione dei «padri» viene meno, i maschi subentranti tendono ad eliminare i piccoli figli del maschio dominante espulso perché sono smaniosi a produrre una nuova figliata. Le madri sono le vittime principali di questi conflitti e difendono strenuamente i piccoli dai nuovi arrivati. Ma i maschi hanno una taglia maggiore delle femmine di circa il 50 per cento, cosicché le madri, nel combattimento a corpo a corpo, hanno di solito la peggio. Pertanto solo l'alleanza tra femmine, offre qualche probabilità di successo: in molti casi le compagne di crèche riescono a difendere la loro prole: una femmina impiega infatti due anni per portare i suoi piccoli all'indipendenza (Packer et al. 1997).
In definitiva, nessun felino, come il leone forma bande che cooperano nella caccia e nella difesa della prole. Tuttavia la dinamica evolutiva dei leoni è caratterizzata da frequenti ritmi di ricambio dei maschi riproduttori del branco e dei relativi cicli riproduttivi delle femmine, fattori questi che favoriscono più un modello cooperativo che quello di ordine sociale di questi mammiferi.

2.1.5.3.2. L'organizzazione sociale dei licaoni
La vita sociale dei licaoni [Nota 28.] è molto avanzata e il loro comportamento viene considerato (Mainardi), per buona parte, omologo a quello dei lupi. Questi mammiferi africani sono animali erratici che non occupano territori stabili, per cui compiono i loro spostamenti in territori molto ampi. Soltanto dopo la nascita dei cuccioli, rimangono nella stessa zona fino a quando i giovani diventano idonei a seguire gli spostamenti degli adulti. Quando si costituisce una coppia, si forma una associazione abbastanza stabile nel tempo, e mantenuta attraverso una varietà di manifestazioni di coesione fra i due partner. Le femmine partoriscono tutte insieme, una volta all'anno, e fra loro vi é una forte tendenza all'allevamento comunitario, tanto che sono disponibili ad offrire indiscriminatamente il loro latte a tutti i cuccioli [Nota 29.]. Il sincronismo tra le nascite è di grande importanza per l'economia del gruppo: di norma le nascite avvengono durante la stagione delle piogge, quando nasce anche la maggior parte degli erbivori. Ciò fa sì che vi siano prede facili e abbondanti durante il periodo non solo di maggiore necessità alimentare, ma anche quando i predatori sono legati a una ben definita zona, dovendo giornalmente tornare per nutrire la nidiata e chi la cura.
I licaoni sono socialmente organizzati in una gerarchia maschile e in una femminile: nelle interazioni sociali ogni individuo assume sempre, qualunque sia il suo stato, un atteggiamento sottomesso ed estremamente cerimonioso. Lo stesso comportamento viene messo in atto anche quando due gruppi si incontrano. Malgrado le sopradescritte manifestazioni di altruismo, in certi casi femmine di alto stato sociale possono impedire ad altre femmine di riprodursi, usando mezzi come l'esclusione dal gruppo e addirittura l'infanticidio. Sembra insomma che l'investimento parentale della muta sia finalizzato a mantenere un numero ben definito di cuccioli, figli di una, due o rarissimamente tre femmine che sono state fecondate circa contemporaneamente.
Per i licaoni la socialità condivisa tra numerosi individui adulti è di fondamentale importanza non solo per la caccia ai grandi ungulati delle pianure africane ma anche per la difesa contro le bande di iene macchiate capaci di sferrare attacchi per sottrarre a loro la preda. Il rituale della caccia ha inizio con uno stato di eccitazione collettiva modulata da stimoli somatici e da segnali vocali: la muta quindi parte disponendosi in fila indiana dietro al licaone che ha individuato la preda. Il successo dell'attacco è basato sulla capacità dei cacciatori di mantenere per lungo tempo (anche per molti chilometri) il ritmo di fuga della preda: la velocità della fila dei licaoni è molto elevata, con accelerate, nei momenti più intensi, intorno ai 50-65 all'ora, senza mai perdere di vista la vittima prescelta. Quando l'erbivoro comincia a cedere sotto la pressione esercitata dagli inseguitori, la lunghissima fila diventa un trappola che consente di tagliare la strada e di circondare la vittima. Ogni membro allora s'attacca alla preda con il suo morso tenace e pochi minuti dopo essa è fatta a pezzi e divorata.
Terminata la caccia i licaoni tornano presso la tana ed esprimono un elevato comportamento altruistico nei riguardi di tutti i membri del branco che manifestano il comportamento di richiesta del cibo, anche quando la preda non è di grandi dimensioni. Il comportamento di richiesta viene attuato non solo dai giovani, ma parallelamente anche dalle femmine allattanti, da adulti lasciati di sentinella, se ce n'è, da individui feriti o malati che non hanno potuto partecipare alla caccia.
I cuccioli esprimono una speciale forma di comunicazione che ha la funzione di evocare, da parte degli adulti, il rigurgito del cibo (un comportamento simile a quello dei nidiacei dei gabbiani - vedi punto 2.1.5.5.2.). Per fare ciò, i cuccioli cinguettano sonoramente, strofinano con vigore il muso contro le labbra degli adulti, le leccano, talora introducono la testa tra le mascelle aperte. Dal punto di vista strettamente comunicativo, il comportamento di richiesta del cibo, originariamente infantile, non solo s'è evolutivamente esteso agli adulti, ma è anche all'origine di altre manifestazioni. Più o meno modificato viene messo in atto infatti nella cerimonia di avvio alla caccia, come segnale di saluto e infine come segnale di sottomissione.

2.1.5.3.3. Evoluzione ed organizzazione sociale degli Ominoidei
Le scimmie antropomorfe (Pongidae - dette antropoidi o scimmie prive di coda) e l'uomo appartengono all'ordine dei Primati, che comprende anche le scimmie e le proscimmie. Secondo il primatologo Begun (2003) all'interno dell'ordine vi sono le superfamiglie degli Strepsirrini e degli Aplorrini. All'interno degli Aplorrini vi sono le superfamiglie delle Platirrine (o scimmie del Nuovo Mondo) e delle Catarrine a loro volta distinte in Cercopitecoidei e Ominoidei. All'interno di quest'ultimi vi sono le famiglie degli Ilobatidi (siamanghi e gibboni) e degli Ominidi (orango, gorilla, scimpanzé, uomo e le specie estinte a loro affini).
Studi molecolari e biochimici hanno chiarito alcune delle affinità tra gli ominoidei. Gli ominoidei asiatici, rappresentati dall'orango, subirono probabilmente la divergenza dagli ominoidei africani circa 15 milioni di anni fa. Gli antropoidi africani (rappresentati oggi dal gorilla e dallo scimpanzé) sono biochimicamente molto simili tra loro e all'uomo: è probabile che la linea dell'uomo e la linea degli antropoidi africani cominciarono a divergere l'una dall'altra soltanto circa ~8 milioni di anni fa (Mitchell et al. 1992) e che l'uomo e lo scimpanzé si siano separati 5-7 milioni di anni fa (Wilson et al. 1992; Biondi et al. 2003). Recentemente il paleontologo Brunet[9a] , nel deserto del Diurab, nel Ciad settentrionale, ha riportato alla luce un piccolo cranio sorprendentemente completo: la scatola cranica è scimmiesca (con una capacità che non supera i 320-380 centimetri cubici), ma presenta la faccia piatta, i canini piccoli e la conformazione del forame occipitale compatibile con la stazione eretta. A questo fossile che presenta un insieme di caratteristiche morfologiche allo stesso tempo arcaiche e moderne - che lo avvicinano ai nostri antenati più recenti - è stato classificato come nuova specie Sahelanthropus tchadensis, con un età valutata intorno a 6-7 milioni di anni. Secondo Brunet[10], S. tchadensis potrebbe essere il primo antenato umano vicinissimo al punto di divergenza fra la linea evolutiva umana e quella del nostro parente più prossimo, lo scimpanzé (Wong 2003a).

Alcuni dei caratteri, che l'uomo condivide con gli altri primati [Nota 30.], si svilupparono presumibilmente negli ominoidei ancestrali durante il Miocene. Secondo Begun (2003), queste scimmie furono in gran parte dei «vicoli ciechi» evolutivi, e solo alcune specie mioceniche possono essere identificate come possibili antenati delle scimmie antropomorfe attuali e dell'uomo. Fra queste, la specie fossile Proconsul africanus (una scimmia antropomorfa primitiva del Miocene delle dimensioni di un babbuino - Pilbeam 1984), potrebbe essere stata l'ultimo antenato comune degli ominoidei viventi. Alla fine del Miocene medio (~ 13 milioni a.f.), vi sono prove della presenza di grandi scimmie antropomorfe in Eurasia [Nota 31.]: di particolare interesse sono rispettivamente i fossili Dryopithecus in Europa, e Sivapithecus in Asia. Molti studiosi considerano Sivapithecus un precursore dell'orango (che vive nel Borneo), e Dryopithecus rinvenuto in Ungheria (oppure Ouranopithecus rinvenuto in Grecia), l'antenato comune delle scimmie antropomorfe africane (gorilla e scimpanzé) e dell'uomo.
Questa recente documentazione mette in evidenza che, sebbene le forme più ancestrali di scimmie antropomorfe abbiano avuto origine in Africa, il clade (o unità tassonomica) degli ominidi nacque in Europa. Begun (2003) fonda questa tesi sulle seguenti considerazioni: premesso che l'Africa fu la culla delle prime scimmie antropomorfe (comparse oltre 20 milioni di anni fa), le oscillazioni del livello del mare fecero sì che l'Africa fosse a più riprese connessa e isolata dall'Eurasia. Fra 17 e 16,5 milioni di anni fa, un ponte di terraferma ha consentito la migrazione delle piccole scimmie antropomorfe (insieme ad altri mammiferi, fra cui elefanti, roditori, ungulati come suidi e antilopi) di migrare dall'Africa (A.orientale sec. Coppens 1985 e A. settentrionale _ Penisola Arabica sec. Begun 2003) in Eurasia. Nel corso dei successivi milioni di anni, le scimmie antropomorfe ancestrali (Proconsul africanus, fornisce una buona idea dell'anatomia e del tipo di locomozione di una scimmia antropomorfa primitiva - [Nota 32.]) si diffusero fino all'Europa occidentale e all'Estremo Oriente, e in questi ampi territori subtropicali, comparvero le «grandi scimmie antropomorfe». A causa del successivo innalzamento del livello del mare, le prime grandi scimmie antropomorfe euroasiatiche, rimaste isolate dall'Africa, si differenziarono ampiamente. Nel corso del Miocene medio (fine Miocene medio, circa 13 milioni di anni fa), le grandi scimmie antropomorfe prosperarono in Eurasia grazie alla presenza di fitte foreste subtropicali e alle temperature uniformemente elevate. Il cambiamento di ambiente è una delle forze motrici della formazione di nuove specie, e l'arrivo delle scimmie antropomorfe in Eurasia non fa eccezione. Quest'ultime, rapidamente si adattarono alle nuove condizioni ecologiche, diversificandosi moltissimo. Queste condizioni garantivano una disponibilità quasi costante di frutti maturi e di un ambiente arboreo, a più livelli, facilmente percorribile. I successivi drastici cambiamenti climatici avvenuti alla fine del Miocene portarono all'estinzione di buona parte delle grandi scimmie antropomorfe euroasiatiche. Le due linee evolutive sopravvissute, rappresentate da Sivapithecus e da Dryopithecus, riuscirono a superare la crisi migrando rispettivamente in Asia sudorientale e in Africa. Il progenitore eurasiatico delle scimmie antropomorfe africane e dell'uomo migrò verso sud in risposta all'inaridimento e al raffreddamento del suo ambiente, che portò alla sostituzione delle foreste con boschi radi e praterie. La flessibilità nell'adattamento è stata una costante nell'evoluzione delle scimmie antropomorfe africane e dell'uomo. Ciò fece sì che alcune di esse siano riuscite a superare indenni i drastici cambiamenti climatici della fine del Miocene e a tornare in Africa, all'incirca nove milioni di anni fa. Così, la linea evolutiva che diede origine alle scimmie antropomorfe africane e all'uomo era «preadattata» per affrontare i problemi di un ambiente mutevole. Non sorprende dunque che una di queste specie abbia finito per sviluppare un cervello molto grande e forme sofisticate di tecnologia (Begun 2003).
In conclusione, quanto sopradetto modifica quanto finora si è ritenuto sull'evoluzione africana degli ominoidei. I paleontologi ritenevano infatti che scimmie antropomorfe con capacità di masticazione avanzate avessero raggiunto l'Eurasia circa 15 milioni di anni fa, contemporaneamente alla loro comparsa in Africa, in accordo con la teoria che si fossero evolute in Africa per poi migrare verso nord. Le nuove testimonianze fossili, indicano però che le scimmie antropomorfe con mandibole robuste e grandi denti adatti alla triturazione si trovavano in Eurasia ben prima di allora. Infatti è stata recentemente descritta (da Begun e coll.) una scimmia antropomorfa di aspetto piuttosto moderno, Griphopithecus, rinvenuta in siti di 16,5 milioni di anni fa in Germania e in Turchia. In Africa si conoscono molti siti fossiliferi - datati fra 17 e 15milioni di anni fa - alcuni dei quali hanno fornito abbondanti resti di animali ma in nessuno di questi siti sono stati rinvenute ossa di scimmie antropomorfe [Nota 33.]: ciò fa ritenere che, contrariamente alla visione tradizionale, alcuni ominoidei abbiano iniziato a evolvere caratteri cranici e dentari moderni in Eurasia, per tornare in Africa come specie più avanzate solo dopo un nuovo abbassamento del livello dei mari (Begun 2003).

Per molto tempo si è ritenuto che tutte le scimmie, comprese quelle antropomorfe, fossero vegetariane e che l'uomo fosse l'unico primate capace di cacciare gli altri animali: in tal senso era stato suggerito che l'associazione di individui per la caccia e la successiva spartizione della preda fossero stati dei fattori chiave per la divergenza dei primi ominidi dagli altri primati che si trovavano sulla stessa linea evolutiva. Dopo osservazioni eseguite su tutte le specie di scimmie nel loro ambiente naturale, si può affermare con sicurezza che l'uomo non è l'unico primate che caccia e si nutre di carne. Molti altri primati infatti sono onnivori. Uno in particolare, lo scimpanzé, non solo si associa con i suoi simili per le battute di caccia, ma dopo aver catturato la preda la spartisce secondo un cerimoniale sociale ben organizzato (Teleki 1973). Queste osservazioni sono in linea con quelle sulla struttura del DNA dei primati: quest'ultime ricerche hanno messo in evidenza che gli scimpanzé, in particolare il bonobo (detto "scimpanzé pigmeo" - Waal 1995) e l'uomo condividono più del 98% del patrimonio genetico, ereditato da un antenato comune. In base all'analisi del DNA mitocondriale (mDNA: viene trasmesso solo per via materna), Wilson e Coll. (1992) hanno dimostrato che, nei confronti degli scimpanzé, l'orologio molecolare [Nota 34.] del DNA mitocondriale umano, ha proceduto a ritmo regolare per milioni di anni e che uomo e scimpanzé si sono separati evolutivamente cinque milioni di anni fa.
Allo stato attuale si sostiene (Leonard 2003) che i cambiamenti alimentari conseguenti all'innovativa postura bipede degli ominidi siano stati un importante fattore di diversificazione evolutiva rispetto a quella delle scimmie antropomorfe. Mentre si presume che l'ultimo antenato comune dell'uomo e del scimpanzé sia Sahelanthropus tchadensis (sec. Brunet[10]), vi sono evidenti le testimonianze fossili sulla locomozione bipede nei più antichi ominidi (Hay et al. 1982; Agnew et al. 1998) vissuti in Africa (Tanzania) circa 3,5-3,8 milioni di anni fa. A favorire selettivamente questo tipo di locomozione furono probabilmente diversi fattori concomitanti. Innanzitutto la locomozione bipede umana ha un costo energetico notevolmente inferiore rispetto a quella quadrupede di una scimmia antropomorfa che si muove sul terreno. È probabile che le differenze nella locomozione, bipede umana e quadrupede delle scimmie antropomorfe, siano la conseguenza del adattamento evolutivo delle scimmie antropomorfe e dei primi ominidi, a differenti condizioni territoriali. Scimpanzé, gorilla e orango si sono evoluti in dense foreste nelle quali basta spostarsi di uno o due chilometri in tutta una giornata per trovare cibo a sufficienza. Invece, l'evoluzione dei primi ominidi avvenne, in gran parte, in un ambiente di boschi aperti e praterie, dove era più difficile trovare sostentamento. Durante il Pliocene (fra 5 e 1,8 milioni di anni fa), questa rivoluzione morfofunzionale degli ominidi fu incentivata dal cambiamento climatico del continente africano diventato sempre più secco: pertanto le praterie si sono estese a spese delle foreste e le risorse alimentari distribuite in maniera sempre più discontinua. In questo contesto ambientale, il bipedismo può essere interpretato come una delle prime strategie evolutive dell'alimentazione umana, un tipo di locomozione capace di ridurre drasticamente il numero di calorie spese per raggiungere risorse alimentari sempre più disperse nel territorio. Poco tempo dopo l'affermazione della locomozione bipede, ebbe inizio l'aumento volumetrico del cervello umano. Oggi sappiamo che il corpo umano deve destinare una frazione cospicua dell'apporto energetico giornaliero al funzionamento del cervello [Nota 35]. Si ritiene (Leonard 2003) che l'aumento dimensionale del cervello non sia potuto avvenire fino a quando gli ominidi non adottarono una dieta sufficientemente ricca di calorie e di sostanze nutritive da soddisfare i relativi costi energetici. Nei primati, le specie con il cervello più grande si nutrono infatti di alimenti più ricchi, e l'uomo è l'esempio estremo di questa correlazione, in quanto ha il maggiore volume cerebrale relativo e la dieta più completa.
Nel loro insieme, questi caratteri fanno pensare che i più antichi membri del genere Homo consumassero meno vegetali e più cibi di origine animale. La diffusione delle praterie portò anche a un aumento dell'abbondanza di mammiferi erbivori come antilopi e gazzelle, creando nuove opportunità per gli ominidi che erano in grado di sfruttarle. Vi sono prove che Homo erectus vi riuscì e sviluppò la prima economia di caccia e raccolta, nella quale gli animali divennero una parte significativa della dieta e le risorse venivano condivise dai membri dello stesso gruppo Dopo la fase iniziale di accrescimento cerebrale, la dieta e l'aumento dimensionale del cervello probabilmente interagirono in maniera sinergica: un cervello più grande produceva un comportamento sociale più complesso, che portava a cambiamenti nelle tattiche di procacciamento del cibo e a un'alimentazione migliore, le quali a loro volta hanno favorito l'ulteriore evoluzione cerebrale (Leonard 2003).

2.1.5.3.3.1. L'organizzazione sociale delle scimmie antropomorfe
Riassumendo quanto sopradescritto, le scimmie antropomorfe arcaiche sono comparse in Africa 19-20 milioni di anni fa. All'inizio del Miocene, tra 17 e 16,5 milioni di anni fa, l'abbassamento del livello del mare permise alle scimmie antropomorfe ancestrali di attraversare il ponte di terraferma tra l'Africa e l'Eurasia e di invadere i territori di questo vasto continente. Alla fine del Miocene, gli avversi cambiamenti climatici su questo continente, hanno portato all'estinzione di massa di molte specie antropomorfe e alla migrazione di quelle sopravvissute in Asia sudorientale e nuovamente in Africa Le grandi scimmie antropomorfe sono rappresentate oggi rispettivamente dall'orango che vive nelle foreste del Borneo e di Sumatra, del Sud est asiatico, e dal gorilla, dallo scimpanzé comune e bonobo che vivono nelle foreste dell'Africa equatoriale. Qui di seguito viene proposto il confronto fra il tipo di vita prevalentemente solitaria dell'orango e quello sociale degli scimpanzé (comune e bonobo), il comportamento di quest'ultimi è modulato da "culture" trasmesse alla loro prole.

Orango
L'orango (Pongo pygmoeus) è perfettamente adattato alla vita arboricola: grazie alle lunghe braccia e alle mani forti e prensili, è abile nel dondolare passando da un albero all'altro, alla ricerca di frutti di cui si ciba. La popolazione maschile di orango è rappresentata da adulti, da adolescenti in fase di sviluppo, da adolescenti a crescita bloccata e immaturi. In natura i maschi adulti sono solitari e distribuiti su un vasto territorio che difendono accanitamente e che comprende i territori di molte femmine: una sorta di harem diffuso. Il maschio adulto dominante ha una mole corporea sorprendentemente superiore a quella della femmina [Nota 36.] ed esibisce evidenti caratteri sessuali secondari [Nota 37.] con la funzione di segnali visivi, atti a dichiarare alle femmine la fertilità e la fitness dell'individuo. I segnali della presenza del maschio adulto dominante nella foresta, sono le sostanze odorose che usa per marcare il territorio o le vocalizzazioni, che vengono udite anche a chilometri di distanza.
I maschi adolescenti in fase di sviluppo raggiungono la pubertà intorno ai 7-9 anni, poi trascorrono qualche anno in uno stadio subadulto, durante il quale mantengono più o meno le stesse dimensioni di una femmina matura (maschio adolescente a crescita bloccata) ed infine, intorno ai 12-14 anni possono raggiungere il loro sviluppo definitivo, manifestando i caratteri sessuali secondari (maschio adulto). I maschi adolescenti avvertono la presenza minacciosa di un maschio maturo nel loro territorio, e possono rimanere fermi nello sviluppo allo stadio subadulto, fino all'età di 20 anni. I maschi adolescenti non procedono nello sviluppo finché è presente un maschio maturo nel loro ambiente; ma quando il maschio dominante muore o viene allontanato, si ha la rapida trasformazione degli adolescenti in adulti. Questa sorta di regolazione sociale è una strategia adattativa di significato evolutivo: infatti i maschi che non hanno raggiunto lo sviluppo completo sono ugualmente in grado di fecondare le femmine, ma essendo piccoli e privi dei caratteri sessuali secondari, minimizzano la quantità di cibo di cui hanno bisogno e riducono il rischio di conflitto con i maschi adulti.
La strategia seguita dai maschi subadulti mantenuta a lungo termine appare "meno gravosa" di quella dei maschi dominanti. Infatti lo sviluppo di muscoli possenti e di vistosi caratteri sessuali secondari comporta alcuni gravi svantaggi: a) l'aumento della massa corporea richiede necessità metaboliche elevate e rende più impellente la ricerca del cibo: ne consegue che per una scimmia arboricola come l'orango, il notevole peso corporeo del maschio maturo limita l'accesso ai rami degli alberi e aumenta la difficoltà di ricerca quotidiana del cibo. I grossi maschi infatti preferiscono compiere gli spostamenti più importanti muovendosi sul terreno e fermarsi a lungo per far rifornimento di cibo, mentre le femmine e i maschi di piccola mole corporea, molto più agili, si muovono tra gli alberi e fanno diversi spuntini nel corso della giornata; b) il mantenimento dei caratteri sessuali secondari richiede elevati livelli di testosterone: lo sviluppo di questi caratteri rende il maschio più vistoso, sia per i predatori sia per altri maschi che vedono in questi caratteri una sfida: l'aggressività associata a questa strategia non è particolarmente vantaggiosa, non solo per i rischi che comporta la competizione tra maschi adulti e maschi adolescenti in fase di sviluppo ma anche perché gli alti livelli di testosterone hanno svariati effetti negativi sulla salute dell'adulto.
I maschi adolescenti in via di sviluppo hanno livelli di glucocorticoidi e di prolattina pari circa il doppio di quelli degli altri maschi adulti: gli elevati livelli di «ormoni dello stress» nelle urine dei maschi adolescenti, svelano all'analisi olfattiva del maschio adulto dominante che l'adolescente in fase di sviluppo è un futuro sfidante, e aggredirlo diventa il suo principale obiettivo.
I maschi adolescenti con arresto dello sviluppo presentano un livello di ormone follicolo-stimolante (FSH), che induce la maturazione dello sperma, uguale a quello degli adolescenti in fase di sviluppo e a quello degli adulti; inoltre hanno spermatozoi maturi e funzionali e i loro testicoli hanno le stesse dimensioni di quelli degli adolescenti in fase di sviluppo. La sensazione che un maschio a crescita bloccata trasmette a un maschio adulto è l'assenza di minaccia o di provocazione, perché quest'ultimo lo percepisce come immaturo. Questi maschi sono così poco appariscenti da poter godere di una certa esenzione dagli stress sociali. Inoltre il «basso profilo» di questi animali può effettivamente dar loro un vantaggio competitivo in fatto di riproduzione. Studi sulle popolazioni di orango in cattività hanno dimostrato che i maschi con arresto dello sviluppo si accoppiano e che questi accoppiamenti sono fecondi: sull'isola di Sumatra gli adolescenti a sviluppo bloccato costituiscono circa la metà dei padri. Poiché la maggior parte delle femmine adulte dell'orango è sessualmente ricettiva solo per i maschi maturi, si è posto il problema come i maschi a crescita bloccata riescano ad accoppiarsi con le femmine adulte. Osservazioni su popolazioni in natura e in cattività hanno messo in luce che i maschi a crescita bloccata effettuano una copulazione forzata (stupro).
Dunque i maschi adolescenti dell'orango sembrano avere evoluto due strategie riproduttive. Se non vi sono maschi maturi nei dintorni, gli adolescenti tendono a svilupparsi rapidamente nella speranza di attirare l'attenzione delle femmine. Quando sono presenti maschi adulti, la strategia dell'arresto dello sviluppo ha i suoi vantaggi. Come sopraddetto, se l'ambiente sociale cambia perché il maschio dominante muore o migra, i maschi a crescita bloccata sviluppano rapidamente i caratteri sessuali secondari e cambiano i loro modelli di comportamento (Maggiocalda et al. 2002).
In definitiva, si può affermare che gli orango, di regola, conducono una vita indipendente e soltanto le madri tengono per un notevole periodo con sé i piccoli: nell'isola di Sumatra è stato osservato un accenno di vita sociale perché diversi individui, differenti per età e sesso, percorrono gli stessi tratti di foresta e hanno occasione di trovarsi più facilmente a contatto. Si tratta di comunità relativamente fittizie che però si dimostrano notevolmente pacifiche nonostante il fatto che i maschi più maturi cerchino di stabilire la propria supremazia sociale e affermino il proprio rango con un discreto vigore soprattutto delle loro vocalizzazioni. Si ritiene (Giordano et al. 1979) che il tipo di organizzazione sociale estremamente primitiva degli orango sia un modello di base per comprendere tutte le altre varianti e i perfezionamenti della vita di gruppo delle altre antropomorfe.

Scimpanzé
Gli scimpanzé possono essere considerati le scimmie più prossime al gruppo ancestrale da cui si sono andate evolvendo da un lato le specie appartenenti gli Antropoidi, dall'altro quelle appartenenti agli Ominidi. Secondo Begun (2003), l'ultimo antenato comune dello scimpanzé e dell'uomo, era un primate simile a uno scimpanzé, che camminava sulle nocche, mangiava frutti e abitava le foreste. E inoltre usava utensili, cacciava e viveva in gruppi sociali complessi e dinamici. Secondo Brunet[10] il fossile rinvenuto nel deserto del Diurab, potrebbe essere il primo antenato vicinissimo al punto di divergenza delle linee dell'uomo e dei scimpanzé. Attualmente si conoscono due specie distinte di scimpanzé, Pan troglodytes o scimpanzé comune e Pan paniscus detto scimpanzé nano o bonobo [Nota 38.]. Ambedue specie sono africane e sono state oggetto di vari studi nei loro ambienti naturali [Nota 39.].

Lo scimpanzé comune è un animale di dimensioni notevoli [Nota 40.], mentre il bonobo ha una corporatura più gracile [Nota 41.] (Giordano et al. 1979; Waal 1995). Sulla base dell'esame comparativo del DNA mitocondriale, la separazione fra la nostra linea evolutiva e quella degli scimpanzé sarebbe avvenuta cinque milioni di anni fa (Wilson e Coll. 1992). Secondo Coppens (1994), la successiva divergenza tra la linea dello scimpanzé comune e quella dello scimpanzé bonobo sarebbe avvenuta molto più tardi probabilmente sollecitata dalla necessità dello scimpanzé comune di adattarsi ad habitat aridi e relativamente aperti. Si ritiene invece che i bonobo non abbiano mai rinunciato alla protezione offerta dalla vegetazione della foresta e conseguentemente avrebbero subito una trasformazione minore di quella dello scimpanzé. L'anatomia del bonobo è infatti meno specializzata di quella dello scimpanzé, ed è stata avanzata l'ipotesi (Coolidge)[11] che il bonobo sia il più simile all'antenato comune sia allo scimpanzé che all'uomo: la prova che il bonobo sia un nostro "parente prossimo", lo conferma il fatto che condivide con l'uomo più del 98 per cento del patrimonio genetico. Le proporzioni corporee del bonobo sono state paragonate a quelle degli australopiteci (ominidi bipedi preumani - Coppens 1985): è appena il caso di accennare che i bonobo quando stanno in posizione eretta, appoggiandosi solo sugli arti posteriori, richiamano le raffigurazioni dei primi ominidi (Waal 1995).

A) Scimpanzé comune
La struttura sociale degli scimpanzé è basata su un'organizzazione del tipo fusione-scissione, un adattamento che permette all'individuo di mantenere legami sociali senza sacrificare la propria efficienza nel procacciarsi il cibo. Nishida[12], dopo anni di studi sugli spostamenti degli scimpanzé che vivono sulle Mahale Mountains, ha riferito per la prima volta che queste scimmie antropomorfe formano grandi comunità: tutti i membri di una comunità si mescolano liberamente in gruppi continuamente mutevoli. La Goodall[13], in merito alla difesa della territorialità, ha osservato che non solo le comunità non si mescolano, ma i maschi di differenti comunità di scimpanzé si affrontano in battaglie mortali (Waal 1995).
La forma di aggregazione basata sul modello dinamico della fusione-scissione, prevede una considerevole plasticità sociale dei gruppi di scimpanzé. Da osservazioni dirette sul territorio delle comunità, risulta che in generale, i gruppi di scimpanzé per potersi alimentare bene devono essere di piccole dimensioni. Di conseguenza, nei periodi di carestia la scissione riduce la competizione nel gruppo sociale: gli scimpanzé adulti possono staccarsi dal gruppo per andare in cerca di cibo per conto proprio oppure con un altro gruppo. Nei periodi di sovrabbondanza si capovolge la situazione, perchè la fusione sostituisce la scissione: è stato osservato che in questi periodi positivi, gli scimpanzé si riuniscono in gruppi di dimensioni relativamente grandi per mangiare, spostarsi e socializzare.
Ogni comunità occupa un territorio, entro il quale gli scimpanzé adulti sono costantemente in movimento, in cerca di alberi con frutti e di altre fonti di cibo (Ghiglieri 1985). Le comunità comprendono di solito circa 15 femmine adulte e un numero quasi uguale di maschi. All'interno di una comunità, vige una differente dinamica sociale tra il gruppo dei maschi adulti strettamente imparentati e il gruppo di femmine adulte derivate da famiglie diverse. Quest'ultimo aspetto è dipendente dall'esogamia praticata dalle giovani femmine che raggiungono la maturità sessuale: per evitare l'incrocio con i consanguinei, la femmina abbandona la comunità originaria ed emigra nel territorio di una nuova comunità per accoppiarsi con maschi non consanguinei. Dal momento che partorisce, la femmina deve rimanere rigorosamente all'interno di questo territorio, altrimenti i maschi estranei che pattugliano il confine, potrebbero uccidergli il figlio, probabilmente perché quest'ultimo, a suo tempo, entrerebbe in competizione nella fruizione delle scarse risorse alimentari con i figli della loro comunità (Ghiglieri 1985).
Le femmine entrate come "straniere" provenienti da un altro territorio, e che sono riuscite a riprodursi, devono - insieme alla loro prole - delimitare la loro area vitale all'interno dei confini della nuova comunità di maschi. All'interno di quest'ultima. la femmina tende a socializzare solo con un sottogruppo di altre femmine: tra l'altro, alcune di queste possono provenire dalla medesima comunità e perciò possono essere geneticamente affini a essa. Il comportamento delle femmine lascia ritenere che anche fra esse esiste una gerarchia indipendente da quella esercitata dal maschio dominante (Teleki 1973). Le femmine preferiscono spostarsi in comitiva e, in alcuni casi, respingono collettivamente le femmine estranee che tentano di penetrare nella loro area vitale: in questo comportamento è implicita un'identità comunitaria delle femmine. Quest'ultime tuttavia sono controllate da una coalizione di maschi anziché da un padrone solitario (Teleki 1973; Ghiglieri 1985). In base a queste osservazioni, si rafforza l'idea che nell'organizzazione sociale degli scimpanzé vi sia una comunità femminile distinta, sovrapposta a quella maschile.
In definitiva, l'esogamia femminile produce una divisione genetica tra maschi e femmine della comunità: i maschi sono affini tra loro dal punto di vista genetico, mentre le femmine possono non essere affini tra loro. La divisione tra maschi strettamente imparentati tra loro e femmine della stessa comunità si estende a ogni aspetto della vita. I maschi tendono a scegliere altri maschi come compagni di escursione e come compagni nelle lunghe sedute, dedicate alla pulizia, che spesso fanno seguito alle attività mattutine di ricerca di cibo; per gli stessi compiti le femmine scelgono altre femmine. Maschi e femmine hanno anche modelli diversi di attività giornaliera (Ghiglieri 1985).
I maschi della comunità sono tutti uniti da una stretta affinità genetica perché discesi dallo stesso ceppo di «patriarchi»: trascorrono l'intera esistenza nel territorio in cui sono nati e sono quindi legati dal reciproco interesse di difendere il territorio comune; quando diventano adulti, entrano a far parte del collettivo maschile che pattuglia i confini territoriali e procrea la generazione successiva.
Il maschio alfa è il maschio dominante ma non è il padrone assoluto della comunità ed é probabilmente per questo motivo che il suo rango sociale non è segnalato da nessuna particolarità dell'aspetto esteriore. Al maschio dominante spetta l'iniziativa della protezione del gruppo contro i nemici e della difesa territoriale: il suo ruolo viene ricompensato da certi privilegi, quali una dose più frequente di 'grooming', la possibilità di essere il primo a scegliere i frutti migliori di un albero e così via. Un maschio rimane dominante solo per un periodo di qualche anno: in questo modo, senza ricorrere a lotte, ogni maschio ha la possibilità di assumere la guida del gruppo (Giordano et al. 1979).
Le femmine segnalano la propria condizione sessuale per mezzo di stimoli visivi e olfattivi. Al culmine dell'estro mensile si verifica la trasformazione dell'area genitale. È in tale periodo che di regola il maschio dominante chiama, per così dire a sé, la femmina con un'esibizione di tipo aggressivo: il maschio alfa sollecita la femmina con sguardi fissi e con il violento agitare di rami e fronde. Con questo comportamento il maschio invita chiaramente la femmina ad accettare l'accoppiamento. Di solito basta questa esibizione per convincere la femmina ad accettare l'accoppiamento, sebbene siano stati osservati casi di netto rifiuto. Dato che più maschi sono contemporaneamente interessati alla riproduzione, il maschio alfa è quello che ha più successo nel catturare con la forza la femmina in estro allo scopo di accoppiarsi con lei, escludendo del tutto i rivali. Se una femmina in estro si offre ad un maschio subordinato, il maschio dominante di rado interviene per impedire il loro accoppiamento. La femmina tende ad accoppiarsi con più maschi anche se la maggior parte di questi rapporti hanno più che altro un significato sociale e non sessuale, tanto è vero che nonostante il fatto che l'accoppiamento avvenga soltanto quando la femmina è ricettiva, il più delle volte non si verificano gravidanze. Da osservazioni fatte sugli scimpanzé della regione del fiume Gombe, in Tanzania, una femmina in calore diventa gravida solo quando si allontana con un maschio dal gruppo: in questo caso si forma una coppia temporanea che con il reiterato accoppiamento della femmina con lo stesso maschio, consegue la gravidanza (Giordano et al. 1979).

Gli scimpanzé che vivono all'interno della comunità manifestano esibizioni stereotipate e atteggiamenti aggressivi molto controllati in modo da ottenere una facile, incruenta e di solito rapida conclusione di qualunque disputa. Inoltre gli scontri vengono ridotti al minimo anche perchè i rapporti di dominanza rimangono abbastanza stabili, almeno per un certo periodo: pertanto in questo sistema sociale si è evoluto un elaborato cerimoniale di saluti, gesti di sottomissione e rincuoramento (Giordano et al. 1979; Ghiglieri 1985). Si ritiene che questo comportamento accondiscendente venga modulato dalla stretta affinità genetica dei maschi adulti all'interno di ciascuna comunità: infatti due maschi adulti hanno in comune almeno alcuni, se non molti geni. Quindi se uno dei due maschi si riproduce, vengono duplicati nella successiva generazione anche alcuni geni dell'altro maschio. Il grado di questo successo «vicariante» della dinamica riproduttiva per procura (simile a quella attuato dai leoni maschi affini al maschi dominante - Punto 2.1.5.3.1.), dipende dall'ampiezza della sovrapposizione genetica (i due maschi possono essere rispettivamente fratelli, cugini, etc.): quanto più numerosi sono i geni che il maschio rinunciatario condivide con il maschio che si riproduce, tanto più elevato sarà tale successo. Queste considerazioni giustificano il comportamento non competitivo tra maschi scimpanzé, malgrado la rarità delle occasioni che ciascuno abbia per riprodursi. Infatti una femmina adulta normale è sessualmente recettiva solo per alcune settimane ogni cinque anni e tenendo conto del sopradetto equilibrio numerico fra dei sessi della comunità, risulta che in media, ogni anno vi sono circa tre femmine recettive e quindi solo tre maschi riescono a procreare (Ghiglieri 1985).

La cooperazione tra maschi, legati da affinità genetica, nella «difesa del territorio» è uno dei fondamenti della comunità. La vigilanza dell'area vitale è affidata a bande di maschi che pattugliano i confini del territorio soprattutto nei periodi di carestia alimentare. Questa attività assume insoliti aspetti di ferocia per infanticidi e per uccisioni di maschi appartenenti a piccole comunità confinanti. Il comportamento cooperativo tra maschi di scimpanzé si basano su segnali vocali (noti come urla ansimanti). Questi suoni comprendono stridii stereotipati, grida, gemiti e ruggiti, che possono diffondersi attraverso la foresta pluviale ed essere sentiti a distanza di due chilometri. Possono essere prodotti da un individuo solitario o da un gruppo in coro. Gli scimpanzé emettono questi segnali vocali per lo più mentre si spostano, mentre si avvicinavano a una fonte di cibo, mentre osservavano altri scimpanzé che si avvicinavano o mentre rispondevano ai richiami di un altro gruppo. Più della metà di tutti i richiami registrati fanno parte di uno scambio di comunicazioni con altri scimpanzé. Marler e Hobbett[14] dopo aver registrato i loro richiami e analizzato i sonogrammi, hanno trovato in ciascun richiamo sufficienti tratti caratteristici da permettere il riconoscimento di ogni singolo individuo che li aveva emessi. Perciò, quando un gruppo emette richiami attraverso la foresta pluviale, questi potrebbero comunicare l'identità dei vari membri del gruppo, assieme al numero degli individui e alla loro localizzazione (Ghiglieri 1985).

Veri aspetti cooperativi riguardano il coinvolgimento dei maschi, legati da affinità genetica, nella «ricerca delle risorse alimentari». In genere gli scimpanzé in cerca di cibo si spostano in gruppetti relativamente piccoli (3-4 individui), ma sono stati osservati anche individui solitari come pure grandi associazioni, comprendenti fino a 24 individui, alla ricerca giornaliera di cibo (Ghiglieri 1985). In un precedente e dettagliato studio in effettuato in una piantagione al limite di una foresta nella parte orientale del Zaire (già Congo Belga), Kortlandt (1962) aveva osservato che gli scimpanzé passavano la maggior parte del tempo nella foresta di una vicina collina: ma quando un gruppo di scimpanzé partiva la «ricerca delle risorse alimentari», erano i maschi adulti i primi ad apparire ai limiti della foresta, sempre preceduti dalle loro grida, di intensità crescente a mano a mano che si avvicinavano. Quando erano in prossimità dello spazio aperto si facevano silenziosi e facevano un prudentemente capolino tra il fogliame. Quindi, uno alla volta, i maschi uscivano da dietro gli alberi, non prima però di essersi fermati ad ascoltare e osservare attentamente intorno a sé. Il più delle volte almeno uno di loro, per avere una migliore visione dell'ambiente circostante, muoveva i primi passi all'aperto in posizione eretta. Assicuratisi di non essere in pericolo, i maschi più imponenti esibivano una serie di comportamenti che producevano un effetto assordante. Le femmine, invece, e particolarmente le madri, erano quasi sempre silenziose, circospette e timide. La prudenza appariva la caratteristica principale del comportamento materno, infatti quando madre e piccolo erano intenti a mangiare, essi si spostavano sempre al limitare della foresta, pronti a rifugiarvisi in caso di pericolo. Perfino i giovani scimpanzé ormai prossimi alla pubertà (cioè a otto o nove anni di età) erano costantemente tenuti sott'occhio. Kortlandt (1962) ha osservato che nonostante l'attenta sorveglianza esercitata dagli adulti, i piccoli scimpanzé godevano di tutta la libertà a loro concessa, ma anche che obbedivano alla madre senza esitazioni: la consapevolezza dei pericoli nascosti nella vicina foresta li rendeva particolarmente attenti.
Ghiglieri (1985) ha osservato che la consistenza numerica del gruppo che va alla ricerca di frutta è proporzionale al volume della chioma (la parte dell'albero, di forma arrotondata, definita dal fogliame e dai frutti) dei rispettivi alberi. I grandi alberi, carichi di maggiori quantità di frutti, attirano un numero maggiore di scimpanzé, i quali si soffermano più a lungo rispetto al tempo che dedicano agli alberi più piccoli. La funzione più interessante dei segnali vocali è quella di avvertire altri membri della comunità della presenza di frutti. Ghiglieri (1985) ha osservato che circa un quarto delle volte in cui un gruppo è arrivato a un grande albero con frutti, uno o più maschi ha emesso urla del genere. I richiami talvolta hanno raggiunto un frastuono impressionante, per almeno dieci minuti. Dopo molteplici richiami, altri scimpanzé sono apparsi accanto all'albero e hanno iniziato a raccogliere frutti: gli arrivi sono diventati più frequenti, in misura significativa, se i maschi del primo gruppo hanno emesso urla ansimanti non appena avevano scoperto i frutti. Questi segnali vocali hanno attirato scimpanzé di entrambi i sessi, che hanno condiviso i frutti con gli scopritori. Gli scimpanzé hanno un eccellente senso delle relazioni spaziali e la loro acuta memoria nei riguardi di tali relazioni per la ricerca del cibo. Wrangham[15] è giunto alla conclusione che gli scimpanzé sono «esperti in botanica»: possono infatti distinguere una specie di pianta in frutto fra tutte le piante che la circondavano e poi andare in cerca di ogni pianta di quella specie per procurarsi frutti maturi.
Gli scimpanzé sono certo più abili di tutte le altre scimmie e di altri animali frugivori della foresta, nello scovare i frutti in natura. Inoltre, si spostano sul terreno e questo metodo di locomozione è più efficace dell'arrampicarsi faticosamente sui rami della volta forestale. Grazie alla maggior mobilità, gli scimpanzé percorrono un'area molto più estesa in cerca di cibo rispetto alle altre scimmie. Anche la flessibilità della loro società, con l'organizzazione di tipo fusione-scissione, è fondamentale per il successo nella competizione e nella fruizione delle risorse alimentari nel territorio controllato dalla comunità. Un solo albero con frutti non potrebbe fornire cibo a sufficienza per l'intera comunità; ma neppure un gruppo di alberi può in genere soddisfare l'appetito dell'intera comunità. A mano a mano che aumenta l'entità numerica della pattuglia, cresce il numero di piante che debbono essere visitate per soddisfare l'appetito di tutti i membri. È per questa ragione che gli scimpanzé in cerca di cibo si spostano in gruppetti relativamente piccoli (Ghiglieri 1985).
Hamilton[16] ha definito come «idoneità complessiva» il comportamento cooperativo dei maschi scimpanzé sia nell'alimentazione sia nella riproduzione. Il richiamo che i maschi emettono quando s'imbattono in un albero con frutti attrae altri maschi della stessa banda. Se i nuovi arrivati sono altri maschi o femmine immature, probabilmente sono geneticamente affini a chi ha emesso il richiamo. Perciò ogni miglioramento che essi conseguono, nelle condizioni alimentari e nelle possibilità di riprodursi, è condiviso anche dallo scimpanzé che ha emesso il richiamo come incremento della sua idoneità complessiva. Se la quantità di cibo sull'albero è esigua, l'idoneità complessiva del maschio scopritore diminuirà se non potrà nutrirsi a sufficienza dopo l'arrivo degli altri scimpanzé. In questo caso i maschi degli scimpanzé non emettono quasi mai i caratteristici richiami davanti a un albero piccolo. Pertanto la cooperazione tra i membri di una comunità di scimpanzé non si basa, in effetti, sull'altruismo, ma su una «forma complessa di interesse per se stessi» (Ghiglieri 1985).

Specifici modelli di cooperazione tra maschi sono stati osservati nelle attività di «caccia e spartizione della preda nella comunità». (1960-1969)[17] dopo una lunga analisi del comportamento degli scimpanzé in natura ha potuto affermare con sicurezza che queste scimmie antropomorfe sono onnivore: infatti la loro dieta comprendeva, oltre alla cospiqua base vegetale, anche insetti, lucertole, uova di uccelli e uccellini, giovani antilopi, scimmie azzurre, scimmie dalla coda rossa, colobi e babbuini. Teleki (1985) ha precisato inoltre che gli scimpanzé tendono a catturare le prede di dimensione limite di 10 chili.
Si notano notevoli differenze nelle abitudini tra gli scimpanzé che vivono nelle zone di foresta più fitta e quelli che invece abitano contrade più aperte e più aride. Gli scimpanzé di foresta si nutrono facilmente di frutti e di altre sostanze vegetali integrando la propria dieta con alimenti di origine animale soltanto attraverso la cattura di invertebrati, soprattutto insetti. Tra gli scimpanzé della zona del fiume Gombe, invece, è stata constatata una notevole frequenza di uccisioni a scopo alimentare a carico di diversi animali (Giordano et al. 1979). La preda più frequente è il babbuino, soprattutto individui molto giovani o appena nati. L'atteggiamento dei babbuini nei confronti degli scimpanzé che cercano di catturarli sembra alquanto ambivalente. Il fatto di avere in comune percorsi e zone foraggere, la mutua comprensione di diversi segnali e l'abitudine al gioco in comune degli individui giovani, deve aver creato una ridotta risposta aggressività dei babbuini nei confronti degli scimpanzé nel Parco di Gombe. Generalmente gruppi di giovani scimpanzé e di babbuini giocano tra loro e gli adulti si comportano in maniera molto amichevole spulciandosi reciprocamente. Teleki (1973), in due occasioni ha visto uno scimpanzé maschio adulto inseguire e catturare un giovane babbuino che fino a pochi istanti prima aveva giocato insieme ai giovani scimpanzé sotto lo sguardo benevolo delle femmine delle due specie sedute a breve distanza. In altra occasione simile ha osservato che numerosi babbuini adulti hanno cercato di allontanare l'aggressore senza mai tentare di ferirlo in maniera grave. Questo particolare tipo di comportamento tra babbuini e scimpanzé potrebbe essere anormale e avvenire solo a Gombe: è noto che in altre località dell'Africa, i babbuini adulti difendono la prole anche dai grandi carnivori, riuscendo a ferire gravemente persino i leopardi (Teleki 1973).
La caccia dei scimpanzé è una prevalente attività dei maschi adulti [Nota 42.]: possono cacciare da soli oppure associati con uno o più (2-5) compagni. Il singolo scimpanzé di solito approfitta di qualche occasione fortuita per fare un balzo improvviso e catturare la preda, ovvero uccide tutte le volte che gli si presenta una preda che non ha la possibilità di fuggire (come un uccellino incapace di volare o un'antilope appena nata). In altre situazioni sembra che lo scimpanzé scelga la vittima e prepari l'attacco con due metodi che richiedano un controllo e una premeditazione di gran lunga superiori al più semplice tipo di caccia precedentemente descritto. Nel primo caso lo scimpanzé che ha previamente individuato la vittima effettua un vero e proprio inseguimento quando la distanza che lo separa dalla preda è di almeno 100 metri. Nel secondo caso lo scimpanzé adotta un prudente e lungo appostamento che può durare anche più di un'ora. In ambedue casi sembra che lo scimpanzé debba far uso di una vera e propria strategia per isolare e mettere nell'impossibilità di fuggire la preda. Nella caccia di gruppo, gli scimpanzé, che sono generalmente rumorosi, diventano silenziosissimi. Durante l'inseguimento della preda non comunicano a voce ma sono coordinati nei movimenti: il ruolo principale non è esclusivo di un individuo, ma, indipendentemente dal rango sociale, ciascuno assume il ruolo più importante secondo le circostanze. Quando uno dei scimpanzé è giunto a meno di un metro dalla preda, spicca un grande balzo e seguito anche dagli altri inseguitori che balzano sulla vittima. In questo momento il silenzio viene rotto da un altissimo grido che raggiunge gli altri scimpanzé del branco, anche se si trovano a più di due chilometri di distanza (Teleki 1973).
Se la preda è stata catturata da un solo scimpanzé, questo la uccide rapidamente. Per un breve periodo di tempo, dopo l'uccisione la carcassa appartiene a tutti: se altri scimpanzé che non l'hanno uccisa riescono ad afferrarne una parte, possono portarsela via senza correre il rischio di recriminazioni da parte di chi per primo l'ha catturata. Il cacciatore diviene indiscusso proprietario della preda o di una sua parte se riesce a tenerla per sé per alcuni minuti e si allontana dal luogo dell'uccisione. Gli scimpanzé che giungono troppo tardi sul luogo dell'uccisione non possono più appropriarsi di una parte di preda. Quando invece la preda è stata uccisa da più inseguitori, avviene una prima spartizione che non dura più di 5 minuti, in quanto ogni cacciatore strappa verso di sé la parte afferrata: si spartiscono tra loro le porzioni migliori e quindi si allontanano portandosi dietro il proprio pezzo per una decina di metri. Tutti gli scimpanzé che non hanno diritto di partecipare alla prima divisione si radunano intorno a ciascuno dei possessori formando un gruppetto di «questuanti». La formazione di questi gruppetti dà inizio all'ultima, e più importante, dal punto di vista sociale, fase della caccia: la «consumazione della preda» (Teleki 1973).
Quando gli scimpanzé spartiscono la carne, non mostrano alcuna competitività tra loro e sembrano generalmente rilassati. La preda viene mangiata con molta calma e senza dubbio assai gustata: è raro un atteggiamento ostile tra gli scimpanzé che hanno la carne e quelli che ne sono privi. Il rango sociale elevato non é una garanzia di successo tra i richiedenti: se chi ha la carne è uno scimpanzé di basso rango, chi gli chiede la carne deve farlo con lo stesso repertorio di gesti e non può imporsi aggressivamente anche se il suo rango sociale è superiore. Il possessore della carne stacca una porzione e la offre con la mano distesa al richiedente. Il rifiuto alla richiesta viene dimostrato ignorando semplicemente il richiedente, voltandosi da un'altra parte, allontanando un poco la carne, spostandosi in un luogo meno accessibile respingendo decisamente il questuante e anche mediante suoni o gesti (Teleki 1973).
Gli scimpanzé che formano il gruppo di «questuanti» usano tre metodi per ottenere la carne. Il più semplice è quello di aspettare i pezzi che cadono o vengono scartati. Questo sistema è adottato dagli scimpanzé giovani o dalle femmine che preferiscono non affrontare direttamente il possessore. Il secondo metodo consiste nel prendere un pezzo di carne o nell'addentare tranquillamente quella del legittimo proprietario. Questo approccio diretto viene usato dai figli nei confronti della madre. Anche i maschi tollerano questo tipo di comportamento preferibilmente da parte di un fratello o di una femmina se è sessualmente recettiva. Un terzo tipo di richiesta prevede specifici schemi di comportamento: il richiedente può avvicinarsi al possessore e guardare fissamente lui o la carne, oppure può allungare una mano e toccargli il mento o le labbra o la carne stessa. Il richiedente può accompagnare questi gesti con un breve lamento. Questo repertorio di gesti viene usato da scimpanzé di qualunque età e sesso (Teleki 1973).
Quando un singolo scimpanzé smembra tutta la sua preda, incomincia sempre col togliere e quindi mangiare le viscere. Successivamente viene aperta e svuotata la gabbia toracica. Gli arti della preda vengono consumati più tardi. Il cervello può essere mangiato per primo o per ultimo: lo scimpanzé estrae il cervello scavando con un dito entro il foro occipitale o rompendo coi denti le ossa della fronte e quindi aspirando la materia cerebrale fino a ripulire completamente la cavità cranica. Il gruppo di scimpanzé che partecipa alla cerimonia della spartizione, non si separa fino a che la carcassa dell'animale non è stata completamente divorata. Lo scimpanzé possessore della testa della preda, quando mangia il cervello, mastica anche alcune foglie che scarta dopo alcuni minuti e spesso le "dona" a qualche altro scimpanzé del gruppo. Le foglie masticate vengono cedute ad altri 2 o 3 scimpanzé prima di venire definitivamente buttate via: in questo modo anche il cervello, sebbene indirettamente, viene distribuito fra i questuanti. Di solito un maschio dopo che si è mangiato il cervello della preda, utilizza ancora le foglie per assorbire e asportare la materia cerebrale e il liquido rimasti (Teleki 1973). Considerando il tempo necessario per consumare interamente la preda, le piccole porzioni di carne ricevute da ciascuno e l'elevato numero dei partecipanti alla cerimonia della spartizione, è logico pensare che questa non abbia una vera importanza dal punto di vista alimentare, ma piuttosto abbia un significato sociale (Teleki 1973).

Un gruppo internazionale di specialisti, impegnati collaborare ad una indagine su larga scala, ha messo in luce che gli scimpanzé esprimono non meno di 39 «modalità di comportamento» che potrebbero essere etichettate come «differenze culturali», comprese molte forme di utilizzo di attrezzi, tecniche di pulizia reciproca e di corteggiamento. La ricchezza culturale degli scimpanzé osservata direttamente nel loro ambiente naturale (che è di gran lunga superiore a quella nota per qualsiasi altra specie animale - Whiten et al. 2001), trova il giusto riscontro nelle notevoli «prestazioni intellettive» [Nota 43.] esibite dagli scimpanzé in cattività sottoposti a vari test di laboratorio basati: sull'apprendimento di un compito mediato dall'intuizione, sui principi dell'aritmetica e sulla discriminazione, di comunicazione simbolica, di programmazione efficiente di un itinerario di ricerca del cibo e sulla capacità di comunicare la localizzazione di fonti di cibo nascoste ad altri scimpanzé (Giordano et al. 1979 e vedi: Premack et al.1973; Ghiglieri M.1985; Eccles 1990; Vauclair 2002; Whiten et al. 2001). Inoltre gli scimpanzé hanno imparato il linguaggio dei segni (Fouts 2000) e si riconoscono allo specchio (Gallup G. 1999), una prova di autoconsapevolezza che le scimmie non antropomorfe non hanno mai dato.

Descrivendo le abitudini dell'uomo, gli antropologi e i sociologi fanno riferimento alla «cultura occidentale» o alla «cultura cinese»; questi termini comprendono un ampio spettro di attività, come il linguaggio, il modo di vestire, le abitudini alimentari, i rituali nuziali e così via (Whiten et al. 2001). I primatologi, facendo riferimento alle « abitudini » degli scimpanzé, intendono per cultura la loro capacità di trasmettere caratteri comportamentali di generazione in generazione mediante l'apprendimento, anziché attraverso i geni. Infatti, il comportamento degli scimpanzé non è del tutto innato (come invece si pensa lo sia quello delle scimmie meno evolute), perché, proprio come avviene per l'uomo (ed anche per i gabbiani - Punto 2.1.5.2.3.4.), il comportamento viene plasmato in maniera rilevante dall'educazione ricevuta dalla madre, dalle tradizioni sociali e da altri fattori ambientali (Kortlandt 1962). Da queste considerazioni ne deriva che anche gli scimpanzé possono esibire una serie di comportamenti caratteristici di ciascun gruppo. I primatologi identificano una «cultura di Gombe» o una «cultura di Taï» perchè riescono ad identificare la provenienza dell'animale dal suo comportamento. Un individuo che rompe noci, strappa coi denti le foglie durante il tambureggiamento, pesca formiche con un bastoncino e batte le nocche delle dita per richiamare le femmine proviene dalla Taï Forest. Uno scimpanzé che ripulisce le foglie dagli insetti o alza un braccio sopra la testa stringendo la mano del partner durante il grooming proviene dalla foresta di Kibale o dalle montagne di Mahale; ma se in più pesca le formiche, allora senza dubbio vive a Mahale (Whiten et al. 2001).
L'importanza della cultura, o meglio della sua trasmissione in una comunità di scimpanzé è dunque notevole, perché ciascun individuo può far tesoro della propria esperienza e di quella di tutti gli altri individui. In realtà, col passaggio - il tramandarsi - delle tecniche apprese dalla madre al figlio si ottiene un passaggio di informazioni da una generazione all'altra. Qualcosa di altrettanto importante è stato messo in evidenza, dagli scimpanzé della zona del fiume Gombe. Infatti essi hanno dimostrato di poter compiere delle innovazioni nel proprio comportamento: in un determinato periodo gli scimpanzé hanno preferito costruirsi il nido per la notte sugli alberi di palma, in un'altra occasione hanno preferito cacciare i babbuini invece delle normali scimmie rosse. Sempre nella zona del fiume Gombe, è risultato molto evidente come gli scimpanzé siano tra i più abili imitatori del comportamento altrui. Si è osservato infatti che gli scimpanzé mimano letteralmente le azioni che vedono compiere dagli altri compagni ancor prima di capirne il significato, e anche quelle dei ricercatori che li studiavano o dei loro aiutanti locali (Giordano et al. 1979).
L'idea che le grandi scimmie antropomorfe, e in particolare gli scimpanzé, utilizzino la tecnica dell'imitazione è però una la questione controversa. Prendiamo da nota all'articolo di Whiten et al (2001) come esempio il frequente comportamento di un giovane scimpanzé che guarda la madre mentre rompe una noce di cola con una pietra (come da loro realmente osservato (nella Taï Forest, Africa occidentale): nella maggior parte dei casi il giovane alla fine riesce ad aprire la noce apparentemente seguendo la tecnica della madre. Il problema è se il giovane scimpanzé raggiunge lo scopo «imitando» la tecnica della madre. Gli scettici sostengono che il giovane a) è attirato dalle noci perché osserva la madre che le sta schiacciando e b) impara ad aprire le noci per «tentativi ed errori» e non per «imitazione della madre». Questa distinzione ha importanti implicazioni quando si parla di cultura degli scimpanzé. Infatti se "rompere le noci" è qualcosa che lo scimpanzé può risolvere da solo una volta che dispone di una pietra da usare come martello, allora questa attività non può essere considerato evento dipendente dalla "propria cultura". Per di più, se il giovane impara solo per tentativi ed errori, allora ogni volta che si presenta una nuova situazione deve, in un certo senso, ripartire da zero e sperimentare varie vie per ottenere un risultato che risolva il problema..
Altri scienziati definiscono culturale un carattere che si trasmette non per eredità genetica, ma per imitazione del comportamento di un adulto. Attraverso esperimenti di laboratorio Whiten ha sottoposto, scimpanzé e bambini, a test di apertura di frutti artificiali con tecniche differenti e ha osservato che gli scimpanzé di sei anni manifestano un comportamento d'imitazione molto simile a quello osservato nei bambini di tre anni (gli scimpanzé si dimostrano però meno fedeli nell'eseguire il modello da imitare). In altri esperimenti, Boesch ha dato agli scimpanzé martelli e noci simili a quelli presenti in natura, e ha osservato che gli scimpanzé in cattività manifestano una più vasta gamma di attività rispetto agli individui che vivono allo stato selvatico, probabilmente perchè allo stato selvatico l'ambiente culturale trasmette ai giovani scimpanzé solamente i comportamenti più utili per la sopravvivenza. Dall'insieme di queste esperienze, Whiten e Boesch (2001) sono indotti a pensare che a) gli scimpanzé «scimmiottino» cioè «imitino»; b) la predisposizione ad imitare sia un comportamento basilare nello sviluppo della trasmissione culturale; c) sia difficile immaginare in che modo gli scimpanzé potrebbero sviluppare certi comportamenti, come pescare le formiche e rimuovere i parassiti, in regioni geografiche diverse, senza rifarsi a tradizioni ben consolidate.

È nota la grande abilità degli scimpanzé nel maneggiare "strumenti": le femmine si mostrano più abili dei maschi nell'uso di arnesi (percussori per rompere le noci) o addirittura nella costruzione di strumenti (rami privati delle foglie idonei per la cattura delle termiti o delle formiche guerriere). É noto che le femmine, rispetto ai maschi, scimpanzé si nutrono frequentemente di noci e data la durezza del "guscio" della noce, devono ricorrere all'uso di un percussore e di una incudine. Quando operazione si effettua sul suolo, la femmina riunisce una dozzina di noci di Coula edulis (da 2 a 3 cm di diametro), le porta con sé e le deposita in prossimità di radici oppure vicino a un blocco di pietra, che fungono da incudine, situata a terra. La scimmia pone la noce in una depressione, una piccola cavità generalmente prodotta da identiche operazioni eseguite precedentemente. La noce viene quindi posizionata nella concavità, poi schiacciata da un percussore-martello in legno o in pietra. Quando l'operazione viene eseguita sull'albero produttore le noci, la femmina esegue un'operazione che prevede un ragionamento analogo a quello dell'alpinista o del carpentiere che portano con se chiodi e martello per la loro attività: infatti la femmina scimpanzé evita di arrampicarsi parecchie volte sull'albero, portare con sé il suo "martello" e dopo aver raccolto questi frutti allungando il braccio, utilizza come "incudine" una concavità o conca su di un ramo dell' albero. L'incudine, cioè il percussore passivo su cui si poggia l'oggetto da rompere, è nel 97% dei casi la faccia superiore di un ramo. Esso è generalmente contraddistinto da una conca, che spesso indica un suo impiego precedente (Chavaillon 1985).

In certe parti dell' Africa occidentale, gli scimpanzé si servono di bastoni per demolire i termitai e mangiarne gli insetti. Anche le popolazioni del fiume Gombe usano questo tipo di tecnica ma anche quella "pesca" delle termiti. In questo caso sono in genere le femmine che si impegnano con una determinazione tale da indurle a prepararsi per tempo gli strumenti di cattura. Gli scimpanzé per raggiungere le termiti all'interno del loro nido si servono anche di lunghi fili d'erba, che infilano nelle cavità in modo che gli insetti non ancora in grado di volare, specialmente i "soldati", si attacchino allo stelo per morderlo. Dopo aver atteso per un certo tempo, non fanno altro che estrarre tale strumento dalla cavità e raccogliere e divorarle le termiti rimaste attaccate. All'operazione è spesso presente anche qualche individuo giovane, il quale dopo un certo periodo di apprendistato è in grado di compiere l'operazione. Bersaglio della "pesca" sono anche le formiche guerriere che percorrono i sentieri della boscaglia in file serrate. Sempre le femmine, partono deliberatamente alla caccia scegliendo un virgulto lungo e flessibile: lo liberano dalle foglie, lo puliscono, lo provano e partono in caccia. Nel caso delle formiche guerriere, piuttosto feroci con i loro morsi dolorosi, è importante che lo scimpanzé rimanga a una certa distanza dagli insetti per evitare di essere attaccato. È per questo motivo che "la canna da pesca" è di lunghezza notevole. È difficile credere che tutta la preparazione e la tecnica di cattura degli insetti avvengano istintivamente (Giordano et al. 1979).

Gli scimpanzé del Gombe sono frequentemente indotti a bere l'acqua che si raccoglie nel cavo di certi alberi: invece di usare la mano per raccogliere una "manciata d'acqua" questi scimpanzé hanno escogitato una tecnica molto più proficua. Si costruiscono una specie di spugna assorbente masticando una certa quantità di foglie che poi immergono nell'acqua. In questo modo la quantità di acqua raccolta è molto maggiore di quella che potrebbe essere contenuta nel cavo della mano, una tecnica corrispondente a quella adottata dai maschi per assorbire e asportare la materia cerebrale e il residuo liquido dal cranio della preda.

Esistono altri esempi di uso di arnesi da parte degli scimpanzé. Sempre nella zona del fiume Gombe, Goodall[18] e gli altri ricercatori hanno stabilito un contatto decisamente amichevole con gli scimpanzé. Per studiarne più da vicino il loro comportamento, hanno regolarmente nutrito gli scimpanzé con abbondante scorta di banane. I frutti sono stati posti spesso in casse metalliche opportunamente distribuite in modo che ciascun individuo avesse la sua parte. Sovente gli scimpanzé per aprire le casse e per raggiungere il cibo e compiono l'operazione si sono serviti di bastoni a mo' di leva per sollevare il coperchio (Giordano et al. 1979). Gia Köhler (1968) aveva descritto il comportamento intelligente degli scimpanzé in cattività, in quanto aveva osservato la loro capacità di comprendere l'idoneo l'uso degli utensili. Durante gli esperimenti, Köhler ha costato che gli scimpanzé usavano bastoni per avvicinare le banane che si trovavano fuori della loro gabbia: erano in grado di inserire l'uno nell'altro due bastoncini corti per farne uno più lungo, oppure di accatastare diverse cassette per raggiungere una banana altrimenti inaccessibile, sospesa al tetto della gabbia. Le descrizioni rivelano come questi animali non avessero appreso questa sequenza di azioni compiendo dei tentativi a caso: uno scimpanzé poteva infatti sedere tranquillamente e a guardare la situazione e gli oggetti - la cassetta, il luogo sotto la banana, la banana e così via - fino a trovare la soluzione. In questi casi la sequenza di azioni viene escogitata, e i tentativi vengono compiuti mentalmente (Eibl-Eibesfeldt 1976).

Nelle esibizioni di minaccia gli scimpanzé usano spesso lanciare oggetti quali sassi, ramoscelli e pezzi di legno. In diversi casi essi si dimostrano abili cacciatori e non esitano a servirsi di bastoni per colpire animali potenzialmente pericolosi o anche per uccidere le prede. Kortland[19] ha condotto in natura degli esperimenti per vedere come gli scimpanzé si difendono dai leopardi. Servendosi di un animale impagliato di questo felino, ha visto come soprattutto gli scimpanzé di ambienti aridi non esitino ad attaccare, e a colpire a bastonate il potenziale nemico fino a staccargli la testa. Da quel momento gli scimpanzé hanno perso qualunque interesse per il felino imbalsamato (Giordano et al. 1979).

In definitiva, si può concludere che il tipo di ordine sociale, basato sulla fissione-scissione degli scimpanzé appartenenti alle comunità territoriali, è dipendente dalle capacità intellettive di questi antropomorfi. Il complesso dei loro comportamenti osservati in natura e in cattività, induce a ritenere che gli scimpanzé, sappiano perfettamente quello che fanno o decidere in anticipo come agire prendendo tutte le necessarie precauzioni. Questo alto livello di consapevolezza - determinante per loro sopravvivenza negli ambienti naturali della foresta e degli spazi aperti - consente la trasmissione culturale da madre a figlio, di una peculiare serie di modelli di cooperazione sociale, che nelle diverse e distanti comunità, possono variare nell'esecuzione ma non nel loro contenuto. Ad esempio, è noto che (Whiten et al. 2001) tutti gli scimpanzé uccidono i parassiti che trovano durante la pulizia di un compagno, ma mentre a Taï li schiacciano premendo un dito contro l'avambraccio, a Gombe li spiaccicano sulle foglie e a Budongo li mettono su una foglia per osservarli prima di mangiarli o eliminarli. Ogni comunità ha quindi sviluppato modalità proprie per raggiungere uno stesso scopo riguardante la pulizia reciproca.

B) Bonobo
Il bonobo, attualmente classificato come Pan paniscus, è stato distinto dallo scimpanzé comune, quando (1929) l'anatomico Schwarz[20] si rese conto che un cranio (già attribuito, per le sue piccole dimensioni, a un giovane scimpanzé) conservato in un museo coloniale belga, apparteneva ad un adulto di una sottospecie non descritta, di scimpanzé di piccole dimensioni (definito pertanto «scimpanzé pigmeo»). L'anatomia del bonobo, come sopradetto, è meno specializzata di quella dello scimpanzé comune, le sue proporzioni corporee sono state paragonate a quelle degli australopiteci: vi sono altri elementi (molecolari e fisiologici) per ritenere che il bonobo, fra gli antropomorfi, sia quello strutturalmente più simile all'antenato comune allo scimpanzé e all'uomo. A questo proposito è appena il caso di accennare che le labbra del bonobo sono colorate vivacemente in rosa-rosso, si staccano cioè dal colore di fondo del viso come nella specie umana.
Il bonobo, per il corpo più slanciato e per la struttura senz'altro più gracile dello scimpanzé comune, appare ben adattato a muoversi nella parte alta degli alberi: gli individui di questa sottospecie scimpanzé vivono di preferenza a una certa altezza dal suolo nella foresta pluviale, a sud del fiume Congo, dove trovano quasi tutto il cibo, consistente in diverse specie di frutti. I bonobo hanno conservato le proporzioni corporee dei comuni scimpanzé giovani, di cui mantengono altre caratteristiche come le dimensioni del capo e soprattutto il ciuffo di peli bianchi nella zona caudale. Tutti questi elementi strutturali sono stati interpretati come aspetti di un tipo di sviluppo definito col nome di neotenia. (Giordano et al. 1979). Neotenici sono gli animali che pur restando somaticamente allo stadio larvale (come accade in varie specie di Anfibi - Roth 1955) o mantenendo caratteristiche giovanili, diventano comunque sessualmente maturi e in grado di riprodursi (Bone 1979). Anche per quanto riguarda l'uomo è stata avanzata l'ipotesi di una sua evoluzione strutturale di tipo neotenico (Lewin R. 1984; Lambert 1987; Jones et al. 1992).

Il bonobo, come lo scimpanzé comune, vive nelle cosiddette società a fissione-fusione (o scissione-fusione), e partecipano ad una vita sociale - centrata sulle femmine - che "sostituisce" l'aggressività con l'attività sessuale: quest'ultima è parte integrante delle relazioni sociali tra maschi e femmine e anche fra gli individui dello stesso sesso. La femmina di bonobo svolge un'attività sessuale quasi ininterrotta, e non limitata a pochi giorni del ciclo. La fase di tumescenza dei suoi genitali (visibile come un rigonfiamento di colore roseo, che segnala la disponibilità ad accoppiarsi) persiste infatti per un tempo molto più lungo di quello dell'estro. L'attività sessuale di questi primati è rilassata, si manifesta come una componente del tutto naturale della vita di gruppo: il rapporto sessuale fra due sessi è piuttosto rapido ma eseguito con una frequenza molto maggiore rispetto quella riscontrata nelle comunità di scimpanzé comune. Malgrado ciò, il tasso di riproduzione dei bonobo in natura è circa uguale a quello degli scimpanzé [Nota 44.].
La disposizione frontale della vulva e del clitoride, suggerisce l'idea che i genitali femminili del bonobo siano adattati per la copula faccia a faccia, comportamento sessuale considerato fino a non molti anni fa, una prerogativa umana. Secondo Giordano e Coll. (1979) la disposizione dei genitali della femmina sarebbe un adattamento alla vita arborea in quanto consentono un più facile accoppiamento anteriore tra i rami degli alberi. I bonobo, nel loro ambiente naturale, copulano una volta su tre seguendo questa modalità, si eccitano sessualmente con notevole facilità ed esprimono questo loro stato soprattutto mediante contatti genitali. Fra questi quello più tipico e mai documentato in altri primati, è lo strofinamento genito-genitale, praticato tra femmine adulte [Nota 45.] e dalle giovani femmine quando si trasferiscono in un gruppo sconosciuto e spesso ostile: le "straniere", per farsi accettare, rivolgono una speciale attenzione a una o due femmine residenti più anziane e, per stabilire un rapporto, ricorrono a frequenti sfregamenti genito-genitali e a cure corporali. Se le femmine residenti ricambiano questi atti, si stabiliscono strette associazioni e la nuova venuta viene gradualmente accettata nel gruppo. Dopo aver dato alla luce il primo piccolo, la sua posizione nella comunità diventa più stabile.
L'alleanza tra le femmine oltre a mantenere l'armonia, il sesso è coinvolto anche nella realizzazione della singolare struttura sociale dei bonobo. Kano[21] ha definito le madri come «nucleo» della società dei bonobo: la comunità dei bonobo, a diversità di quella del scimpanzé comune, ha infatti un carattere matriarcale. Similmente al scimpanzé comune, i maschi bonobo rimangono nel gruppo nel quale sono nati: di conseguenza, i maschi più vecchi di un gruppo conoscono tutti i maschi giovani fin dalla nascita. Anche i maschi bonobo possono interagire con pseudocopule ma anche con il reciproco strofinamento scrotale [Nota 46.]. I maschi rimangono legati alle madri per tutta la vita, le seguono negli spostamenti all'interno della foresta e rimangono dipendenti da esse per quanto riguarda la protezione contro le aggressioni di altri maschi. Di conseguenza, in una comunità di bonobo i figli di femmine importanti tendono a essere maschi di rango elevato. Gravi conflitti tra gruppi di bonobo sembra siano rari. In generale, sono stati osservati rapporti pacifici tra comunità di bonobo apparentemente diverse: questo comportamento non aggressivo spiega (a diversità dei gruppi di scimpanzé comune) la presenza di un esiguo numero di associazioni costituite da soli maschi. I suoni emessi dal bonobo sono piuttosto acuti, simili al guaire di un cane e non sono paragonabili al basso e prolungato "urlo ansimante" dello scimpanzé comune. Inoltre quest'ultimi, si esibiscono spesso in attacchi spettacolari in cui ostentano la loro forza mentre i maschi bonobo limitano le loro esibizioni in una breve corsa in cui si trascinano dietro alcuni rami.
Una conferma sperimentale della tesi che la società dei bonobo sia incentrata sulle femmine, è stata data da primatologi (Università della California) con un test di competizione alimentare finalizzato al confronto dei differenti comportamenti di maschi e di femmine sia bonobo che scimpanzé. Gli sperimentatori hanno formato gruppi identici, composti da un maschio adulto e da due femmine adulte, un nido di termiti contenente miele che poteva essere estratto mediante bastoncini. I risultati hanno dimostrato che negli scimpanzé, il maschio esibisce un attacco per tutto il recinto, per prendere tutto per sé il miele da estrarre dal nido di termiti: solo quando ha soddisfatto l'appetito, permette alle femmine di estrarre con i bastoncini altro miele. Nei bonobo, sono le femmine si avvicinano per prime al nido di termiti contenente miele e dopo aver praticato un breve strofinamento genito-genitale, esse si alimentano assieme, a turno, senza mostrare alcuna competizione. Le femmine ignorano le esibizioni intimidatorie del maschio anzi si coalizzavano contro il maschio quando cerca di attaccare ripetutamente una femmina.

Tutti gli oggetti che destano interesse comportano - nella maggioranza delle specie - la competizione anche aggressiva, fra gli individui che vorrebbero possederli o fruire del loro uso. Il comportamento sessuale praticato fra i bonobo è il meccanismo che serve invece a superare spesso l'aggressività verso ogni cosa che può attivare il loro interesse [Nota 47.]. In particolare gli stimoli associati all'alimentazione [Nota 48.] attivano nei bonobo una risposta di tipo sessuale. È stato osservato da Thompson-Handler[22] che nel loro ambiente naturale (Foresta di Lomako in Zaire) i bonobo mettono in atto rapporti sessuali non appena trovano alberi carichi di frutti maturi, oppure quando uno di loro cattura una piccola preda. L'eccitazione dovuta ai contatti sessuali dura dai 5 ai 10 minuti, dopodiché i partner si accingono a consumare il cibo. Anche in cattività è stato osservato (Waal 1995) che non appena un guardiano si avvicinava con il cibo, i maschi bonobo manifestavano un'erezione e, ancor prima che il cibo venisse gettato all'interno del recinto, i vari componenti della colonia cominciavano a invitarsi reciprocamente a un atto sessuale: i maschi invitavano le femmine, le femmine i maschi e altre femmine. Una spiegazione del fatto che l'attività sessuale si manifesti al momento in cui viene somministrato il cibo potrebbe interpretata come la diretta "traduzione" della sollecitazione prodotta dal cibo in un'eccitazione sessuale. Ma secondo Waal (1995) la probabile causa è la competizione e l'attività sessuale sarebbe la risposta che i bonobo adottano per evitare conflitti.

Il ruolo del sesso in relazione al cibo consente, in alcune situazioni, di confrontare il comportamento dei bonobo e quello dell'uomo. Alcuni antropologi (Lovejoy e Fisher)[23], hanno avanzato l'ipotesi che, nella nostra specie, l'attività sessuale sia parzialmente separata dalla riproduzione in quanto serve a cementare rapporti di mutua cooperazione fra uomini e donne. I bonobo non stabiliscono i legami eterosessuali esclusivi caratteristici della nostra specie, ma il loro comportamento corrisponde a elementi importanti di questo modello. La femmina mostra una ricettività sessuale prolungata e si serve del sesso per ottenere i favori di un maschio. A questo proposito vale citare l'esempio osservato in natura (Wamba) dal primatologo Suehisa Kuroda[24]: una giovane femmina attratta da un maschio intento a mangiare canna da zucchero, si è prima avvicinata e subito si è accoppiata con il maschio, dopodiché essa gli ha sottratto una delle due canne che teneva in mano e si è allontanata. Malgrado questi intimi rapporti fra i sessi, non vi sono indicazioni che i bonobo abbiano la facoltà di formare nuclei familiari di tipo umano. Tuttavia l'onere di allevare la prole poggia interamente sulle spalle delle femmine (vedi Nota 44.).
Non è da escludere che i nostri antenati abbiano avuto all'inizio una vita sessuale simile a quella dei bonobo, e che l'evoluzione della famiglia abbia richiesto un importante cambiamento comportamentale, basato sulla consapevolezza della paternità della prole. Nella società dei bonobo manca il vincolo culturale che implica nella società umana restrizioni morali dipendenti da tabù e da precetti religiosi. Il senso del pudore e il desiderio della privacy domestica sono tipici dell'uomo, correlati con l'evoluzione e la crescita culturale della famiglia. Tuttavia nessun grado di moralizzazione può fare scomparire il sesso da ogni settore della vita umana indipendentemente dal nucleo familiare (Waal 1995)

2.1.5.3.3.2. L'organizzazione sociale umana
Le prime manifestazioni sociali e culturali dell'uomo sembrano connesse all'utilizzazione e conservazione dei primi strumenti da parte degli ominidi bipedi (Pre-Australopithecus, Australopithecus, Homo - Coppens 1985), alla distribuzione di questi strumenti nei primi accampamenti e alla loro evoluzione tecnica per la caccia e per la raccolta di risorse alimentari nel territorio. Lo strumento costituisce una testimonianza senza ambiguità della presenza umana dato che nessun altro animale, nemmeno uno scimpanzé, è in grado di fabbricare un oggetto in osso e in pietra, come quello preparato dall'uomo.
Si ritiene che il più antico ricovero umano nel territorio africano di Olduvai (Africa orientale), sia stato rappresentato da una capanna circolare fatta di rami, con pietre di rinforzo alla base e paglia in cima, simile a quella odierna costruita dalla popolazione Okombambi, in Africa del sud. I ripari stanno a significare che già in quel lontano tempo vi era non solo una vita di gruppo, ma anche una vita sociale, probabilmente a base familiare. I primi strumenti, ricavati dai ciottoli di fiume, venivano utilizzati per rompere, schiacciare noci, semi, grattare radici o gambi, come in parte fa anche l'attuale scimpanzé (Fedele 1986). Successivamente, gli strumenti sono stati perfezionati sia per uso domestico (per frammentare, tagliare la carne, spezzare le ossa di animali, etc.), probabilmente fabbricati e utilizzati dalle sole femmine, sia per la caccia e la difesa, preparati con diversa tecnica e utilizzati dai maschi. Gli strumenti di pietra, bifacciali e più tardi le punte di freccia, fungevano sicuramente da armi: gli strumenti taglienti rinvenuti in siti più antichi dovevano servire invece per appuntire bastoni di legno, vere e proprie armi degli uomini paleolitici. Non si sa esattamente chi sia stato l'inventore degli strumenti litici scheggiati, ma probabilmente, secondo Tattersall (1997, 2000), fu l'australopiteco circa 2,5 milioni a. f.).
L'inventore degli strumenti litici scheggiati rappresentò un salto cognitivo di primaria importanza, ed ebbe conseguenze a lungo termine per gli ominidi: essa inaugurò anche una storia assai discontinua di cambiamenti tecnologici. Ci volle un intero milione di anni prima della successiva innovazione rilevante, l'invenzione, probabilmente da parte di H. ergaster, della cosiddetta ascia a mano bifacciale (~ 1,6 milioni a.f.). Tale invenzione presuppone il rispetto di una simmetria, ed è quindi la prima testimonianza dell'esistenza di un'immagine mentale alla quale l'esecutore si attenne nel foggiare l'oggetto. Questa immagine rimase pressoché invariata per un altro milione di anni o più, fino all'invenzione degli utensili su nucleo preparato da parte di individui della specie H. heidelbergensis (500 milioni a.f.) o di un suo parente. In questo caso un nucleo di selce veniva lavorato con cura in modo tale da staccare con un colpo singolo il prodotto finito (Tattersall 2000). Vi sono prove che alla fine del periodo paleolitico già si tramandava la tecnica di tagliare la pietra per creare strumenti che dovevano essere utilizzarli con specifici gesti, dato che dall'esecuzione precisa di quest'ultimi dipendeva la loro vita (Chavaillon 1985).
Per quattro milioni di anni, numerose specie di ominidi condivisero il pianeta e perfino gli stessi habitat. Allo stato attuale, Homo sapiens è il solo rappresentante del proprio genere (Tattersall 2000). L'origine africana di H. sapiens risale probabilmente tra 150.000 e 200.000 anni fa. I primi Homo sapiens erano comunque diversi dall'uomo attuale in qualche particolare scheletrico, avevano un cervello più piccolo, ed erano assai arretrati nel comportamento e nell'uso di attrezzi: hanno lasciato insieme ai loro scheletri e rozzi attrezzi di pietra, nessuna forma di arte, nessun attrezzo in osso. Un'aggiunta significativa alla cultura di questi nostri antenati fu l'uso del fuoco, documentato con certezza in quel periodo (Diamond 1998).
Secondo Diamond (1998), gli individui della specie Homo sapiens vissuti tra 100.000 e 50.000 anni fa, hanno subito fondamentali cambiamenti anatomici a livello delle corde vocali che hanno consentito l'espressione del linguaggio parlato e della creatività dell'uomo moderno. I fossili umani e la qualità dei reperti ad essi associati dimostrano che a partire da 50.000 anni fa la storia dell'umanità subì un'improvvisa accelerazione che Diamond definisce il « Grande balzo». I primi segni di questo passo da gigante si trovano in siti dell'Asia orientale, nei quali sono stati trovati attrezzi di forma standardizzata e ornamenti di conchiglie. Reperti simili compaiono nel Vicino Oriente e nell'Europa del sudest, e infine, circa 40.000 anni fa, in quella del sudovest, dove ci sono abbondanti testimonianze della cultura di una popolazione dallo scheletro identico al nostro: gli uomini di Cro-Magnon, una nuova sottospecie, Homo sapiens sapiens, di origine asiatica (Coppens 1985) Questi uomini portarono manifestazioni di una sensibilità moderna ben sviluppata e senza precedenti. Non solo essi possedevano una nuova tecnologia di lavorazione della pietra basata sulla produzione di «lame» multiple lunghe e sottili da nuclei cilindrici, ma fabbricavano utensili di osso e corno, dimostrando una squisita sensibilità per le caratteristiche di questi materiali. Fatto ancora più significativo è la loro cultura che esprimevano con l'arte, nella forma di sculture, incisioni e spettacolari pitture rupestri (Coppens 1985; Culottes 1996; Anati 1998, Diamond 1998). Inoltre incidevano conteggi e calendari su placche di osso e di pietra; facevano musica con strumenti a fiato; producevano elaborati ornamenti personali; dotavano alcune delle elaborate sepolture dei loro morti di offerte votive. Ciò rivela l'esistenza di una stratificazione sociale, oltre che una credenza nell'oltretomba, dato che non tutte le sepolture erano ugualmente ricche. I loro siti di abitazione erano altamente organizzati, e vi sono prove di sofisticate tecniche di caccia e pesca. L'innovazione tecnologica aveva ormai perso la discontinuità che ha caratterizzato il lungo periodo che va dall'australopiteco (~2,5 milioni a.f.), probabile inventore degli strumenti litici scheggiati (Tattersall (1997, 2000) all'uomo di Cro-Magnon: la creatività di quest'ultimo dimostra la sua capacità di produrre costanti perfezionamenti dei manufatti in pietra che testimoniano la capacità sistematica di manipolare la natura sulla base di una progettualità trasmessa di generazione in generazione per apprendimento sociale (Biondi et al. 1995).
Le prime popolazioni umane Cro-Magnon del Paleolitico superiore differivano nettamente dai coevi uomini di Neandertal [Nota 49.], la cui origine risale tra 130.000 e 40.000 anni fa. Numerosi resti fossili, trovati in Europa (Hublin 1998) e in Asia occidentale, risalenti a quel periodo, sono stati identificati come appartenenti alla specie Homo neanderthalensis. Circa la loro cultura, la migliore testimonianza viene da siti sudafricani risalenti a 100.000 anni fa, nei quali sono stati reperiti solo rozzi manufatti di pietra, in forme non standardizzate e non chiaramente differenziate nell'uso. I neandertaliani - dal grande volume cranico, dalla faccia larga e dalla fronte bassa - che occuparono l'Europa e l'Asia fino a circa 30.000 anni fa, si sono rivelati invece tra i più abili professionisti della tecnologia del nucleo preparato: le capacità di lavorazione della pietra erano impressionanti, anche se stereotipate: ma anche questi neandertaliani «avanzati» quasi non lasciarono utensili fatti con materiali durevoli diversi dalla pietra (Tattersall 2000). A giudicare dal tipo di prede, di cui si sono trovate le ossa, si ritiene che i neandertaliani non fossero cacciatori particolarmente abili: certo non cacciavano bufali, maiali selvatici e altre specie del genere. Inoltre non sapevano neppure pescare: nei loro insediamenti non si trovano infatti né fossili di pesci, né ami. I neandertaliani, caratterizzati da un cervello più grande di quello nostro, non hanno sviluppato l'arte plastica e quella rupestre, ma hanno realizzato invece delle "culture" con caratteristiche regionali, e praticato rituali complessi come quello della sepoltura dei morti, con offerte e letti di fiori, in fosse scavate appositamente, con pareti cosparse di ocra (Coppens 1985). Nonostante le differenze anatomiche e comportamentali (Vandermeersch 1985; Bietti et al. 1990; Wong 2003a), è condiviso il parere che gli uomini di Neandertal e quelli Cro-Magnon abbiano avuto un comportamento parallelo che ha consentito loro di condividere lo stesso ambiente: più incerto è se alcuni neandertaliani in Europa abbiano appreso da individui H. sapiens nuove tecniche e comportamenti sociali (Tattersall 2000). Considerata l'improvvisa scomparsa dei neandertaliani, Tattersall (2000) ritiene che le interazioni non siano state troppo felici tra le due specie: l'analisi dei siti archeologici in Europa, è a favore di una probabile assenza di commistione tra le due specie, e rivela un processo di rapida sostituzione dei residenti. Nel Levante, circa 40.000 anni fa, i neandertaliani cedettero le armi agli uomini della specie H. sapiens culturalmente più avanzati, come avevano fatto le loro controparti europee (Tattersall 2000). Complessivamente, questo processo sembra che sia avvenuto ovunque in una maniera che somiglia più ad una «digestione» genetica, che ad un genocidio (Coppens 1985).

Dopo la divergenza fra la linea evolutiva degli ominidi e quella delle tre grosse scimmie antropomorfe africane (gorilla, scimpanzé comune e scimpanzé bonobo - Tattersall 2000; Begun 2003; Leonard 2003), i nostri antichi progenitori «cacciatori-raccoglitori» hanno quasi sempre vissuto cacciando gli animali selvatici e raccogliendo erbe e frutti spontanei in vari domini territoriali (Diamond1998). Negli ultimi 11.000 anni, diversi gruppi umani hanno lasciato il tipo di vita nomade a favore di quella sedentaria (Diamond 1998) e per il loro sostentamento hanno iniziato a produrre da soli il cibo necessario, domesticando animali e piante trasformandoli in bestiame e coltivazioni. Popoli diversi hanno intrapreso il tipo di vita sedentaria a favore dell'agricoltura in tempi diversi e non tutti scoprirono il modo di produrre cibo in maniera autonoma.
La biomassa del pianeta è formata in gran parte da legno e da foglie, che l'uomo non è in grado di digerire: tra le piante e gli animali presenti in natura, solo una piccola minoranza è commestibile o comunque utile all'uomo. L'agricoltura è servita a selezionare e a coltivare quelle poche specie di cui l'uomo si può nutrire, fino a farle diventare il 90 % della biomassa per ettaro di terra coltivata. Questa attività riesce pertanto a dare sostentamento a molti più "agricoltori" (dalle 10 alle 100 volte) di quanto non riesca a fare un ettaro di terra vergine per i "cacciatori-raccoglitori". Oggi la quasi totalità degli uomini del pianeta si nutre di cibo che l'agricoltore ha prodotto per essere venduto a qualcun altro (Diamond 1985).
I primi animali domestici servirono a migliorare la produzione agricola: a) come forza motrice per dissodare con gli aratri i terreni duri lasciati incolti [Nota 50.]: il maggior vantaggio di poter sfruttare anche i terreni il cui suolo é molto più duro, fu possibile solo grazie agli aratri tirati da animali, b) con il letame che è stato utilizzato sia per fertilizzare la terra da coltivare e sia come combustibile per usi domestici e c) fornendo carne e latte. Il bestiame (buoi, maiali, galline e pecore) sostituì la selvaggina come fonte primaria di proteine. Alcuni grandi mammiferi (mucche, pecore, asiatici, yak, cammelli e dromedari) fornirono un notevole contributo alimentare alle popolazioni delle società agricole con la produzione di latte e derivati [Nota 51.]. Da un'ulteriore e differenziata fruizione di piante e di animali domestici, derivarono anche fibre naturali vegetali, fra queste il lino, ed animali (anche di specie che l'uomo non è in grado di utilizzare per la sua alimentazione) che, opportunamente intessute, diventarono vestiti, coperte, reti o corde e cuoio, dalla concia delle pelli di bovini. Agli albori dell'umanità, l'unico modo per trasportare cose e persone era "portarsele a spalla": nella società agricola, la domesticazione [Nota 52.] e la conseguente utilizzazione di mammiferi di grossa taglia (quali cavallo, dromedario, cammello, lama, bue, renna, ma anche il cane nei territori lungamente innevati) per il trasporto di merci e persone, rivoluzionarono la storia perché l'uomo fu in grado di spostarsi con maggiore facilità e di portare con sé grandi quantità di merci, in qualsiasi ambiente terrestre (Diamond 1998).
I "cacciatori-raccoglitori" hanno sempre condotto, fino ai nostri giorni, un tipo di vita che richiede una idoneità fisica compatibile con l'esistenza "nomade": questo inderogabile presupposto morfofunzionale comportò (e tuttora sussiste) nelle società di cacciatori-raccoglitori, il controllo delle nascite in modo che tra un figlio e l'altro passi un intervallo di tempo all'incirca di quattro anni. Diversamente, nella società agricole, il modello di lavoro finalizzato alla fruizione di maggior livello di disponibilità di cibo, consentì l'aumento della popolazione indotto dalla riduzione, a circa due anni, dell'intervallo tra la nascita di due figli. La natalità più elevata e la capacità di sostentare un maggior numero di uomini per ettaro hanno condotto evidentemente a una densità di popolazione assai più alta. La forza bruta del numero fu uno dei primi vantaggi ottenuti dagli "agricoltori" nella competizione con lo stile di vita dei "cacciatori-raccoglitori" (Diamond 1998).
Un'altra importante conseguenza della "vita stanziale" nelle società agricole derivò dai cosiddetti «surplus alimentari» che sono stati essenziali per la nascita e la proliferazione di quelle figure sociali non dedite in permanenza alla produzione di cibo, figure che una popolazione nomade non può permettersi: tra questi nuovi «specialisti» ci sono gli uomini di governo. Nelle società di cacciatori-raccoglitori, che sono in genere egualitarie, non si trovano né monarchie ereditarie né apparati burocratici, e 1'organizzazione politica non va oltre il livello della banda o della tribù (vedi Punto 2.1.5.3.3.2.3.). Tutti gli adulti abili al lavoro sono impegnati in permanenza a procacciarsi cibo, e non hanno tempo per altro. Viceversa, nelle società agricole, dove le risorse alimentari si accumulano, più volte è avvenuto che una élite affrancata dalla necessità di lavorare per produrre, si è dedicata a tempo pieno al governo e al controllo del lavoro altrui. Ecco perché le società agricole di medie dimensioni si sono organizzate in vari modelli di potere locale e quelle più grandi sono diventati veri e propri stati. In quest'ultimo contesto sociale, un sistema di tassazioni adeguate permise l'esistenza di soldati di professione, di artigiani, tra cui gli spadai e gli armaioli, di scribi e di intellettuali, cui spetta il compito di conservare e tramandare l'informazione, di sacerdoti, che spesso hanno dato alla guerra una giustificazione religiosa (come ad es. i sacerdoti Maya). Queste strutture politiche complesse sono state in grado di organizzare guerre di espansione molto meglio di quelle di limitate ad una banda di nomadi. Il contributo più diretto di un animale domestico alle guerre di conquista eurasiatiche venne dal cavallo, dai cammelli e dromedari, che erano le jeep e i carri armati del passato. L'invenzione della sella e dei finimenti fu un ulteriore progresso nella tecnologia bellica: dalla lettura storica del passato risulta che gli eserciti che hanno posseduto i cavalli, o che sapevano come sfruttarli meglio, in guerra hanno avuto un enorme vantaggio su chi non li aveva o li usava ancora in modo primitivo (ad es. Cortés e Pizarro, a capo di piccole bande, conquistarono gli imperi degli aztechi e degli inca): una vera rivoluzione nell'arte militare (che si diffuse nel Vicino Oriente, nel bacino del Mediterraneo e in Cina) avvenne infatti quando (~ 1800 a. C.) i cavalli vennero utilizzati come potente forza motrice del carri da guerra (Diamond 1998).
Un'altra arma formidabile nelle guerre di espansione furono gli agenti patogeni che fecero la loro comparsa nelle società agricole che domesticarono gli animali. I virus di vaiolo, morbillo e influenza, ad esempio, sono mutazioni di virus ancestrali che colpivano questi animali: i pastori furono le prime vittime delle nuove malattie, ma anche i primi a sviluppare forme di immunità. Nelle guerre di espansione, l'inconsapevole fattore «malattie da agenti patogeni» fu decisivo nella conquista da parte degli europei delle Americhe, dell'Australia, del Sudafrica e della Polinesia, perché quando un esercito di invasori europei resistente a un virus entrò in contatto con una popolazione in cui lo stesso virus era ignoto, quest'ultima è stata regolarmente decimata (Diamond 1998).
Per concludere, la domesticazione di piante e animali non portò solo una maggiore disponibilità di cibo e quindi una più alta densità di popolazione. Il surplus alimentare e l'uso degli animali come mezzo di trasporto furono fattori che portarono alla nascita di società politicamente centralizzate, socialmente stratificate, economicamente complesse e tecnologicamente avanzate. In ultima analisi, la presenza di animali e piante domesticabili spiega perché gli stati centralizzati, le spade d'acciaio e i libri comparvero prima in Eurasia e dopo (o mai) altrove. L'uso a scopi bellici dei cavalli (o dei cammelli) e il potere letale delle malattie infettive di origine animale sono altri due anelli della catena che lega la nascita dell'agricoltura alle guerre di espansione (Diamond 1998).

2.1.5.3.3.2.1. Le origini dell'uomo moderno
Per circa sette milioni di anni della loro evoluzione, gli ominidi si sono evoluti in Africa. Allo stato attuale sono in discussione le teorie sull'origine dell'uomo moderno dalla specie Homo erectus: i primi rappresentati di quest'ultima specie, denominati a volte H. ergaster, comparvero in Africa, circa 1,9 milioni di anni fa (Wong 2003b). Sulla base di reperti fossili trovati in Indonesia, attribuiti al cosiddetto «uomo di Giava» (1,8 milioni di anni fa), fino a qualche anno fa si è ritenuto che il primo ominide a migrare verso l'Eurasia fosse stato Homo erectus, tuttavia questa priorità appare oggi compromessa perché i crani fossili trovati nel sito di Dmanisi in Georgia, sono risultati più antichi di mezzo milione di anni rispetto a quelli del sito di 'Ubeidiya (Israele) attribuiti alla specie Homo erectus e ritenuti i primi fossili di uomini di origine africana al di fuori del loro continente. Infatti i crani di Dmanisi sono appartenuti a individui più piccoli e dotati di utensili più primitivi di quelli utilizzati da Homo erectus (Wong 2003b).

Le principali teorie sull'evoluzione dell'uomo moderno, proposte prima della scoperta dei fossi di Dmanisi sostengono, con diversa impostazione, l'origine di H. sapiens da H. erectus. La prima teoria fa riferimento al modello della «continuità regionale» di Weindereich[25] degli anni '40 e successivamente integrato con quello «multiregionale » (Thorne 1981)[26]. La specie H. erectus (compresa la forma ancestrale H. ergaster), con i suoi caratteri altamente arcaici, non sarebbe altro che una antica variante di H. sapiens: pertanto le popolazioni moderne sarebbero le rappresentanti più recenti di una evoluzione iniziata nel momento in cui l'uomo lasciò l'Africa. I gruppi ancestrali della specie Homo erectus che avevano raggiunto e colonizzato le diverse aree geografiche del Vecchio Mondo, avrebbero cominciato a differenziarsi e si sarebbero evolute in modo continuo e parallelo attraverso le forme arcaiche della specie Homo sapiens fino alle moderne popolazioni dell'Africa, dell'Asia, dell'Europa e dell'Australia. Negli ultimi due milioni di anni, la storia della nostra linea evolutiva sarebbe consistita di un intreccio di popolazioni di questa specie che si stavano sviluppando in ogni regione del Vecchio Mondo, ciascuna adattata alle condizioni locali, ma tutte continuamente collegate da scambi genici. Il modello "multiregionale" propone infatti un continuo «scambio genetico» tra le popolazioni che si andavano differenziando nelle forme locali attuali (Rickards 1995; Tattersal 1997). I dati molecolari, ottenuti dallo studio del genoma mitocondriale di campioni di popolazioni umane provenienti da diverse aree geografiche (Africa, Asia, Australia, Nuova Guinea ed Europa) risultano però incompatibili con il modello "multiregionale". Quest'ultimo prevede che a) i geni presenti nelle popolazioni attuali siano, almeno in parte, strettamente connessi a quelli dei loro predecessori arcaici e non solamente a quelli degli africani moderni, e b) che si dovrebbero trovare dei rami evolutivi molto antichi in Europa e/o in Asia. Le indagini sul mtDNA (DNA mitocondriale) estese ormai a numerose popolazioni dell'Eurasia, delle Americhe e del Pacifico, non hanno messo in evidenza nessun tipo mitocondriale così divergente da confermare i dati attesi dall'ipotesi "multiregionale". Poiché appare estremamente inverosimile che linee veramente antiche siano sfuggite al campionamento, si può ritenere che le forme arcaiche non abbiano contribuito con alcuna linea mitocondriale al pool genico della nostra specie (Rickards 1995).
La seconda proposta fa riferimento al modello della «singola origine africana», formulata la prima volta dal paleontologo Howells (1976), nota con il nome di modello dell'«Arca di Noè» o di «un'origine unica» e successivamente definita modello dell'«evoluzione africana recente» o della «sostituzione rapida» di Stringer e Andrews (1988)[27]. La specie Homo sapiens discende da una sola popolazione ancestrale che ebbe origine probabilmente in Africa. Una possibilità alternativa potrebbe essere il Vicino Oriente (Tattersall 1995), ma gli studi comparativi a livello molecolare danno sostegno all'idea che tutti gli esseri umani attuali discendano da una popolazione africana (Rickards 1995). Utilizzando le "mappe di restrizione"[Nota 53.] di soggetti provenienti da tutti i continenti, i ricercatori di Berkeley[28] hanno collegato i vari tipi mitocondriali in un «albero filogenetico» utilizzando il metodo della "massima parsimonia" che richiede il numero minimo di passaggi evolutivi per spiegare le differenze osservate tra le varie linee mitocondriali e per connettere quest'ultime tra loro. Dall'analisi di quest'albero filogenetico è stato dedotto che l'Africa è la fonte più verosimile di tutti i tipi mitocondriali presenti nelle popolazioni umane. Questa idea deriva dall'osservazione che uno dei due rami principali in cui è diviso l'albero conduce esclusivamente a tipi mitocondriali africani, mentre l'altro porta a diversi gruppi di linee che comprendono almeno un tipo africano. Pertanto i tipi mitocondriali africani presenti in tutte le altre aree geografiche devono essere stati portati da femmine che sono emigrate dall'Africa. Utilizzando l'orologio molecolare calibrato per il DNA mitocondriale (che batte con una velocità pari ad un accumulo di mutazioni dell' 1-2% per milione di anni), gli Autori hanno stimato che tutte le linee presenti nelle popolazioni attuali derivano da un'unica donna vissuta circa 200.000 anni fa in Africa, soprannominata la "nostra madre comune" [ipotesi dell' "Eva africana" o "Eva mitocondriale" o del "giardino dell'Eden" - Rickards 1995).
Fra le due teorie, la più coerente (anche con i risultati comparativi sul mtDNA) appariva quella della «evoluzione africana recente» delle odierne popolazioni umane discendenti tutte da una singola popolazione ancestrale, comparsa in una sola regione geografica del pianeta, l'Africa, fra 150.000 e 100.000 anni fa. Era parere condiviso che i primi esseri umani a) si sono avventurati a latitudini più settentrionali dell'Eurasia solo dopo l'invenzione di strumenti litici bifacciali e di altri strumenti di pietra dalle forme simmetriche preparati secondo la cultura acheuleana (il nome deriva dal sito di Saint Acheul, Francia sett., dove è stato trovato il primo giacimento risalente al Paleolitico inferiore) e b) erano alti dal cervello voluminoso appartenenti alla specie H. erectus voluminoso le cui tracce più antiche sono state rinvenute nel sito di 'Ubeidiya in Israele.
L'interpretazione di un pioniere alto, robusto, con arti allungati, intelligente, munito di tecnologia avanzata, contrasta con l'interpretazione che viene attualmente data ai fossili umani eccezionalmente ben conservati, riportati recentemente (dal 1991 ad oggi) alla luce insieme con strumenti di pietra - rappresentati da semplici schegge e chopper (antica cultura olduvaiana) e resti di animali - nel sito di Dmanisi, in Georgia, risalenti a circa 1,75 milioni di anni fa, cioè mezzo milione di anni prima dei reperti di 'Ubeidiya. La scoperta di tre crani ha consentito di valutare la loro capacità volumetrica corrispondente a 770, 650 e 600 centimetri cubi, ovvero meno della metà rispetto alla capacità volumetrica di un cranio H. sapiens moderno e molto meno di quanto ci si aspetterebbe per quella di un cranio H. erectus. Le esatte proporzioni corporee degli ominidi georgiani non sono state ancora definite con precisione, ma si ritiene che siano quelle di individui molto più piccoli del classico H. erectus individuato nei siti fuori dall'Africa. Il ritrovamento del terzo cranio di 600 centimetri cubi ha portato alla sorprendente scoperta che (contrariamente alla diffusa convinzione) un cervello voluminoso non sia un requisito indispensabile per la migrazione intercontinentale: alcuni di questi primi pionieri di Dmanisi erano a malapena più «cervelloni» del primitivo H. habilis. Secondo il direttore dello scavo, David Lordkipanidze, è probabile che la popolazione rappresentata dagli ominidi di Dmanisi sia stata l'anello di congiunzione fra H. habilis e H. erectus.
Il sito di Dmanisi è il più antico che abbia mai fornito fossili di ominidi al di fuori dell'Africa. La morfologia arcaica dei fossili, gli strumenti di pietra di tradizione olduvaiana, realizzati con materie prime locali e le relative datazioni, lasciano complessivamente ritenere che si debba I) retrodatare, di centinaia di migliaia di anni, la colonizzazione dell'Eurasia, II) mettere in discussione la teoria secondo cui gli ominidi non avrebbero lasciato l'Africa prima dell'invenzione della tecnologia acheuleana, e III) considerare gli individui arcaici della popolazione del sito di Dmanisi antenati diretti dei successivi H. erectus asiatici dotati di strumenti litici di cultura acheuleana, precedentemente inventati da individui della specie H. ergaster (Wong 2003b).
In conclusione, allo stato attuale non è stato quindi chiarito se l'origine della specie H. sapiens sia dipendente da H. erectus o piuttosto da H. heidelbergensis. Gli studi a livello molecolare fanno ritenere favorevolmente che la sua origine sia africana, databile tra 150.000 e 200.000 anni fa e che 50.000 a. f. comparvero in Europa gli uomini di Cro-Magnon, nuova sottospecie H. sapiens sapiens che soppiantarono tutte le specie arcaiche del genere Homo e si diffusero rapidamente su tutto il pianeta (Tattersall et al. 2000).

2.1.5.3.3.2.2. La cultura nella Mezzaluna Fertile, sorgente delle civiltà euroasiatiche
La comparsa dell'uomo attuale, H. sapiens con struttura anatomica di tipo moderno, è un evento recente che si è svolto sullo sfondo di una lunga e complessa storia di diversificazione evolutiva degli ominidi (H. ergaster, Homo erectus, H. heidelbergensis, H. sapiens) nel Vecchio Mondo. Sviluppi evolutivi interessanti si sono avuti anche in Europa e in Asia orientale (Tattersall 1995), ma appare certo che tutte queste popolazioni arcaiche, come quelle neandertaliane, furono successivamente soppiantate dai nuovi emigrati dall'Africa, il centro da cui si sono irradiate nuove linee evolutive umane.
Alla luce delle conoscenze attuali, l'Europa era abitata senza dubbio 500.000 anni fa, e forse ancora prima. É ragionevole pensare che la colonizzazione dell'Asia permise quella dell'Europa, essendo i due continenti una sola massa (Eurasia) non separata da barriere insormontabili (Diamond 1998). La zona dell'Asia occidentale nota come Mezzaluna Fertile, ampio territorio che si estende nella Mesopotamia e in Medioriente nelle valli del Tigri e dell'Eufrate [Nota 54.], ha avuto un'importanza fondamentale nella storia dell'intera umanità (Keller 1990). Lì sono comparsi per la prima volta le città, la scrittura, i grandi imperi e tutto ciò che chiamiamo civiltà. Tutto ciò è stato reso possibile, di volta in volta, dall'aumento della densità di popolazione, dall'immagazzinamento dei surplus alimentari e dalla nascita di una classe di specialisti non dediti alla produzione del cibo: il che a sua volta è merito dell'agricoltura e dell'allevamento (Diamond 1998).
Il problema di fondo degli etnobiologi, è stato quello di capire su quale base i cacciatori-raccoglitori abbiano abbandonato la vita nomade per quella sedentaria legata all'agricoltura e all'allevamento. Dalle ricerche sui pochi attuali cacciatori-raccoglitori o su popolazioni sedentarie ancora molto dipendenti dalle risorse naturali, è risultato che questi popoli, hanno una profonda conoscenza del loro territorio e sono diventati delle enciclopedie viventi di scienze naturali, al punto che hanno "classificato" con uno specifico nome della loro lingua centinaia di piante, di cui conoscono le caratteristiche, la distribuzione e gli utilizzi (Diamond 1998). Ciò lascia ritenere che anche nella Mezzaluna Fertile, le popolazioni di cacciatori-raccoglitori abbiano avuto come presupposto di base per la domesticazione e l'allevamento di piante e di animali, una comparabile conoscenza biologica delle specie vegetali e animali fruibili a quel tempo sul territorio.
Per quello che riguarda la nascita dell'agricoltura, la Mezzaluna Fertile è 1'area dove le società dei cacciatori-raccoglitori hanno ottenuto i migliori risultati nel Mondo. I cambiamenti climatici avvenuti circa 10.000 anni fa, hanno conferito a tutta 1'area della Mezzaluna Fertile un clima di tipo mediterraneo, caratterizzato da inverni miti e piovosi e da estati lunghe, calde e secche. Le specie che hanno prosperato in questo clima si sono adattate a sopravvivere alla lunga stagione arida, e a crescere rapidamente alla ripresa delle piogge. Molte piante mediorientali, in special modo i cereali e i legumi, hanno un adattamento specifico utile al genere umano: sono annue, cioè si seccano e muoiono con la stagione arida. A causa del loro breve ciclo vitale, le piante annue non superano le dimensioni di una piccola erbacea, che genera semi grossi e robusti, i quali rimangono in quiescenza durante la stagione secca e sono pronti a germogliare con le prime piogge: gran parte di questi semi (tra cui quelli dei cereali e dei legumi) sono commestibili per l'uomo.
Una tra le specie selvatiche di cereali che ha avuto conseguenze fondamentali nella storia dell'umanità è una graminacea selvatica chiamata "einkorn" (Triticum monococcum), il predecessore del frumento attuale. Circa 10.000 anni fa, questa pianta rappresentava l'alimentazione fondamentale delle società di cacciatori-raccoglitori nelle valli del Tigri e dell'Eufrate in Medioriente. La grande quantità di semi che si poteva ottenere da queste piante, convinse quelle popolazioni ad attività sedentarie, e a costruire villaggi: era l'inizio dell'agricoltura moderna [Nota 55.]. Le popolazioni della Mezzaluna Fertile che mietevano il frumento, tendevano a raccogliere maggiormente i semi che rimanevano saldamente attaccati alla spiga. Le generazioni successive di operatori sul territorio mantennero questa tradizione agricola e iniziarono a coltivate sempre più varietà di piante con semi saldamente attaccati e nudi rispetto a quelle con i semi rivestiti. In questo modo il frumento cominciò a modificarsi in modo tale che oggi, in tutte le piante di frumento coltivato, i semi rimangono attaccati alla spiga. I progenitori genetici del frumento attuale si trovano ancora nella Mezzaluna Fertile e sono tuttora usati per esperimenti di riproduzione. In un esperimento, alcuni botanici si sono messi a raccogliere semi selvatici riproducendo le condizioni che dovevano essere presenti 10.000 anni fa, e hanno dimostrato che già allora si poteva ottenere circa una tonnellata per ettaro di prodotto, per un valore pari a 50 calorie per ogni caloria di lavoro speso. La raccolta di grandi quantità di semi maturi in poco tempo, e il loro immagazzinamento per il resto dell' anno, spiega perché alcuni cacciatori-raccoglitori della Mezzaluna Fertile riuscirono a diventare sedentari anche prima di iniziare a praticare una vera e propria agricoltura. Dato che i cereali mediorientali erano così produttivi allo stato selvatico, furono necessari pochi cambiamenti per renderli domesticabili. Essendo cosi facili da domesticare, le piante annue dai semi grossi furono le prime - o tra le prime - ad essere coltivate non solo nella Mezzaluna Fertile ma anche in Cina e nel Sahel (Diamond 1998).
La flora della Mezzaluna Fertile offriva inoltre ai potenziali agricoltori un numero straordinario di piante adatte alla domesticazione. Da una ricerca mirata del geografo Blumler[29] su 56 specie di piante erbacee che producono il seme più grosso utile all'uomo, si deduce che il proto-agricoltore mediterraneo aveva a disposizione ben 32 delle 56 specie «migliori» al mondo. Fra queste, otto piante diverse vengono considerate le «fondatrici» dell'agricoltura mediorientale: tre cereali (farro, einkorn e orzo), quattro legumi (lenticchie, piselli, ceci e la cicerchia o Lathyrus sativus) e una fibra (il lino). Sono specie molto caratteristiche della zona: solo due di queste (orzo e lino) erano presenti allo stato selvatico al di fuori della Mezzaluna Fertile e dell'Anatolia; e due altre erano diffuse solo in aree ristrette (i ceci nella Turchia sudorientale e il farro nel cuore della Mezzaluna). L'agricoltura poté nascere spontaneamente perché tutte le piante utili (11) erano già a disposizione. Grazie alla disponibilità di flora e fauna, gli abitanti della Mezzaluna Fertile potevano disporre quindi di un eccellente pacchetto completo per la produzione intensiva di cibo. I cereali erano fonte di carboidrati; i legumi e gli animali di proteine (con l'ausilio del grano, anch'esso di buon contenuto proteico); il lino dava fibre e grassi vegetali, grazie al suo seme che contiene il 40 per cento di olio (Diamond 1998).
Una caratteristica della Mezzaluna Fertile, favorevole all'agricoltura, è la sua grande diversità orografica: si va dalla depressione più bassa al mondo (il Mar Morto) ai monti alti più di 5000 metri, passando per pianure irrigue, colline e deserti. Una tale ricchezza di ambienti favorisce ancor di più la biodiversità. La differenza di altitudine si riflette nei tempi del raccolto, perché le piante coltivate in altura maturano più tardi di quelle delle pianure. I cacciatori-raccoglitori locali, quindi, potevano facilmente spostarsi sulle alte quote man mano che i semi maturavano, invece di dover concentrarsi su un unico breve periodo di raccolta ad un'unica altitudine. Con l'inizio dell'agricoltura vera e propria, i primi contadini poterono trapiantare nelle pianure irrigue le varietà di montagna, che erano più dipendenti dalla pioggia, migliorandone cosi la resa.
Questa ricchezza e diversità di ambienti è responsabile di un ulteriore vantaggio intrinseco della Mezzaluna Fertile: la sua abbondanza di specie animali di grossa taglia adatti alla domesticazione (cioè un mammifero erbivoro od onnivoro, con un peso medio di 45 chili), abbondanza che non si riscontra in nessuna altra zona del mondo: l'Eurasia che costituisce la più estesa massa continentale del globo, con grande varietà di ambienti, vanta il 18% di specie di mammiferi candidati per la domesticazione contro il 0-4% di altri continenti. Il motivo perché l'Eurasia ha fatto la parte del leone nella storia della domesticazione è quindi dato dalla sua ricchezza di specie di partenza, ricchezza che meno di altrove, è stata minata dalle grandi estinzioni. Delle 14 specie erbivore di grossa taglia domesticate nell'antichità, distinte nelle «cinque grandi» (bue, cavallo, capra, maiale, pecora) e nelle «nuove minori» (asino, banteng domestico, bufalo asiatico, cammello arabo o dromedario, cammello della Battriana, mithan, lama/alpaca, renna, yak), ben quattro specie mediorientali appartenenti alle «cinque grandi» furono le prime ad essere domesticate in epoca molto antica (capra, pecora, bue e maiale) e che tuttora sono i più importanti mammiferi domestici. Le quattordici specie di mammiferi erbivori domesticate, nella condizione di vita selvaggia, vivevano in branchi, avevano una struttura gerarchica organizzata e non erano rigidamente territoriali (cioè branchi diversi possono avere parti del territorio in comune). Questa struttura sociale è stata ideale per la loro domesticazione: i cavalli domestici seguono l'uomo che li guida perché lo identificano con la femmina dominante; e questo «errore» può essere facilmente trasmesso per imprinting ai piccoli che nascono in cattività, che imparano subito a riconoscere il loro signore e padrone. Un comportamento analogo hanno le pecore, le capre e i bovini. Questi mammiferi sono abituati per istinto a seguire un leader (umano o animale: ad es. i cani da pastore), e quindi è semplice condurli dove si vuole, si lasciano facilmente ammassare in mandrie, perché gli individui tollerano la reciproca presenza, e non si innervosiscono se ammassati nei recinti, visto che sono abituati a vivere in gruppi numerosi (Diamond 1998).
Secondo Diamond (1998) l'orientamento dei continenti ha influenzato la velocità di diffusione dell'agricoltura e dell'allevamento, e forse anche della scrittura, della ruota e di altre invenzioni. L'orientamento dei continenti è una caratteristica geografica fondamentale responsabile delle diverse vicende di americani, africani ed europei negli ultimi 500 anni: di fatto le Americhe e l'Africa sono molto più lunghe che larghe, l'Eurasia, invece, è orientata lungo l'asse est-ovest del pianeta e questo fatto ha avuto conseguenze nella storia dell'umanità. Le barriere di carattere topografico ed ecologico, assai più forti in alcuni continenti, costituirono importanti ostacoli locali alla penetrazione delle specie.
Dalla Mezzaluna Fertile, subito dopo la nascita dell'agricoltura attorno all'8000 a. C., una serie di spinte centrifughe fecero giungere questo stile di vita in altre parti del Vicino Oriente, dell'Europa e del Nordafrica, sia verso est sia i verso ovest: l'onda espansiva raggiunse la Grecia, Cipro e il subcontinente indiano prima del 6500 a. C., l'Egitto subito dopo il 6000, l'Europa centrale prima del 5400, la Spagna meridionale prima del 5200, e la Gran Bretagna attorno al 3500 a. C.
Questo rapido successo, dipendente dall'orientamento lungo l'asse est-ovest dell'Eurasia, è modulato da due principali fattori. Tutte le località poste alla stessa latitudine hanno giorni di durata uguale, e le stesse variazioni stagionali della medesima. La germinazione delle piante, il loro tasso di crescita e la resistenza alle malattie sono adattamenti specifici per un tipo preciso di condizioni ambientali. I cambiamenti stagionali nella lunghezza, del giorno, nella temperatura e nella quantità di precipitazioni segnalano alla pianta «il da farsi»: germinare, far nascere fiori e frutti e cosi via. Il programma genetico stabilito dalla selezione naturale prevede un comportamento appropriato di risposta a tutti i segnali presenti nell' ambiente in cui la specie si è evoluta. Sono segnali molto diversi a diverse latitudini: il caso più evidente è dato dalla durata della luce, che dipende esclusivamente dalla distanza dall'Equatore (Diamond 1998).
Un secondo importante fattore, è la cosiddetta «domesticazione preventiva», che ha favorito la rapida diffusione dell'agricoltura dalla Mezzaluna Fertile. Una pianta diventa domestica dopo che una serie di modifiche, causate di volta in volta da diverse mutazioni o pressioni selettive, l'ha resa più utile all'uomo (grazie ad esempio a semi più grossi, a un gusto più gradevole e così via). Se una specie produttiva è già bell'e pronta, un contadino alle prime armi si mette a coltivarla, e non ricomincia da capo cercando di piegare al suo volere altre specie affini. Una pianta che è stata domesticata una volta sola è, con tutta probabilità, una pianta che si è diffusa facilmente al di fuori della sua zona d'origine, rendendo in questo modo inutile (cioè prevenendo) ogni ulteriore domesticazione. Le piante della Mezzaluna Fertile tendono a presentarsi in modo molto omogeneo, il che ci fa propendere per un'unica domesticazione. La rapidità di diffusione può prevenire la «ridomesticazione» non solo della stessa specie, ma anche di qualche specie strettamente correlata. Le piante fondatrici della Mezzaluna Fertile erano cosi soddisfacenti da prevenire la domesticazione di tutte le loro parenti strette nell'intera porzione occidentale dell'Eurasia (Diamond 1998).
Quando l'agricoltura arrivò in Europa centrale attraverso la pianura ungherese, attorno al 5400 a. c., viaggiò ad una tale velocità che nel giro di poco tempo troviamo siti quasi contemporanei in Olanda e in Polonia. Al tempo della nascita di Cristo, i cereali mediorientali crescevano lungo tutti i 16000 chilometri che separano le coste dell'Irlanda da quelle del Giappone, cioè lungo la più estesa striscia continua di terraferma del globo. Le varietà di specie che vivono in latitudini diverse non sono intercambiabili, perché quelle originarie della Mezzaluna Fertile si possono coltivare in Francia e in Giappone, ma non all'Equatore. Se l'orientamento est-ovest dell'Eurasia favorì la diffusione delle specie originarie del Vicino Oriente, lo stesso si può dire per il processo inverso, e cioè l'arrivo di piante domesticate in zone diverse dalla Mezzaluna Fertile. Questo concorso di fattori annientali e biologici spiegano la causa primaria della rapida e facile diffusione, ad ovest e ad est dell'Eurasia, delle specie della Mezzaluna Fertile: erano già ben adattate ai climi delle regioni in cui arrivavano. Le differenze geografiche tra i continenti non condizionarono solo il cammino dell'agricoltura, ma anche quello di varie tecniche ed invenzioni. La ruota, apparsa attorno al 3000 a. C. nel Vicino Oriente, si diffuse in gran parte dell'Eurasia nel giro di pochi secoli, mentre la stessa invenzione indipendente in Messico non arrivò mai fino alle Ande. Lo stesso accadde per l'idea dell'alfabeto, che parti dalla Fenicia attorno al 1500 a. C. e arrivò a Cartagine e in India in meno di 1000 anni, invece il sistema di scrittura inventato in Mesoamerica, che fu usato per almeno 2000 anni, non usci mai dal suo luogo d'origine. Il legame tra l'utilizzo della ruota e della scrittura è passato attraverso le conseguenze dell'agricoltura. Le prime ruote furono usate per i carri trainati da buoi, destinati al trasporto di cibo. La scrittura si diffuse all'interno di ristrette élite mantenute dalla massa di contadini che producevano il cibo necessario, e fu messa al servizio della propaganda, della burocrazia e del commercio - tutte funzioni tipiche di una società agricola complessa. In generale, è più probabile che queste modelli di società si siano diffuse in popoli che hanno già avuto intensi scambi di semi, di animali e di tecniche produttive (Diamond 1998).

2.1.5.3.3.2.3. Dall'organizzazione sociale dei cacciatori-raccoglitori a quella dello stato
Diamond (1998) classifica le società umane in quattro gruppi: bande, tribù, chefferies e stati. Le bande e le tribù dei giorni nostri sono confinate in terre remote e marginali dal punto di vista economico. Le chefferies, invece, sono tutte scomparse entro l'inizio del secolo, perché insediate su aree assai appetibili sono finite nel mirino di qualche stato.

Bande
I nostri parenti primati più stretti, i gorilla e le due specie di scimpanzé, vivono in bande. È presumibile che così facesse l'intera umanità, prima che alcuni nomadi stanziati in aree ricche di risorse, come la Mezzaluna Fertile, siano diventati sedentari. La banda è un tipo di organizzazione sociale di base ereditata da una storia evolutiva lunga milioni di anni. É probabile che tutto il genere umano sia vissuto in bande fino a 40.000 anni fa, e che la maggioranza lo facesse ancora fino a 11000 anni fa. Tutti gli ulteriori passi sono stati compiuti in poche decine di migliaia di anni: ma ancora nel 1500, meno del 20% delle terre al mondo erano segnate dai confini degli stati moderni, dotati di governi e leggi.
Le bande sono rappresentati da piccoli gruppi umani, formati in genere da 5 a 80 individui, tutti più o meno affini e/o parenti: si possiamo considerare come una famiglia estesa, o come l'unione di più famiglie estese imparentate tra loro. Al giorno d'oggi le uniche bande autosufficienti sono confinate nelle più remote aree della Nuova Guinea, come i fayu studiati da Diamond (1998) e dell'Amazzonia. In tempi recenti molte bande sono state poste sotto il controllo di qualche governo centrale, o assimilate, o sterminate: i pigmei in Africa, i boscimani (san) del Sudafrica, gli aborigeni australiani, gli eschimesi (inuit), e alcuni gruppi di americani nativi abitanti in aree povere di risorse come la Terra del Fuoco o le foreste artiche. Tutti questi popoli erano o sono cacciatori-raccoglitori nomadi.
I componenti delle bande non hanno una residenza fissa, la terra è usata collettivamente dal gruppo; non c'è specializzazione economica e tutti gli individui abili al lavoro sono addetti a procurare il cibo; mancano istituzioni formalizzate, come le leggi, la polizia, la diplomazia, per sedare in modo non violento i conflitti interni e tra i vari gruppi [Nota 56.]. Allo stato attuale, le famiglie estese dei cacciatori-raccoglitori fayu della Nuova Guinea, rappresentate da poche decine di adulti, con i vecchi e i bambini da loro mantenuti, vivono in rozzi rifugi accanto ai torrenti e si spostano in canoa o a piedi. La regione dei fayu manca di quella concentrazione di risorse che permette a un numero maggiore di individui di sopravvivere nello stesso posto. La principale fonte di cibo dei fayu è il sago (un tipo di palma di cui si mangia il midollo farinoso) e i gruppi famigliari devono spostarsi quando hanno tagliato tutte le piante di sago mature in una zona. Le bande sono poco popolose, a causa delle malattie (soprattutto la malaria), dell'assenza di risorse naturali (persino la pietra per gli utensili deve essere importata) e della scarsità di cibo. Fattori limitanti di questo tipo sono all'opera in tutte le parti del mondo ancora occupate (o occupate fino a poco tempo fa) da bande nomadi. La loro organizzazione sociale viene considerata «egualitaria», nel senso che mancano di stratificazione sociale, di preminenza formale di un individuo per nascita o per scelta, e di controllo dell'informazione e delle decisioni da parte di qualcuno. Il ruolo di preminenza non è formalizzato, ma si acquisisce con la personalità, la forza, l'intelligenza o l'abilità nel combattere (Diamond 1998).

Tribù
Lo stadio immediatamente successivo alla banda è la tribù, un'unità sociale più grande, generalmente sedentaria, formata da centinaia di individui che hanno in comune lingua e cultura. Gli scavi mostrano che le prime tribù apparvero circa 13000 anni fa nella Mezzaluna Fertile, e dopo in altre aree dell'Eurasia. Un prerequisito per l'insediamento stabile è la capacità di produrre cibo, o perlomeno il vivere in un ambiente le cui risorse sono particolarmente ricche e concentrate. Ecco perché i villaggi e le tribù nacquero e proliferarono nella Mezzaluna Fertile, in un'epoca in cui i cambiamenti climatici e i progressi tecnologici permettevano per la prima volta abbondanti raccolti di cerali selvatici.
La tribù è abbastanza piccola da far si che tutti conoscano il nome e le relazioni di parentela degli altri membri. La tribù, rispetto alla banda, ha in più una struttura formata da diversi gruppi di parentela formalmente riconosciuti, detti «clan», che si suddividono la terra: poche centinaia di individui è un ragionevole limite per una sociétà in cui tutti si conoscono. Quando un'organizzazione sociale umana diventa più complessa, man mano che aumenta il numero degli individui, si fa più pressante il problema della risoluzione dei conflitti interpersonali. Nelle tribù tutti o quasi sono legati tra loro per matrimoni o parentele; questa rete di relazioni fa si che istituti come la legge o la polizia siano superflui: se due persone hanno un motivo di contrasto, i molti parenti e affini in comune tenteranno comunque di risolverlo e non farlo diventare violento. Il sistema sociale delle tribù, come quello delle bande, è di tipo «egualitario», e non prevede classi. Pertanto hanno un sistema di governo informale e la trasmissione delle informazioni e i processi decisionali sono comuni a tutti. In molti villaggi della Nuova Guinea c'è una specie di capo (il big-man) che ha più autorità degli altri, ma non si tratta di una carica formale e implica un potere molto limitato: vive in una capanna simile a quella degli altri, si veste e si adorna nello stesso modo, o gira completamente nudo, come tutti gli altri. Il capo non può prendere decisioni da solo, non ha «segreti di stato» che altri non conoscano e non può fare più di un tentativo di cambiare le deliberazioni della comunità. I capi acquisiscono prestigio grazie alle loro qualità, e la carica non è ereditaria. Non solo il prestigio non è ereditario: nessun membro da solo può diventare molto più ricco degli altri, perché tutti sono legati tra loro da una rete di debiti e obblighi morali.
Nelle tribù, come nelle bande, mancano burocrazia e le tasse. L'economia è basata sul «baratto» tra individui o famiglie, e non si conosce l'idea della ridistribuzione di tributi versati a un'autorità centrale. In Nuova Guinea quando un capo villaggio è incaricato di distribuire la carne di maiale in un banchetto, assume un ruolo che si avvicina a quello di un «vero» capo che raccoglie beni e cibo sotto forma di tributi e li distribuisce. La specializzazione è minima: mancano artigiani a tempo pieno, e ogni adulto in grado di farlo (incluso il capo villaggio) partecipa al raccolto, alla caccia o alla coltivazione del cibo. Poiché mancano gli specialisti, nelle società tradizionali mancano anche gli schiavi, perché non ci sono lavori «servili» a loro riservati. Uno dei tratti distintivi delle tribù è l'assenza di edifici di carattere pubblico: in alcuni grossi villaggi guineani esistono case comuni di culto (dette haus tamburan nella zona del fiume Sepik) che sono il primo passo verso i templi delle società più avanzate (Diamond 1998).

Chefferies
La nascita delle chefferies [Nota 57.] risale a 7500 anni fa: le testimonianze archeologiche indicano che questa forma di società a struttura oligarchica, apparve attorno al 5500 a. C. nella Mezzaluna Fertile e prima del 1000 a. C. in Mesoamerica e sulle Ande. Queste organizzazioni sociali superiori alle tribù comprendevano migliaia se non decine di migliaia di individui. Le loro dimensioni potevano creare seri problemi di conflittualità interna, perché ogni abitante non aveva alcun legame di sangue con la maggioranza degli altri, che nemmeno conosceva per nome: nelle chefferies l'uomo, per la prima volta, dovette imparare a convivere nell'organizzazione sociale di appartenenza.
Le chefferies, erano formate da numerose famiglie non imparentate tra loro, non organizzate in clan di eguale rango: la famiglia più importante era quella del capo e questo privilegio veniva trasmesso per via ereditaria. Alle Hawaii [Nota 58.] c'erano otto caste ereditarie di capi, ordinate per via gerarchica, i cui membri si sposavano solo all'interno della propria casta. Il capo rappresentava un'autorità centrale permanente, che prendeva le decisioni importanti e aveva il monopolio di alcune informazioni (politico-militari, economiche e religiose). I capi potevano essere riconosciuti tra la folla perché indossavano vesti o ornamenti speciali (ad esempio un grosso ventaglio fissato alla schiena, sull'isola di Rennell), e un comune cittadino doveva mostrargli rispetto attraverso forme ritualizzate come l'inchino. I suoi ordini potevano essere trasmessi attraverso governanti di grado intermedio, o capi di basso rango: un capo di grado intermedio (konohiki) poteva occuparsi della riscossione dei tributi, e contemporaneamente dell'irrigazione, delle corvée lavorative e di quant'altro, laddove oggi abbiamo ministri delle finanze, magistrati delle acque, uffici leva e così via. Non si trattava quindi di una burocrazia di tipo statale, perché non esisteva una suddivisione dei ruoli. Un carattere di primitività culturale di questo livello di organizzazione sociale sta anche nel fatto che nessuna chefferie, anche la più complessa, ha mai posseduto documenti scritti.
Nelle chefferies, anche se il baratto continuava a essere diffuso, si sviluppò un sistema alternativo di economia ridistributiva. Ad esempio, un capo poteva ricevere dai contadini del grano, poi organizzare una grande festa in cui distribuiva pane a tutti, oppure immagazzinava il grano e a poco a poco lo ridistribuiva prima del raccolto successivo. In alcuni casi, parte dei beni ricevuti dal popolo non venivano ridistribuiti, ma erano consumati dalla casta dominante e da chi lavorava per loro: si trattava di un vero tributo, un precursore delle moderne tasse. Non solo, il capo poteva chiedere al popolo anche di partecipare alla costruzione di grandi opere, sia che queste fossero di utilità pubblica (come un sistema di irrigazione), sia che fossero ad uso e consumo della classe alta (ad esempio una tomba monumentale). Inoltre, visto che le classi dominanti avevano bisogno non solo gli artigiani ma anche di chi facesse i lavori umili al posto loro, sono stati utilizzati gli schiavi, che venivano in genere catturati nelle scorrerie.
I beni di lusso, come alcuni prodotti artigianali e oggetti rari che venivano da lontano, erano riservati ai capi. Quelli hawaiani, ad esempio, si adornavano con mantelli di piume, alcuni dei quali formati da migliaia e migliaia di piume diverse, e così complicati da richiedere il lavoro di generazioni di artigiani. Quando nelle ricerche archeologiche ci si imbatte in un sito caratterizzato da una concentrazione di oggetti speciali, gli studiosi sono propensi a ritenere che questo sia il segno di riconoscimento di una chefferie del passato: le tombe dei capi sono in genere piene di ricchezze, al contrario di quelle del popolo, il che costituisce una svolta rispetto alle più antiche sepolture indifferenziate. Altri segni distintivi sono la presenza di resti di edifici pubblici, come i templi, e di una gerarchia di insediamenti, con un sito (evidentemente la sede del capo) più grande e più ricco degli altri.
Le chefferies rappresentano per la prima volta un organizzazione sociale « non egualitaria ». Nei casi migliori, questo tipo di società ha costituito un buon modo per realizzare servizi costosi che i singoli individui non potrebbero permettersi. Nei casi peggiori, le chefferies sono state scandalose «cleptocrazie» (cioè governi di ladri) in cui c'è stato un semplice trasferimento di ricchezza da una classe all'altra. Nelle chefferies è comparsa un'ideologia che anticipa le «religioni istituzionalizzate», e che serve a rafforzare l'autorità del capo. Il capo può essere un leader politico e religioso allo stesso tempo, o può mantenere una casta di sacerdoti che provvede a questo fine. Ecco perché una cosi larga parte dei tributi è servita per costruire i templi, che servono sia come luoghi di culto della religione ufficiale sia come segni visibili di potere. Oltre a fornire questo tipo di giustificazione, la religione portò due importanti vantaggi alle società centralizzate. Innanzitutto, aiutò a risolvere il problema della convivenza pacifica tra estranei, provvedendo a fornire un legame comune che va al di là della parentela. In secondo luogo, fornì qualche motivazione di carattere idealistico per il sacrificio della vita dei soldati che morivano in battaglia nelle conquiste e nella difesa (Diamond 1998).

Stati
Negli ultimi 13000 anni della storia del genere umano c'è stata una tendenza ben definita all'emergere di società sempre più grandi e complesse. I primi stati sorsero in Mesopotamia attorno al 3700 a. c., al 300 a. C. in Mesoamerica, 2000 anni fa sulle Ande, in Cina e nel Sudest asiatico e 1000 anni fa nell'Africa occidentale. Dalle chefferies più complesse (quelle formate da diversi villaggi), sotto la crescente spinta demografica, hanno preso origine i primi stati (proto-stati). Il villaggio principale è diventato la capitale, mentre altri insediamenti si sono differenziati in città, che differiscono dai villaggi per la presenza di grandi opere pubbliche e di palazzi di governo, per l'accumulazione del capitale attraverso le tasse, e per la maggiore concentrazione abitativa. Una delle novità principali dello stato è che la sua organizzazione sociale è fondata su basi politiche e territoriali, non attraverso i legami di famiglia o clan. Questo nuovo modello di organizzazione sociale fa si che in alcuni stati possa anche venir meno l'omogeneità etnica e linguistica.
I primi Stati erano guidati da un «super-capo» che aveva molte caratteristiche di un re, il cui titolo era ereditario e i cui poteri erano sempre più grandi. In Mesopotamia la scrittura cuneiforme è nata quasi contemporaneamente alla formazione dei primi stati nei quali è diventato centralizzato il controllo dell'economia. Alla produzione di cibo erano destinate a quattro distinte classi (coltivatori di cereali, pastori, pescatori, e ortofrutticultori), ognuna delle quali dava allo stato il suo tributo (tasse), che veniva restituito sotto forma di attrezzi e cibo. Era lo stato a fornire i semi e gli aratri ai contadini, a raccogliere la lana dai pastori (per usarla anche come merce di scambio nei commerci internazionali per ottenere metalli e altri beni essenziali), e a fornire razioni alimentari agli operai preposti al mantenimento delle opere di irrigazione. La conseguente maggiore specializzazione economica, e il maggior ricorso alla manodopera di massa per i lavori pubblici, ha giustificato l'uso su larga scala degli schiavi: nel passato in molti stati la maggiore propensione alla guerra rendeva disponibile un numero significativo di prigionieri.
In uno Stato attuale i livelli dell'amministrazione centrale si moltiplicano a dismisura e i governi hanno diverse divisioni, ognuna con la sua gerarchia, il controllo centrale è più capillare e la ridistribuzione economica sotto forma di tasse e tributi è diventa generalizzata. Anche la specializzazione economica è più marcata, al punto che al giorno d'oggi perfino gli agricoltori non sono più autosufficienti. La risoluzione dei conflitti interni in uno stato è formalizzata, tramite la polizia, le leggi e il sistema giudiziario. Le leggi sono spesso scritte, perché quasi ovunque esistono élite in grado di leggere e scrivere. Malgrado il progresso della società, nelle moderne democrazie alcune informazioni importanti sono riservate a pochi individui che ne controllano la circolazione all'interno del governo e tra le masse, e che quindi controllano le decisioni.
Nei primi Stati esisteva una religione ufficiale e un'architettura religiosa standardizzata. Molti re, considerati divinità e trattati di conseguenza, erano anche capi della religione di stato, oppure nominavano qualche alto sacerdote allo scopo. In Mesopotamia, i templi erano centri non solo religiosi ma anche di raccolta dei tributi, di produzione di documenti scritti e di tecnologia (Diamond 1998).

2.1.5.3.3.2.4. Le prime civiltà della Mesopotamia
Gli attuali territori dell'Iraq, della Siria, della Palestina, di Israele e di parte della Turchia, rappresentano un inestimabile e irrinunciabile giacimento culturale per la storia dell'umanità. L'estesa piana alluvionale dell'Eufrate e del Tigri, tra Baghdad a Nord e Bassora a Sud, la Babilonia degli antichi, è la terra che ha il singolare ed unico privilegio di aver ospitato, nella seconda metà del IV millennio a. C., le prime città della storia umana, fra queste Ur, la metropoli sumerica che i testi biblici citano come la patria di Abramo (Keller 1990). Tra l'ascesa di Uruk - la prima città della storia in prossimità di Ur (Iraq merid.) - e la conquista di Alessandro Magno dei territori dei Sumeri e degli Accadi, fiorirono e decaddero molte città. Centinaia di migliaia di testi cuneiformi, amministrativi, letterari, scientifici, giuridici, lessicali, sono uno dei lasciti più impressionanti della Mesopotamia restituiti incessantemente (da un secolo e mezzo) dalla terra di quelle antiche civiltà alla scienza storica contemporanea (Matthiae 2003).
I Babilonesi, antico popolo abitante dal IV millennio a. C. la pianura fra il Tigri e l'Eufrate, situata tra gli Accadi a Nord e i Sumeri a Sud, parlavano una lingua semitica, scritta con caratteri cuneiformi, e professavano una religione politeista (dio supremo era Marduk). Dediti allo studio dell'astronomia e dell'astrologia, introdussero il sistema sessagesimale di misura. Servendosi di mattoni, costruivano templi con torri e palazzi con giardini pensili. Oltre al celebre codice di Rammurabi , ci hanno lasciato il poema epico Gilgamesh, cronache, inni religiosi.
Invasi e vinti dai Semiti [Nota 59.], i babilonesi risorsero durante il Primo Impero (1894-1595 a.C.) soprattutto ad opera di Hammurabi, sesto re della prima dinastia di Babilonia, il quale regnò dal 1792 al 1750 (o dal 1728 al 1686) a. C. Hammurabi dominò sulla regione della Mesopotamia, estendendo il suo regno fino al medio Eufrate. Fu autore del più antico codice scritto di leggi, inciso su una stele con caratteri cuneiformi, e ritrovato nel 1902. Le invasioni dei Cassiri e degli Assiri posero fine al primo impero babilonese. Dopo la caduta dell'impero Assiro, i babilonesi risorsero con l'affermarsi del Secondo Impero (625-538 a.C.) soprattutto ad opera di Nabucodònosor, re di Babilonia dal 605 al 562 a. C. (figlio di Nabopolassar), il quale sottomise la Palestina, distrusse Gerusalemme (586) e deportò gli Ebrei. Nel 538, i Babilonesi furono sottomessi da Ciro il Grande (~ 600-528 a.C. - figlio di Cambise, cui successe nel 558), fondatore dell'Impero persiano, dopo aver conquisto la Media (550), la Lidia (546), l'Impero babilonese (539), liberato gli Ebrei dalla cattività di Babilonia. Successivamente, i babilonesi sono stati sottomessi da Alessandro Magno (356-323 a. C.) re di Macedonia (figlio di Filippo II cui successe nel 336): vinse in seguito i Persiani presso il Granico (Asia Minore) e ad Isso (333), occupò poi la Siria, la Fenicia, espugnò Tiro e Gaza, e passò in Egitto ove fondò Alessandria (332). Ad Arbela (o Gaugamela, 331) in Persia, ottenne una terza vittoria che gli diede in mano tutto l'impero di Dario III (335-330). Occupate Babilonia, Susa, Persepoli, si accinse alla conquista dell'India, ma giunto all'Ifasi, affluente dell'Indo, dovette rinunciare all'impresa per il rifiuto dell'esercito di seguirlo (324). Morì improvvisamente l'anno seguente. Dopo il dominio ellenico, i babilonesi sono stati sottomessi dai Seleucidi [Nota 60.], dai Parti [Nota 61] e infine dai Romani.

La lunga storia dei Babilonesi è strettamente legata a quella dei Sumeri, degli Accadi e degli Assiri. I Sumeri, erano un'antica popolazione della Mesopotamia meridionale, la cui civiltà è nota da documenti risalenti al 3000 a. C. I sumeri svilupparono la loro potenza militare e politica sulla Mesopotamia, nel periodo 3200/2800-2000 a C., raggiunsero il loro apogeo nel XXIV a. C., ma soccombettero di fronte all'affermarsi di dinastie semitiche (XX sec. a. C.). Gli Accadi, antica popolazione semitica della Mesopotamia, guidati da Sargon il Grande (~ 2350 a. C. - Sargon Il Grande XXIV sec. a. C., fondatore del Primo Impero Semitico), costituirono un potente regno e sconfissero i Sumeri, della cui civiltà furono i continuatori. Gli Assiri, erano un antico popolo semitico stanziato in Mesopotamia lungo il corso settentrionale del Tigri e dei suoi affluenti Grande e Piccolo Zab. Fondarono il più vasto degli imperi anteriori (1366-611 a. C.) a quello persiano. Le più antiche notizie risalgono al II millennio a. C.: fu il re Tiglatpileser I (1112-1074 a. C.) il vero fondatore dell'impero assiro ed estese i suoi possessi sino al Mediterraneo, sottomettendo quasi tutto il vasto territorio della Mezzaluna Fertile. Dopo un periodo di lotte intestine seguì una nuova epoca di grandezza con Tiglatpileser III (745-727 a. C.) il quale conquistò la Siria e la Palestina. Il re Sargon II (721-705 a. C.) iniziò la nuova dinastia dei Sargonidi. Il figlio Sennacherib (704-681 a.C.) distrusse Babilonia e pose la capitale a Ninive. Infine Assarhaddon (680-669 a.C.) ed Assurbanipal (669-626 a. C.) conquistarono il basso Egitto. Ma nel 612 a. C. i Medi [Nota 62.] coalizzati con l'esercito di Nabopolassar, re di Babilonia (dal 625 al 605 a. C), conquistarono e distrussero Ninive, ponendo fine all'impero assiro.

In conclusione, processi d'innovazione di portata epocale nella struttura sociale, dalla specializzazio-ne dei mestieri all'articolazione in classi, accompagnarono il realizzarsi delle città nella Mezzaluna Fertile e in particolare della Mesopotamia. L'organizzazione razionale del sistema produttivo fondato sull'accumulo delle eccedenze agricole, la strutturazione di una complessa ed efficiente burocrazia di governo, il consolidamento di tecnologie avanzate soprattutto nella metallurgia, l'elaborazione del cuneiforme - che con il geroglifico egiziano è la più antica scrittura dell'umanità - l'affermarsi dell'architettu-ra monumentale e delle arti figurative come mezzi privilegiati dell'espressione simbolica, sono solo alcune tra le principali conquiste delle genti della più antica Mesopotamia urbanizzata (Matthiae 2003), ma anche la indiscussa premessa dell'evoluzione tecnologica-culturale delle popolazioni euroasiatiche e in particolare di quelle europee. Le due recenti guerre nel Golfo Persico, hanno esposto la terra millenaria della Mesopotamia al rischio di una devastazione senza confronti con perdite incalcolabili per il patrimonio culturale dell'umanità. Questo patrimonio deve essere protetto e salvaguardato ad ogni costo per le generazioni future.

4. Appendice
Elenco delle "Note" inserite nel testo
1. Due forme dello stesso gene che differiscono per una o più mutazioni sono dette forme alleliche o semplicemente alleli di quel gene. Ad esempio, il prodotto di un allele può essere un enzima pienamente attivo, mentre nell'enzima prodotto dall'altro allele può esservi un cambiamento nella sequ-enza amminoacidica che lo rende inattivo (Luria et al. 1984).
2. I Cordati sono animali a simmetria bilaterale e presentano quale carattere distintivo comune: l'esistenza, almeno transitoria, di una corda dorsale che costituisce l'asse del corpo (D'Ancona 1953). A differenza dagli altri Cordati, i membri del subphylum Urocordati sono privi di celoma, non presentano alcun segno di metameria ma durante la vita larvale hanno la corda dorsale. Gli urocordati sono detti anche Tunicati poiché alcuni di essi vivono in un rivestimento sacciforme autosecreto involgente il corpo detto tunica, il quale contiene una sostanza cellulososimile detta tunicina che assicura protezione e sostegno (Mitchell L. G. et al 1992). I tunicati sono animali marini (Beaumont A. et al. 1974).
3. In una cellula diploide le due copie di un cromosoma sono omologhe fra loro: nel loro DNA vi è la stessa sequenza di geni. Normalmente i cromosomi omologhi non sono però identici. Durante molte generazioni i geni omologhi, situati in punti corrispondenti di cromosomi omologhi, subiscono mutazioni cioè cambiamenti delle loro sequenze nucleotidiche. Due forme dello stesso gene, che differiscono per una o più mutazioni, sono alleli di quel gene. In generale due alleli producono due diversi prodotti genici, normalmente proteine che differiscono per uno o più aminoacidi e che possono quindi avere proprietà differenti (vedi Nota 1.[Luria S.E. et al. 1984]).
4. Le cellule animali entrano in contatto con il mondo esterno attraverso la superficie cellulare, costituita a) da molecole lipidiche e proteiche che compongono la membrana plasmatica, e b) dalle regioni di queste molecole che sporgono dalla membrana nello spazio extracellulare. Grazie al-l'attività di questa interfaccia di contatto, le cellule sono in grado di riconoscere altre cellule come entità facenti parte di uno stesso soggetto o come strutture estranee. Gli organi trapiantati scambiati fra individui adulti, sia della stessa specie sia di specie diverse, vengono in genere distrutti dall'attività di rigetto del portatore. Il rigetto del trapianto è una risposta immunitaria ad antigeni estranei presenti sulla superficie delle cellule trapiantate. Questi antigeni sono glicoproteine della superficie chiamate molecole di istocompatibilità (MHC) codificate da un complesso di geni chiamati complesso primario di istocompatibilità (Marrack P. et al. 1993). Nei mammiferi, le molecole MHC sono gli antigeni bersaglio nelle reazioni di rigetto mediate dai linfociti T. Nell'ambito di una specie, e in particolare nell'uomo, vi è un numero straordinariamente elevato di forme alternative dello stesso gene (alleli - vedi Note 1. e 23) codificati per le molecole MHC, e per questa ragione è raro che due individui posseggano un insieme identico di glicoproteine MHC (Alberts B. et al. 1991; Wolfe S. L. 1996).
5. Il lattone è una piccola molecola: l'amminoacido serina con un metile in più [omoserina] meno una molecola di acqua = lattone dell'omoserina.
6. La proteina Lux R ha un comportamento molecolare affine a quello dei fattori di trascrizione, ovvero molecole proteiche denominate CREB (cAMP Responsive Element Bilding Protein) che interagiscono con particolari sequenze di DNA chiamate CRE cioè: elemento sensibile all'cAMP (vedi Ghirardi M. et al. 2002).
7. Alcune di questi corpi fruttiferi sono così complessi che, in passato, i mixobatteri vennero classificati come funghi.
8. Le spore, sono cellule caratterizzate da uno spesso rivestimento, che resistono al calore, all'essiccamento e a una prolungata carenza di sostanze nutritive.
9. Un'altezza di un decimo di millimetro corrisponde allo spessore di un capello: quindi è visibile a occhio nudo.
10. Il fattore A può essere considerato come un segnale di SOS. Se viene liberato solo da alcune cellule di una comunità, la concentrazione globale risulta bassa e la comunità ne deduce che l'ambiente circostante contiene risorse adeguate per la crescita delle singole cellule. Se, viceversa, una quantità sufficiente di cellule emette segnali di SOS, allora l'intera comunità è in pericolo: le cellule cominciano a riunirsi in un corpo fruttifero. A conferma di questa supposizione, il numero di cellule che devono secernere il fattore A per innescare la produzione del corpo fruttifero, è il minimo necessario per dare origine a un organo sporigeno completo.
11. Architettonica spugne: 1) le spugne più semplici, Ascon, sono costituite da aggruppamenti di piccoli tubi variformi verticali; 2) le spugne di tipo sycon, hanno un corpo ripiegato che assicura una superficie di area maggiore per il contatto dell'acqua con i coanociti (vedi Nota 13/b); 3) le spugne di tipo leucon hanno la parete del corpo ripiegata secondo modalità molto complesse (Mitchell L et al. 1992).
12. La parabiosi consiste nell'unione vascolare e di organi fra due embrioni o adulti. Sperimentalmente si può creare una parabiosi, semplicemente affiancando due embrioni di Anfibi della stessa specie previa asportazione di una limitata zona cutanea. In tempi brevi i lembi cutanei cruenti si saldano: ma il successivo sviluppo dei due partner dipende dal grado di affinità tissutale delle specie associate (Stefanelli A. 1995).
13. La maggior parte delle spugne hanno tre strati di cellule simili a tessuti: a) uno strato esterno, simile alla cute detto pinacoderma, formato da un singolo strato di cellule dette pinacociti; b) uno strato interno, che tappezza certe camere acquifere interne detto coanoderma, formato da un singolo strato di coanociti; c) uno strato gelatinoso compreso fra il pinacoderma e il coanoderma detto mesoila, formato da proteine fibrose e/o spicole inframmezzate con varie cellule ameboidi. La matrice gelatinosa della mesoila comprende alcuni tipi di amebociti, ovvero cellule libere di muoversi che svolgono una stupefacente gamma di funzioni: i spongociti, secernono fibre di spongina; i sclerociti, secernono spicole e gli archeociti, cellule indifferenziate che costruiscono e riparano il corpo della spugna differenziandosi in pinacociti e coanociti secondo necessità ed possono eliminare qualsiasi particella non-alimentare che entri nella spugna o che tenda a ostruire i suoi canali acquiferi. Gli amebociti possono anche diventare un tipo specializzato di cellula contrattile, il miocita. Un gruppo di miociti forma frequentemente una banda liscia simile a un muscolo attorno all'osculo o attorno ai pori nella parete del corpo. I miociti, situati sotto il pinacoderma, riescono a regolare il diametro dell'osculo o dei pori, contribuendo così a regolare la corrente d'acqua che fluisce attraverso la spugna. Le spicole delle spugne, in particolare quelle silicee, conferiscono protezione oltre che sostegno. Frequentemente sporgono dal corpo della spugna, rendendo la superficie del corpo spinosa e atta a respingere i predatori. Molte spugne producono anche certi composti organici (terpenoidi e benzochinoni) che sono repellenti o tossici per i predatori. e secernono composti organici contenenti bromo inibenti l'accrescimento dei coralli vicini e di altri invertebrati sessili, permettendo alle spugne di competere con successo per lo spazio per l'accrescimento (Mitchel L.G. et al. 1992).
14. La molecola dei proteoglicani è costituita da lunga catena polipeptidica detta proteina del nocciolo: ai residui della serina di quest'ultima, sono associate lunghe catene di polisaccaridi chiamati glucosamminoglicani (Alberts B. 1991, pag. 960).
15. Al microscopio elettronico a trasmissine, il fattore AF mostra una «forma nativa» sferica che trattata con detergenti, presenta una struttura centrale con la tipica organizzazione a «sunburst» (sole a raggi radianti) consistente di un centro circolare e di braccia radianti (circa 25 braccia in questa specie - Müller 1982, 1997; Müller et al. 1999). Questo peculiare modello è stato successivamente confermato in altre specie di spugne, insieme con alcune differenze riguardanti il peso molecolare ed il numero delle braccia radianti.
16. Esistono quattro classi di poriferi, distinti dalla natura chimica e dalla forma del loro scheletro interno. I membri di tre classi relativamente piccole (cioè, costituite da poche specie), le Calcarea (calcispongie o spugne calcaree), le Hyalospongiae (ialospongie o spugne vitree) e le Sclerospongiae (sclerospongie o spugne coralline), sono esclusivamente marine. Una quarta classe, le Demospongiae (demospongie o spugne cornee), è di gran lunga la più grande e comprende circa il 95 % di tutte le spugne viventi: queste spugne sono diffuse sia nei mari profondi sia in quelli bassi e sia negli ambienti di acqua salmastra sia in quelli di acqua dolce. In questo gruppo, gli scheletri sono vari Alcuni sono costituiti da spicole silicee a 1 + 4 raggi (ma non a 6 raggi); altri sono costituiti da una combinazione reticolata di spicole silicee e spongina, o soltanto di spongina.
17. Alla famiglia dei Crocodilidae appartengono: il coccodrillo africano Crocodilus niloticus LAUR., l'alligatore del Nord-America Alligator mississippiensis DAUD., il caimano dell'America centrale e meridionale Caiman sclerops SCHNEID., il gaviale dell'India Gavialis gangeticus GM. (D'Ancona 1953).
18. Sauropodi: questa categoria sistematica, rappresentata dagli erbivori più giganteschi che siano mai esistiti sulla Terra, comprende animali lunghi da 20 a 27 metri che pesavano da 70 a 100 tonnellate. Il corpo era cilindrico, poggiato su quattro gambe colonnari, collo e coda lunghissimi, testa sproporzionatamente piccola. Erano in grado di alzare la testa a un'altezza di 12-18 metri. ul muso, le aperture del naso erano molto grandi e spostate in alto, subito sotto a quelle degli occhi.
19. Dinosauri con cranio terminante in un becco appiattito come quello delle anatre.
20. Dinosauri con cranio allungato posteriormente, con sporgenza piastriforme dei parietali e degli squamosi a difesa del collo e delle spalle.
21. Dinosauri che presentano nella parte posteriore della mascella, denti piatti e taglienti serrati gli uni contro gli altri in modo da formare un lama affilata.
22. Gli albatri fanno parte della famiglia Diomedeidae, dell'ordine Procellariformi. Questi uccelli marini possono raggiungere più di m 3 di apertura alare e hanno straordinarie capacità di volo. La livrea è alquanto uniforme, in prevalenza bianca o bruna fuligginosa, con una diversa quantità di bruno o nero sulle ali, sul groppone e sulla coda. Sono uccelli dell'emisfero meridionale (dalle zone tropicali fino all'Antartide); alcune specie vivono nella parte settentrionale dell'Oceano Pacifico.
23. L'albatro urlatore o Diomedea exulans - con la sua apertura alare di oltre 3 metri - è l'uccello volatore più grande attualmente vivente.
24. I pinguini appartengono all'ordine Sphenisciformes, sono uccelli marini che hanno perduto la capacità di volare. Per l'adattamento al noto veloce, hanno arti a forma di pala, piedi palmati, arti posteriori a forma di timone. Le loro penne sono piccole e simili a squame dense sull'intero corpo, che creano la minima resistenza nell'acqua. Uno spesso strato di grasso sottocutaneo assicura l'isolamento termico.
25. Questo precoce meccanismo di riconoscimento vocale dei pinguini ricorda la nostra comune esperienza di individuare un motivetto dalle prime note, o la forma complessa di uno schizzo fin dai primi tratti che vengono abbozzati.
26. Il sincronismo riproduttivo deve essere prodotto da un fattore che opera all'interno del branco: probabilmente le femmine reagiscono a segnali che esse stesse emettono, come i feromoni contenuti nelle urine, oppure a segnali emessi dai maschi. Un'altra possibilità è che le femmine attivino il sincronismo riproduttivo come risposta ad una alimentazione particolarmente ricca, dovuta ad una serie di catture di grandi prede.
27. I fattori - sovrapproduzione di latte e consanguineità - influenzano il comportamento delle femmine anche in altre specie: l'allattamento
comunitario è più frequente in mammiferi come i roditori, i maiali e i carnivori, che generano una prole numerosa e vivono in piccoli gruppi di parentela.
28. Da un punto di vista a) sistematico i licaoni sono separati in un genere a sé, Lycaon, rappresentato da l'unica specie L. pictus, e da quello b) evolutivo si ritiene che essi rappresentino una forma avanzata derivante dal genere Canis: Il corpo di questi predatori della savana, è snello, con arti lunghi idonei alla corsa, la testa è robusta caratterizzata da grandi creste ossee, da archi zigomatici fortemente distanziati associati ad una dentatura idonea per la presa e la macellazione della preda. Peculiare è il loro mantello, maculato di nero, bianco e giallo, e tale da produrre individui tutti diversi tra loro: solo il terzo terminale della coda è sempre bianchissimo.
29. Allattamento comunitario licaoni: in certi casi le femmine concedono perfino a individui adulti di suggere il loro latte.
30. Alcuni caratteri che l'uomo condivide con gli altri primati sono per esempio, la mano con il pollice opponibile prensorio; l'encefalo grande
rispetto alle dimensioni del corpo; la faccia breve con gli occhi rivolti in avanti che assicurano la percezione della profondità; e un apparato muscoloscheletrico adattato in parte per arrampicarsi e per la brachiazione.
31. Eurasia: denominazione proposta dal geografo H. Reusche, per indicare l'insieme dell'Asia e dell'Europa. Diamond (1998) include nell'Eurasia, anche il Nordafrica, "il che ha senso dal punto di vista biogeografico che culturale".
32. La scimmia antropomorfa primitiva Proconsul, era priva di coda, e rispetto alle scimmie non antropomorfe, aveva una maggiore mobilità a livel-lo di anca, spalla, polso, caviglia, mano e piede, anticipando gli adattamenti fondamentali che consentano la flessibilità di queste articolazioni nell'uomo e nelle scimmie antropomorfe moderne. In queste ultime, è l'aumentata mobilità che permette il loro spostamento caratteristico di ramo in ramo. Nell'uomo queste capacità sano state «prese in prestito», in senso evolutivo, per aumentare le possibilità di manipolazione dell'arto superiore: il che permise ai nostri antenati, fra le altre cose, di iniziare a fabbricare utensili. A livello di colonna vertebrale, bacino e arti superiari, Proconsul e i suoi simili, conservavano molti tratti primitivi, analoghi a quelli delle scimmie non antropomorfe. Come i loro antenati, erano meglio adattati a spostarsi sopra i rami degli alberi che non ad appendersi a essi e a dondolarsi dall'uno all'altro (Begun 2003).
33. Il fatto che fin ad oggi, non siano stati trovati fossili di grandi scimmie antropomorfe in Africa non significa che non ve ne siano (Begun 2003)..
34. Il concetto di orologio molecolare viene dall'osservazione che il cambiamento genetico dovuto ad alterazioni che si verificano in singole coppie di basi del DNA, dette mutazioni puntiformi, ha una velocità così costante, su tempi lunghi, da poter essere usato per misurare la cronologia delle divergenze da un ceppo comune.
35. Il metabolismo cerebrale a riposo rappresenta ben il 20-25 per cento del fabbisogno energetico di un adulto, un valore ben superiore all'8-10 per cento dei primati non umani, e ancor più al 3-5 per cento degli altri animali.
36. Il peso medio di un maschio adulto di orango è di circa 90 chilogrammi, ossia più del doppio di quello della femmina.
37. I caratteri sessuali secondari di un orango maschio sono fondamentalmente due ampi cuscinetti adiposi sulle guance, un sacco laringeo ben sviluppato, che serve per emettere profonde vocalizzazioni,. peli vivacemente colorati sul corpo e sulla faccia.
38. Questa distinzione sistematica è oggetto di una continua revisione dovuta all'ininterrotto flusso di nuove informazioni scientifiche.
39. Tanzania occidentale, Parco nazionale di Gombe (Goodal J. 1960 e Taleki G. 1973), Uganda occidentale, Foresta di Kimbale (Ghiglieri M 1985).
40. Un maschio adulto di scimpanzé, in posizione eretta può raggiungere il metro e settanta e una femmine adulta il metro e trenta. Le braccia sono decisamente più lunghe delle gambe, le mani e piedi hanno una notevole mobilità delle articolazioni e vi è una perfetta opponibilità sia del pollice che dell'alluce. Il corpo è ricoperto da un fitto pelame, ad eccezione del palmo delle mani, della pianta dei piedi e della regione ano-genitale. Nelle femmine, durante il periodo di ricettività sessuale, gli organi genitali esterni si gonfiano e assumono la colorazione rosa carico. Sul viso può esservi una barba che ricopre parte delle guance e del mento: in quest'ultima zona la barba diviene spesso brizzolata o grigio argentea soprattutto nei maschi adulti (Giordano et al. 1979).
41. Il bonobo é caratterizzato da gambe lunghe e testa piccola al di sopra delle strette spalle: ha inoltre labbra rossastre in una faccia nera, orecchie piccole, narici dilatate (quasi quanto quelle di un gorilla), una faccia più piatta e larga, con una fronte più alta rispetto a quella degli scimpanzé; la testa è coperta da una chioma di lunghi e sottili peli neri, con una netta scriminatura in mezzo al capo. I bonobo hanno dimensioni comparabili a quelle degli individui adulti della sottospecie più piccola di scimpanzé, dove i maschi pesano circa 43 chilogrammi, e le femmine 33. Quindi come nello scimpanzé anche nel bonobo le femmine sono molto più piccole dei maschi (Waal 1995).
42. In qualche caso si sono viste delle femmine inseguire e catturare delle prede, ma in questi casi non c'era alcun maschio in vicinanza.
43. Hayes K. J. e Hayes C. hanno attribuito un quoziente di intelligenza pari a 125 a uno scimpanzé di due anni e otto mesi, da loro allevato in casa e al quale era stata data sistematicamente un'educazione «umana» (cit. da Kortlandt A. 1962).
44. In natura, le femmine partoriscono per la prima volta a 13-14 anni, completando la crescita a circa 15 anni. La femmina dà alla luce un solo piccolo per volta: nutre e trasporta la prole fino all'età di cinque anni. Scaduto questo periodo la femmina è fisiologicamente pronta per una prossima gravidanza. A sette anni i giovani iniziano l'adolescenza. La longevità del bonobo é sconosciuta: si suppone che i bonobo in natura potrebbero superare i 40 anni e avvicinarsi ai 60 in cattività.
45. Una femmina si avvinghia a un'altra con braccia e gambe. La seconda femmina si alza appoggiandosi sulle mani e sui piedi e solleva la prima da terra. A questo punto, la due femmine cominciano a strofinarsi reciprocamente e in senso laterale i genitali tumefatti, emettendo squittii e facendo smorfie, che probabilmente riflettono una forma di orgasmo (Waal 1995).
46. Dorso contro dorso, un maschio strofina brevemente il proprio scroto contro le natiche dell'altro maschio. I bonobo praticano anche la «scherma con il pene»: due maschi stanno appesi a un ramo, a faccia a faccia, strofinando l'uno contro l'altro i loro peni in erezione. La varietà dei contatti erotici nel bonobo include anche, sporadicamente, il sesso orale, oppure il massaggio dei genitali di un altro soggetto e un intenso baciarsi con la lingua (Waal 1995).
47. É stato osservato che se due bonobo in cattività si avvicinano a una scatola di cartone gettata nel loro recinto, procedono ad una rapida monta prima di mettersi a giocare con la scatola: situazioni del genere provocano invece litigi nella maggior parte di altre scimmie in cattività (Waal 1995).
48. Per bonobo liberi in natura i frutti hanno un'importanza fondamentale e nella loro dieta aggiungono del midollo che estraggono dagli steli di pian-
te erbacee, integrata con alcuni invertebrati e di tanto in tanto con piccoli vertebrati tra cui mammiferi: complessivamente sembra che la dieta del bonobo comprenda una quantità relativamente scarsa di proteine animali. A differenza degli scimpanzé non é mai stato osservato che i bonobo cacciassero altre scimmie. Si ritiene che bonobo in natura usino gli utensili in modo primitivo mentre è noto che gli esemplari in cattività li maneggiano invece con notevole perizia. I bonobo hanno anche una notevole immaginazione nel gioco e a questo proposito Waal (1995) ha osservato che alcuni soggetti in cattività giocano a una sorta di mosca cieca con una dedizione e concentrazione mai riscontrata in altre scimmie antropomorfe mentre eseguono giochi di questo genere.
49. In Europa H. heidelbergensis o un suo stretto parente diede origine a un gruppo endemico di ominidi: si ritiene che il più noto rappresentante sia stato H. neanderthalensis, una specie europea e ovest-asiatica che fiorì tra circa 200 000 e 30 000 anni fa (Tattersall 2000).
50. I primi agricoltori apparsi in Europa centrale come anche gli indiani delle grandi pianure nordamericane potevano fruire di una agricoltura su suoli morbidi, che potevano essere dissodati a mano con appositi bastoni.
51. Una mucca da latte, ad es, fornisce nel corso della sua vita molte più calorie di quante ne fornirebbe la sua carne macellata.
52. La domesticazione di un vegetale o di un animale è il processo in cui la specie in questione viene fatta crescere dall'uomo, in maniera più o meno consapevole, in modo da farle subire quelle mutazioni genetiche cha la rendono più adatta ad essere consumata (Diamond 1998).
53. Dai batteri sono stati estratti enzimi, le nucleasi di restrizione, che tagliano in specifici punti della catena del DNA solo in corrispondenza di determinate sequenze nucleotidiche. Determinando la posizione di ogni singolo taglio di una molecola di DNA si ottiene la mappa di restrizione.
54. Mezzaluna Fertile: "Se si traccia una linea dall'Egitto al Golfo Persico, tagliando sul Mediterraneo, ,a Palestina e la Siria e scendendo lungo il Tigri e l'Eufrate attraverso la Mesopotamia, risulta una perfetta mezzaluna ....Fu il centro della civiltà dall'era della pietra all'età dell'oro della cultura greco-romana.... Allontanando lo sguardo dalla «Fertile Mezzaluna», intorno al 2000 a. C., l'oscurità si fa sempre più fitta e meno frequenti appaiono i segni d'una vita civile e culturale...." (da La Bibbia aveva ragione di Werner Keller 1990).
55. Oggi gli alimenti sono costituiti più da varietà moderne di frumento, gradualmente modificato nel corso dei secoli, che da qualunque altro cereale. Quando il frumento selvatico è maturo i suoi semi, avvolti da un involucro, cadono dalla spiga sul terreno, riducendo così il raccolto. La trasformazione in frumento moderno, i cui semi nudi rimangono attaccati alla spiga, si è verificata grazie ad ibridazioni casuali tra l'einkorn ed altre graminacee selvatiche nell'area della Mezzaluna Fertile. Ciascuna ibridazione ha dato luogo a diverse combinazioni di cromosomi e a differenti caratteristiche nelle generazioni successive. In due di queste ibridazioni, l'einkorn (cromosomi AA) si è combinato con due altre graminacee selvatiche (BB e DD) dando come risultato il frumento da pane contemporaneo (AABBDD).
56. Nella Nuova Guinea i fayu sono un gruppo di circa 400 cacciatori-raccoglitori divisi in quattro clan che abitano un territorio di poche centinaia di chilometri quadrati. Secondo i loro stessi racconti, un tempo erano stati anche 2000, ma la popolazione era diminuita per via del gran numero di omicidi (Diamond 1998).
57. Il termine francese chefferie ha un corrispondente termine italiano, circoscrizione (a sua volta definita come ripartizione del territorio statale per fini amministrativi (Zingarelli 2000) che però non esprime né il fine né il grado di associazione sociale degli individui.
58. Le Hawaii sono state scoperte da Cook nel 1778 e diventate possesso USA dal 1898 e quindi stato federale degli Usa dal 1959).
59. I Semiti erano rappresentati da gruppo di popolazioni di razza bianca abitanti nel Vicino Oriente asiatico, nell'Africa settentrionale e dalla Siria, che secondo la tradizione biblica sarebbero discendenti di Sem, figlio di Noè.
60. Seleucidi, dinastia di re della Siria, fondata nel 312 a. C. da Seleuco I Nicatore; ultimo re fu Antioco XIII, destituito da Pompeo.
61. Parti, antica popolazione iranica che costituì sul territorio mesopotamico un impero, durato dal sec. III a. C. al III d. C.
62. Medi, popolazione iranica, stanziatasi nella Media [Iran occidentale] nel sec. IX a. C. e sottomessa dai Persiani, intorno al VI sec. a. C.


Elenco degli "studiosi" citati nelle pubblicazioni degli autori riportati in Bibliografia
01) Diebschlag E., cit. da Eibl-Eibesfeldt I. 1976 , pag. 434.
02) Hamilton W.D., cit. da Pfenning D. W., Sherman P. W. 1995.
03) Bateson P., cit. da Pfenning D. W., Sherman P. W. 1995.
04) Grosberg e Quinn, cit. da . cit. da Pfenning D. W., Sherman P. W. 1995.
05) Mancur Olson, cit. da Glance N .S., Huberman B.A. 1994.
06) Trivers R. L., cit. da Nowak M. A., May R. M., Sigmund K. 1995.
07) Nealson K. H. e Hastings J. W., (1970) da Losick R. et al. 1997.
08) Willey J. (1990), cit. da Losick R. et al. 1997.
09) Hopson e Weishampel, cit. da Horner 1984
10) Brunet, cit. da Wong M. 2003a
11) 10Coolidge H., cit. da Waal F. B. M. 1995
12) 11Nishida, cit da Waal F. B. M. 1995
13) 12Goodall, cit da Waal F. B. M. 1995
14) 13 Marler P. e Hobbett L., cit. da Ghiglieri M 1985
15) 14 Wrangham R. W., cit. da Ghiglieri M 1985
16) 15 Hamilton W. D., cit. da Ghiglieri M 1985
17) 16 Goodall (1960-1969), cit. da Teleki G. 1973
18) 17Goodall, cit. da Giordano V. et al.. 1979.
19) 18 Kortland, cit. da Giordano V. et al.. 1979.
20) 19 Schwarz E., cit. da Waal F. B. M. 1995
21) Kano, cit da Waal F. B. M. 1995
22) Thompson-Handler, cit da Waal F. B. M. 1995
23) Lovejoy O e Fisher H., cit da Waal F. B. M. 1995
24) Suehisa Kuroda, cit. da Waal F.B.M. 1995
25) Weindereich, cit da Rickards O. 1995
26) Thorne, A. (1981) cit. da Rickards O. 1995
27) Stringer C. B. e Andrews P., (1988) cit. da Rickards O. 1995
28) "ricercatori di Berkeley", cit.ne di Rickards O. 1995
29) Blumler Mark, cit. da Diamond 1998


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Roma 25 febbraio 2004

* Prof.Aldo Rossi:
Professore Emerito di Anatomia Comparata, Università di Roma "La Sapienza"
197roma via giacinta pezzana,70

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