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A. M. P.
SEMINARI 2002 - 2003
Guido Palladini

Il comportamento degli animali nella relazione con l’uomo



- l’uomo e l’animale
- la metempsicosi
- la domesticazione
- l’animale da compagnia (pet)
- la zooantropologia
- un esempio di zooantropologia pratica : uomo/gatto
- i giardini e parchi zoologici
- la pet-therapy

L’interazione uomo-animale si perde ovviamente nella notte dei tempi, perché anche se non conosciamo il momento in cui esso ha cominciato ad autoriferirsi, recidendo, almeno in teoria, questo legame, l’uomo è un animale.
Possiamo con Chiappa dividere questo rapporto in tre fasi:
una fase arcaica il cui l’uomo intrattiene un rapporto magico-totemico, di cui restano documentazioni come per esempio la grotta di Lascaux; una fase storica in cui prevale il concetto dell’uomo “dominus”, signore degli animali nati per essere al suo servizio; è il concetto che troviamo ad es. nella Bibbia; una fase attuale in cui il rapporto con l’animale assume un carattere etico e l’animale è sentito come qualcosa di differente ma uguale a noi e che si riallaccia al concetto arcaico di uomo=animale.
Una dimostrazione del persistere in tempi storici di questo concetto arcaico del rapporto uomo-animale è dato dal diffondersi in Oriente delle teorie buddiste e in Occidente di quelle di Empedocle di Agrigento secondo cui l’anima degli uomini, dopo la morte, andrebbe incontro ad una serie di reincarnazioni animali. Ciò al fine di scontare le proprie colpe, purificarsi e quindi o andare a dimorare tra gli Dei (Empedocle) o ad annullarsi nel Nirvana (Budda). E’ questo il concetto della Metempsicosi a tutt’oggi esistente che porta quindi a ritenere che gli animali possiedano un’anima umana. Il concetto di animale totemico si è evoluto nelle antiche religioni come quella egizia negli Dei animali: Api, Anubi, Bubacte.

Nella seconda fase del rapporto uomo-animale, di cui abbiamo parlato sopra, compare la domesticazione.
La domesticazione è un fenomeno complesso, diverso da specie a specie soprattutto per quanto riguarda il suo inizio storico in quanto alcune specie sono state addomesticate in tempi assai remoti (il cane) altre solo di recente (le zebre). Tale processo ha avuto sempre uno scopo utilitaristico in cui l’animale era oggetto e non soggetto. La domesticazione ha comportato una serie di modificazioni del comportamento animale per quanto riguarda: i rapporti tra animali cospecifici, adattamenti fisiologici (risposta agli stress ambientali, orari, alimentazione, temperature, limitazione degli spazi agibili), adattamenti di carattere genetico ovverosia spostamento di frequenze geniche a seguito di pressioni di selezione naturale o artificiale. La domesticazione comporta l’abitudine alla presenza dell’uomo con la perdita, quindi, delle reazioni di evitamento e di fuga. Alcuni Autori non escludono la possibilità che caratteristiche comportamentali quali timidezza, docilità e facilità di manipolazione vengano ereditate mentre altri (Fox), più giustamente a mio parere, ritengono che non venga ereditato il comportamento in sé ma solo il controllo e lo sviluppo di funzioni e strutture.
La domesticazione, quindi, può essere considerata una forma di modificazione globale dell’animale. Da una parte essa è legata a un fenomeno di selezione artificiale volta ad ottenere un miglioramento delle caratteristiche economicamente importanti riducendo sempre più quelle esistenti nell’ambiente naturale, potenzialmente nocive al buon esito dell’allevamento e dall’altra è legata a un condizionamento operante come tecnica di controllo del comportamento utilizzando anche il fenomeno dell’imprinting.

Anche nella seconda fase del rapporto uomo-animale è sempre esistita una distinzione fra gli animali allevati a scopo utilitaristico e quelli il cui significato nei riguardi dell’uomo era diverso: il pet o animale da compagnia.
Questo fenomeno non è proprio dell’uomo. Gli scimpanzé che pure cacciano e si nutrono di babbuini, mantengono nel branco babbuini che giocano con i piccoli scimpanzé, che non vengono mangiati e la cui morte accidentale è lamentata dal branco come la morte di uno di loro.
Quali sono le caratteristiche con cui l’uomo sceglie un pet ?
Un primo aspetto è indubbiamente legato al fatto che l’uomo è un animale in cui le cure parentali raggiungono i massimi livelli perché il bambino nasce estremamente arretrato per lo sviluppo del sistema nervoso e parzialmente per quello osteomuscolare. Il pet tipico presenta caratteristiche simili a quelle infantili, sia morfologiche (conformazione del capo) sia comportamentali: vedi per esempio il vocabolario dei suoni dei gatti domestici che associano i fonemi adulti a tutti quelli infantili che, al contrario, il gatto selvatico adulto perde. A riprova, forme simili ma non evocatrici infantili si ritrovano in animali che non sono pet. Il pet quindi viene ad essere una proiezione di noi stessi e da questo nasce un rapporto emozionale molto forte da parte dei loro padroni; un sondaggio nel Regno Unito (Gorbing) ha mostrato che il 65% dei padroni degli animali preferisce la compagnia dell’animale rispetto a quella degli amici. Un ulteriore capacità del pet è l’ampia possibilità di espressioni facciali (cani, gatti, cavalli) che costituiscono per l’uomo una forma molto importante di comunicazione visiva.
Da queste osservazioni (Padrini) possiamo dedurre che continuiamo a sentire il richiamo di alcune richieste semplici, essenziali ma fondamentali che soddisfano i bisogni del bambino che è in noi: tenerezza, contatto non verbale, attenzione, dedizione, accettazione, gioco.
Questo rapporto è sempre esistito come abbiamo visto ma nella terza fase del rapporto uomo-animale lo rendiamo manifesto.

La zooantropologia è, infatti, la specifica disciplina che analizza il rapporto uomo-animale in tutte le sue componenti mirando a rendere più comprensiva la struttura, i fattori che la regolano e le diverse tipologie riscontrabili nella nostra società. Conoscere l’ampia gamma di rapporti e di rimandi che ci legano all’attività animale è molto importante perché offre un piano regolato di interpretazione circa il nostro bisogno di riferirci all’animale per costruire universi simbolici, definire la nostra umanità e ritrovare un’alleanza con la natura.
Tale disciplina sottende il concetto filosofico che mette in dubbio l’idea antropologica di un uomo autosufficiente, autorelazionato il cui unico riferimento è una cultura speculare che prescinde totalmente dagli apporti dell’alterità animale (o vegetale). Si tratta quindi di costruire un’antropologia referenziale che vede la comparazione e il rapporto come momenti fondanti per la crescita.

Un esempio di zooantropologia pratica è offerto dal rapporto uomo-gatto.
Il gatto è un animale eminentemente solitario in condizioni normali ma è in grado di elaborare relazioni sociali (dominanza/sottomissione) anche se non rigide in condizioni di sovraffollamento o di competitività per il cibo. Nonostante i reperti fossili non è facile determinare quando iniziò il processo di addomesticamento che risulta essere più una consapevolezza di poter ottenere vantaggi reciproci da una stretta convivenza che una vera e propria addomesticazione, come è avvenuto per il cane.
Si ritiene che il processo sia relativamente recente, intorno ai cinque mila anni fa mentre per il cane, addomesticato per la caccia, il processo si fa risalire a circa venti mila anni fa.
E’ comune opinione che felis lybica vivesse da predatore in una zona corrispondente circa all’attuale Egitto. Alla data indicata, le popolazioni locali perfezionarono la coltivazione non occasionale di mutanti di cereali e passarono quindi da un’economia di caccia e raccolta a un’economia agricola che dava il vantaggio di poter conservare sotto forma di granaglie il prodotto, utilizzando una forza-lavoro esigua rispetto al prodotto. Le riserve di cereali però erano soggette agli attacchi da parte di roditori di varie specie con forte prevalenza dei topi. Il furetto, anche se ottimo cacciatore di topi non era immune dal desiderio dei cereali mentre il gatto, assolutamente indifferente alle granaglie, costituiva un controllo biologico molto efficiente di questi parassiti granicoli. Non è facile dire come, nonostante l’innata diffidenza del gatto di cui dà tuttora prova (felis silvestris), si sia potuto giungere ad un contatto diretto tra gatto e uomo. Dipinti egizi del 3.000 a.C. ritraggono gatti al guinzaglio a cui vengono offerti cibi in ciotole di terracotta. Ciò fa pensare che dall’iniziale rapporto gatto-topo si sia passati ad un rapporto gatto-uomo in cui l’uomo ha assunto nei riguardi del gatto la funzione di provveditore diretto di cibo. Ciò è stato interpretato dal gatto come un rapporto figlio-madre con il conseguente accentuarsi nell’animale di comportamenti infantili e nell’uomo di quelli parentali. Si noti, inoltre, che alcuni comportamenti del gatto, a tutt’oggi inspiegabili anche sotto l’aspetto anatomico-funzionale come le “fusa”, hanno stabilito un rapporto con l’uomo che è certamente corrispondente a una sensazione di piacere e di benessere.
Da allora, il gatto è divenuto un diffusissimo compagno anche se non tutti i periodi storici gli sono stati favorevoli ed attualmente è in gara con il cane per il primo posto tra i pets.
E’ indubbio che noi abbiamo (Padrini) con il nostro gatto un rapporto simbolico, antropomorfo: impulsi profondi di cui già abbiamo parlato ci portano a vederlo non come oggettivamente è ma come un riflesso di noi stessi. Questa partecipazione è favorita dal fatto che il gatto ha un’ampia possibilità di espressioni facciali.
Qui bisognerebbe entrare nel complesso rapporto di quello che realmente è l’animale e i suoi reali desideri. Il gatto, accettando la convivenza con l’uomo, ha dovuto rinunciare a parte dei suoi istinti e fabbisogni ma ne ha conservati altri irrinunciabili quali l’indipendenza e l’istinto predatore (Benedet). Il raggiungimento di questo equilibrio non è ottenibile come per il cane per imposizione ma solo tramite l’instaurarsi di un rapporto di fiducia tra l’uomo e il gatto di cui il rapporto nutrizionale è elemento essenziale ma per cui il rapporto non risulta certo sminuito. Naturalmente ci sono degli atteggiamenti del gatto molto differenti da quelli umani in quanto i meccanismi di apprendimento del gatto sono totalmente diversi. Ad esempio, il gatto non è in grado di associare azione non corretta con punizione a meno che la punizione non gli venga impartita durante o al massimo cinque secondi dopo. Questo ha fatto nascere la leggenda che il gatto sia un animale vendicativo perché dopo la punizione data fuori tempo, non solo ricommette la stessa azione ma, non avendo capito che l’azione compiuta fosse sbagliata, identificherà l’uomo come un soggetto negativo di cui aver timore.
Andando un po’ controcorrente, nell’ottica di quanto stiamo dicendo appare evidente che gli spessi deprecati parchi o giardini zoologici hanno un loro significato e una loro utilità non solo come è ovvio nel campo della preservazione e conservazione della specie minacciata ma anche nel suscitare precocemente un interesse verso il mondo animale. Naturalmente, questo non significa approvare la situazione in cui versano molti zoo, che sono dei veri e propri lager per animali ma il concetto di taluni animalisti che vogliono trasformarli in realtà computerizzate virtuali è, a mio parere, assolutamente errato. Esiste infatti una corrente di pensiero che tende a sostituire il reale con una realtà virtuale costruita dall’uomo che è un modo sofisticato ma non meno errato di autoriflettersi.

Un aspetto assai moderno della terza fase del rapporto uomo-animale è la pet-therapy. Questa terapia fa leva sull’intramontabile esigenza dell’uomo di rapportarsi all’animale e sul suo ruolo regolatore distensivo e rassicurante a livello psichico in termini di soddisfacimento di un bisogno naturale (Chieppa).
Essa nasce nel 1961 con la pubblicazione del lavoro “The dog has co-therapist” di B.Levinson. Il principio del metodo verte sulla capacità dell’animale di stabilire un solidale legame empatico tra uomo e animale in base a un processo di identificazione che lega il paziente al pet. E’ una metodica multidisciplinare che richiede l’intervento di specialisti di diverse branche (medicina, psicologia, veterinaria); quando si parla dell’uso di animale da affezione con finalità prettamente terapeutiche ci si riferisce non solo ai cani o ai gatti ma anche ad altre specie domestiche con ottimi risultati. L’ippoterapia, per esempio, è una forma di pet-therapy di indiscussa efficacia in pazienti con handicap psichici o fisici. Nell’autismo, sindrome di deprivazione a tutt’oggi di patogenesi ignota, i cui pazienti mostrano gravi disturbi della sfera affettivo-relazionale il cane o il delfino coterapeuti hanno consentito progressi clinici per l’instaurarsi di una comunicazione non verbale ma mimico-gestuale, in cui l’animale assume il ruolo di soggetto transizionale tra mondo interiore e mondo esteriore.
Ma la pet-therapy ha anche altri scopi ed applicazioni; si sa che la presenza di animali nell’età evolutiva infonde nel bambino capacità creativa, sicurezza, miglioramento della comunicazione non verbale, rifiuto di ogni specismo. L’impiego di animali nei reparti di pediatria ha influenzato favorevolmente il decorso di molte patologie riducendo il periodo di ospedalizzazione.
Anche in ambienti carcerari, la presenza di pet tende a ridurre la conflittualità tra i detenuti, riduce il pericolo di suicidio, migliora la cooperazione con le guardie carcerarie. E’ a tutti nota la vicenda umana di Robert Stroud che è stato il soggetto del famoso film “L’uomo di Alcatraz” uomo feroce e sanguinario che modificò completamente il suo carattere allevando canarini.
Prof. Guido Palladini (Guido.Palladini@Uniroma1.it)


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