PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
AMP --> HOME PAGE --> SEMINARI 2000 - 2001

A. M. P.
SEMINARI 2000 - 2001
La fenomenologia dell’incontro come transito fra psichiatria e psicoterapia

Prof. Bruno Callieri


La psichiatria, è in radice, scienza dell’uomo, dell’esistenza umana:
esistenza che non è solo natura ma altresì cultura e storia, in una parola persona.
E’ ai concetti husseliani di Krisis, alla riscoperta della intenzionalità della coscienza, della Lebenswelt, che si debbono le grandi aperture d’orizzonte della psicopatologia e della psichiatria. Aperture sul rapporto intersoggettivo, sulla corporeità, sull’incontro, sul bisogno di intenzionare e cogliere, sempre husserlianamente, l’Alter-Ego e il suo esser-mondano, anche nel “caso” clinico più inequivocabile.
Un cammino – quello che conduce all’Alter Ego – tutt’altro che semplice e lineare.
L’intento antiriduzionistico della Fenomenologia, comportando la costante apertura all’orizzonte di senso proprio ad ogni accadimento psichico (normale o abnorme), ha imposto agli psicopatologi un incessante, dialettico ed ininterrottamente aggiornato confronto col pensiero filosofico.
Nella tensione bipolare tra natura e esistenza, tra spiegazione (erklären) e comprensione (verstehen), tra il “caso” oggettivato in parametri biologici e il “caso” incontrato nella sua realtà singola, irripetibile ed irriducibile (si pensi al depresso, là spiegato nelle sue determinazioni neurobiologiche e qui, invece, inteso nelle sue dimensioni antropologico-esistenziali), si pone un tertium: l’approccio psicoanalitico.
Un approccio, quest’ultimo, governato da un principio causale metapsicologico, umanistico nella sua prassi, segnato da una dialettica sempre più acuta tra naturalità e storicità dell’uomo, da un' irriducibile ambiguità tra spiegare e comprendere: l’ambiguità dell’interpretazione.
Un tertium che si dà, sempre, quale parola ineludibile. Parola che ci fa riconoscere, in un senso ben diverso da quello positivista, che “ la consapevole distanza dell’obiettivazione non è un tradimento esistenziale della persona malata” [(Straus, 1978 (1)], e che il fatto che una relazione Io-Lui non possa essere trasformata nella relazione Io-Tu può davvero costituire una manifestazione primaria fondamentale della psicosi.
Per tali ragioni, il nodo essenziale dell’intersoggettività, la sua articolazione su un registro propriamente umano, diviene per la psichiatria il punto più duro ed inaggirabile. Un nodo che, mentre per la psicoanalisi costituisce il nucleo centrale stesso della cura e del recupero del paziente, per la prospettiva antropologico-esistenziale si fonda, essenzialmente, nella singolarità della persona.
In tal senso se, da un lato va riconosciuta piena validità sul piano operativo all’impostazione psicoanalitica, non può essere eluso, dall’altro, il riconoscimento dei recenti sviluppi delle dottrine psicopatologiche, anche nel senso “sociale” (cfr. Stanghellini). Quegli stessi sviluppi rilanciati proprio dal ripensamento della dimensione inoltrepassabile della singolarità della persona che, nei termini di rapporto e di incontro, hanno radicalmente riformulato l’accesso alla prospettiva della relazione umana, come fatto primario. Tale prospettiva declinerebbe verso l’oblio se l’approccio rimanesse esclusivamente naturalistico: e sarebbe una perdita davvero irreparabile.
Se la coscienza è essenzialmente intenzionalità e l’esser-ci è sempre esser-ci-nel-mondo [“Im Ich-sagen spricht sich das Dasein als in-der-Welt-sein aus”(2)] allora l’Io si configura sempre, anzitutto, come relazione (3). E’ qui che dimora il significato (per la psichiatria) del marceliano “esse est co-esse”(4): un co-esse che consente, anche alla luce del Personalismo di E. Mounier, la fondazione metodologica di un’ antropologia dell’incontro.
E’ proprio l’intersezione tra l’antropologia dell’incontro e il Personalismo a costituire uno dei piani teorici più saldi su cui fondare il trattamento terapeutico della Psychanalyse: da qui, da questo incontro, scaturisce la possibilità di cogliere l’altro in prima persona (come un Tu, o come un Alter-Ego).
Muovendo dal Tu e dal Noi (Buber), l’antropologia dell’incontro (5) fa compiere un vero giro di boa al pensiero psichiatrico moderno, rendendolo più sensibile all’istanza umana; un incontro che non è più vissuto solo in quanto esperienza-limite, ma che è assunto quale fenomeno primordiale antepredicativo, costitutivo del vivere umano: l’esse est co-esse di Gabriel Marcel.
In tal senso Laìn Entralgo parla con chiarezza di crisi del Yoismo: il mio Io (anche nel suo senso metapsicologicamente più esteso) non esaurisce la propria realtà. Heidegger, in Einführung in die Metaphysik (6), dice che non è più il tempo dell’Io ma è il tempo del Noi (“die Wirzeit statt der Ichzeit”). Una costituzione del noi, della noità (Wirheit), dunque, inevitabilmente antecedente alla costituzione dell’Io.
Tuttavia, non possiamo non chiederci – con Sartre – se si sia autorizzati a “passare dalla coesistenza empirica ed ontica dell’esser-con alla posizione della coesistenza come struttura ontologica del nostro essere-nel-mondo” (7). Va chiarito, in altri termini, se sia più che un nudo dato il fatto che il “mio” mondo debba comunque essere il “nostro” mondo; e se, ancora, questa coesistenza sia un aspetto strutturale dell’esistenza umana.
Qui si scorge con tutta evidenza l’attualità dell’atteggiamento fenomenologico in psicopatologia; atteggiamento (Haltung) di prassi conoscitiva in continua metamorfosi, in incessante ricominciamento; non si qualifica per determinati riferimenti culturali ma si genera in chiunque ne incarni lo spirito, e sempre in modo imprevedibile ed originale. E’ questa la sua debolezza e la sua forza, il suo continuo essere motivo di scandalo e di illusione.
Alle soglie del terzo millennio, in tempi di assoluto dominio degli indirizzi clinico-nosografici e biologici e di particolare messa in crisi della stessa nozione di psychè, è possibile pensare al proporsi della Psicopatologia Fenomenologica proprio come ad una permanente ed inesauribile apertura agli orizzonti critici e ad una risorsa ineliminabile per la creatività e l’originalità nel cogliere, descrivere, trascrivere e comunicare gli accadimenti morbosi, anzitutto in chiave coesistenziale.
La dimensione fondativa di ogni Psicopatologia Fenomenologica e la sua articolazione tematica tradizionale (alter-egoica) continuano a vivere à côté delle procedure cliniche canoniche; esse attivano modalità conoscitive integrative nei confronti di quelle empiriche ed operative, e consentono di colmarne le lacune nel continuo tentativo di oltrepassarne i limiti. Reciprocamente, lo sviluppo e la diffusione di procedure di conoscenza clinica sempre più attente ai criteri di affidabilità, validità e falsificabilità, hanno contribuito a far risaltare alcuni limiti (ed anche, perché no, errori) delle tradizionali prassi fenomenologiche, quali la scarsa operazionabilità, l’indistinzione tra i concetti di “disturbo” e di “persona”, i rischi di validazione tautologica e di compiacimento linguistico.
Qui si presenta un’altra e non trascurabile ragione di attualità dell’impostazione fenomenologica ed antropologica: il suo essere epistemologicamente in grado di chiarire e far emergere i fondamenti di ogni atteggiamento psicoterapico. La sfera empatica e dialogica dell’afferramento eidetico, la disposizione all’incontro con l’altro, anche nell’apparente estraneità delle sue strutture costitutive, secondo i modi dell’incontro Io-Tu e dell’illimitata apertura alla significanza dei processi simbolici e rappresentativi, costituiscono i momenti fondativi di tutte le psicoterapie non comportamentali, indipendentemente da quali siano i loro assunti teorici e le loro articolazioni tecniche. Benchè la questione dell’esistenza o meno di una Psicoterapia Fenomenologica ( o, più recentemente, “ermeneutica”) e della sua compatibilità o meno con altri indirizzi psicoterapici (in primo luogo quelli psicoanalitici) sia stata e sia tuttora fonte di giuste critiche, non c’è dubbio che – almeno a fronte dell’inaridimento generale dei momenti dialogico-comprensivi nel campo clinico-diagnostico – gli psicopatologi ad orientamento fenomenologico, con la loro peculiare attenzione ai movimenti percettivo-empatici, ideologici ed ermeneutici nel rapporto coi malati, si trovino naturaliter necessariamente ad essere disposti ad una prassi psicoterapeutica molto impegnativa e altrettanto valida.
Inoltre, la sempre maggiore attenzione rivolta alla metafora, non come mera figura retorica ma come via conoscitiva comune ad ogni prassi psicoterapeutica, viene a sostenere ulteriormente l’applicabilità psicoterapeutica dell’atteggiamento fenomenologico, che delle metafore viventi ha sempre fatto consapevole uso e ricerca.
Il setting psicoterapico dello psicopatologo fenomenologicamente educato coincide con le sue modalità di presentarsi e relazionarsi al malato, con la sua sensibilità, plasmata dalla formazione (culturale e clinica) e dall’ esperienza, con la sua disponibilità verso qualunque declinazione esistenziale, anche anomala e anche molto in là con gli anni. Non potendo non portare se stesso nella situazione dell’incontro, egli crea le condizioni per processi conoscitivi che non si riducano a meri esercizi contemplativi o intellettuali, ma che implichino risvolti nel concreto, e sopratutto nel concreto del co-esistentivo.
E’ proprio qui che si situa, con molteplici angolazioni ancora in gran parte da esplorare, l’incontro psichiatra-paziente, in particolare l’incontro psicoterapeutico. Ma la dimensione dia-logica di questo rapporto non è risolubile in psico-logia: è antropologia. Buber, anticipando un tema ripreso dalla più recente riflessione psicoanalitica e di psicologia del profondo, a proposito del controtransfert, ha indicato, con chiarezza e a più riprese, che questa comprensione dialogica muove sì dall’onticità delle due esistenze ma si costituisce solo tra loro (faktisch zwischen Ihnen, di Buber), cioè nel trascendimento di entrambe.
Lo psicopatologo orientato fenomenologicamente è, probabilmente e radicalmente, un anarchico sul piano epistemologico sia per la sua insofferenza di codici e regole obiettivanti, che finiscono inevitabilmente per coartare o scotomizzare le risonanze di senso degli accadimenti psichici, sia perché ogni ingenuità ed ogni illusione (anche quella di descrivere naturalisticamente e dominare tecnicamente la natura) non possono più far parte del suo apparato conoscitivo; nello stesso tempo un atteggiamento fenomenologico vitalmente incarnato è l’unico a garantire la disposizione alla scoperta e alla meraviglia, nonchè la perpetua interrogazione sul senso antropologico della prassi psichiatrica.
Come una specie di Giano bifronte, lo psicopatologo fenomenologicamente formato vive sulla propria pelle il carattere perpetuamente antinomico dei fenomeni psichici, visibili, a seconda della distanza e della partecipazione empatica, come dati oggettivi e reificabili o come rivelazioni soggettive irriducibili ed originali.
Discende da qui, nella psichiatria attuale, il ruolo prevalente di tale prospettiva sul momento diagnostico e nosologico (radicalmente obiettivante, ma che tuttavia resta utilissimo dal punto di vista operativo come mostrano i vari DSM e ICD), che è poi, appunto, l’approccio concreto ai singoli, clinici, fallimenti dell’incontro o alle sue limitazioni o impossibilità, con evidente e logica apertura al fertile orizzonte farmacopsichiatrico, approccio di ogni psichiatria di marca biologica.
Ma il discorso della psicopatologia antropologica è, anche, anzi ben più, aperto alla dimensione psicologica della psichiatria, intesa questa come “psicologia del patologico”.
Ciò comporta la prospettiva (e il rischio) di un autentico impegno coesistentivo, fondato sulla reciprocità, su un nuovo tipo di rapporto medico-paziente, più integrato: antinomico ad ogni reificazione dell’altro.
Inevitabile, qui, il richiamo (in verità poco presente nella più recente riflessione psichiatrica italiana) a Viktor von Weizsäcker, medico ed antropologo, che indicò, con coerenza e lucidità di pensiero, la relazione interpersonale come prima categoria dell’umano, come chiave per la formazione e la lettura del rapporto medico-paziente. Nella sua prospettiva anti-idealistica, centrata su di una visione patica e non ontica dell’esistenza umana, l’incontro assume il senso di un apriori, accadimento originario; che solo secondariamente prende espressione nelle sfere linguistiche, sensoriali, motorie, emotive, logiche.
L’Io, per von Weizsäcker, “ non si dà mai da solo, ma fa esperienza di sè nell’incontro, e innanzi tutto nell’incontro col Tu. Lo stesso vale per il Tu che mi incontra, cioè incontra l’Io. La modalità patica costitutiva di ogni dimensione personale implica essenzialmente che questa è non-ontica (11)”.
Con von Weizsäcker, riteniamo che nella pratica psichiatrica il dare e il ricevere costituiscano un atto unitario, che può ben essere indicato come relazione di totalità, proprio secondo i principi della “psicologia della forma”.
Questo nesso indissolubile, dimostrato fattualmente in persone che svolgono un lavoro in comune, va riconosciuto come fondativo di ogni situazione bipersonale (medica compresa), cioè in ogni situazione in cui è fondamentale la reciprocità. E’ proprio partendo da questa reciprocità che è possibile prospettare – si pensi alle ricerche della scuola psicoterapeutica di Stoccarda – in modo metodologicamente fondato, il passaggio dal transfert (psicoanalitico) all’incontro (antropologico).
Così, se il modello transferale (e contro-transferale) della relazione analitica resta sempre la cifra fondamentale di ogni procedimento psicoterapeutico, diviene necessario, alla luce di quanto fin qui osservato, restituire al transfert un destino diverso da quello di una rigida delimitazione della teoresi metapsicologica, per “schiudere” il paziente alla singolare dimensione dell’incontro (se è tale davvero). Un terapeuta dovrebbe esser capace ed interiormente disposto a favorire questa partecipazione, questa apertura esistenziale.
Ecco allora il transito fondamentale: da un accanito ed irriducibile solipsismo, che creando l’altro forse già si propone di distruggerlo, alla reciprocità delle coscienze: radicale giro di boa che si realizza tramite l’appartenenza (12), a sé e all’altro-da-sé; questa reciprocità è dimensione costitutiva della persona; è quell’elemento che “caratterizza l’essere rispetto ad ogni altra qualità fondamentale” (Minkowski, Vers une cosmologie, cap. XVII).
Toccare ed esser toccato, essere-due o, meglio, essere-a-due (être-à-deux, ibidem, pag.182), rappresenta qui un carattere molto più basale del mero essere-uno: e ciò in tutta la gamma del coesistere, dalle papille tattili al toccarsi d’anime. Qui la pagina minkowskiana è veramente fondante: “Tale reciprocità, inscritta nel toccare, determina così il modo speciale di essere di tutto ciò che è il me e l’altro nella loro reciprocità è un fenomeno assai più originario del semplice me che, come tale, in fondo non significa assolutamente nulla”; e qui fondamentale è stata per me la lettura del denso e complesso volume di Derrida su “Le Toucher” J.L. Nancy (13). L’être-à-deux, la reciprocità, individua e propone, quasi perentoriamente, l’appartenenza come categoria primaria dell’umano; qui, forse paradossalmente, il noi (Buber) va inteso come un’identità, ma - attenzione – identità eterogenea: ognuno non riceve l’altro che per poter restare altrove-da-lui.
C’è un vero e proprio va e vieni dialettico tra l’identità del noi e l’eterogeneità dell’Ego e dell’Alter-Ego, del Je-Toi, del Ich-Du, dell’I-You. Ma questa promozione mutua, che sta alla base di ogni dimensione dialogica, si esprime attraverso un lavoro pericoloso, forse sempre inadeguato, e quasi mai riesce a saturare o a saturar-si tramite la propria apertura alla reciprocità: è qui tutta la dialettica della persona (L. Lavelle), dialettica fra ecsistentia ed in-sistentia, vocazione ed invocazione, appello e consenso, dono e scelta. Se, come dice Buber, “il fatto fondamentale dell’esistenza umana è l’uomo con l’uomo (15)” e se il tra-uomo-e-uomo è un fatto che non ha l’eguale nella natura, cioè è una relazione di reciprocità, allora dobbiamo dire, forse andando oltre Lavelle, che la radice di ogni rciprocità è nell’alterità.
E’ su questa sfera di interrelazione che si fonda l’appartenenza, come appartener-si e appartenere al mondo, quindi come dialettica produttiva: è quello che a me sembra appropriato indicare come proporzione antropologica, sulla scia del pensiero binswangeriano.
L. Binswanger, con tutta la sua opera, è stato – per lo psichiatra antropologicamente educato (ma sempre sensibile all’intenso richiamo freudiano e junghiano) – un Weg-weiser, un indicatore di via, una guida: la co-presenza, il co-esser-ci dell’uomo minacciato di perdita radicale dai processi di massificazione ma anche, più sottilmente, dal predominio della propria ipseità, va a realizzarsi sopratutto nei modi coesistentivi, da lui così mirabilmente analizzati.
Imprescindibile qui un richiamo a Maurice Nédoncelle, a questo pensatore che, nella sua magistrale Thése de Sorbonne del 1942, ripresa molto acutamente da L. Jerphagnon nel 1977, sottolineò efficacemente quel che a me pare doversi tuttora assumere come uno dei dati fondamentali della psicopatologia della reciprocità: l’indifferenza, l’apatia, l’acedia, il distacco, il disimpegno. Nèdoncelle, curvando con ogni evidenza il proprio pensiero sulla regione etico-antropologica ma anche costituendosi indicatore di innegabili dimensioni psicopatologiche (che solo l’ottica del Personalismo consente di individuare), dice propriamente: “jouer l’indiffèrence revien à une anesthestésie de l’âme”.
Questa dimensione dialogica non sembra accessibile alle usuali nozioni psicopatologiche, quantificabili o esprimibili in scale e questionari; si tratta di qualcosa di meta-psicologico, di esistenziale, di ontico. Con Buber, però, si può dire chiaramente che questa comprensione dialogica “non si ottiene partendo dalla irriducibile singolarità dell’esistenza personale, dalla sua onticità, ma da ciò che si costituisce tra loro e trascendente l’uno e l’altro” (Herzog) (15).
Però bisogna anche riconoscere che il paziente è stato ed è visto dal medico prevalentemente in conformità alla concezione naturalistica anche nella teoresi psicoanalitica, quindi in ambito di radicale oggettivazione; mentre la concezione di von Weizsäcker è ben diversa, intendendo il rapporto medico-paziente come un atto unitario, appunto la relazione, che si armonizza appieno col suo ciclo della forma, fondato sul nesso indissolubile tra percezione e movimento. In tal senso gli studi di P. Christian sulle situazioni bipersonali prospettano la dimensione della reciprocità e della solidarietà che si fondano sul reciproco occultamento del sè, dove azioni e sensazioni sembrano essere sempre proprie.
Qui è opportuno ricordare il denso concetto heideggeriano di struttura di co-appartenenza reciproca, la Zusammen-gehörigkeit (espressa da Heidegger in Holzwege), che imposta proprio nell’ambito dell’appartenenza le possibili basi teoretiche della reciprocità.
Vorrei aggiungere che certamente il transfert è (e resta) sempre di fondamentale importanza, perchè rappresenta l’ab-reazione sull’analista, a mò di riflesso, di moduli comportamentali della prima infanzia; ed è quindi bene e sempre opportuno parlare di analisi del transfert e di risoluzione di esso. Ma solo quando il paziente si apre all’incontro, solo allora esso comincia a porsi in autentica capacità di relazione: sempre con un arricchimento patico e timico davvero sorprendente, insito appunto nella dimensione della reciprocità.
E’ necessario quindi – ciò negli ultimi anni è divenuto per me quasi dimensione etica – riscattare il transfert dalla sua angusta cornice naturalistica e quasi meccanicista, schiudendolo all’incontro, cioé al noi; si pensi qui non solo a Kohut, ma anche ad analisti più tradizionali, come M. Gill (1985) e soprattutto a A. Modell. Nè si può quì ignorare il contributo, ancora attuale, di C. Benda (1961), il quale ha rappresentato una delle più consapevoli e valide voci orientate in tal senso nella psicoterapia anglosassone, riprendendo con efficacia il tema binswangeriano dell’amore.
Proprio pensando alla critica di Modell, mi rendo conto che si tratta comunque di un orizzonte assai problematico per il pensiero psicoanalitico “ortodosso”; ciò è ben evidenziato in un recente contributo americano sul contestualismo (Orange e coll., 2001) (16).
Noi psicopatologi clinici e psicoterapeuti dobbiamo comunque tener sempre presente che la tesi lapidaria di Merleau-Ponty (1945), citata quasi ossessivamente nei suoi scritti di Psicopatologia Fenomenologica (“La fenomenologia si lascia praticare e riconoscere come maniera o come stile ed esiste come movimento ancor prima di essere giunta a una piena coscienza intenzionale”), sembra aver accresciuto negli anni il suo valore intuitivo.
Per un apparente paradosso, dunque, il rigore auspicato da Husserl allorchè, provenendo da studi logici e matematici, pretese col passaggio dalla Psicologia Fenomenologica a quella trascendentale di fondare una scienza forte (eine strenge Wissernchaft) si mantiene, sia pure frantumato, soltanto nell’intensità e nell’esattezza con cui ogni psicopatologo impostato fenomenologicamente riesce a trovare nella singolarità trasparente ed autoevidente della propria esperienza (sopratutto se condivisa o condivisibile nell’intersoggettività della prassi clinica) l’unico criterio di superamento del piano doxico (cioè dell’opinabile) su quello eidetico (cioé dell’essenziale). Fin troppo spesso i risultati della Psicopatologia Fenomenologica finiscono così per assomigliare molto di più agli atti psichici creativi propri dei poeti, dei filosofi, dei letterati e degli artisti in genere, che non a quelli della ricerca scientifica naturalisticamente fondata: ad essere cioé molto più una ricerca di dicibilità, un’estetica e/o un’etica dell’umana esistenza che non una prassi scientifica. E’ forse qui che va situato il mio attuale interesse per l’analisi narrativa, quasi in alternativa all’analisi esistenziale (17).
E’ tuttavia possibile individuare una gradualità nella divaricazione epistemologica che si genera in questi esiti. Esistono cioè psicopatologi (o momenti diversi di uno stesso psicopatologo) in cui l’atteggiamento clinico naturalistico e quello fenomenologico si integrano o si disarticolano in misura diversa; altri in cui l’impeto fondativo autonomo della Fenomenologia si emancipa di più o di meno dalle comuni e canonizzate prassi diagnostiche e terapeutiche.
In pratica ogni psicopatologo ad orientamento fenomenologico, nel continuo tentativo di afferrare gli elementi costitutivi precategoriali, le modalità formali dei vissuti psichici abnormi, il loro declinarsi sempre in un contesto intersoggettivo, ha costruito e ricostruito un proprio orizzonte concettuale e semantico, sovente una ricerca incessante di metafore viventi. Ciò si fa partendo dai temi della Psicopatologia generale e clinica, in dipendenza dalle matrici culturali della propria formazione e del proprio soggettivo modo di sentire e vivere riflessivamente su di sé gli accadimenti psicopatologici. I nomi più noti della Psicopatologia Fenomenologica rappresentano quindi sempre figure di grande spessore intellettuale, autori di testi che mantengono intatto nel tempo il loro valore sottraendosi alla rapida obsolescenza della maggior parte della letteratura psichiatrica, ma per lo più isolati e solitari nel loro cammino.
Da questa sintetica visione d’insieme di una storia ormai ultracentenaria risulta chiaramente che non esiste una Psicopatologia Fenomenologica ma una serie polivoca e potenzialmente infinita di concezioni soggettive fondate su un comune atteggiamento di fondo: la tensione a far emergere e risaltare l’irriducibilità del compimento di senso e di significato di ogni singola esperienza clinica e terapeutica.
Si possono leggere questi risultati come la storia di una continua deriva concettuale all’interno di un movimento di pensiero, analoga sotto certi aspetti a quella del movimento psicoanalitico. Diversamente da quest’ultima disciplina tuttavia, la ricerca di una validità oggettiva, o quanto meno di un ortodossia metodologica, sono rimaste in genere estranee alla psicopatologia fenomenologica, che ha finito per essere rappresentata da una serie di “compagni di strada” piuttosto che da istituzioni e scuole.
Certamente sul terreno duro e scabroso della psicopatologia, anche di quella più sensibile alla ricerca del senso e del significato, le perplessità e le difficoltà non sono poche. Si tratta di percorrere, in concreto, un crinale assai difficile, una linea di confine – come avrebbe fatto il teologo Paul Tillich – sottile e, non raramente, scabra ed insidiosa. Invero, il noi dell’incontro, male inteso o malpraticato, può rischiare di transire in un fumoso ed equivoco sentimentalismo, in un irrazionale patetismo, in facili “sconfinamenti” spiritualistici o ambiguamente sensualistici.
Ma il sinuoso crinale della nozione jaspersiana di incomprensibilità è divenuto sempre più il luogo di discriminazione dei due principali filoni fenomenologici in psichiatria (quello descrittivo e quello eidetico-modale-trascendentale): su di esso si sono svolti i “conflitti del conoscere” (Borgna), dove l’intuire della Fenomenologia, l’afferrare della Daseinsanalyse, l’interpretare della varie ermeneutiche, lo spiegare delle scienze naturali, ma anche di alcune scienze umane, e lo spiegare ciò che si comprende di alcune correnti psicoanalitiche, hanno finito nei fatti più per convivere che per prevalere l’uno sull’altro.
Resta sempre e comunque il vasto deserto della caduta dell’incontro, del suo scacco, del suo fallimento nella regio schizophrenica, nella palude paranoide, nelle nebbie melanconiche. Già Giese con von Gebsattel e poi von Bayer ci offrirono cinquant’anni fa pagine indimenticabili sull’incontro mancato con lo schizofrenico, sull’impossibilità di strutturare il noi, propria del paranoide, del delirante, del maniacale e di tanti disturbi di personalità più o meno fortemente connotati di antisocialità e/o di perversione.
E’ così che oggi ben possiamo considerare la psicopatologia come lo studio non soltanto delle distorsioni della comunicazione intersoggettiva ma anche, o forse sopratutto, delle distorsioni antropologiche dell’incontro interpersonale; van der Berg lo diceva a chiare note già nel lontano 1946.
La psichiatria, dunque, come la scienza che studia non solo e non tanto i sintomi psichici dell’uomo neuronale, ma che indaga l’uomo nelle sue (primarie) capacità ed incapacità di costituirsi e di declinarsi in appartenenza e reciprocità.


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

ALES BELLO A., Fenomenologia dell’essere umano, Roma, Città Nuova, 1992.

BAYER W. von, Zur Psychopathologie der Begegnung, in “Nervenarzt”, 26, 369, 1955.

BENDA C. E., The Image of Love, Modern Trends in Psychiatric Thinking, New York, Glencoe Free Press, 1961.

BAZZI T. – FIZZOTTI E., Guida alla logoterapia: per una psicoterapia riumanizzata, Roma, Città Nuova, 1986.

BINSWANGER L.., Per un’antropologia fenomenologica, Milano, Feltrinelli, 1970.

BÖCKEBHOFF J., Die Begegnungsphilosophie, Freiburg, Alberg, 1970 (pag.65).

BOSS M., Psychoanalyse und Daseinsanalytik, Bern, Huber, 1957; München, Kindler, 1980¡.

BUBER M., Il problema dell’uomo, Bologna, Patron, 1972.

BUBER M., Io e Tu, in: Il principio dialogico, Cinisiello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1993.

BUBER M., Incontro, Frammenti autobiografici, (a cura di D. Bidussi), Roma, Città Nuova , 1993.

CALLIERI B., Presupposti fenomenologico-esistenziali per una psichiatria interpersonale, in “Rivista sperimentale di Freniatria”, 87, 639, 1963.

CALLIERI B., Antropologia e Psichiatria: dall’oggettività del “caso” all’esperienza di rapporto e di incontro con la persona, in “Medicina e Morale”, 33, 180, 1983.

CALLIERI B., Aspetti antropologici dell’incontro: il “noi” tra psicoanalisi e metafisica, in “Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria”, 57, 477-485, 1996.

CARGNELLO D., Alterità e alienità, Milano, Feltrinelli, 1977¡.

DERRIDA J., Le toucher. Jean-Luc Nancy, Paris, Galilea, 2000.

FRANKL V. E., Un significato per l’esistenza, Psicoterapia e Umanismo, Roma, Città Nuova, 1990¡.

FROMM E., The Art of Loving: an Inquiry into the Nature of Love, New York, Harper, 1962.

GERL A. B., Edith Stein, Vita, Filosofia, mistica, Brescia, Morcelliana, 1998.

GILL M., Analysis of Transference, New York, International University Press, 1985 (vol. I, pag. 172)

HEIDEGGER M., Einführung in die Metaphysic, Tübingen, 1958¡.

HERZOG M., Weltentwürfe. Ludwig Binswangers phänomenologische Psychologie, Berlin, W. de Gruyter, 1994.

JERPHAGNON L., Maurice Nèdoncelle, in Universalia, Paris, Encicl. Universalis, 1977 (pagg. 524- -525).

LAÍN ENTRALGO P., Theoría y Realidad del Otro, Madrid, Paz Montalvo, 1961.

LAVELLE L., Conduite à l’égard d’autrui, Paris, A. Michel, 1957 (cap.IV,§8).

LÖWITH K., Das Individuum in der Rolle des Mitmenschen, Leipzig, 1928.

MARCEL G., Homo Viator, Paris, Aubier, 1937.

MASULLO A., “Io”: il fantasma dell’identità, in “Quaderni sardi di filosofia, letteratura e scienze umane”, 23, 1995.

MASULLO P. , Patosofia, L’antropologia relazionale di Viktor von Weizsäcker, Milano, Guerrini, 1992.

MILAN G., Educare all’incontro, La pedagogia di Martin Buber, Roma, Città Nuova, 1994.

MODELL A. H., Psicoanalisi in un nuovo contesto, Milano, R. Cortina, 1992.

NÉDONCELLE M., La Réciprocité des Consciences, Essai sur la Nature de la Personne, Paris, Thèse de Sorbonne, 1942.

RANLY E. W., Scheler’s Phenomenology of Community, L’Aja, Nijhoff, 1966.

SCHELER M., Essenza e forme della simpatia, (trad. ita.: D. PUSCI, Roma, Città Nuova, 1979&Mac198;.

SCHELER M., Sociologia del sapere, (trad. ita.: D. Antiseri), Roma, Abete, 1966.

SCHOTTLÄNDER F., Kontakt und Übertragung, in: Almanach 1958, Struttgart, Klett, 1958.

STANG HELLINI G., Verso una psicopatologia sociale della vulnerabilità, Psichiatria Oggi 4,3, 2002.

STEIN E., Introduzione alla filosofia, (pref. A. Ales Bello), Roma, Città Nuova, 1998.

THEUNISSEN M:, Der Andere. Studien zur Sozialontologie der Gegenwart, Berlin, 1965.

TRÜB H., Heilung aus der Begegnung, (pref. M. BUBER), Stuttgart, 1949.

USLAR D. von, Von Wesen der Bergegnung, in “Zeitschrift für philos. Forschung”, 13, 8, 1959.

WALDENFELS B., Das Zwischenreich des Dialogs, L’Aja, Nijhoff, 1971.

WEIZSÄCKER V. von – WYSS D., Zwischen Medizin und Philosophie, Göttingen, 1957.

WIPLINGER F., Dialogischer Logos. Gedanken zur Struktur der Gegenüber, in “Philos. Jahrbuch”, 70, 169-190, 1962.

ZUTT J., Neue Wege zur Anthropologie, Berlin, Springer, 1961.


Note

1) STRAUS E., Geschehnis una Erlebnis, Springer 1978.
2) HEIDEGGER M., Sein und Zeit, Max Niemeyer, Tübingen, 1927; tr. ita.:CHIODI P. (ed.), Essere e tempo, Longanesi, Milano, 1976.
3) Concordo profondamente con il pensiero di Merleau-Ponty che osserva: “(…) si le sujet est en situation, c’est qu´il ne réalise son ipséité qu´en ètant effectivement corps et en entrant par ce corps dans le monde”, M. MERLEAU-PONTY, Phènoménologie de la Percetion, Gallimard, Paris, 1945, pag.467. Forse sarà meglio parlarne oltre. Va qui, tuttavia, ricordato il volume di CARLO TRAVERSA, La relazione analitica, Borla, Roma, 1981, ancora pienamente valido.
4) MARCEL G:, Homo viator, Aubier, paris, 1937.
5) BÖCKENHOFF J., Die Begegnungsphilosophie, K. Alber, Freiburg-München, 1970.
6) HEIDEGGER M., Einführung in die Metaphysik, Max Niemeyer, Tübingen, 1958¡, pag.53.
7) SARTRE J.P., L’être et le nèant, Essai de Ontologie Phénoménologique, Gallimard, Paris, 1943, tr. Ita.: G. DEL Bo, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 1965.
8) NATANSON M:, Literature, Philisophy and Social Science, L’Aja, Nijhoff, 1962, pag. 68.
9) BUBER M., Ich und Du, Schneider, Heidelberg, 1974 «.
10) WEIZSÄCKER V. von, Filosofia della medicina, Guerini & Associati, Milano, 1990, pag. 188.
11) HUSSERL E., nelle Meditazioni Cartesiane e nelle Pariser Vorträge al § 44, parla di Eigenheitlichkeit, che potremmo tradurre con termine “appartentività”.
12) Si pensi qui anche alle acute pagine di A. Masullo a proposito dell’Io come fantasma dell’identità.
13) DERRIDA J., Le toucher, Jean-Luc Nancy, Paris, Galiléa, 2000.
14) BUBER M., Il problema dell’uomo, Bologna, Patron, 1972, pag. 205.
15) HERZOG M., Weltentwürfe, Ludwing Binswangers Phänomenologische Psychologie, Berlin, W. De Gruyter, 1944, pag. 257.
16) ORANGE D.M., ATWOOD G.E., STOLOROW R.D.: Working Intersubjectively. Contextualism in Psychoanalytic Praxis. Hillsdale (N.Y.), Analytic Press, 1997.
17) CALLIERI B. Dall’anamnesi al racconto: analisi esistenziale e/o analisi narrativa?, Attualità in Psicologia 15, 1, 8, 15, 2000.


PSYCHOMEDIA --> HOME PAGE
AMP --> HOME PAGE --> SEMINARI 2000 - 2001