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A. M. P.
SEMINARI 2000 - 2001
Elena Gelmini

Quando la sofferenza non aiuta a crescere.
Una Bouffée psicotica infantile


Con il caso di Marco che di seguito presento diverrà chiaro cosa succede nella mente di un bambino che si trova da solo a gestire angosce intollerabili quando la sua sofferenza interiore viene misconosciuta o trascurata.
Il lavoro individuale di "special time" che ho svolto con Marco si riferisce al periodo della mia attività di psicologa nella scuola. Lo "special time" è un tipo di intervento sia a carattere preventivo che di recupero del disagio il cui quadro di riferimento teorico è psicodinamico (scuola kleiniana e post-kleiniana). L'origine di questo tipo di lavoro risale ai primi anni '80 in Inghilterra in alcune istituzioni pubbliche grazie all'applicazione degli strumenti psicoanalitici nei contesti istituzionali. Lo scopo è quello di offrire al bambino a rischio, che per varie ragioni non è possibile inviare alle strutture pubbliche, un "setting" strutturato volto ad aiutarlo nella comprensione delle proprie difficoltà. Questo "setting" consiste nel vedere individualmente un bambino in una stanza all'interno dell'istituzione scolastica, per un periodo di tempo limitato e costante, una volta alla settimana, per un intero anno scolastico.

La storia di Marco.

Marco, è figlio primogenito di genitori che dopo 5 anni di convivenza drammatica si sono separati; il bambino è stato affidato dal giudice alla madre. Il padre, 31 anni, non ha mai avuto un lavoro stabile, provvisoriamente lavora part-time per una agenzia pubblicitaria; la madre, 31 anni, è casalinga. Attualmente i genitori si sono formati ciascuno un'altra famiglia ed hanno avuto dai loro rispettivi partners un altro figlio.
Il caso di Marco mi è stato presentato dalle insegnanti preoccupate per i comportamenti aggressivi e pericolosi del bambino nei confronti dei compagni di classe, per il disinteresse e per gli scadenti risultati negli apprendimenti.
La storia che le insegnanti mi hanno raccontano, prima che io conoscessi direttamente il bambino, era carica di episodi dolorosi e aggressivi ai quali Marco aveva assistito durante gli anni della difficile convivenza tra il padre e la madre. I genitori, dopo la separazione, hanno sempre avuto molte perplessità, nei colloqui richiesti dalle insegnanti, a riconoscere le difficoltà del figlio sostenendo che a casa il bambino risultava tranquillo e sereno. Ciò rafforzava in loro la convinzione che fosse la scuola la fonte del disagio del figlio. Con questa certezza, soprattutto il padre attaccava e incolpava l'insegnante che aveva un rapporto alquanto conflittuale con il bambino. Verso questa stessa insegnante Marco aveva messo in atto comportamenti aggressivi quando essa tentava con rigidità di obbligarlo al suo dovere di scolaro.
Questa era la situazione presentatami dalle insegnanti prima che io conoscessi direttamente il bambino e i suoi genitori.

Ho conosciuto Marco dopo una crisi esplosiva di aggressività avvenuta a scuola. L'insegnante di classe mi ha raccontato in seguito che, durante questa crisi, Marco aveva improvvisamente iniziato a prendere a botte e calci il compagno di banco. Nonostante il suo pronto intervento, non era riuscita a fermarlo ed era stata così costretta a chiedere aiuto ai bidelli che, dopo averlo rudemente immobilizzato, lo avevano rinchiuso in palestra.

"Qui ho incontrato Marco, un bambino minuto, piccolo rispetto all'età, agilissimo e molto curato nell'abbigliamento, mentre saltava freneticamente senza sosta da un tappeto all'altro, sudato e ansimante, lo sguardo allucinato, mobilissimo. Subito mi ha colpito il suo sguardo spaventato e ho sentito, nella strenua difesa che stava mettendo in atto attraverso il movimento, un modo primitivo con cui contenersi. Sono rimasta per un pò a distanza e in silenzio, cercando di trasmettergli con lo sguardo la mia disponibilità ogni volta che furtivamente mi guardava. Quando Marco ha iniziato a sostenere più a lungo il mio sguardo, io con calma mi sono avvicinata e, mentre lui rallentava i salti e si ritraeva guardingo, l’ho preso per mano e ho iniziato a parlargli dicendogli che mi ero resa conto di quanto fosse doloroso e difficile per lui contenere da solo tanta paura. Piano piano Marco si è calmato e, mentre gli tenevo la mia mano sulle sue spalle madide di sudore, ho ascoltato i contenuti delle sue allucinazioni.
"Sono tutti lì! Sono brutti, dobbiamo difenderci altrimenti ci ammazzano!" mi ha urlato angosciato.
L’ho ascoltato senza interromperlo, dicendogli soltanto alla fine che ero lì per aiutarlo ad affrontare quei mostri che lo obbligavano a difendersi con tanta aggressività. Dopo un pò ha iniziato a costruire un confine-recinto con i tappeti della palestra. "Un castello" mi ha detto quasi con sollievo.

In quella costruzione vedevo espresso un bisogno, irrinunciabile da parte del bambino, di avere accanto a sè una persona solida e affidabile che sapesse contenere la sua aggressività così violenta, esplosiva ed insostenibile. Marco si sentiva completamente sopraffatto dal terrore e sembrava comunicarmi in modo vivo e drammatico quanto fosse preoccupato di sapere se io potevo sentire e sopportare il suo terribile stato di angoscia e dolore. La mancanza di un contenitore interno sembrava averlo portato ad un uso massiccio della proiezione di sentimenti ostili e di rivalità sugli altri, nello specifico sui suoi compagni. Infatti aveva iniziato a prendere a calci il compagno perchè, mi ha spiegato successivamente dopo quasi due ore dalla esplosione della crisi:

".....si era trasformato in mostro e per difendermi ho dovuto dargli pugni calci…. io ero superman!".

L'onnipotenza e la concretezza delle fantasie erano vissute da Marco come processi reali proprio a causa dei loro effetti "reali" ("onnipotenza della fantasia" di Freud) e nel mio avvicinamento a lui ho tenuto conto della loro intensità e di ciò che stava cercando di dirmi emotivamente. Nel distacco dalla realtà e nella fantasia di essere potente l'Io del bambino tentava forse di evitare l'angoscia (Klein, 1935). Per questo Marco aveva perso la distinzione tra realtà e fantasia, i mostri erano diventati reali e lui aveva aggredito i compagni di scuola.
Dopo che ero riuscita a stabilire con Marco un contatto-contenimento, il bambino aveva accettato di disegnare ed era riuscito attraverso il disegno ad esprimermi la sua realtà interiore minacciosa.

"Disteso per terra Marco disegna i mostri che più lo terrorizzano, rigido, senza parlare e impedendo che faccia ciò anch'io. Il mostro invincibile è il diavolo, il lupo, il conte Dracula, Frankestein, infine il mostro del lago che, mi dice sottovoce, "ho visto questo mattina appena sono uscito di casa". (dis. n. 1)

Mentre disegna accentua la sua espressione nervosa e tesa con continui e intermittenti respiri profondi e con alcune smorfie e tic facciali. Il disegno è eseguito con difficoltà e tratto incerto.
I contenuti delle sue fantasie erano intrisi della paura di essere sadicamente punito, e il distacco dalla realtà gli aveva permesso forse di affrancarsi dal senso di colpa.
Certo attraverso la produzione simbolica il bambino aveva potuto alleviare e contenere in parte le sue fantasie distruttive e distanziarle da sè attraverso la proiezione.
Dopo due ore, Marco aveva iniziato a calmarsi e a riprendere contatto con la realtà; aveva rifiutato in un primo momento che io chiamassi i genitori che durante la crisi non aveva mai cercato. La madre era accorsa per prima e, mentre le spiegavo cosa era successo, il bambino era rimasto spaventato vicino a me tenendomi per mano. Incredula, aveva giustificato l'esplosione del figlio in questo modo:

"..forse qualcuno lo avrà irritato.....a casa queste scene non sono mai successe, infatti nè io nè mio marito abbiamo mai avuto bisogno di dire no a Marco perchè non ha mai dato problemi, nel senso che fa quello che vuole e non dà mai fastidio".

In questa situazione senz'altro Marco avrà avvertito che la famiglia temeva i "no" e di conseguenza non poteva far altro che negare ogni suo disturbo. Forse anche per questo il bambino non aveva potuto, fino a quel momento, dire di no alla propria aggressività nè aveva potuto imparare a farlo perchè non ha avuto nè ha tuttora una figura paterna che gliela limiti. I genitori gli avevano forse permesso di credere in un mondo esclusivamente suo che non dà frustrazioni né perdite. Con ciò hanno incoraggiato lo sviluppo di un delirio di onnipotenza impedendo così al bambino lo sviluppo di una forza interiore con la quale affrontare gradatamente le difficoltà dell’esperienza.
Mi ero subito resa conto della gravità dei sintomi del bambino e del fatto che era a rischio psicopatologico, per questo avevo consigliato entrambi i genitori di far visitare il figlio da uno specialista.
Inizialmente tanto la madre che il padre, separatamente, avevano rifiutato energicamente di dare a Marco un aiuto psicologico, che hanno invece accettato due mesi dopo, sotto forma di "special time" a scuola, solo dopo altre aggressioni del bambino contro i suoi compagni; infatti tali aggressioni avevano provocato la reazione dura ed ostile da parte di molti genitori. Nel colloquio che i genitori di Marco avevano richiesto per darmi l'autorizzazione ad iniziare a lavorare con il figlio, avevo sentito quanto era per loro difficile esprimere verbalmente emozioni; la negazione dei disturbi del figlio mi era sembrata invece una loro difesa troppo importante per sedare i loro conflitti di coppia separata. Questo mi aveva fatto pensare che forse a Marco fosse mancata “la figura di un adulto capace di contenere gli stati dolorosi del suo essere provocati da emozioni negative troppo intense e ciò non gli aveva permesso di sviluppare gradualmente, all'interno del proprio sè, la capacità individuale di sopportare la sofferenza connessa alla capacità di pensare” (W. R.Bion, 1962). Questo aveva forse determinato anche il disinteresse di Marco per l'apprendimento e le conseguenti difficoltà. Bion sostiene inoltre che all'inizio, quando il bambino è molto piccolo, questa funzione deve essere svolta da un oggetto esterno, la madre, che è continuamente introiettata per diventare un oggetto interno che permetta al bambino di "conoscere se stesso". Ma Marco non ha potuto affrontare questa ricerca perchè le angosce del suo mondo interno lo hanno portato a rifiutarne la consapevolezza. Marco non poteva imparare nè sentire quello che dicevano le insegnanti poichè era stato riempito di cose che non l'avevano nutrito e che gli avevano fatto molto male: tali erano le scene violente tra genitori, l'aggressività e i tentativi teatrali di suicidio del padre. Tutta la sua energia sembrava mobilitata a contenere ciò che gli faceva male: non c'era spazio dentro di lui per l'apprendimento.
Dal colloquio con le insegnanti avevo potuto riassumere così i sintomi di Marco: episodico distacco dalla realtà, aggressività immotivata, difficoltà ad integrarsi nel gruppo classe, difficoltà e disinteresse per gli apprendimenti, continui contrasti con un'insegnante con sfida e opposizioni. Sembrava quindi che Marco fosse riuscito a mettere in atto una scissione: i problemi li aveva a scuola, dove le insegnanti riuscivano ad avvertire la sua aggressività, e non a casa, dove quest'ultima non era sentita perchè negata. Inoltre aveva problemi di rapporto con un'insegnante e non con l'altra, forse ripeteva la scissione che aveva sentito nei genitori e non riusciva a mettere insieme padre e madre. Una parte del rapporto veniva così ad esprimere le sue parti buone, l'altra quelle cattive che, non essendo integrate, diventavano mostruosamente potenti.
Con il tempo mi sono resa conto che bisognava aiutare Marco ad affrontare il nemico-mostro dentro di lui, a conoscere i suoi impulsi aggressivi e a dominare i suoi desideri tirannici, ad affrontare il dolore invece di eluderlo per permettergi di sviluppare e rafforzare una sua forza interiore. Come sostiene la Klein (1927) i bambini hanno bisogno di una figura parentale che abbia la fermezza e l'autorità necessarie per definire dei limiti e che sappia resistere al violento assalto delle emozioni. Il contatto con una tale figura può permettere al bambino, mediante l'introiezione, di rafforzare la propria capacità di autocontenimento e di aiutarlo a distinguere tra fantasie interne e realtà esterna.

I primi incontri sono stati molto difficili per Marco perchè il silenzio, che imponeva non rispondendo alle mie domande ed evitando in ogni modo di guardarmi, era a mio parere un modo per comunicarmi la sua terribile paura o forse rabbia e sfiducia per la relazione; nello stesso tempo si limitava a disegnare.
Era come se quei segni grafici riattivassero in Marco emozioni e ricordi che gli permettevano di esprimere e rivivere quei vissuti angoscianti che non aveva potuto far riemergere, affidando alla mano il compito di dire quello che sentiva dentro di sè e che non poteva tradurre nè in pensiero nè in parole. I primi disegni rappresentavano situazioni dove " si affrontavano mostri preistorici, si scalava la cima di un monte, si stava costruendo qualcosa... forse una casa.." (dis. n.2,3,4). Non è stato facile sopportare quel senso di impotenza che provavo di fronte al silenzio che il bambino mi imponeva e a capire che dovevo per il momento dare solo attenzione e comprensione affettuosa elaborando dentro di me le emozioni che il bambino mi portava. Rispettando la sensibilità del bambino piano piano al settimo incontro Marco abbozza un sorriso più comunicativo e inizia a rispondere alle mie domande sul suo disegno.
Il silenzio che imponeva durante la sua produzione grafica era forse un attacco alle parole sentite troppo cariche di minacce per le violenze che aveva viste e udite in famiglia. Ho cercato con delicatezza di restituirgli nel tempo l'esperienza di una parola capace di aiutarlo ad elaborare i suoi contenuti. Pian piano Marco ha iniziato a dar voce ai suoi disegni. Spesso rinviava alla volta successiva la spiegazione di alcuni di essi, soprattutto quelli che riproponevano il tema della separazione, quasi a indicare il bisogno di dare continuità agli incontri e ad esprimermi la sua difficoltà ad affrontare tale esperienza.

"All'avvicinarsi delle vacanze di Natale lui disegna un aereo con passeggeri che salgono e portano con sè molti bagagli, vicino un'autoambulanza che prende fuoco perchè qualcuno mi dice: "ha buttato la sigaretta accesa"(dis. n.5)

Sembrava in tal modo che Marco esprimesse così la sua rabbia nell'essere lasciato solo, ma dopo che gli avevo parlato di questo lui aveva aggiunto: “…. però non ha ucciso nessuno!”
In alcuni momenti Marco riusciva ad inventare storie sui disegni e a capire che le sue erano fantasie, altre volte si sentiva imprigionato dai suoi incubi e non riusciva a discriminare tra fantasia, allucinazione e realtà. Così all'inizio di un colloquio aveva esordito con:

"Ieri ho giocato a basket con i fantasmi assieme a due miei amici e mi sono fatto male perchè sono finito nel cesto del canestro e sono rimasto… penzoloni!...."

Il bambino mi stava dicendo come in certi momenti si sentiva intrappolato nelle sue fantasie ed aveva paura. Questo sembrava essere anche in connessione con le vacanze di Natale durante le quali lui doveva accettare la separazione da me. Dopo che gli avevo esplicitato questo pensiero lui, muovendosi ad un livello di sofferenza psicotica per cui non distingueva più la realtà dalla fantasia, mi ha detto:

"Ho fatto un patto con Gesù di non mandarmi più gli incubi che mi manda il diavolo e io non sarò più cattivo!".

Si rendeva conto che stava combattendo, utilizzando la sua parte sana rappresentata da Gesù, contro quella psicotica (il diavolo), ma sentiva che era una lotta impari. La realtà diventava così impregnata e confusa con immagini molto angoscianti e persecutorie. Marco sembrava esprimere il bisogno di un genitore onnipotente ed idealizzato (Gesù) per compensare forse la realtà di due genitori che non lo proteggevano affatto; la madre perchè vedeva in Marco le parti cattive del marito e per il fatto che era molto occupata nelle cure per il neonato, il padre perchè con i regali e le promesse megalomani cercava di comperarne l'affetto senza occuparsi di lui.
Marco stava sempre molto attento che nessuno gli toccasse la scissione tra parti buone e parti cattive. Dopo però che gli avevo detto che avevo capito quanto fosse dolorosa e terribile la sua lotta contro gli incubi, i mostri, i fantasmi e come fosse importante per lui avere come alleato Gesù, è riuscito con dolore a tornare alla sua triste realtà:

"Nessuno mi vuole bene, solo i miei orsacchiotti, i gattini, la tartarughina e i pesci..... e ( esitando ) forse papà..... anzi sì.... papà perchè mi fa tanti giocattoli".

In un successivo incontro mi aveva raccontato in termini idealizzati una vacanza con il padre, parlandomi della meravigliosa esperienza subacqua fatta con lui.... Forse voleva contrapporre alla negazione della pena per la separazione da me, per le vacanze pasquali, un vissuto bello ed emozionante a cui faceva riscontro però anche la paura di essere di nuovo lasciato solo con le sue fantasie distruttive e il rischio di agirle e di soccombere:

"Sto bene, sono sano come un pesce! sai che sono stato in apnea ...... e sono risalito velocemente.... ho fatto tanti scherzi d'acqua con lui (padre)".

Avevo invece capito che Marco non era poi così sano, dovevo evitare di colludere con la negazione dei genitori e accogliere la rabbia, la pena, le angosce che tendeva ad espellere per offrirgli un’esperienza di contenimento, uno spazio cioè per elaborare i suoi pensieri.
In un altro incontro, prima di disegnare, mi ha raccontato un ricordo legato al padre; dopo che io gli ho esplicitato il sentimento di nostalgia legato a tale ricordo, mi aveva chiesto di disegnare. Con tratto deciso aveva completato un robot "Mazinga" e, con più cancellature, anche la fidanzata "Venus"; poi aveva tentato di disegnare a fianco un piccolo robot:

"..... è un robottino fatto di ferraglia che è invidioso di Mazinga, perchè è più forte e può volare. Lui invece non può nè crescere nè volare ..." Il piccolo robot non gli riesce così lo cancella, ma con tratti lievi della gomma tanto da lasciarne un'evidente traccia. Si sposta quindi sul lato sinistro del foglio e con rapidità disegna il piccolo robot senza bocca e con occhi allucinati, come talvolta è il suo sguardo, e senza il sostegno sicuro di piedi che appoggiano la pianta a terra" (dis. n.6).

Erroneamente avevo tentato in un primo momento di avvicinarmi a lui con la rassicurazione, ma con Marco era stata inutile. Lui sentiva che era terribile e immobilizzante aver tutta quella paura di non riuscire a crescere e volare e sentirsi così pieni di invidia di fronte a un papà così potente e impenetrabile. Forse Marco, per il carattere onnipotente delle sue fantasie, non era ancora riuscito ad elaborare una identificazione, con separazione, nella somiglianza con il padre; sembrava anzi rinunciarvi. Mi era comunque sembrato che l'aiuto offerto, attraverso lo "special time", avesse cominciato ad aiutare il bambino a capire la sua sofferenza e ad affrontare meglio la lotta contro le sue parti psicotiche; il dar voce alle sue emozioni e il parlarne aveva iniziato ad aiutarlo ad obiettivarle ed a distanziarle.

A metà anno scolastico, ero riuscita ad avere un colloquio con entrambi i genitori. Marco prima dell'incontro mi aveva portato una rosa in ambulatorio ed era scappato via: forse, era un ringraziamento per aver tentato di mettere insieme due parti che provocavano in lui potenti e ambivalenti sentimenti di amore, odio e invidia.
I genitori avevano avuto enormi difficoltà ad avvicinarsi ai problemi del figlio e, mantenendo la stessa posizione rispetto al rifiuto di un aiuto psicoterapeutico, non avevano voluto prendersi alcuna responsabilità rispetto ai bisogni del bambino. Il padre, in particolare, negando ogni principio di realtà che impone limiti e doveri, sembrava sempre più assumere agli occhi di Marco la figura del genitore idealizzato; con lui non eseguiva i compiti, andava in vacanza, riceveva i suoi regali ecc....... Sapeva forse preoccuparsi del figlio, ma non poteva occuparsi di lui. Infatti era convinto di aiutare il figlio mettendosi, con rabbia e minacce, contro l'insegnante che pretendeva da Marco risultati scolastici e comportamenti adeguati; sembrava in tal modo rafforzare nel figlio le fantasie onnipotenti legate ai suoi sentimenti aggressivi.
La madre, in un successivo colloquio richiesto da lei, si era mostrata più capace di avvicinarsi al disagio del figlio sostenendo che la sofferenza di Marco era derivata dal clima di violenza, minacce e gelosia durante la difficile convivenza con il padre. L'ammettere tale disagio non l'aiutava però a capire, perchè era ancora potente l'odio nei confronti del marito che l'aveva umiliata, picchiata e violentata; in Marco spesso vedeva queste parti cattive: “..quando si comporta in modo così violento assomiglia proprio a suo padre!”
Entrambi i genitori avevano sempre detto di essere soddisfatti della loro attuale storia sentimentale; Marco invece aveva colto, anche in queste loro nuove famiglie, le difficoltà che cercavano di negare.
In un incontro durante il quale aveva fantasticato in modo utopistico sulla promessa di una vacanza in Sud Africa da parte del padre, Marco, accettando di tornare alla realtà della sua dolorosa situazione, mi aveva confidato che il padre dormiva da solo in una cameretta, mentre la madre litigava con il suo attuale compagno sempre a causa sua. Anzi Marco era convinto che il patrigno non gli volesse bene.
Mentre gli incontri si susseguivano regolarmente Marco iniziava a mostrare come era difficile per lui lasciare la stanza del colloquio, i disegni si riempivano di molti particolari (dis. n.7,8,9,10,11); talvolta preferiva troncare immediatamente e tornare subito in classe o rassicurarsi chiedendomi esplicitamente conferma dell'incontro della volta successiva.... La rassicurazione, come ho già detto, non aveva nessun effetto e ogni volta il bambino cambiava la modalità con cui affrontare la separazione. Avevo così pensato che ciò fosse forse legato alle emozioni delle sue esperienze primarie di separazione e a quella più recente del divorzio dei genitori e del lutto che doveva affrontare per una situazione che aveva perso definitivamente. Forse si sentiva colpevole di ciò.
A scuola Marco non riusciva a sopportare i compagni che lo stuzzicavano; per questo reagiva picchiando violentemente e perdendo il controllo, ma anche prendendole. Durante un colloquio mi aveva riportato indirettamente questa situazione parlandomi del suo sport preferito, il karatè, da lui vissuto in senso idealizzato: più si diventava bravi in questo sport e più si era capaci di dare e ricevere botte senza dolore. Mantenendo il livello di comunicazione del bambino, lo avevo aiutato ad avvicinarsi al problema della sua aggressività dicendogli che forse quello sport gli piaceva perché, quando lo praticava, la lotta contro l'altro era controllata da regole rigide che contenevano l'aggressività di entrambi i lottatori. Diversa era invece la situazione in cui si trovava quando litigava con i compagni; la rabbia poteva diventare troppo grande e provocare gravi danni. Marco mi stava forse dicendo che sentiva il bisogno che qualcuno sorvegliasse la sua aggressività perché iniziava a sentire che spesso diventava più forte di lui e ne aveva paura.
Con molta delicatezza avevo tentato di avvicinarlo alle sue emozioni dicendogli che mi ero resa conto che la sua comunicazione sul male fisico era anche riferita al dolore che provava dentro di sé quando non si sentiva contento.
Lui riprendendo il discorso ha iniziato a parlarmi:

".... di gattini e di un cagnolino che porto sott'acqua con me quando vado in apnea....".

Anche in questa comunicazione Marco mi diceva chiaramente che una parte di sè, quella capace di crescere, vedere, sentire e capire, era esposta ad un pericolo mortale: l'annegamento nelle fantasie di idealizzazione che gli servivano per evadere la frustrazione, il dolore senza possibilità di elaborazione. L'alternativa a questa situazione idealizzata sembravano essere i mostri: l’aggressività degli altri e la propria proiettata sugli altri.
Tutto questo lavoro sembrava intanto dare dei risultati positivi in quanto il bambino, a detta delle insegnanti, riusciva ad essere meno aggressivo in loro presenza. L'elaborazione dei sentimenti che portava e attualizzava nel rapporto con me lo aveva senz'altro aiutato a percorrere la strada della frustrazione.
Per Marco la proiezione e successivamente l'idealizzazione erano state le difese che aveva utilizzato per combattere il dolore psichico, la rabbia e la gelosia. Il padre interno per il bambino era rappresentato dalla fantasia che evadeva la realtà senza consentire di affrontarla. Tali difese erano messe in atto contro le fantasie aggressive che, non potendo concludersi, si trasformavano in spirali di aggressività in quanto l'ostilità genera paura, che a sua volta genera ostilità. Il tema dei “gattini” era intanto ritornato anche nei successivi incontri, tanto che avevo pensato che rappresentassero non solo una parte di sè, ma anche i fratelli che avrebbe voluto sopprimere o salvare.

"Mi piacciono tanto i gattini piccoli perchè possono fare quello che vogliono, se avessi tanti soldi costruirei un villaggio e un cimitero per gli animali piccoli e abbandonati e anche per i poveri ,...... sarei più veloce delle macchine e potrei salvare tanti gattini soli e indifesi che potrebbero essere schiacciati....."

I gattini potevano anche simbolizzare le sue parti più tenere che lui avrebbe voluto salvaguardare e invece erano sotto il pericolo di essere schiacciate dalla sua rabbia. C'era quindi da parte di Marco un avvicinamento al processo della riparazione in quanto iniziava a sperimentare sentimenti di preoccupazione e altruismo.
All'inizio del lavoro con me il mondo interno di Marco era popolato da mostri potenti e aggressivi, dove la proiezione produceva allucinazioni; successivamente l'idealizzazione l'aveva difeso dal prendere contatto con la sua pena psichica. Quando però queste difese non funzionavano Marco si ritrovava con i mostri e gli oggetti persecutori: l'aggressività verso i partners dei rispettivi genitori e verso i fratellini la cui situazione lui invidiava. Il bambino era stato però capace di iniziare ad elaborare il senso di colpa provato, prima per i violenti litigi dei genitori e successivamente per la loro separazione.
In un colloquio mi aveva parlato apertamente della separazione dei genitori e del fatto che a suo parere la colpa era da imputare al compagno della madre; dopo aver espresso questa rabbia era riuscito ad avvicinarsi al suo dolore provato per la separazione dei genitori:

"Se non c'era lui (il compagno della madre), papà e mamma sarebbero ancora insieme! Tutti i miei compagni di classe sono più felici di me, io sono solo, hai capito?"

L'aver potuto esprimere il proprio dolore permette al bambino di rendersi conto che la realtà non gli consente di fantasticare riparazioni magiche; diventando triste mi dice che la rottura verificatasi tra i genitori è irreparabile.
La possibilità di esprimere dolore ha forse permesso a Marco di iniziare ad elaborare il lutto per le perdite subite, numerose e di vario tipo; oltre alla perdita del genitore doveva ancora accettare la perdita di abitudini acquisite, di un diverso stile di vita, di spazi per lui significativi, di un rapporto non più privilegiato. Le perdite purtroppo non sembravano sostituirsi con esperienze molto positive perchè ancora tanta era la collera nei confronti dei genitori.
Piano piano avevo cercato di trovare il modo di dare gratificazione al bambino attraverso la nostra relazione, ma anche di mantenere una fermezza che non gli consentisse sempre di schizzar via con il pensiero ogni volta che dovevamo affrontare emozioni dolorose. Tutto ciò penso sia stato attuato con molta delicatezza, consentendogli di tirar fuori, attraverso il racconto e il disegno libero, i suoi contenuti e di poter dare così avvio dentro di sè allo sviluppo di una conoscenza e consapevolezza sugli effetti che le sue fantasie avevano sulla sua mente.
Verso la fine dell'anno il lavoro di verifica con le insegnanti aveva mostrato piccoli e grandi cambiamenti del bambino: non si erano più verificati episodi psicotici, il bambino era diventato molto meno aggressivo nei confronti dei compagni, l'impegno nelle attività scolastiche era lievemente migliorato anche se i risultati non erano ancora sufficienti.
Il fatto che stava meglio aveva però prodotto un contrasto tra le insegnanti sul modo di rapportarsi con lui. Sembrava che nella scuola si fosse riprodotto lo stesso modello che viveva a casa; insegnanti separati e in disaccordo fra loro. Tale disaccordo sembrava imperniato sul fatto che l'insegnante più esigente faceva leva sulle parti produttive del bambino mentre l'altra più comprensiva teneva attive quelle passive. Marco richiedeva invece integrazione tra le sue parti attive e quelle passive. Lo stesso problema delle insegnanti lo avevo vissuto io stessa, nel senso che mi ero più volte chiesta quanto nella sua richiesta di accoglienza dovesse essere sacrificato in termini di cambiamento; quali parti dentro di lui dovevano essere stimolate attraverso l'attivazione e il riconoscimento. L'aver potuto riflettere insieme alle insegnanti su questa nostra realtà emotiva, le aveva aiutate in parte a capire la loro conflittualità e ad evitare di agirla.
Le insegnanti, d'accordo sui miglioramenti di Marco sul piano apprenditivo e comportamentale, avevano intanto accettato di graduargli le richieste e di utilizzare l'elemento aspettativa ("ti interrogo domani, preparati bene!") più come stimolo e riconoscimento che come elemento di persecuzione. Ciò, a mio parere, aveva contribuito ad avviare il processo di integrazione degli aspetti scissi di Marco: una parte dentro di lui si sentiva ancora molto piccola e voleva solo essere accudita, l'altra parte aveva iniziato a crescere e voleva essere riconosciuta. Il rapporto delle insegnanti con i genitori era intanto diventato meno conflittuale. Marco iniziava a stare meglio, non attaccava più i compagni, come se l'aggressività che lo aveva caratterizzato per lungo tempo fosse più contenuta e lui abitasse un mondo più reale, ordinario, civilizzato e meno inquietante; era uscito dalla dimensione dell'incubo determinata dalla confusione tra realtà e fantasia.
Un mese prima della fine dell’anno ho iniziato a preparare il bambino alla conclusione del nostro lavoro (sapeva fin dall’inizio che con la fine della scuola anche il nostro rapporto si sarebbe interrotto) in modo tale da offrirgli il tempo di esprimere i sentimenti a questo proposito e di ricevere, rispetto ad essi, comprensione e riconoscimento.
Così, in un incontro seguente all’elaborazione dei temi della separazione, Marco mostra un aperto negativismo ad ogni mia proposta: quando gli dico che forse era molto arrabbiato con me perchè lo avrei lasciato e questo forse gli impediva di parlare, lui prende colori e foglio e inizia a disegnare l'incongrua figura di un grande pesce sullo sfondo di un paesaggio alpino (dis. n.12); quasi a significarmi i vissuti incongrui e smisurati che portava ancora dentro di sè. Il fatto che non abbia parlato nè voluto che lo facessi io, mi ha fatto pensare che Marco in quel momento voleva che io accogliessi la sua pena, quasi a vedere se ero capace di accoglierla così senza significato come l'aveva dentro lui. Durante i colloqui successivi riprende a raccontare e talvolta ad attaccarmi:

"... oggi avrei voluto stare a casa... poi però ho pensato che era meglio se venivo..."

Come ad ammettere che certe realtà che io lo aiutavo ad affrontare gli facevano male, ma sentiva anche la forza che gli derivava da questo lavoro.
Ciò è espresso anche da un disegno dove rappresenta dei campi coltivati, mentre sulla metà opposta disegna piccoli mostri, meno imponenti e invasivi di come erano sui fogli delle prime sedute (dis. n.13). Questi rappresentavano forse la sua stessa rabbia e i sentimenti di svalutazione che lo portavano talvolta ad attaccare le occasioni di lavoro insieme a me.
Seguono due incontri che il bambino diserta.

Il bambino, imbronciato, è nell’aula disteso per terra, vicino al muro, mi avvicino e cerco di capire cosa gli stia succedendo, lui con aria di sfida: "E' tutto inutile!" Gli dico che è molto penoso sentire dentro di sé che tutto è inutile, lui ripete con insofferenza la frase, ma poi bisbiglia: "Mamma è sempre a Roma, mio fratello è da sua nonna e io sono solo, non gliene frega niente a nessuno!"

Il bambino mostra, nell’aspetto transferale della sua sofferenza, il penoso sentimento di essere lasciato solo perché convinto di non valere nulla, così come in effetti si sente ogni volta che madre e padre lo ignorano e lo abbandonano alla solitudine.
Dopo di ciò il bambino riprende i colloqui, ma mostra diffidenza; ogni volta si fa cercare come volesse forse rassicurarsi del fatto che non l’avrei lasciato solo, che sarei rimasta con lui, nonostante tutti i suoi tentativi di scappare. Forse scappava da emozioni ancora troppo dolorose per cui l’esperienza della separazione era equivalente all’essere abbandonato perché convinto di essere cattivo. Nel ritrovamento lui mostra sorpresa e riesce a dar voce al suo dolore con modalità più tristi e depressive:

“…avevo paura che non mi trovavi o che non venivi a cercarmi…”.

Anch’io ero dispiaciuta e sentivo che l’interruzione era prematura rispetto ai bisogni del bambino e del suo processo di crescita, ma i risultati ottenuti stavano dando senso al lavoro svolto e alla mia convinzione che Marco era pronto per intraprendere una psicoterapia vera e propria.
Si arriva così all’ultimo incontro, di cui riporto i passi più significativi, dove si evidenzia il dolore del bambino di essere lasciato solo ad affrontare non più mostri, ma vissuti reali difficili e dolorosi:

….Lascio la porta aperta in segno di accoglienza nei confronti del bambino e mentre sto rileggendo le mie riflessioni sul precendente incontro, vedo Marco entrare lentamente con un walkman alle orecchie, l'espressione assorta, indifferente e senza un saluto si siede sulla sedia. Io aspetto che mi guardi e lo saluto cordiale. Lui corruga la fronte e volgendo sguardo e attenzione all'apparecchio non sintonizzato, lo maneggia per trovare una frequenza non disturbata.
Io: "Mi sembri un pò imbronciato?".
Lui alza le spalle noncurante e scuote il capo in senso di diniego, poi alza il volume e gira in continuazione la manopola.
Io: "Forse non mi vuoi ascoltare? pensi io voglia fare con te essendo oggi l'ultimo incontro?". S'irrigidisce nella persona, stacca un'auricolare e, guardandomi serio, annuisce convinto. Gli propongo di parlare di questo, ma lui tornando nella sua espressione infastidita scuote le spalle.
Io: "pensi che non valga la pena di parlare? come ti senti in questo momento?".
Lui come risposta si rimette l'auricolare e alza l'apparecchio, ancora non sintonizzato, a tutto volume. Sento che Marco sta cercando di comunicarmi la sua difficoltà a sintonizzarsi con me visto che lo sto lasciando e ciò gli sta provocando dolore e confusione. Dopo aver pensato ciò, guardo Marco e gli dico che io voglio parlare con lui. Si sistema meglio sulla sedia e, dopo aver trovato una frequenza, mi offre un'auricolare e mi dice di ascoltare la pubblicità dell'ultimo film di Lucchetti sulla scuola: "senti, parla di scuola... sulla crudeltà... crudeltà della scuola!".
Gli chiedo se lui pensa la stessa cosa. Marco mi guarda e annuisce lentamente, poi rettifica: "No! anzi mi annoia, ho sonno... metterei tanti letti in tutte le classi!". Io gli dico che forse mi sta dicendo che è meglio addormentare quel dolore per la separazione che lui sente tanto crudele.
Lui, appoggiando l'auricolare sulle spalle: "Allora guarda quante ferite ho!" e presto si solleva la camicia e mi mostra le cicatrici antiche che ha sul corpo,... in realtà sono molte!. Per ultima mi indica quella che ha di traverso su una sopracciglia e mi racconta: "Ero ancora piccolo.. sono caduto e mi sono ferito, però non ho sentito male, anche se il sangue continuava a colare.... sono andato da mamma che si è spaventata moltissimo.... Io non sento dolore, tutte queste ferite non mi fanno nulla!".
Penso che Marco mi stia dicendo che la sua maggior difesa dal troppo dolore che prova sia proprio il negarlo. Dopo che gli dico questo, lui aggiunge incupendosi in viso: "Allora vuoi sapere che anche quando papà e mamma mi menano forte..." s'interrompe, mi guarda e, stringendo i denti continua: "...io non sento niente!". Mi rendo conto che il bambino sta disperatamente dicendomi che lasciato a se stesso ha da affrontare non solo la sua rabbia, ma anche quella di due genitori che non lo sanno aiutare.
Gli dico che mi rendo conto che forse la rabbia talvolta gli è servita per non provare dolore e lui, ancora più cupo in viso, aggiunge: "Però piango tanto!". Commento che quella rabbia gli ha però fatto più male del dolore fisico….
Lui mi spiega che i genitori lo picchiano perchè risponde loro male e questi lo insultano con parolacce e minacce. Lui è convinto che non gli vogliono bene:”… non gliene frega niente a nessuno di me!".
Riporto questo sentimento alla nostra separazione e lui indifferente ribatte: "E' inutile che cerchi di convincermi del contrario, nè a mio padre, nè a mia madre, nè ai miei fratelli, né a nessuno interessa qualcosa di me... io non valgo niente!".
Questa ultima frase mi penetra dentro come un'accusa: "non valgo niente e per questo mi lasci e ciò mi fa star male". Dico a Marco che sento quanto sia doloroso e insopportable per lui terminare questa esperienza con me, ma che ciò è inevitabile perché deve cambiare scuola e non è la conseguenza del suo comportamento.
Come lo avevo già preparato nei precedenti incontri, ribadisco l’importanza di proseguire questo tipo di lavoro con un’altra dottoressa che si prenderà cura di lui perchè ha ancora bisogno di essere aiutato anche se è molto migliorato. Mi guarda incredulo e annuisce quando gli chiedo se è d'accordo. Aggiungo che prima di contattare la sua nuova dottoressa parlerò con i suoi genitori e lui: "Tanto non gliene fregherà niente! io però verrò a trovarti perchè so dove abiti!". Mi sembra che il bambino abbia recuperato fiducia e gli rispondo che sarò contenta di vederlo e di sapere sue notizie. Nell'incontro precedente avevamo affrontato la sua difficoltà connessa al passaggio alla scuola media: forse per questo improvvisamente cambia discorso e mi elenca i nomi dei compagni che spera di trovare nella stessa classe alle medie. Lo tranquillizzo, perchè a questo proposito i professori delle medie cercano sempre di fare in modo che ogni ragazzino si trovi in classe con alcuni compagni della scuola elementare……….
……L'incontro è finito e prima di salutarci dico al bambino che il giorno dopo incontrerò i genitori. Lui docile mi dà la mano, lo riaccompagno in classe; prima di salutarci ed entrare mi dice che ha il mio numero di telefono.

Il bambino sente di aver ancora bisogno di qualcuno che lo protegga e lo aiuti ad affrontare la sua fragilità. Sostenuto, riesce ad affrontare con grande dolore l’inevitabile fine del nostro rapporto. In un primo momento tenta di eludere questa esperienza con l’indifferenza, la negazione e la rabbia, ma alla fine arriva ad esprimere la sua terribile paura di essere abbandonato a se stesso e al suo dolore perché convinto di non valere nulla. Ma l’elaborazione di ciò gli permette alla fine di trasformare il “mio indirizzo e il mio numero di telefono” in oggetti transizionali che lo aiuteranno ad accettare la separazione. Penso che il lavoro svolto con lo “special time” abbia alla fine dato a Marco la possibilità di interiorizzare l’importante esperienza emotiva di essere ascoltato e capito e di sviluppare una certa fiducia nella propria capacità di di fare qualcosa di buono. Come dice Bion, l’accettazione e la comprensione della madre del disagio del bambino restituiscono allo stesso i suoi sentimenti in forma più tollerabile, avendo dato ad essi un significato. La madre offre così al bambino non soltanto un’esperienza introiettabile di contenimento, ma anche una capacità rudimentale di contenere e pensare le sue esperienze. E’ per mezzo di quella che Bion chiama la “funzione alfa” nella “réverie” della madre che l’esperienza caotica infantile si trasforma in esperienza che può essere pensata.
I miglioramenti di Marco avevano intanto prodotto anche un cambiamento nei genitori che, aiutati dai colloqui di chiarimento sulle problematiche del figlio, nell’ultimo incontro avevano accettato che il bambino potesse iniziare una psicoterapia presso l'istituzione pubblica.


BIBLIOGRAFIA

Bion W.(1962), Learning from Experience, New York: Jason Aronson.

Copley B. and Forryan B. (1987), Terapeutic Work with Children and Young People, London, Robert Royce Ldt.

Klein M. (1953), “Criminal Tendencies in Normal Children”, in Love, Guilt and Reparationand Other Works, London, Virago press, 1988.

Salzberger-Wittenberg I., Williams G. P. and Osborne E. (1983), The Emotional Experience of learning and Teaching, London, Routledge & Kegal Paul.



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