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Psich-Asti --> HOME PAGE --> 4° Ciclo di conferenze 2003

Dipartimento di Salute Mentale
S.O.C. Psicologia Clinica e della Salute



Il sostegno ai genitori: il parere di un pediatra

Maria Merlo
Pediatra di Famiglia, Presidente Associazione Culturale Pediatri Piemonte e Valle d'Aosta


Il pediatra, nei suoi contatti frequenti coi bambini dei primi anni di vita e le loro famiglie, ha, secondo me, la possibilità, se vuole e se ne ha le competenze, di dare un reale sostegno alla genitorialità.
I genitori molto spesso, in effetti, smarriti di fronte al loro figlio neonato, lo individuano come una possibile risorsa e si rivolgono a lui chiedendo, a volte in modo indiretto altre volte in modo assolutamente esplicito, una conferma delle loro capacità genitoriali oppure chiaramente sostegno e aiuto.
Oltre i primi mesi di vita poi, se il pediatra è riuscito a creare un rapporto di fiducia e ha manifestato competenza e capacità di accoglimento nelle altre occasioni, i genitori possono interpellarlo nei momenti di crisi su temi per esempio quali difficoltà di alimentazione, di sonno, di inserimento al nido, di angoscia di separazione, di scarsa autonomia, di difficoltà nell’educazione al vasino, di crisi di capricci ecc.
Spesso queste consultazioni, proprio per i contatti frequenti del pediatra col bambino e la sua famiglia, sono molto precoci, proprio all’inizio dei momenti di difficoltà. Questo facilita l’intervento perché è più evidente l’eventuale causa scatenante dei problemi, non ci sono ancora comportamenti rigidi strutturati, c’è una reale richiesta di aiuto.
Qual è il tipo di intervento, di fronte a una coppia madre-bambino in difficoltà, che, realisticamente, un pediatra può fare considerando la sua preparazione e il suo setting che non sono quelli di uno psicoterapeuta?
A me pare che, se riesce a sottrarsi alla trappola di dare consigli, possa fare interventi di facilitazione dei rapporti genitori-bambino. Questi consistono soprattutto nello “spiegare ” alla mamma il comportamento del bambino, aiutandola a leggerne il significato.
Se non ci sono grossi problemi psicologici sottostanti spesso questo semplice tipo di intervento è da solo efficace, sufficiente a far vedere le cose diversamente alla mamma e a mettere in moto diversamente le sue risorse.
Chiaramente “spiegare” il comportamento del bambino richiede delle competenze: teoriche, di capacità di osservazione e di capacità di comunicazione.
Purtroppo i pediatri non sono assolutamente formati, né dall’Università né dalla scuola di Specializzazione, a questo aspetto del loro lavoro e quindi spesso nella realtà questo sostegno ai genitori non riesce a realizzarsi quanto potrebbe.
Il lavoro di sostegno alla genitorialità che vi proponete di fare qui ad Asti deve perciò tenere conto della possibile risorsa costituita dai pediatri ma anche della necessità di una loro formazione preliminare.

Se alcuni eventi esterni possono creare improvvisi ed imprevedibili momenti di difficoltà del bambino e quindi di necessità di aiuto, è lo stesso sviluppo normale del bambino, il quale si trova periodicamente di fronte alla necessità di affrontare problemi evolutivi nuovi, che è spesso causa di crisi più o meno evidenti.
Il professor Berry Brazelton, pediatra e psichiatra infantile USA, professore universitario, clinico e ricercatore, studiando le ricorrenti, fisiologiche crisi evolutive dei bambini ha sviluppato il concetto di Touchpoint: momenti di crisi nello sviluppo. Essi si verificano quando il bambino acquisisce nuove competenze.
Ogni nuova acquisizione infatti ha un costo, pagato spesso con una transitoria regressione del bambino. Per esempio imparare a camminare è per il bambino un momento difficile, non solo dal punto di vista motorio, ma anche da quello emotivo: sperimenta la paura di staccarsi, l’entusiasmo di riuscire, il mondo che si apre da esplorare, con le sue meraviglie e i suoi pericoli.
Quasi sempre di fronte a queste difficoltà il bambino regredisce a comportamenti più infantili, per esempio non è più capace di addormentarsi da solo o di passare dal sonno profondo al sonno leggero senza cercare l’aiuto dell’adulto. I genitori, sconcertati dal cambiamento del bambino, sono spesso in difficoltà.
Un professionista competente può, in questa situazione, dare facilmente un aiuto: può spiegare il comportamento del bambino, far capire cosa sta vivendo e aiutare i genitori a non fare errori educativi che prolunghino le difficoltà.
Un pediatra competente e formato può inoltre, conoscendo le tappe di sviluppo dei bambini, prevedere l’insorgenza di questi fisiologici momenti di crisi e programmare le visite mediche al loro approssimarsi in modo da preparare i genitori ai cambiamenti che osserveranno nel bambino.
Mi è stato chiesto di parlare soprattutto dei touchpoints e degli interventi di sostegno del secondo e terzo anno di vita, perché del primo anno vi siete già occupati. Ma voglio prima parlare brevemente del secondo touchpoint perché mi aiuta a chiarire molto bene il concetto di touchpoint, di crisi e di facilitazione.
Il 2° touchpoint secondo Brazelton è subito dopo la nascita (il primo al 7° mese di gravidanza). Questo è proprio il massimo momento di crisi e di ricerca di aiuto. Daniel Stern descrive molto bene cosa succede alla neomamma, che si ristruttura come persona in funzione della maternità e del bambino e la cui preoccupazione centrale diventa: saprò tenere in vita questo bambino? La neomamma, di fronte alla crisi profonda di trasformazione in cui si trova impegnata e all’ansia fisiologica legata al compito evolutivo di tenere in vita il bambino, cerca aiuto. Cerca anzi di costruirsi una rete di aiuto, di cui fanno parte in genere sua madre, amiche competenti, e spesso il pediatra. Il pediatra, probabilmente, nel momento della prima visita, come ho accennato prima, si gioca gran parte del suo ruolo futuro nei confronti della madre. Se saprà essere accogliente e competente potrà diventare un punto di riferimento anche in seguito, potrà essere riconosciuto dalla madre come risorsa in caso di difficoltà non solo ed esclusivamente sanitarie. Altrimenti verrà considerato solo l’esperto delle malattie e non potrà esercitare il ruolo di “facilitatore”.
Alla prima visita gli interventi possibili di facilitazione del rapporto madre-bambino sono molti. I più frequenti consistono nel far vedere alla madre le competenze del bambino.
E’ incredibile quanto spesso le madri chiedano al pediatra: “Ci vede?” Se si chiede: “Lei cosa pensa?” Oppure: “La guarda mentre succhia?” la madre in genere risponde che lei sì, pensa che il bambino ci veda. Perché ha bisogno di chiederlo? Questa domanda a me sembra che riveli la difficoltà di capire quanto il bambino è già un individuo: quanto può e deve essere trattato come tale e quanto è solo, per ora, un fagottino da nutrire e pulire; quali sono le sue esigenze, le sue capacità relazionali, come rapportarsi con lui; quanto fidarsi delle proprie sensazioni e impressioni; come distinguere la realtà del bambino dalle proprie fantasie, proiezioni, desideri di mamma.
Far vedere alla mamma come riconoscere lo stato di veglia attiva in cui il neonato è ricettivo al massimo agli stimoli e alle proposte, come contenerlo per aiutarlo a mantenere questo stato, come catturare la sua attenzione; come, aiutato, il bambino segue con lo sguardo il volto umano, come lentamente si gira alla voce della mamma, come riesce ad escludere gli stimoli fastidiosi per difendersene, come inizia a sapersi consolare da solo; quali sono i segni di stress che segnalano una iperstimolazione che, se non cessa, può condurre il bambino a un pianto disperato e apparentemente inspiegabile: tutto ciò aiuta la relazione mamma-bambino perché aiuta la mamma a capire come modulare il suo comportamento col bambino, come trattarlo, quali sono le sue difficoltà e le sue risorse.
Per le età che vi interessano Brazelton pone i touchpoints a 1 anno, 15 mesi, 18 mesi, 2 anni, 3 anni. Io, anche per stringere un po’ i tempi, li esporrò non in modo cronologico, ma analizzando alcune aree in cui essi si evidenziano facilmente: sonno, alimentazione, indipendenza (capricci), educazione al vasino.

Sonno
Il sonno è sempre disturbato in qualsiasi momento di crisi. Molto tipico, come accennavo prima, è il periodo in cui il bambino inizia a camminare. Il bambino improvvisamente non vuole più andare a dormire (che vuol dire rinunciare per un po’ ai suoi affascinanti esperimenti), dorme molto agitato, magari alzandosi in piedi nel letto, e si risveglia spesso. Sembra cioè non essere più capace di addormentarsi da solo e di passare da solo dal sonno profondo a quello leggero. In effetti anche nel sonno continua i suoi tentativi di apprendimento. Ognuno di noi sa che, per esempio quando imparava a sciare, alla sera, chiudendo gli occhi, rivedeva lo spazzaneve. Nel sonno infatti si completano e si rafforzano le acquisizioni del giorno. Quando queste acquisizioni sono cariche di ansia e magari di frustrazione, il sonno può essere disturbato.
Il pediatra può aiutare i genitori a non spaventarsi o demoralizzarsi e soprattutto a non rinunciare alle loro richieste: anche in questa fase il bambino deve sapere che deve addormentarsi da solo. Se i genitori capiscono cosa sta succedendo è più facile per loro restare calmi e fermi e facilitare il bambino per esempio aumentando i rituali, i segnali che l’ora di andare a dormire si avvicina, le coccole.
Quando il bambino ha imparato a camminare (in genere verso i 15 mesi) c’è un breve periodo abbastanza tranquillo per il sonno. Se il bambino dorme ancora nel lettone, può essere un buon momento per abituarlo al suo lettino.
Un nuovo periodo difficile si ha in genere attorno ai 18 mesi: separarsi dal mondo e accettare il sonno può nuovamente rappresentare per il bambino una grossa difficoltà.
A 2 anni si ha un nuovo periodo più facile: il bambino è ormai abbastanza autonomo. Può sorprendere i genitori perché può parlottare a lungo prima di addormentarsi e può parlare nel sonno leggero. Non si tratta, come a volte pensano i genitori, di un disturbo dell’addormentamento o del sonno: è un modo per dare un senso agli avvenimenti della giornata. Ricreando e interpretando la giornata, con le parole padroneggia le frustrazioni e le tensioni.
A 3 anni spesso iniziano gli incubi (che proseguiranno almeno fino al quarto anno). Si tratta in genere di sogni di aggressioni. Hanno la stessa origine delle paure diurne: il bambino è spaventato dalla sua aggressività, che deve imparare a controllare e incanalare. E’ questo un lavoro lungo, che si deve compiere soprattutto di giorno.
Poiché il bambino impara a controllare la sua aggressività in primo luogo per imitazione, imparando ad utilizzare i sistemi che usano i genitori, lo si può aiutare con l’esempio e commentando e sottolineando gli avvenimenti della giornata e le proprie reazioni.
In quanto al risveglio dopo gli incubi il bambino deve, piano piano, imparare a calmarsi da solo. E’ difficile per lui, ma la richiesta, ferma, comprensiva e affettuosa, deve essere questa.

Alimentazione.
Intorno all’anno il bambino mangia meno, è più distratto, meno interessato al cibo di prima:
è infatti entrato in un periodo in cui diminuisce il ritmo di accrescimento e quindi anche il bisogno di cibo.
Ma il cambiamento più grosso nasce dal fatto che tutta la sfera dell’alimentazione è segnata dall’emergere dell’indipendenza: il bambino non tollera più di essere alimentato anche contro la sua volontà, vuole regolare da solo la quantità e la qualità del cibo, vuole quindi mangiare da solo, pasticciando ed esplorando. I genitori (la gran maggioranza!) che non hanno ancora abituato il bambino a mangiare da solo a pezzettini, a questo punto avranno delle difficoltà.
E’ importante convincere i genitori che il controllo del cibo deve essere totalmente del bambino. C’è un esperimento diventato ormai famoso: offrendo a bambini di questa età la libertà assoluta di scegliere fra vari tipi di cibo (escluso il cibo spazzatura) e analizzando poi le loro scelte dal punto di vista nutrizionale esse appaiono spesso sbilanciate nell’arco della giornata, ma perfettamente bilanciate nell’arco del mese. Cioè, se si insiste nell’esperimento, nel corso del mese il bambino avrà mangiato esattamente le quantità e qualità raccomandate.
Bisogna insegnare ai genitori qual è una dieta minima per questa età e prescrivere se necessario un’integrazione vitaminica (in modo da tranquillizzarli riguardo all’insorgenza di eventuali problemi di salute legati a un’alimentazione insufficiente). Occorre poi convincerli a lasciare piena indipendenza al bambino per quanto riguarda il cibo rassicurandoli che i risultati si vedranno a 3 anni.
Se il cibo non è stato un campo di battaglia, arrivato a questa età il bambino si modellerà su ciò che c’è intorno a lui: mangerà quello che mangiano gli altri e come mangiano gli altri, cioè imparerà facilmente una dieta variata e le buone maniere.
Il clima a tavola potrà essere sereno e il pasto in famiglia potrà diventare un momento importante di comunicazione e condivisione.
Rispettare l’indipendenza del bambino non significa però anarchia assoluta: occorrono delle regole, da riaggiustare secondo le diverse età.
A 1 anno, quando il bambino comincia a pasticciare col cibo, dimostrando che non è più interessato, conviene metterlo giù dal seggiolone, dargli eventualmente una aggiunta al biberon o al seno e interrompere il pasto. Infatti quando il bambino pasticcia col cibo sta esplorando, ma trae presto un vantaggio secondario: provocare i genitori. Se i genitori reagiscono con un rinforzo negativo (per esempio arrabbiandosi) alimentano il circuito. Se invece non danno nessun tipo di rinforzo, la provocazione cessa più rapidamente.
Quando il bambino è più grande l’aggiunta finale non è più necessaria.
E’ importante a qualsiasi età non dargli comunque più nulla da mangiare fino al pasto successivo.
L’alimentazione è un’area in cui l’indipendenza del bambino e il suo negativismo feriscono molto i genitori. Spesso al genitore sembra che lasciare il bambino a se stesso, magari quasi a digiuno, sia trascurarlo, non fare il suo dovere. Per questo l’alimentazione è un touchpoint prezioso che permette di far comprendere ai genitori il bisogno di autonomia del bambino e l’importanza di accettarla come un valore non rinunciando però a porre dei limiti quando necessario.

Autonomia
Rientrano in questo tema i capricci, le provocazioni, il negativismo.
I primi segnali dell’inizio del desiderio di autonomia e di indipendenza si colgono a 1 anno: il bambino comincia a voler decidere tutto lui: anche solo mettere il pannolino o vestirlo diventa un’occasione di lotta.
Non tutti i bambini dimostrano tale desiderio in modo esplosivo, ma quando lo dimostrano è un vero touchpoint che può durare a lungo (in quanto la lotta per affermarsi spesso dura fino ai 3 anni) e che permette di riflettere coi genitori sul loro ruolo.
Iniziano i capricci: quelli tipici sono violente crisi, con pianti, grida, calci. A volte la perdita di controllo è tale che i bambini battono la testa, cercano di ferire o di ferirsi.
Qualche volta i capricci nascono da un conflitto interno cioè dall’indecisione fra dipendenza e indipendenza. “Posso fare questo. Ma lo voglio davvero?” Più frequentemente nascono da un no.
Anche di fronte ai capricci è importante far capire ai genitori il senso di quanto sta succedendo: quando il bambino avrà imparato a districarsi fra i suoi conflitti, a mantenere il controllo, a trovare serenamente gli ambiti e i modi per esercitare la sua autonomia, sarà più sicuro e forte.
Brazelton suggerisce alcuni modi con cui il genitore può aiutare il bambino.
In primo luogo il genitore deve essere ben convinto che uscire dal capriccio è un compito del bambino. Il ruolo del genitore non è quello di sgridarlo o di interferire nei suoi problemi ma di insegnargli a gestire la rabbia senza perdere il controllo.
Quando comincia il capriccio il genitore può prendere il bambino in braccio e trattenerlo con calma. Se questo non funziona e il capriccio inizia lo stesso, la cosa migliore è portare il bambino in un luogo sicuro dove possa sfogarsi senza farsi male (lettino, camera) e allontanarsi un po’. L’allontanarsi non deve essere presentato come una punizione o come un abbandono. E’ solo un modo per far terminare prima la crisi: quando il bambino non vede il genitore il capriccio perde forza.
E’ importante poi tornare e dire, con le parole e il comportamento non verbale: “Mi dispiace di non poterti aiutare. Sono qui, ti voglio bene, ma uscire da questo capriccio è un compito tuo”. Il bambino deve capire che il genitore vuole aiutarlo e che sa quanto è duro, a volte, avere 2 anni.
Riprenderò questo discorso alla fine. Per adesso mi pare importante sottolineare come la reazione dei genitori in genere sia profondamente diversa da quella che Brazelton suggerisce. Spesso il genitore del bambino che fa un capriccio entra in crisi. Si arrabbia perché il capriccio lo fa sentire male, tanto più se è in pubblico: addolorato per la sofferenza del figlio; in colpa se è il suo no che ha provocato il capriccio; improvvisamente in dubbio se il suo no sia davvero necessario e in conflitto di fronte alla tentazione di uscire facilmente dalla situazione ritirandolo; umiliato di avere un bambino che reagisce così; incapace come genitore.
Spesso inoltre il genitore risponde al capriccio agendo i suoi sentimenti, come il bambino, solo in modo più evoluto e da una posizione di forza. Lo sgrida, si arrabbia, lo strattona, magari lo picchia, si sfoga a parole: “Ecco, con te non si può mai ……”
Un professionista, sottolineando che l’uscire dal capriccio è un compito del bambino, può aiutare invece il genitore a fare una netta distinzione fra i problemi suoi e quelli del bambino, a mettersi nel ruolo di educatore, di insegnante, a non farsi coinvolgere troppo emotivamente, a non arrabbiarsi, a non contendere col bambino.
Anche le provocazioni sono spesso un problema. E’ importante aiutare i genitori a leggerle correttamente: in genere il bambino sta chiedendo aiuto per sapere cosa può fare e cosa no.
E’ chiaro allora che la risposta alle provocazioni non è la punizione, ma una spiegazione dei limiti coerente, precisa, ripetuta finché è necessario, autorevole.
Secondo Brazelton insegnare i limiti è importantissimo: il primo compito dei genitori è voler bene; il secondo, insegnare i limiti
A 3 anni il negativismo dovrebbe essere risolto. Se persistono grossi problemi vanno affrontati perché difficilmente si risolveranno da soli, col tempo.

Educazione alla pulizia
Anche per quanto riguarda l’educazione al vasino Brazelton pone l’accento sul fatto che il riuscire a tenersi pulito è un problema del bambino e il suo successo un successo del bambino. Il genitore si deve porre come un insegnante attento, che , osservando il bambino, sa cogliere i segnali che indicano che è pronto in quanto ha le competenze necessarie (sa capire il linguaggio ed utilizzarlo, sa camminare e quindi può attivamente sedersi e soprattutto alzarsi dal vasino, ha l’interesse a mettere le cose al loro posto). Da bravo insegnante il genitore deve allora chiedere la collaborazione del bambino con gradualità e con garbo e accettare le eventuali difficoltà del bambino, supportandolo, fiducioso che sarà in grado di imparare.

Vorrei ora fare alcune considerazioni che nascono confrontando le idee di Brazelton che vi ho presentato con la realtà quotidiana.
Sono sempre colpita dal fatto che i genitori chiedono spesso aiuto a noi pediatri per quanto riguarda i problemi del sonno e dell’alimentazione, molto meno frequentemente per quanto riguarda i capricci e le difficoltà legate al porre dei limiti. Come se questi non fossero problemi comuni, diffusi, disturbanti.
Penso che questo succeda perché, di fatto, molti genitori attuali pongono pochi limiti, riducono al massimo le occasioni di scontro, cedono loro per primi evitando così le crisi. I capricci, dunque, sono rari non perché i bambini sanno gestire meglio i loro conflitti, ma perché il no viene ritirato prima che inneschi la reazione. “Fa quello che vuoi” è la frase che conclude spesso una discussione fra genitori e figli, frase detta con disapprovazione, ma che lascia libero il figlio.
La difficoltà di quasi tutti i genitori attuali nel porre dei limiti è una preoccupata e allibita constatazione comune di pediatri, psicologi, educatori, insegnanti...
Ognuno di noi, che lavora a contatto colle famiglie, ha i suoi casi emblematici: il bambino di un anno e mezzo la cui mamma non può fare la spesa perché lui “non vuole uscire”; quello di 4 anni che mangia girando per casa in bici mentre la mamma gli corre dietro col piatto; la mamma che non suona più il piano perché altrimenti lo vuole suonare il bambino (e che non tollererebbe, giustamente, una tale limitazione se fatta dal marito); il bambino che deve prendere l’antibiotico e la mamma che chiede: “Quale mi dà? Quello no, perché non gli piace” come se si fosse al ristorante.
A ognuno di noi è capitato, quando ha invitato i genitori a chiedere al bambino un comportamento diverso, di vedere il loro genuino stupore e di sentirsi rispondere “Ma piange!!”, come se il fatto di suscitare un pianto fosse un limite invalicabile, un impedimento assoluto al formulare la richiesta.
Da cosa nasce questo così diffuso “arrendersi” dei genitori ?
E’ possibile che qualche genitore abbia suoi problemi psicologici che gli rendono difficile esercitare l’autorità (soprattutto quando l’autonomia lasciata al bambino è assolutamente eccessiva, cioè quando il bambino tiranneggia realmente e schiaccia i genitori).
Ma quando un fenomeno è così capillarmente diffuso, in classi sociali e culturali diverse, in etnie diverse (comincia a verificarsi anche fra i nostri genitori extracomunitari) ci deve essere qualcosa che trascende la singola famiglia, qualcosa da leggere come un fenomeno sociale.
Cercare di capire un po’ meglio cosa sta succedendo ci può dare degli strumenti per affrontare meglio il problema coi genitori, probabilmente condizionati nelle loro modalità di comportarsi da fattori non ben riconosciuti e consapevoli.
Il posto del bambino nella famiglia e il senso della famiglia sono profondamente cambiati negli ultimi 40 anni.
Vediamo alcuni fenomeni.
L’uso dello spazio: lo spazio una volta era dei grandi. I bambini erano tollerati, non dovevano disturbare, stavano ai margini. In certe famiglie a tavola non potevano parlare, se non interrogati.
Quando andavo dal pediatra ero ben cosciente di non essere a casa mia: stavo sulla mia sedia, aspettavo che mi dicessero cosa fare. Il medico aveva delle caramelle di zucchero sul tavolo, che mi dava alla fine della visita. Non le prendevo certo da sola, non le chiedevo se si dimenticava.
Adesso i bambini entrano nel mio studio, toccano, chiedono, interagiscono con me da pari a pari. Non conoscono o non considerano i codici non verbali di divisione dello spazio: toccano i giochi messi a loro disposizione o, indifferentemente, i miei strumenti: otoscopio, fonendo, telefono, cassetti. Interrompono i discorsi degli adulti, fanno rumore disturbando il loro dialogo. Sono i padroni dello spazio, allo stesso livello degli adulti; solo che i genitori conoscono le buone maniere e loro non ancora.
Il tempo: il bambino aveva un valore non tanto in sé, al presente, ma in quanto sarebbe diventato un adulto. Non c’era una moda per bambini: alla festa vestivano come piccoli adulti; non una letteratura per bambini di tipo ludico. Pinocchio, Cuore erano libri educativi, pensati per farli diventare buoni adulti, pensati per il loro futuro. I giochi erano non costosi e pochi, considerati non indispensabili, un di più: anche nelle famiglie più facoltose erano molto meno abbondanti che nelle attuali nostre famiglie meno abbienti.
I bambini di oggi hanno una moda (nell’abbigliamento ma anche negli zainetti, diari, portapenne ecc.); libri di tutti i generi, divertenti o istruttivi, ma mai con obiettivi educativi così ad ampio raggio come una volta; programmi televisivi rivolti esclusivamente a loro; camere in cui si inciampa in giochi costosi e numerosissimi; animatori per le feste di compleanno….
Il ruolo: i bambini non avevano voce in capitolo nelle scelte di vita delle famiglie, spesso nemmeno in quelle che li riguardavano direttamente (scelta della scuola, dell’uso del tempo libero).
I bambini di oggi non solo hanno voce in capitolo nelle piccole scelte quotidiane che li riguardano, ma anche qualche volta nelle scelte familiari (tanto che sono un bersaglio della pubblicità). C’è anzi il rischio opposto: certi bambini a volte sono posti dai genitori di fronte a scelte che li mettono in difficoltà, quando sarebbe per loro più semplice e rassicurante se certe decisioni le prendesse il genitore, imponendosi con un piccolo atto di autorità.
Compito dei genitori fino a 40 anni fa era trasformare il bambino in un adulto: il futuro era il faro che guidava le scelte, “un giorno mi ringrazierai” la frase tipica.
I bambini attuali contano per il loro presente. Il futuro è lontano e sfocato. Compito dei genitori attuali è fare felice il loro bambino. Vivere felici insieme, nel presente.
Si è passati dalla famiglia “etica” alla famiglia “affettiva”.
Ecco alcune frasi illuminanti tratte dal libro di Pietropolli Charmet “I nuovi adolescenti”:
“Al posto dell’autorità c’è il consenso. Le relazioni all’interno della famiglia sono paritarie: le esigenze del bambino contano quanto quelle dell’adulto. Non si sente più tanto la differenza di generazioni.
Trasmettere amore più che regole, farsi obbedire per amore e non per paura delle sanzioni. Cogliere la natura del bambino ed aiutarla ad emergere, a realizzarsi pienamente, piuttosto che mettere dentro la mente e il cuore del bambino ciò che deve essere o apprestarsi a divenire: informazioni, valori, regole.
Questa radicale trasformazione dei propri obbiettivi e della propria funzione trasforma la qualità della relazione genitori-figli. Il fine non è di costruire degli adulti ma è costruire dei figli felici”.
Questa chiave di lettura ci permette di capire molti fenomeni attuali.
Nel tentativo di fare dei figli felici i genitori sembrano coltivare l’idea che il bambino possa svilupparsi e crescere bene spontaneamente, senza bisogno di una vera e propria attività educativa e cercano di limitare il dolore mentale che nasce dal processo educativo, di ridurre i no che fanno sempre soffrire. Il no è infatti in apparente conflitto sostanziale con l’obiettivo della felicità del figlio.
E’ interessante a questo proposito osservare le scelte lessicali di alcuni genitori. Ci sono dei genitori che non danno mai ordini, ma camuffano l’ordine con una domanda. Non dicono: “Vieni che ti metto le scarpine”, ma “Ci mettiamo le scarpine?” quando si deve uscire ed è chiaro che le scarpe verranno messe comunque.
Un’altra osservazione comune dei pediatri è quanto poco i genitori di oggi siano tolleranti di fronte alle difficoltà, anche piccole e banali, che i bambini devono affrontare, come le comuni malattie. Tutti noi pediatri siamo spesso strabiliati dal ricorso al Pronto Soccorso per piccoli disturbi, dalle banalità che ci vengono portate in studio. Le cause di questo fenomeno sono sicuramente molte. Ma un certo ruolo lo gioca anche il fatto che la malattia o l’imperfezione vengono in alcuni casi vissuti come un affronto. Non è giusto, non è tollerabile che il loro figlio, messo al mondo per essere felice, debba affrontare invece difficoltà ed infelicità.
Un problema grosso per la nostra società è che una famiglia così impostata perde la funzione, che è stata essenziale nei periodi storici precedenti e che ancora oggi non pare sostituibile, di trasmettere valori. In mancanza d’altro in certe famiglie attuali gli unici valori che passano sono quelli proposti dai media .
La famiglia affettiva ha certamente degli obiettivi molto positivi: valorizzare l’individualità del bambino e tendere alla felicità. Ma il problema è: Ci riesce? I bambini di oggi sono più felici di quelli di ieri?
Probabilmente si, nei casi in cui il genitore resta comunque un educatore, è attento al bambino, fa un lavoro, faticoso e difficile, per capire i veri bisogni del bambino fra i quali c’è, fondamentale e importantissimo, quello dei limiti e delle regole.
Probabilmente non ci riesce quando, come capita molto frequentemente, c’è la caricatura di questo tipo di educazione e il genitore prende la scorciatoia di rispondere non ai bisogni profondi del bambino ma alle sue richieste, ai suoi desideri immediati soprattutto se espressi con forza. Il bambino allora avrà l’ovetto Kinder o potrà stare a vedere la TV fino a tardi o potrà stare nel lettone, ma nessuno si sarà chiesto se questo è davvero il suo bene o solo un desiderio immediato, se alla lunga lo farà star bene, lo farà più felice.
Pietropolli Charmet ci dice che questi bambini con pochi limiti e pochi no spesso nell’adolescenza si trovano in difficoltà: hanno poca esperienza nella gestione della frustrazione e del dolore mentale per cui possono ricercare comportamenti anestetici, di evitamento e di fuga.
Questo dei limiti e dei no è dunque un touchpoint fondamentale ai nostri giorni, con le trasformazioni recenti della famiglia delle quali non si è completamente consapevoli e sulle quali non si è riflettuto abbastanza.
Credo, in sostanza, che il sostegno ai genitori ai nostri giorni debba spesso consistere nell’aiutarli a capire cosa vuol dire al giorno d’oggi educare, cioè come il concetto di educazione vada rivisto e riaggiornato nella famiglia affettiva.
Sottolineerei soprattutto 3 aspetti dell’educazione nella famiglia affettiva che mi sembra importante mettere a fuoco coi genitori :
- La necessità di chiedersi quali sono i reali bisogni del bambino, che, come dicevo prima, non sempre sono espressi con la chiarezza e la forza con cui il bambino esprime delle semplici preferenze, ricordando che i limiti sono un reale, fondamentale bisogno del bambino.
- La necessità di calibrare le richieste, che non sono più le richieste standard, uguali per tutti, funzionali alla famiglia, della famiglia etica. Questo richiede di imparare a chiedersi, volta per volta, se la richiesta è adeguata o è eccessiva per quel bambino, in quel momento; cioè se è pronto, è capace di imparare a rispondervi.
- La necessità di imparare ad aiutare il bambino.
Sembra, infatti, che per i genitori attuali l’alternativa di fronte a certi problemi dei figli sia secca: assecondare e cedere oppure imporre e punire. Come se non esistesse lo spazio dell’insegnamento.
Hanno poco chiaro, cioè, che è possibile fare delle richieste e contemporaneamente aiutare il bambino a rispondervi, trovando delle strategie adatte (per esempio per imparare ad addormentarsi, a non picchiare o mordere i compagni, a gestire le paure, a condividere i giochi, a convivere con la gelosia…).
Il pediatra, mettendo a disposizione le sue conoscenze sull’età evolutiva, invitando i genitori ad osservare il bambino e i segnali che manda, studiando con loro le strategie di aiuto per il bambino, può essere una risorsa per aiutare le nuove famiglie a cambiare il tipo di educazione ma a non rinunciare ad essa, a tutto vantaggio del bambino.
Infine mi sembra interessante riflettere sul tipo di educatore che propone Brazelton.
Il genitore proposto da Brazelton non è il genitore della famiglia etica, che dice al figlio: “fa così perché lo dico io” oppure: “fa così se no ti punisco”. Non è quello della famiglia affettiva che dice: “fa così per farmi piacere, così vivremo insieme felici e contenti”. E’ un genitore che dice: “fa così e sarai autonomo e fiero di te”.
L’obiettivo che Brazelton propone al genitore sembra quello di rendere il bambino autonomo e adatto alla vita (e solo in questo senso, probabilmente e indirettamente, più felice).
E’ una differenza sottile, ma che mi sembra molto nuova.
Tutta la nostra psicologia e pedagogia mi sembra si basi sul fatto che il bambino impara per “far piacere” ai genitori, perché ha bisogno della loro approvazione e di vivere in armonia con loro. Tutti abbiamo letto che il bambino impara l’uso del vasino per compiacere la mamma e che le feci depositate nel vasino sono un “regalo” per la mamma (a cui è bene che la mamma reagisca in modo adeguato, riconoscendone il valore).
Tutti i genitori attuali sembrano muoversi secondo la concezione, anche se forse non chiaramente formulata, per cui il comportamento del bambino ha un valore relazionale. I genitori di fronte a un capriccio, per esempio, colgono in primo luogo che il capriccio è indirizzato a loro. Brazelton propone un genitore che cambia radicalmente piano: ignora volutamente i messaggi relazionali. Il capriccio, l’uso del vasino sono un problema del bambino, riguardano il bambino non il genitore. Il genitore cercherà di insegnare un comportamento corretto e il bambino, quando, coi suoi tempi, lo avrà appreso, si sentirà meglio, più adeguato, fiero di sé. Il genitore proposto da Brazelton non mescola, né dentro di sé né agli occhi del bambino, successo del bambino e sua gratificazione personale. Cioè non è rilevante, né per il genitore né per il bambino, la gioia del genitore per l’uso corretto del vasino, per lo stop di un capriccio.
Il genitore si pone come un educatore, attento e sensibile; che osserva e conosce il bambino e quindi sa calibrare le richieste, sa tener conto dei tempi e delle capacità del bambino; che gli mette di fronte un compito ma lo aiuta anche a trovare gli strumenti per la sua risoluzione, riconoscendo le sue difficoltà e supportandolo; con la fiducia che imparerà e che i ritardi e gli errori di cui è costellato il processo di crescita non sono una “colpa” né del genitore né del bambino, ma una momentanea e fisiologica fase del processo di apprendimento; lì per aiutare il bambino a risolvere i suoi problemi di bambino e acquisire così autostima e capacità di vivere.
Anche se probabilmente il bambino impara davvero in un contesto relazionale, cioè per far contento il genitore, porre l’accento, come fa Brazelton, sull’autostima e il senso di sicurezza, mettendo in secondo piano la relazione, credo che possa rendere più sereno e facile il compito educativo.


BIBLIOGRAFIA

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T. Berry Brazelton e Joshua D. Sparrow, Il tuo bambino e…la disciplina, Cortina, Milano 2003.
T. Berry Brazelton e Joshua D. Sparrow, Il tuo bambino e…il sonno, Cortina, Milano 2003.
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