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UN ASSETTO MENTALE IN GRADO DI IDENTIFICARE E CONTENERE

("Perché fai il cattivo?" invece di "Sei cattivo!")

di Marialori Zaccaria

(Seminario per operatori del Tribunale dei minori di Roma Novembre 1993)



Voglio dire innanzitutto che ho fatto la mia lunga esperienza clinica con pazienti psichiatrici e con tossicodipendenti. Non ho nessuna esperienza clinica diretta coi bambini e coi ragazzi, ossia con i minori, essa mi deriva dalla conoscenza del bambino che è in ognuno di noi, il bambino che è in ogni adulto.

"Sei cattivo!", "Sei un bambino terribile!". Così, con tono perentorio e definitivo, può sentirsi apostrofare normalmente un bambino che non ubbidisce, o che è troppo vivace, o che ha fatto qualcosa che non doveva fare. Il bambino è giudicato da colui che pronuncia tali frasi per un'azione che ha compiuto. Il bambino interiorizza tale affermazione che entrerà a far parte della sua struttura mentale (Super-Io). Ma un tale giudizio perentorio ci ha precluso ogni strada verso la conoscenza, ha eretto un muro invalicabile davanti a noi ed al bambino, un muro che cela ogni evento che ha fatto insorgere nel bambino la necessità di "essere cattivo".

Ed inoltre, la responsabilità dell'azione che il bambino ha compiuto, e che è stata giudicata negativamente, viene addossata interamente a lui, e quella stessa azione viene del tutto estrapolata dal contesto. Il bambino, tra l'altro, può ora cominciare a vedersi attraverso gli occhi dell'altro, di chi lo ha chiamato "cattivo". La sofferenza o la rabbia che hanno portato il bambino a disubbidire o a compiere l'azione giudicata inadeguata non esistono più. Da una parte il bambino conosce le regole del vivere sociale, ma dall'altra si separa dalla sua esperienza.Più volte mi è capitato di sentir dire da pazienti non più bambini, soprattutto da pazienti tossicodipendenti: "Ero un bambino terribile!". E se io chiedo: "Chi lo dice che era un bambino terribile?", "Lo dico io". Risponde perentorio il paziente. "E perché era terribile?". "Perché come potevo scappavo a giocare a pallone con i compagni". Ora è molto probabile che l'affermazione "Sei un bambino terribile" sia stata udita dal paziente-bambino pronunciata dal padre o dalla madre e sia stata da lui introiettata.

A volte il paziente dice di sé cose ancora peggiori. "Sono nato storto... sono nato male!". In questa frase - frase tipica che può essere detta da un genitore esasperato o da un cattivo educatore - la colpa e la responsabilità assumono il peso terribile di una tara, assimilabile quasi ad una malformazione fisica, un qualcosa a cui nessuno può porre rimedio.

Si passa da un'assunzione schiacciante di colpa quale quella contenuta nella frase "Io sono un bambino terribile", ad un totale scaricamento di responsabilità, quale si evince dall'affermazione "Sono nato storto". A volte ci sentiamo dire dai familiari dei pazienti: "Sono state le cattive compagnie".

In ognuno, paziente o familiare, c'è la necessità di trovare un colpevole che comunque metta nella condizione di allontanare da sé la responsabilità insita e propria di ogni verità sentita dolorosa. Tutto si gioca all'interno di un movimento simile a quello del pendolo - totalmente responsabile - oggettivamente irresponsabile - da un estremo all'altro, ma senza la possibilità di uscirne.Il problema è quello della conoscenza delle origini di quel comportamento identificato come cattivo. Spesso può capitare anche a noi, quando parliamo tra colleghi, di addossare ad un padre inadeguato, ad una famiglia carente o più generalmente ad una società cattiva la colpa originaria per un gesto o un comportamento considerati "cattivi". Allarghiamo le braccia e diciamo: "Poverino, con una madre così!... Poverino, con una storia così!". In quel momento abbiamo solo ampliato il movimento del pendolo, riproponendo comunque la solita perenne oscillazione.

Stephen A. Mitchell - in "Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi - dice che: "...il modo più utile per guardare alla realtà psicologica è operare all'interno di una matrice relazionale che comprenda sia l'ambito intrapsichico che quello interpersonale. La mente opera con motivazioni che riguardano sia l'auto-regolazione sia la regolazione del campo relazionale. Come in Drawing Hands di Escher, l'ambito interpersonale e quello intrapsichico si creano, si compenetrano e si trasformano a vicenda in modo complesso e sottile.

L'ipotesi che tento di avanzare e che traspare chiaramente dal titolo che ho dato al mio lavoro - "Perché fai il cattivo?" -, è un'ipotesi che pone noi e pone l'altro a cui si rivolge la domanda, di fronte ad un interrogativo. Un interrogativo che ci permette di fermarci e di pensare. Ora non ci troviamo più di fronte ad un vicolo cieco, ma di fronte a molte possibili strade da percorrere. "Perché?" è il metodo preferito dai bambini per conoscere il mondo. "Perché?", implica il fatto che dietro ad un comportamento si celi qualcos'altro.

"Perché fai così?" ci permette di pensare il bambino all'interno di una relazione insieme all'altro e in un contesto. Non più solo ma con l'altro. Di conseguenza, l'interrogativo "Perché fai il cattivo?", ci offre una possibilità dialettica, la possibilità di rintracciare delle corresponsabilità all'interno di un campo relazionale. Questo modello relazionale con il paziente "Perché fai il cattivo?" ci consente di far passare il paziente da uno spazio chiuso ad uno spazio aperto. Tale assetto mentale ci permette quindi di identificare personaggi, ambiti e contesti, ed in più ci mette in una condizione empatica con il paziente, che ci sentirà accanto a lui e non contro di lui.

Per quanto riguarda il paziente tossicodipendente, non dimentichiamo che è lui medesimo il più acerrimo nemico di se stesso. Il suo Super-Io è un Super-Io mostruoso e crudele (che lo perseguita e lo risucchia, come il Convitato di Pietra - la statua del Commendatore - perseguita Don Giovanni fino a trascinarlo con sé all'Inferno).

L'unica possibilità di fuga da un Super-Io così incombente è data dall'assunzione di droga, che alleggerisce momentaneamente la pressione interna. Ma successivamente il Super-Io riprende forza, e si alimenta da ogni "buco" che il paziente si fà.

Il nostro atteggiamento non deve essere né critico né punitivo di fronte al paziente che assume la droga. Dobbiamo semplicemente mantenere un atteggiamento empatico.

Per tornare un attimo a noi, penso a quanto sia difficile il vostro compito, poiché il vostro mandato istituzionale è in realtà da una parte quello di ribadire ad ogni minore colto in flagrante: "Sei cattivo", o addirittura sancire "Quanto sei cattivo", e dall'altra di porvi in maniera comprensiva. La difficoltà è quella di assumere due ruoli, ruoli che normalmente, all'interno di un contesto familiare sono svolti da un padre e da una madre. I ragazzi tendono poi a identificarvi con il cattivo che punisce. Mi rendo conto che non è affatto semplice muoversi all'interno di questo labirinto istituzionale esterno e interno.

Ma già averlo presente, può significare in qualche misura esserne fuori e quindi potersi assumere la funzione di colui che è lì per conoscere e comprendere. E questo significa poter cortocircuitare un flusso e un movimento che è sempre quello, ripetitivo e all'infinito. Poter interrompere, cioè, quel gioco perverso che porta continuamente il ragazzo a reiterare lo stesso comportamento inadeguato, ed al quale seguirà sempre la stessa risposta. Flusso e movimento che può essere interrotto solo qualora al comportamento inadeguato del ragazzo corrisponde un atteggiamento e una risposta che può giungere inattesa: "Perché fai il cattivo?".

Inoltre dobbiamo pensare che il ragazzo e il bambino hanno il bisogno di essere puniti, cioè possono ricercare la punizione, e questo proprio al fine di potersi alleggerire dal sentimento di colpa da cui si sentono sopraffatti. La punizione che giunge dall'esterno è liberatoria rispetto alla punizione che parte dall'"interno". Un sentimento di colpa che diminuisce o aumenta di intensità nella struttura intrapsichica del soggetto. Ed è proprio nel momento in cui aumenta tale intensità, come qualcosa che da rosa sfuma in rosso, che nasce la crisi che può generare il comportamento inadeguato, o l'assunzione di stupefacenti. Ed è proprio in questo momento che ci dobbiamo interrogare sulle origini e le cause di tale crisi. Di conseguenza è fondamentale il nostro modo di metterci in relazione col ragazzo in questo momento. Può sembrare un paradosso, ma è proprio il momento di crisi che deve essere visto come un momento favorevole. Il nostro modo di porci rispetto alla crisi può andare a determinare la modificazione del solito percorso.

Per dirla con Winnicott: "...quando le forze crudeli e distruttrici minacciano di sopraffare quelle dell'amore, l'individuo deve fare qualcosa per salvarsi e una cosa che egli fa è di rivolgersi verso l'esterno, drammatizzare il mondo interno al di fuori di sé, assumere lui stesso il ruolo distruttivo e suscitare il controllo di un'autorità esterna...".

Il ragazzo che ha rubato o che ha fatto uso di stupefacenti, è come se avesse la febbre o le bolle. Che sono solo sintomi di una malattia sottostante. Sta a noi decifrare a quale malattia ascrivere quel quadro sintomatico. Voglio più semplicemente dire che spesso l'uso delle sostanze stupefacenti, come pure i comportamenti inadeguati, sono i sintomi di qualcos'altro, e noi non possiamo occuparci solo dei sintomi, non possiamo cioè limitarci a somministrare dei sintomatici.

Un paziente racconta un episodio con protagonista la figlia dodicenne, la quale - a detta del paziente - non è a conoscenza della sua tossicodipendenza che dura da dieci anni (il che appare molto improbabile). "Papà, perché una persona si droga?" - chiede la ragazzina - "A volte ci può essere un cattivo umore..." - risponde il padre, che ci tiene molto alla sua immagine di padre senza macchia agli occhi di sua figlia -. "...e allora per scacciarlo si può fare uso della droga... Poi ci sono le cattive compagnie... i motivi possono essere tanti...". Più avanti, dopo un mio intervento, il paziente precisa: "Quando parlavo a mia figlia io non parlavo di me, parlavo dei tossici in generale". Ora ci appare ovvio pensare che il paziente fa uso di sostanze stupefacenti per allontanare da sé il cattivo umore, quella che noi potremmo chiamare depressione. Lo stupefacente è usato da questo paziente (e non solo da lui) in modo autoterapico. Il paziente non può guardare dentro la sua depressione o come lui stesso lo definisce, dentro il suo cattivo umore, perché ne è terrorizzato. Allora mette in atto una difesa primitiva come la scissione, alternando la rappresentazione di sé come tossicodipendente con la rappresentazione di sé come padre esemplare. Una tale difesa sembra non funzionare del tutto, cosicché il soggetto si ritrova di fronte l'ansia e il cattivo umore - tra l'altro questo tipo di paziente sembra più in grado di altri di gestire la propria tossicodipendenza.

Come dicevo poco fa, prendere atto della propria situazione significa deprimersi. E ciò è già di per sé pericoloso. È come trovarsi sprofondati in un baratro con l'idea di non poterne più uscire. Il paziente può attraversare tale dimensione solo se siamo riusciti a stabilire con lui un rapporto di fiducia, solo se è certo di poter contare su di noi.

È solo a questo punto che nasce il pensiero, proprio come indicato da Melanie Klein. Ma ci sono altri ostacoli sul percorso verso la conoscenza. Dopo aver preso atto è necessario trovare delle soluzioni, operare delle scelte, infine progettare. Progettare comporta fatica e sofferenza, significa abbandonare l'utopia "del tutto e subito". Un'utopia che trova un'immediata risposta nell'abuso di droga. Pensare è doloroso, perciò si "buca" l'esperienza del pensiero.

Vorrei ora tornare sul sentimento di colpa. Il sentimento di colpa è un sentimento scomodo perché doloroso, ma comodo rispetto al mantenimento delle strutture mentali. Cioè è un sentimento che conserva l'attuale e difende dall'inaspettato. Un inaspettato e un ignoto che spaventano.

I pazienti tossicodipendenti si mostrano profondamente desolati per il fatto che, nonostante non ne possano più di assumere droga - per tutto quello che comporta per loro, in termini di rinunce e di stile di vita - ci ricadono continuamente. Nel gergo comune potremmo definire tale meccanismo "le lacrime di coccodrillo". Ma in realtà, come tutti i soggetti nevrotici, il tossicodipendente teme il cambiamento, la vita, il benessere, l'autonomia. Aspirano a tutto questo, ma il conseguirlo comporta cambiamenti catastrofici, e la rinuncia, all'interno della loro mente, dell'"Altro" significativo per loro.

Fairbain, negli anni '50 osservò che i pazienti, anche se si trovavano all'interno di relazioni dolorose, non potevano distaccarsene, e formulò l'ipotesi che la "libido tende verso l'oggetto e non verso il piacere", così come asserito precedentemente da Freud.

L'assunzione di droghe (e gli atteggiamenti inadeguati) permette al soggetto il mantenimento della dipendenza dall'"Altro". L'autonomia rappresenta il nuovo. Il nuovo spaventa. L'autonomia è vissuta come l'annichilimento dell'"Altro".

Ma tutto ciò comporta il fatto di dover riconoscere la distruttività che è propria dell'essere umano. Riconoscerla e accettarla come una propria realtà, e procedere verso la capacità di una preoccupazione responsabile (Winnicott).

"Saper tollerare tutto ciò che si può trovare nella propria realtà interna è una delle grandi difficoltà umane e armonizzare la propria realtà interna con quella esterna costituisce una meta importante per l'individuo" (D.W. Winnicott - Il bambino deprivato).

Bibliografia

1) W.R. Bion (1959), Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico - Armando, Roma, 1967.

2) W.R. Bion (1970) - Attenzione o interpretazione - Armando, Roma, 1987.

3) F. Corrao (1992) - Modelli psicoanalitici, Laterza, Bari, 1992.

4) A. Correale, M. Zaccaria (1984) - Gruppo e malattia: un primo approccio - Gruppo e Funzione, Roma, 1984.

5) R.D. Fairbain (1952) - Il piacere e l'oggetto - Astrolabio, Roma, 1992.

6) S. Freud (1920) - Al di là del principio del piacere - Boringhieri, Torino (1967-80).

7) S. Freud (1923) - Inibizione, sintomo e angoscia - Boringhieri, Torino (1967-80).

8) M. Klein (1957) - Invidia e gratitudine - Martinelli, Firenze, 1957.

9) S.A. Mitchell (1988) - Gli orientamenti relazionali in psicoanalisi - Boringhieri, Torino, 1993.

10) A.M. Modell (1984) - Psicoanalisi in un nuovo contesto - Cortina, Milano, 1992.

11) D.W. Winnicott (1965) - Sviluppo affettivo e ambiente - Armando, Roma, 1970.

12) D.W. Winnicott (1984) - Il bambino deprivato - Cortina, Milano, 1986.

13) L. Wurmser (1974) - "Psychoanalitic consideration of the ethiology of compulsive drug abusers" - J. Am. Psychoanal. Ass., 22.

14) M. Zaccaria e A. Correale (1986) - Piani di intersezione dei gruppi istituzionali - Gruppo e Funzione Analitica, Roma, 1986.

15) M. Zaccaria (1993) - Modernità psicoanalitica nella "Fantasia pompeiana" di W. Jensen, in corso di stampa su Koinos, Borla, Roma.


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