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PSYCHOMEDIA
COMUNITÀ TERAPEUTICHE
CT Salute Mentale



Responsabilità e Decisionalità

di Enrico Pedriali ed Edoardo Razzini


Il tema della responsabilità è un aspetto centrale nella prassi di ogni Istituzione e, come tale, si pone al crocevia di differenti concezioni della loro stessa natura e della loro mission.
Responsabile (dal latino responsus = responso, rendiconto) è per definizione colui che risponde delle proprie e delle altrui azioni.
Il termine in sé sottintende processi di pensiero e comportamenti che chiamano in causa capacità e determinazione individuali o di gruppo, funzioni genitoriali e percorsi di crescita personale, ma anche la garanzia di un mandato che implica valutazioni di merito.
Se riferita a un’Istituzione Curante, la responsabilità pone problemi di notevole rilevanza etica, di legittimazione sociale oltre ché di natura psicologica.
Ogni contesto organizzato per svolgere funzioni di cura esprime, in base al proprio modello teorico di riferimento, un concetto di responsabilità che influenza in larga misura stile di lavoro, relazioni interpersonali, rapporti gerarchici e in definitiva, l’atmosfera istituzionale.


Responsabilità e Decisionalità

A qualunque livello venga considerata, la responsabilità trova una forma diretta di espressione nei processi decisionali che caratterizzano l’attività di ogni Struttura.
Così ad esempio, se essa viene attribuita prevalentemente all’autorità dello Staff, il prendere decisioni tenderà a facilitare atteggiamenti di dipendenza nei pazienti e la dinamica prevalente a svilupparsi tra attività (degli operatori) e passività (degli utenti) o, in termini psicodinamici, tra autonomia e dipendenza.
Se invece vengono privilegiate esclusivamente esigenze organizzative è possibile che finiscano col prevalere decisioni più funzionali al mantenimento delle caratteristiche strutturali che ai reali bisogni degli utenti e che si profili una dinamica conflittuale tra leaders e followers.
D’altra parte un’attribuzione acritica o ideologica della decisionalità ai pazienti, oppure la negazione del bisogno di assunzione di responsabilità da parte di qualcuno, può andare a scapito di reali esigenze di funzionamento e generare un evidente contrasto fra organizzazione e confusione.


Comunità Terapeutiche e Decisionalità

Nelle Comunità il problema della responsabilità si pone con caratteristiche del tutto particolari, ma non si può negare che esistano differenze anche profonde al riguardo, a seconda delle premesse ideologiche (ad esempio: C.T. così dette “Democratiche” rispetto a quelle che venivano definite “Concept Based” T.C. o a quelle fondate sulla figura carismatica di un leader).
Anche il modello psicologico di riferimento può avere una notevole influenza a questo proposito (ad esempio: orientamento psicodinamico versus psicosociale) così come la tipologia dei pazienti (ad esempio: C.T. per Pazienti Psicotici versus C.T. per Pazienti con Disturbi di Personalità) e un ulteriore fattore di differenziazione è costituito dal tipo di contesto entro cui la Comunità è inserita (Servizi Territoriali, Ospedale, Servizi di sostegno all’Adolescenza, Carcere, etc).
Malgrado ciò, esiste un comune denominatore che differenzia le Comunità da altre Istituzioni nell’esercizio della responsabilità e nel prendere decisioni: esso consiste, a nostro avviso, nella dimensione collettiva della vita quotidiana, nella condivisione dei progetti, nelle relazioni intense fra le persone, nelle numerose pratiche di piccolo, medio e grande gruppo, attraverso cui si definiscono strategie e obiettivi.
Traendo spunto dal titolo di questa Conferenza, ci si può chiedere allora: “Chi decide in Comunità ?” e soprattutto: “Come vengono prese le decisioni ?”

La vita quotidiana di ogni Comunità Terapeutica è costellata da una miriade di iniziative di vario genere che richiedono decisioni per la loro realizzazione e gestione.
Decidere significa scegliere, stabilire, indurre, determinare, risolvere: ciascuno di questi significati può avere implicazioni importanti.
La modalità con cui si decide può essere influenzata da fattori ben riconoscibili, come quelli prima descritti, ma anche da altri più difficili da individuare perché legati ad aspetti conflittuali inconsci a livello individuale, gruppale e organizzativo.
Accade spesso che atteggiamenti direttivi o addirittura autoritari da parte dello Staff siano indotti da richieste più o meno consapevoli del gruppo dei Pazienti-Residenti che in pratica fan sì che a decidere siano gli operatori.
Riportiamo un esempio, tratto da una reale esperienza di Comunità, che rende con particolare evidenza questo aspetto.


Scene di Vita Quotidiana

In una C.T. per pazienti gravi, nel corso di una riunione settimanale centrata sulle dinamiche di gruppo, condotta con la tecnica dello Psicodramma, una paziente psicotica e sieropositiva (che chiameremo Lara) iniziò ad attaccare Gianni, un operatore in quel momento assente, accusandolo di essere troppo autoritario e di aver, in particolare, falsato l’andamento del gruppo-cucina privandola della responsabilità che le era stata affidata di acquistare il cibo da cucinare.
Va detto che anche in una riunione di Staff svoltasi poco prima era stato affrontato lo stesso tema e tutti gli operatori avevano criticato il modo di fare di Gianni.
Nel corso del Gruppo di Psicodramma si sottopose all’attenzione di tutti la questione del decidere, di quanto spazio decisionale debbano avere gli ospiti e della funzione di supporto degli operatori. I pazienti si suddivisero tra chi , come Lara, rivendicava apertamente il proprio diritto a decidere autonomamente, chi invece preferiva delegare ogni decisione agli operatori e chi, infine, si collocava in una posizione intermedia sostenendo la necessità di una stretta collaborazione.
Si decise di mettere in scena, nello spazio dello psicodramma, la stessa situazione del Gruppo Cucina nel momento degli acquisti, con la consegna (da parte del conduttore del Gruppo ) di rappresentare una situazione ottimale, nella quale tutti si potessero riconoscere e non venisse leso alcun diritto o aspettativa.
Lara scelse di interpretare il ruolo dell’operatore e, sorprendentemente, ripropose “pari pari” l’atteggiamento di Gianni dirigendo in modo autoritario il gruppo dei pazienti, interpretato da altri ospiti, e decidendo lei ogni acquisto.
Solo Franca, una paziente interpretata da una tirocinante psicologa, cercò di mettere in discussione, nella scena, la leadership dell’operatore senza troppa convinzione.
In una riflessione ad alta voce Lara disse di essersi sentita molto in ansia nel suo ruolo, in particolare quando veniva contestata da Franca e di aver per questo accentuato il proprio autoritarismo.
Ci è sembrato che questa scena e l’intera riunione abbiano permesso a tutti i presenti, da un lato, di condividere alcuni problemi emozionali vissuti dagli operatori nello svolgimento delle proprie funzioni di supporto, dall’altro, di evidenziare i profondi intrecci e le collusioni che portano tutto il gruppo istituzionale a delegare inconsapevolmente una sua parte (il gruppo degli operatori) a svolgere in modo esclusivo la funzione decisionale.
Quale che sia il modello teorico di riferimento, in ogni Comunità l’atto decisionale può essere considerato, sia per gli operatori che per i pazienti, come un percorso tra una posizione di dipendenza ed una di maggior autonomia.
Sotto questo profilo, una Comunità che si voglia definire Terapeutica, si costituisce, sia per gli uni che per gli altri, come terreno di crescita in cui la necessità di prender decisioni stimola entrambe le parti a sviluppare le proprie capacità.
Su questo percorso incidono diverse componenti che possono complicare o facilitare un’evoluzione personale e gruppale.
Soprattutto per gli operatori è importante usufruire di strumenti che consentano di individuare tali componenti e riconoscerne la natura per poterle utilizzare, poiché è legittimo che i Pazienti-Residenti delle Comunità si aspettino di trarre vantaggio dalla loro competenza.


Apprendere dall’Esperienza

Anche in Comunità, come in ogni Istituzione, il Setting organizzativo può tendere ad assumere una funzione difensiva dalle ansie dei propri membri, specialmente dei terapeuti, attribuendo loro in larga misura l’assunzione di responsabilità e quindi l’esercizio della decisionalità, inibendolo parallelamente ai pazienti.
E’ pur vero che il gioco intenso di negazioni, scissioni, identificazioni proiettive che frequentemente si sviluppa fra le parti, può facilitare una rigidità organizzativa a scapito della forza creativa della Comunità che di per sé solleciterebbe i residenti a partecipare alla gestione e alla condivisione della vita quotidiana, ovverosia indurrebbe a “fare”, ad “agire”.
Da ciò può generarsi un’oscillazione fra due posizioni opposte che riguardano in varia misura sia i pazienti che gli operatori: attivismo e passività sono i poli estremi di un continuum in cui si colloca lo svolgimento delle attività comunitarie.
A volte si determina un cortocircuito in cui il fare, o il non fare, assumono il significato di un “acting” che si oppone alla funzione riflessiva indispensabile ad apprendere dall’esperienza, oppure si sviluppano meccanismi difensivi quali la razionalizzazione o un uso distorto dell’interpretazione che impediscono un corretto esame di realtà.
D’altra parte, per molti pazienti il coinvolgimento comunitario rappresenta un utile apprendimento nell’assunzione di responsabilità verso gli altri come verso se stessi, attraverso le relazioni che si sviluppano.
Anche pazienti cronicizzati, con elevati livelli di disabilità, possono apprendere di più dal fare che da sofisticati esercizi verbali.
Le relazioni di lavoro infatti implicano potenti aspetti emotivi che occorre tenere in considerazione e su cui è necessario riflettere.
Quando le interazioni con gli altri vengono ignorate, la vita emotiva si impoverisce e l’Istituzione aggrava le condizioni di molti dei pazienti che vi risiedono.

Questa lunga premessa porta in primo piano l’importanza dell’Apprendere dall’Esperienza, in particolare dalle attività della vita di ogni giorno, come strada maestra per sviluppare una Cultura dell’Indagine e come modello di formazione ideale per chi lavora in questi contesti.


Una Comunità di Apprendimento

In questa seconda parte della relazione cercheremo di descrivere un’esperienza di Training per Operatori di Comunità, fondata sul Learning from Doing, che si sviluppa intorno al tema della Decisonalità lungo un continuum compreso tra autonomia e dipendenza.
Da qualche anno, l’Associazione italiana per l’Approccio di Comunità Terapeutica (ATiC), promuove opportunità di formazione, in particolare Workshops Esperienziali con le caratteristiche della “full immersion”.
L’obiettivo è quello di realizzare un modulo formativo che consenta a chi vi partecipi di acquisire la capacità a relazionarsi con altri, la consuetudine al lavoro in gruppo, a condividere la quotidianità, a riflettere sul significato di tutto ciò che accade.
In pratica i Workshops sono rivolti a chiunque aspiri a lavorare, o già lavori in ambienti di tipo comunitario, a prescindere dal ruolo professionale poiché, secondo la nostra esperienza, infermieri, esperti di attività espressive (arte e musico-terapia, teatro ed espressione corporea, pittura e attività manuali, etc), psichiatri, psicologi, assistenti sociali, hanno tutti lo stesso bisogno di acquisire una comune competenza di base.
L’ipotesi che ci proponiamo di verificare è che in un simile contesto si presentino fenomeni molto simili a quelli di ogni C.T. e che quindi vi si possa realizzare una duplice possibilità di apprendimento: quella che i partecipanti al Workshop ricavano, nell’hic et nunc, attraverso un continuo alternarsi di “fare e pensare” e quella che in generale può derivare da una conoscenza sul campo del funzionamento di questo tipo di Strutture.
A loro volta anche i membri dello Staff si vengono a trovare nella condizione di utilizzare questa doppia opportunità, con la possibilità di sviluppare una continua ricerca sull’esperienza formativa in corso e sui suoi possibili sviluppi.
I Worksops si svolgono in un arco di tre giorni e mezzo e divengono la residenza a tempo pieno di Partecipanti e Staff che, insieme, costituiscono una Comunità finalizzata all’Apprendimento, con l’intento di mettere a fuoco ciò che la vita quotidiana può insegnare attraverso la partecipazione diretta alle attività e l’opportunità che esse offrono per una riflessione personale ed una elaborazione gruppale.
Tutti hanno modo di vivere in prima persona gli aspetti tipici di un contesto comunitario: condivisione con altri di spazi, tempi e situazioni di vario genere, organizzazione della vita quotidiana, attraversamenti continui del confine tra individuale e sociale.
Fin dal primo momento si costituiscono gruppi che si cimentano in compiti concreti per soddisfare esigenze essenziali:

- preparazione dei pasti e gestione della cucina;
- pulizie degli spazi comuni (mentre quella degli spazi privati è affidata alla responsabilità dei singoli partecipanti);
- organizzazione del tempo libero;
- eventuali altre attività stabilite nel corso del Workshop (ad esempio, rapporti con l’esterno, organizzazione del Commiato finale, etc).
Viene deliberatamente evitata qualsiasi trattazione teorica e tutto è sempre saldamente ancorato all’attività quotidiana e a ciò che intorno ad essa si sviluppa.

Come in ogni Comunità, gli aspetti problematici non tardano ad emergere: assumere/delegare responsabilità; lavorare per gli altri; prendere decisioni individualmente e in gruppo; misurarsi con tutto ciò che evoca un rapporto, reale o fantasmatico, con l’autorità e con la leadership, affrontare relazioni interpersonali e dinamiche gruppali ed altro ancora.
Ognuno ha la possibilità di cogliere ciò che questi aspetti comportano e di riflettervi in termini di apprendimento.
Per realizzare questi obiettivi il Workshop si sviluppa attraverso una stretta relazione fra le attività concrete, che rappresentano il “focus” della sua struttura e una serie di incontri gruppali (Riunioni Plenarie, Strain Groups, Community Meeting, Small Groups, etc) che costituiscono il “locus” della riflessione.
Nota.
Un’ampia descrizione della struttura e dell’organizzazione del Workshop è acclusa a questa relazione per chi fosse interessato a conoscerne i dettagli.


Partecipanti o “Pazienti” ?

Non è sempre facile rinunciare alle difese del ruolo professionale, modificare sia pure per pochi giorni le personali abitudini di vita, limitare la propria privacy, accettare di mettersi in discussione su sollecitazione di altri: in un certo senso si tratta di scendere da un “piedistallo”.
L’ingresso dei Partecipanti nel Workshop presenta più di un’analogia con quello dei pazienti in una Comunità anche se non vi sono intenzioni terapeutiche nell’esperienza che stanno per intraprendere.
Questo processo di identificazione suscita sviluppi interessanti sul piano individuale e gruppale e innesca dinamiche importanti coi membri dello Staff.
Le riunioni in piccolo e grande gruppo divengono una postazione di osservazione di vari fenomeni con la finalità, sottintesa ma costante, di consentire a ciascuno una comprensione dell’esperienza che si va sviluppando, in termini di apprendimento utilizzabile nel proprio contesto di lavoro.
In sostanza ogni Partecipante-Residente viene a trovarsi nel ruolo di osservatore di se stesso, facilitato in questo dal gioco di rispecchiamenti fra i componenti dei vari gruppi.
Quasi sempre si crea un campo emozionale molto intenso, dove le diverse caratteristiche personali, le aspettative, le resistenze al cambiamento, l’aggressività, l’inibizione di alcuni e il protagonismo di altri, l’emergenza di figure leader, forniscono un abbondante materiale di riflessione.
I compiti concreti da svolgere mettono tutti continuamente nelle condizioni di prendere decisioni: le attività non sono un gioco di simulazione, ma una reale necessità. Se il gruppo-cucina non funziona, non si mangia; se non si pulisce, la Comunità diventa invivibile, se il tempo libero non offre opportunità, la gente si annoia.

Di fronte al problema della decisionalità si verificano i fenomeni più significativi: Partecipanti e Staff, in momenti diversi, tendono a collocarsi in vario modo all’interno di una polarità compresa fra dipendenza e autonomia.
Anche a questo riguardo l’analogia con la Comunità Terapeutica è abbastanza evidente.


Gli Staff: Partecipanti o Osservatori ?

Oltre alla funzione generale di garantire il mantenimento del Setting della Comunità di Apprendimento per tutta la sua durata e alla conduzione di alcune riunioni (Plenarie, C.M., Strain Groups, etc), lo Staff svolge una parte attiva per quanto riguarda le attività quotidiane: fornisce ai residenti una consulenza attraverso il suo componente più esperto al riguardo e una funzione di supervisione da parte del direttore del Workshop; gli altri membri prendono parte a tutti gli effetti, uno per ciascun gruppo, alle attività in veste di Partecipanti–Osservatori.
Il passaggio continuo dal ruolo di partecipante a quello di osservatore e il mantenimento di una posizione di neutralità nel ruolo di conduttori dei gruppi è un compito non sempre facile da svolgere.
Spesso si delinea una duplice modalità di relazione fra Residenti e Staff, a seconda che questi siano percepiti come figure leader, dotati di capacità e potere decisionale, oppure come componenti del gruppo dei pari con cui le distanze si riducono notevolmente.
Da un lato, lo Staff può essere idealizzato o investito proiettivamente di un potere onnipotente o, proprio per questo, essere attaccato invidiosamente e vissuto in termini persecutori.
Dall’altro può invece prevalere nei suoi confronti un rifiuto più o meno palese di qualsiasi dipendenza che si esprime con l’iperattivismo o la ricerca di perfezionismo, in un clima a volte maniacale a volte ludico, che neutralizza la possibilità di riflessione su ciò che sta accadendo.


Rispecchiamenti e Dinamiche tra Partecipanti e Staff

In relazione a queste eventualità è possibile che si verifichino situazioni di ambivalenza, collusività o rivalità tra le parti così come all’interno dello stesso Staff: cosa inevitabile in una situazione di così elevata intensità relazionale che va messa in conto come un’utile esperienza di apprendimento per gli uni e per gli altri.
Una delle situazioni più frequenti, ad esempio, consiste in un coinvolgimento massiccio nelle attività da parte di componenti dello Staff, che determina un gioco di collusioni più o meno consapevoli e un trasferimento all’interno del proprio gruppo di dinamiche in atto fra i Partecipanti o di carattere intergruppale.
Analogamente, tra i Partecipanti può svilupparsi la tendenza simmetrica a identificarsi nei membri dello Staff, cercando di gratificarne le aspettative, vere o presunte, rinunciando così a mantenere o sviluppare una posizione autonoma.
Vissuti persecutori da parte dei Partecipanti verso lo Staff possono indurre tentazioni paternalistiche o di tipo normativo, così come atteggiamenti svalutativi possono generare la tendenza reattiva a indurre una condizione di dipendenza nei partecipanti.

Un dato molto significativo nell’andamento del Workshop è rappresentato dalla particolare composizione del Gruppo Residenti per quanto riguarda differenze legate a sesso, ruolo professionale e ai contesti lavorativi di provenienza.
Distinzione delle attività in base al registro maschile-femminile (attività domestiche versus attività concettuali); contrapposizioni fra ruoli paterni e materni nei processi decisionali e nelle dinamiche legate alla leadership; subalternità o antagonismo fra chi svolge ruoli professionali diversi (infermieri versus psichiatri e psicologi); seduttività o rivalità nei confronti dello Staff da parte di chi ha aspirazioni dirigenziali: tutto ciò contribuisce a determinare scenari
in cui l’interazione fra le parti produce diversi stili decisionali.
Anche a questo riguardo si possono intravedere analogie con quel mosaico di caratteristiche e di diversità che spesso caratterizza le C.T. e ne determina a volte la vitalità a volte l’inerzia o la distruttività.

Per parte sua lo Staff deve continuamente elaborare sia il materiale proposto dall’andamento del Workshop che le situazioni che si verificano al proprio interno e ciò avviene attraverso almeno tre riunioni quotidiane, ma prosegue anche a distanza di tempo, negli intervalli tra un Workshop e l’altro, mantenendo caratteristiche che ci piace definire di “Staff Virtuale”.


Il processo evolutivo e la “storia” del Workshop

Un elemento significativo nell’andamento di ogni workshop è caratterizzato dal parametro temporale che sembra indirizzare in modo potente le dinamiche dell’intero gruppo istituzionale (Partecipanti e Staff) favorendo una evoluzione attraverso “fasi” che sembrano riproporre, in modo estremamente sintetico, la vita di un individuo, di un gruppo, di una società.
Questo andamento evolutivo, pur dando spazio a oscillazioni regressive e a peculiarità legate alle particolari caratteristiche del gruppo dei residenti o all’ingresso nello staff di nuove figure, presenta in ogni Wporkshop aspetti ricorrenti che cercheremo di descrivere.
All’inizio il gruppo dei Partecipanti si trova perlopiù a confrontarsi con forti vissuti di estraniazione e sradicamento legati, come sopra accennato, alla momentanea perdita del proprio status (da operatori a pazienti virtuali), alla perdita del proprio spazio e delle proprie abitudini quotidiane. Molto spesso questo vissuto collettivo viene espresso,nella Riunione Plenaria iniziale, attraverso in un continuo riferimento alla propria attività professionale come se questo permettesse loro di mantenere intatte le proprie radici riaffermando prerogative di ruolo e status.
Generalmente queste tattiche difensive sono destinate a franare per opera stessa dei partecipanti che ne percepiscono ben presto l’artificiosità: di fronte a loro il gruppo compatto dei membri dello staff sembra invece presentificare e simboleggiare la sicurezza, la compattezza e l’omogeneità ideologica di cui i residenti si sentono dolorosamente privati.
La incertezza e insicurezza generale, le rivalità nascenti verso i propri simili, la evidente invidia nei confronti dello staff portano generalmente il gruppo dei residenti ad annullare, in questa fase iniziale, la propria capacità decisionale in un clima di grande confusione nel quale tentativi di costituire una leadership autoritaria si alternano ad uno sterile assemblearismo per approdare, in genere, ad uno stile burocratico che priva ogni decisione del proprio alone emotivo e fantasmatico.
Una fase successiva è rappresentata dalla costituzione e dal funzionamento dei piccoli gruppi di attività (cucina, pulizie, tempo libero) nei quali i partecipanti tendono ben presto a ritrovare la perduta sicurezza tuffandosi , spesso con grande piacere, nella organizzazione di pranzi elaborati o pretenziosi intrattenimenti, in un registro dominato dal “fare” : l’attivismo sembra infatti la soluzione più facile per ridare senso alla propria partecipazione alla vita di comunità, ritrovando un ruolo e investendo in modo libidico le abilità e i prodotti espressi dal proprio piccolo gruppo di appartenenza. Nella stessa fase iniziano a manifestarsi, nelle riunioni plenarie, delle dinamiche conflittuali verso lo staff che non è più vissuto come un genitore onnipotente e inarrivabile, come all’inizio, ma che viene rappresentato come inaffidabile e frustrante.
I conflitti, peraltro, tardano a palesarsi direttamente ma vengono espressi con ritardi, inconcludenza e scarsa tensione partecipativa alle riunioni plenarie; sembra che il vissuto dei partecipanti sia sintetizzabile nel seguente pensiero: se noi funzioniamo così bene nelle attività e così male nelle riunioni assembleari deve per forza esser colpa dello staff.
In un terzo momento si profilano due nuovi tipi di problemi: i piccoli gruppi si trovano a rivaleggiare tra di loro inducendo, in modo proiettivo, anche gli staff a schierarsi e a scontrarsi tra loro, come su accennato. Ma si fa strada anche la sensazione che il bel giocattolo costruito collettivamente sia destinato a essere smontato tra poco tempo: viene un po’ meno, quindi, la tensione ad agire e si fanno strada finalmente tensioni, rabbie ma anche investimenti affettivi verso lo staff e verso altri partecipanti , in un clima di apertura alle emozioni che vede crollare difese faticosamente costruite.
Nella fase finale il gruppo, molto provato, stanco, frustrato nelle precedenti ambizioni onnipotenti sembra però trovare le proprie dimensioni, i propri limiti, la capacità di esprimere giudizi misurati, di mostrare spesso gratitudine verso lo staff in un clima “depressivo” che consente finalmente una mediazione tra fare e pensare, tra agiti frenetici e intellettualizzazioni vacue.
Sono venute meno le barriere basate sulle differenze professionali e gli schieramenti di piccolo gruppo: ognuno può finalmente parlare a nome di sé stesso lasciando trapelare qualcosa della propria individualità e, magari, esprimendo il proposito di poter mantenere, anche in seguito, qualche contatto con la comunità di apprendimento di cui ha fatto parte.


In conclusione

Gli scenari che si presentano in un contesto di apprendimento come quello che abbiamo cercato di descrivere, consentono di affermare che i processi decisionali in C.T. possono assumere forme e generare conseguenze diverse, ma derivano sempre da un’interazione consapevole e inconsapevole fra le parti in causa, operatori e residenti.
Il peso della decisionalità può oscillare dagli uni agli altri a seconda del diverso grado di dipendenza e del diverso livello di autonomia che sono in grado di raggiungere.
Ciò che ci pare importante evidenziare è che, all’interno della Comunità di Apprendimento, l’esperienza del decidere viene amplificata per ogni partecipante dal fatto di essere coinvolto in un gruppo e in dinamiche intergruppali che gli forniscono un costante rimando sul suo modo di porsi e può rendere evidente i limiti, le resistenze ma anche le potenzialità di cambiamento sul piano individuale.
Il terreno che abbiamo prescelto per sviluppare una Cultura dell’Indagine capace di sviluppare Apprendimento è quello concreto e tangibile delle attività quotidiane.
Ovviamente un Workshop Esperienziale non è un Seminario teorico sulla decisionalità né un corso di formazione per quadri dirigenti, ma si propone la finalità di consentire ai suoi partecipanti di raggiungere la maggior consapevolezza possibile sia della propria dipendenza che della possibilità di autonomia.
I riscontri che nel corso degli anni abbiamo ricevuto sono tuttora oggetto di elaborazione da parte dello Staff.
In generale essi ci incoraggiano a proseguire e sviluppare questo progetto utilizzando a nostra volta ciò che i Workshops stanno insegnando anche a noi.

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