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PSYCHOMEDIA
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Il processo di supervisione nelle Comunità per minori: osservazioni cliniche

di Fabio Monguzzi



Il presente lavoro nasce da una serie di osservazioni e riflessioni effettuate nell'ambito dell'attività di supervisione svolta presso comunità alloggio per minori e si propone di presentare alcune modalità di intervento nelle comunità a carattere residenziale.
Verranno esposte alcune considerazioni cliniche inerenti l'intero percorso di supervisione, dall'avvio alla fase di conclusione, evidenziando in particolare alcune funzioni del processo di supervisione all'interno di istituzioni comunitarie che ospitano soggetti minorenni.
La domanda di supervisione porta con sé un ampio grado di complessità e si compone di bisogni che si situano a diversi livelli di profondità e consapevolezza; il lavoro del supervisore implica il loro riconoscimento ed un delicato lavoro di trattamento, muovendosi tra i diversi livelli della domanda in un gioco di tessitura rispettoso del contesto clinico non connotato in senso terapeutico.
L'avvio di una fase preliminare di analisi ha lo scopo di valutare l'opportunità di un intervento di supervisione, di concordare le modalità e gli obiettivi, prevedendo fasi intermedie di verifica.
L'analisi della domanda e delle aspettative relative all'intervento, effettuata attraverso un'attenta considerazione degli elementi storico-culturali dell'istituzione e del reticolo di relazioni intra ed inter-istituzionali dell'organizzazione, rappresenta già un primo livello di intervento.
In questa fase è infatti possibile, in relazione a quanto osservato, effettuare una riformulazione della domanda e verificare se l'intervento di supervisione può essere una risposta opportuna alle difficoltà evidenziatesi o se è invece necessario suggerire interventi di natura differente.
La richiesta di attivare uno spazio di supervisione può provenire da apparati istituzionali con diverse finalità ed obiettivi e può avvenire in diversi momenti storici: può essere innescata infatti da una neo-costituzione, da una ristrutturazione o, diversamente, essere determinata da una crisi in seno alla struttura o, ancora, da una più generica necessità di affinare la propria metodologia di lavoro per comprendere e gestire con maggior successo i pazienti.
Le insidie che si annidano dietro richieste di supervisione apparentemente condivisibili sono molteplici e sono connesse essenzialmente a modalità perverse di funzionamento che si esprimono attraverso l'aberrazione delle modalità gestionali, comunicative e di esercizio dell'autorità. Mi riferisco in particolare a tutte quelle situazioni nelle quali il supervisore può essere oggetto di tentativi di assegnazione di compiti occulti di controllo o inviti, più o meno manipolatori, ad assumere funzioni decisionali improprie.
Il rischio connesso all'intraprendere incautamente un lavoro di supervisione in tali contesti è quello di trovarsi coinvolti, più o meno consapevolmente, in conflitti tra le differenti compagini professionali o tra i diversi livelli di responsabilità istituzionale (Martini, 1998).
La sottovalutazione dei rischi connessi alla collusione tra le istanze narcisistiche del supervisore e la pervasività delle dinamiche gruppali dell'istituzione, generalmente polarizzata intorno ad un vertice dirigenziale ed una base di operatori, può portare al fallimento dell'intervento ed a convogliare sul professionista le ragioni della persistenza o dell'ingravescenza delle difficoltà (Perini, 2000).
I fattori di rischio connessi all'intraprendere un intervento di supervisione nelle istituzioni sono dunque molteplici e la necessità di definire con chiarezza il setting, gli obiettivi e le modalità, è quindi determinante.
Il termine supervisione, mutuato dai processi di addestramento e formazione dei candidati psicoanalisti e genericamente legato a procedure di discussione di casi, si presta a definire modalità operative più differenti da quelle che possono apparire.
Per ciò che mi riguarda concepisco la supervisione come un'attività clinica effettuata attraverso una modalità gruppale con incontri regolarmente cadenziati.
Gli obiettivi sono prioritariamente legati alla costituzione di un contesto stabile e ritualizzato al riparo dai movimentati ritmi delle strutture residenziali all'interno di un clima di sospensione dalle attività, deputato ad ampliare la comprensione dei pazienti e a liberare le risorse necessarie a riformulare linee operative consapevoli ed efficaci.
Non è infrequente rilevare come i primi incontri di supervisione siano caratterizzati da una tangibile non-presenza di uno spazio gruppale, così come si può cogliere attraverso le modalità con le quali il gruppo si compone e si presenta nella stanza durante gli incontri. Ciò che spesso si osserva è che in un primo periodo gli operatori giungono nella stanza alla spicciolata e solo successivamente alla presenza del supervisore che, giungendo, trova quindi la stanza vuota. In una fase successiva, quando il gruppo si è costituito il supervisore, non rappresentando più l'unico elemento aggregante, trova più facilmente il gruppo ad attenderlo.
La supervisione si configura dunque come un momento per gli operatori all'interno del quale confrontarsi con la prospettiva e le osservazioni del supervisore, figura investita di competenza e autorevolezza.
L'obiettivo di individuare linee di intervento non è ricercato attraverso un'interazione istruttiva con il supervisore in quanto portatore di conoscenza o di verità, ragione per la quale gli incontri non hanno una linea operativa prestabilita e non hanno carattere formativo-didattico o consulenziale, ma fungono quale opportunità privilegiata di pensiero per entrare in contatto con la rappresentazione che il gruppo di lavoro ha costruito dei propri pazienti.
Il punto di partenza generalmente è l'esposizione di una situazione clinica dalla quale prende corpo una rappresentazione dinamica dei pazienti e delle loro vicende relazionali. Il contenuto emergente, intriso di elementi appartenenti al tessuto emotivo dei pazienti, è materiale prezioso che si presta ad essere analizzato attraverso l'esame del gioco di rimandi e risonanze all'interno del gruppo degli operatori.
L'incontro con un mondo psichico tormentato dalle pressioni evolutive e danneggiato da relazioni carenzianti genera l'immersione in realtà esperite in maniera confusa e contraddittoria. La forza di meccanismi difensivi primitivi quali proiezioni ed identificazione proiettive intrusive, massicce e pervasive genera negli operatori stati mentali caratterizzati dalla presenza di elementi che possono giungere a spingerli, se non adeguatamente riconosciuti ed elaborati, ad esprimere incontrollate parti di Sé in risposta a quanto emotivamente sperimentato.
L'attivazione delle risorse gruppali in termini di capacità di contenimento, elaborazione e offerta di azioni pensate appare dunque determinante (Cotugno, 1993).
Se viene adeguatamente predisposto uno spazio di raccolta di emozioni e pensieri che possono essere espressi nella maniera più associativa e spontanea possibile, anche abbandonando modalità tradizionali di esposizioni dei casi, quanto sperimentato nel controtransfert può aprire importanti spazi di comprensione.
Di estremo interesse appare, durante l'esposizione dei casi, la composizione del quadro narrativo che convoglia l'esperienza emotiva degli operatori, depositando nella mente del supervisore e nello spazio gruppale, un primo importante agglomerato di elementi.
Accanto a quanto più immediatamente trasmissibile dal gruppo attraverso consuete modalità espressive è possibile gradualmente percepire la presenza fluttuante di massicci contenuti emotivi spesso frammentati, non accessibili al pensiero, che necessitano di uno spazio di contenimento e di un apparato elaborativo e trasformativo adeguato per poter essere portati in evidenza ed integrati in un quadro narrativo rappresentativo dal punto di vista dei contenuti e convincente dal punto di vista emotivo (Martini,1998).
Quando tale lavoro di disvelamento e trasformazione viene efficacemente effettuato, attingendo anche allo spazio psichico del supervisore, si assiste ad un de-tensione emotiva nel gruppo che sperimenta un momento liberatorio derivante dalla ritrovata possibilità di rendere simbolizzabile quanto prima era percepito alla stregua di un "corpo estraneo". Il momento è immediatamente percepibile ed appare chiaro come sia connesso anche al superamento di immobilizzanti sentimenti di inadeguatezza ed incapacità. Il gruppo sperimenta così una rinnovata capacità di pensiero e si può assistere alla comparsa di risorse prima inaccessibili.


Nel corso di un incontro di supervisione presso una Comunità Alloggio Femminile gli educatori, affrontando la situazione di una adolescente ospite, fanno emergere in tutta la sua drammaticità il loro vissuto di impotenza e frustrazione rispetto ad una presa in carico che giudicano insufficiente. Il sentire del gruppo è ben rappresentato da Davide che esprime la sua ferma convinzione circa la necessità di operare alcuni interventi radicali nella vita della ragazza ed il suo bisogno di avere limpide certezze circa il suo futuro. Esprime considerazioni logiche e razionali circa ciò che andrebbe fatto e che dovrebbe accadere.
Il gruppo sembra in preda ad una forte attivazione, il caso sembra veicolare forti istanze onnipotenti e salvifiche difficilmente revisionabili nonostante i tentativi effettuati in precedenza.
Ad un certo momento il supervisore osserva attentamente Davide ed inaspettatamente gli domanda notizie circa il colore della maglietta che indossa sotto la camicia:
"E' una maglietta azzurra, vero?"
Davide, attonito, interrompe le sue esternazioni e senza pensare risponde: "...si...!?
"Ha una scritta davanti, una S mi pare di intravedere..." prosegue il supervisore.
Davide sempre più perplesso risponde: "...ehm...si..."
"certo, Superman...!!!" aggiunge il supervisore.
Il gruppo, comprendendo il messaggio, esplode in una fragorosa risata liberatoria.
Il personaggio di superman porta alla mente l'immagine di un intervento collocato fuori dai confini della portata umana. La figura del super-eroe suggerisce infatti l'idea di un intervento immediato e risolutore oltre ad una relazione fortemente sbilanciata in senso verticale con un'attribuzione a sé di qualità onnipotenti. Tale rappresentazione appare diametralmente opposta rispetto al lavoro effettuato in comunità fondato diversamente sulla continuità e sulla stabilità della relazione.
In questa situazione l'accesso alla rappresentazione salvifica che in quel momento gli educatori avevano costruito della loro funzione, tradotta e messa in parole attraverso l'immagine di superman, pare aver permesso di ripensare al loro ruolo e di svincolarsi dagli intensi vissuti d'angoscia legati alla qualità delle prestazioni.
Nella comunicazione con il gruppo è apparso indicato ricorrere a strumenti comunicativi propri del contesto comunitario, quali oggetti concreti, immagini ed azioni che divengono, nell'hic et nunc della relazione, un mezzo per veicolare significati.
L'immagine di superman verrà richiamata, in successivi incontri, per indicare una tipica modalità di pensiero onnipotente.


Un secondo ordine di obiettivi è generalmente legato al lavoro sull'identità dell'équipe, sul senso di Sé, sulla consapevolezza dei propri vissuti, pensieri ed azioni, all'attivazione di una funzione auto-rappresentativa attraverso la quale poter entrare in contatto con "lo stato ideativo ed emotivo in cui il gruppo istituzionale si sta trovando" (Correale, 1991).
La rappresentazione interna dell'istituzione di appartenenza, le modalità di elaborazione ed interpretazione del ruolo professionale, la qualità delle interazioni del gruppo di lavoro, le relazioni con il gruppo di utenti sono alcuni fattori che contribuiscono a determinare in maniera preconscia un'immagine del gruppo-Sé.
Indurre pensieri circa il proprio funzionamento contribuisce ad accrescere l'attenzione e la consapevolezza dell'esser-ci nella relazione con i pazienti e con la rete di riferimenti istituzionali. La presa di coscienza di "essere in vita" come gruppo favorisce movimenti di individuazione e responsabilizzazione traghettando gli operatori al di fuori di meccanismi di funzionamento da gruppo in assunto di base (Bion, 1971).
Una peculiarità dell'intervento di supervisione è certamente riscontrabile nel suo carattere di processualità: il succedersi degli incontri compone un percorso attraverso il quale emerge una semantica gruppale, si sedimenta un patrimonio di conoscenze, una modalità di pensiero ed un linguaggio condivisibile. I benefici provengono non solo dall'effetto di un singolo incontro ma anche da una sorta di effetto "alone", il supervisore presidia lo spazio psichico comune: tra un incontro e l'altro il gruppo si sente pensato e ciò ha una funzione terapeutica.
In relazione a quanto delineato appare opportuno che l'attività di supervisione venga svolta da una figura esterna, svincolata dal campo d'azione della struttura e dall'eventuale organizzazione di appartenenza, al fine di non essere coinvolti nella rete di rapporti istituzionali, nella sua cultura affettiva ed ideologica. Ciò è garanzia di credibilità e permette uno spazio di pensiero e di manovra determinanti. Il mandato del supervisore è dunque privo di potere decisionale per ciò che riguarda il destino dei pazienti o degli operatori ed è utile che abbia il maggior grado di trasparenza possibile ed una condivisione trasversale agli apparati dell'organizzazione.
Appare così importante muoversi nella direzione di far convergere gli obiettivi del gruppo di operatori che usufruisce della supervisione (clienti) con quelli dell'establishment dirigente (committente) con quelle dei pazienti (beneficiari).
In questo senso il setting del professionista è caratterizzato da un assetto mentale nel quale devono interagire dialetticamente tutte queste variabili a partire da uno spazio di neutralità ed astinenza che garantisce lo svolgersi del compito assegnato.
E' possibile suddividere le strutture a carattere residenziale secondo un principio categoriale legato al tipo di problematiche di cui si occupano: organizzazione comunitarie deputate a trattare problemi psichiatrici, di tossico-alcoldipendenza, problematiche minorili, relativi all'handicap o alla terza età.
Lavorare a contatto con il disagio psichico e le sue poliedriche manifestazioni determina il costituirsi di peculiari assetti difensivi, per questa ragione è ipotizzabile che le difficoltà di un'èquipe si comprendano a partire dalla natura della sofferenza della quale sono chiamati ad occuparsi.
Correale ricorre al concetto di "mimesi" per esprimere l'idea di un isomorfismo tra le modalità predominanti di pensiero nei pazienti e l'organizzazione del sistema terapeutico:

"la mimesi... concerne il fatto che il gruppo dei curanti e l'apparato psichico dei pazienti si modellano entrambi su fantasie e vissuti simili. ...Non solo l'emozione è comune talvolta il gruppo dei curanti assume un andamento associativo e uno sviluppo relazionale sovrapponibili a quelli prodotti dall'apparato psichico dei pazienti" (Correale, 1991)

Nelle prassi operative ed elaborative delle comunità che si occupano di pazienti psichiatrici non è raro riscontrare la presenza dell'immobilismo temporale tipico della cronicità od il riprodursi di meccanismi di frammentazione o scissione, propri del pensiero psicotico, come nelle comunità per adolescenti si ritrova spesso un'atmosfera tumultuosa e un fondo psichico d'inquietudine depressiva, caratteristico della fase adolescenziale, o ancora una marcata tendenza all'azione a detrimento delle funzioni più elaborative.
Vorrei ora focalizzare maggiormente l'attenzione sulle comunità residenziali che ospitano minori, strutture delle quali ho una conoscenza maggiormente approfondita.
Nel sistema di tutela e protezione che interviene nelle situazioni di minori con alto grado di rischio evolutivo a causa di trascuratezza, maltrattamento o abuso, il ruolo delle comunità alloggio appare determinante per i minori per i quali il Tribunale per i Minorenni decreta l'allontanamento dalla famiglia.
Compito primario dell'istituzione comunitaria è offrire un ambiente protettivo nel quale garantire una quotidianità in grado di promuovere e supportare l'assolvimento dei compiti evolutivi quando la famiglia non è, temporaneamente o definitivamente , nelle condizioni di poterlo fare.
Nelle comunità deputate all'assistenza dei minori con difficoltà non esitate in una psicopatologia conclamata la presa in carico viene effettuata attraverso la figura dell'educatore professionale. Il ruolo dell'educatore nella comunità residenziale è principalmente declinato sul versante dell'azione attraverso la sua costante presenza in tutti momenti che scandiscono la giornata. Il livello di prossimità e contatto con gli utenti è dunque elevato e prolungato e meno mediato che in altri contesti di intervento, determinando quindi un intenso coinvolgimento (Battista et al., 1989).
Nell'organizzazione delle Comunità gli interventi educativi risentono molto frequentemente di un'articolazione del lavoro che pone gli operatori nelle condizioni di ricoprire molteplici funzioni operative, legate anche alla gestione logistica della struttura, determinando così un'atmosfera di forte movimentazione ma anche di caoticità ed indeterminatezza.
La composizione monoprofessionale delle equipe di lavoro delle strutture comunitarie per minori pare marcare ulteriormente un'assenza di differenziazione ed una sostanziale interscambiabilità delle funzioni. Ciò che ne può risultare è un'indefinizione di ruoli, funzioni e compiti all'interno della comunità che, oltre a non promuovere un'adeguata identificazione professionale, rischia di generare una pericolosa assenza di confini.
Alcune importanti fragilità delle comunità residenziali paiono infatti riconducibili ad una deficitaria strutturazione del setting istituzionale, ad una difficoltà nell'implementare un ambiente comunitario complessivamente educativo (Carusi 1995; Vigorelli 1995) in termini di cura dei confini (Ferruta, 1998) e di coordinamento operativo.
La limitata presenza di istituzioni comunitarie per minori con caratteristiche specifiche ed identificabili, connesse a peculiari tematiche e fragilità (situazioni di abuso sessuale; adolescenti con problematiche di devianza) rende evidente l'attualità del problema (Casciotti et al., 1995).
Anche per queste ragioni nel corso degli ultimi anni è andata progressivamente crescendo la tendenza da parte delle comunità per minori di avvalersi di una supervisione. La volontà di contribuire quali soggetti attivi all'interno del sistema di tutela fornendo servizi comunitari sempre più qualificati, la necessità di comporre linee di intervento operative coerenti e specifiche a partire da una più approfondita comprensione delle situazioni e l'implicita richiesta di affrontare la sofferenza connessa all'interpretazione di un ruolo istituzionale che risente ancora di alcune fragilità, appaiono alcune tra le motivazioni prevalenti.
Le comunità per minori ottemperano al mandato di occuparsi di bambini ed adolescenti strutturando un tempo ed uno spazio all'interno del quale le azioni del quotidiano permettono, nella relazione educativa, lo sviluppo ed il consolidamento della strutturazione psichica attraverso il confronto con un funzionamento mentale adulto.
Tale processo può avvenire se gli operatori si mostrano in grado di astenersi dal saturare preliminarmente di significati e valori la relazione permettendo che i tempi ed i ritmi si modellino sui bisogni psichici dei minori alle prese con necessità di integrazione tra le proposte educativo-valoriali della comunità e quelle del contesto familiare di provenienza.
Gli educatori, nell'ambito del loro ruolo, vengono dunque ad assumere funzioni genitoriali vicarianti. Le modalità di espletamento di tali funzioni sono connesse a fenomeni transferali, essenzialmente di carattere proiettivo provenienti dai minori ed ai processi di elaborazione del lutto relativi alla perdita di una genitorialità ideale da parte degli operatori. Per ciò che riguarda quest'ultimo aspetto mi riferisco alle fantasie ed aspettative legate alla possibilità di strutturare una relazione con i minori all'interno della quale può avvenire una riparazione ideale delle carenze degli utenti attraverso proposte educative alternative. In altre parole il contenuto pare essere: "sarò un genitore migliore di quello che hai avuto". La fantasia di una genitorialità ideale, evidentemente legata a desideri indennizzatori degli operatori, spesso lascia poco spazio all'accettazione delle fisiologiche difficoltà, alla consapevolezza dell'ineluttabilità presenza di aree di infelicità e sofferenza nell'altro.
Si tratta di un tema molto frequente e complesso da mettere in evidenza durante la supervisione poiché ha evidentemente dei rimandi piuttosto significativi alle premesse personali degli operatori.
Assistiamo alla seguente situazione:

La Comunità Alloggio S.Martino è una Casa famiglia gestita da una coppia di coniugi, supportata da alcuni educatori. Durante un incontro di supervisione viene presentato il caso di Michele, un bambino di 8 anni di cui avevamo avuto modo di parlare qualche mese prima. Michele è' con loro da circa 10 mesi proveniente da un istituto di religiose ove ha trascorso i tre anni precedenti.
La madre, paziente psichiatrica, non da più notizie di sé da qualche mese; gli operatori ipotizzano si sia recata al paese di origine, senza comunicarlo a nessuno, neppure a Michele, che incontrava in uno spazio messo a disposizione dall'Ente affidatario. Il padre vive una condizione di grave emarginazione in una baracca alle porte della città, da tempo presenta problemi di alcoldipendenza ed una condizione lavorativa precaria.
Nonostante la difficile condizione familiare il bambino ha un rendimento scolastico ottimo, anche se nel gruppo dei compagni di scuola e con gli altri bimbi della comunità ha sempre manifestato difficoltà di inserimento, assumendo spesso atteggiamenti e comportamenti oppositivi e provocatori, sostanzialmente regressivi. In questi ultimi mesi Michele vive momenti di intensa apatia nei quali gli educatori non si sentono in grado di raggiungerlo.
Gli operatori riportano un loro vissuto di intensa rabbia nei confronti dell'assistente sociale dell'Ente affidatario, rea, a loro giudizio, di non essere intervenuta tempestivamente in passato sulla situazione familiare del bambino e di aver così contribuito a generare la drammatica situazione attuale.
Appaiono a tratti irritati nei confronti di Michele che ritengono in possesso di brillanti capacità a cui pare non fare appello, incapace, inoltre, di accedere fino in fondo alla "buona" esperienza sostitutiva comunitaria.
La difficoltà degli operatori sembra esprimere l'impossibilità di accedere ad una posizione depressiva, di elaborazione del lutto relativo alla perdita di una genitorialità ideale, sul piano della realtà quanto su quello fantasmatico, nel mondo psichico di Michele quanto nel loro.
Si delinea piuttosto chiaramente come la presa di contatto con i nuclei depressivi di Michele legati al precoce abbandono da parte dei genitori, peraltro riattualizzato dalla scomparsa della madre, metta in scacco gli operatori, che si sentono disarmati ed impotenti; la rabbia emergente appare difensiva, un tentativo divincolatorio da una pena psichica percepita come eccessivamente dolorosa da affrontare.
Ciò che viene messo in evidenza dal supervisore è come il rischio sia rappresentato dal diventare oggetti intrudenti perdendo di vista come sia possibile aiutare Michele mostrandogli di essere in grado di percepire e contenere la sua sofferenza, accettando di viverla e praticarla con lui.
L'azione educativa si esprime in questo caso attraverso una funzione di supporto all'attività di pensiero con lo scopo di trasformare un "terrore senza nome"(Bion,1962) in elementi appartenenti al dominio della pensabilità e dunque maggiormente governabili.


Un'altra situazione esemplificativa delle difficoltà presenti nell'assunzione, da parte degli educatori, di funzioni parentali appare la seguente:

La Comunità Gruppo appartamento è una struttura che nasce con lo scopo di offrire un'esperienza di accompagnamento all'autonomia a ragazzi che, terminato il periodo in comunità a seguito del raggiungimento della maggiore età, usufruiscono dell'istituto del prosieguo amministrativo.
Al momento della supervisione la comunità è rappresentata da un unico appartamento situato a poche centinaia di metri dalle abitazioni private di entrambi gli educatori, un uomo ed una donna, incaricati di gestire il progetto.
Entrambi appartengono all'équipe di operatori della comunità di provenienza dei due ragazzi ospiti: Manlio e Fabrizio.
Fabrizio lavora presso una cooperativa che fornisce opportunità lavorative a giovani che hanno la necessità di acquisire un mestiere. Viene descritto come un ragazzo chiuso e taciturno, non facile al contatto, trincerato dietro un atteggiamento da "duro". Manlio, 18enne, lavora presso una piccola ditta di confezionamento, viene presentato come un ragazzo timido e riservato.
I rispettivi contesti di provenienza sono caratterizzati da relazioni familiari fortemente carenzianti, le uniche figure genitoriali presenti sulla scena sono le madri, entrambe portatrici di un grado elevato di problematicità personale che non ha mai permesso loro di occuparsi adeguatamente dei figli.
Gli educatori portano il problema dell'acquisizione delle autonomie relative all'amministrazione del denaro ed alla gestione dell'appartamento, descrivendo una situazione nella quale è assente un significativo investimento nel contesto amicale, contesto peraltro poco ricercato: "...c'è una discoteca poco distante da qui, ma non hanno mai chiesto di andarci..." affermano gli educatori per sottolineare la situazione di isolamento relazionale in cui vivono i due ragazzi.
Sono presenti dinamiche di rivalità e gelosia tra Manlio e Fabrizio che paiono aspirare ad una dimensione esclusiva nel rapporto con gli educatori.
Questi ultimi appaiono molto coinvolti e decisamente protettivi, condizione della quale si dicono consapevoli. Riportano le loro difficoltà a contenere l'ansia legata alla percezione dell'assenza in Fabrizio e Manlio di una più spiccata attitudine all'autonomia, assenza che li porta ad esprimere una marcata sollecitudine e vicinanza che si manifesta attraverso la partecipazione a diversi momenti della loro giornata.
Gli operatori si sentono investiti di una grande responsabilità come ben si coglie nelle loro parole: "...è facile dirlo, ma farlo... se Manlio mi chiama e gli dico di no, sai come sto male? Mi passa davanti tutto il film della sua vita."
Nel corso della supervisione emerge come, favorita da un clima di intimità pseudofamiliare, si sia ricostruita simbolicamente una coppia genitoriale accuditiva, oggetto di richieste fusionali e risarcitive. I ragazzi paiono esprimere la necessità di recuperare rapporti di dipendenza, attribuendo alla coppia di educatori le qualità buone dell'oggetto e, attraverso un meccanismo di scissione, proiettando all'esterno le qualità cattive dislocate nel "resto del mondo", massicciamente disinvestito.
Le difficoltà di emancipazione reciproca in atto sembrano da un lato disattivare le qualità percettive degli educatori, che non paiono in grado di cogliere le competenze sociali che i ragazzi dimostrano in aree della loro vita meno esposte, dall'altro immobilizzare i processi di pensiero non permettendo loro di attribuire un valore adeguato a quanto Fabrizio e Manlio sono in grado di poter fare.
Ciò che non appare immediatamente afferrabile da parte degli educatori è la portata del contributo di interventi eccessivamente accuditivi alla persistenza della condizione di isolamento dei due ragazzi.
Nel corso della supervisione è emersa la necessità di rivedere le premesse contestuali del progetto comunitario fortemente sbilanciato verso una paralizzante dimensione di intimità familiare, iniziando, per esempio, a programmare l'inserimento di altri ragazzi nell'appartamento.

Riprendendo il tema della genitorialità mi preme sottolineare come uno dei pericoli rilevabili con grande frequenza nelle comunità per minori è la collusione degli operatori con fantasie di disconoscimento delle origini da parte degli utenti (Taccani, 2001).
Nella profonda ambivalenza che caratterizza il vissuto di bambini e ragazzi inseriti in comunità possono essere presenti delle fasi all'interno delle quali essi giungono a cogliere che la realtà che stanno sperimentando è un'offerta qualitativamente migliore in termini di accudimento e opportunità concrete rispetto a quella della famiglia di origine. Possono nascere allora fantasie di filiazione ed emergere nel contempo una profonda rabbia diretta verso i genitori, incapaci di mettere in campo risorse equivalenti.
L'illusione derivante dal falso regalo del ripudio dei genitori (Charmet, 1998) può alimentare negli operatori la fantasia di costruire una famiglia istituzionale alternativa ed ideale, scevra dalle difficoltà presenti nel nucleo di provenienza. Lo scenario parentale rischia così di essere lasciato sullo sfondo o allontanato: l'assenza di un significativo coinvolgimento familiare può assumere le sembianze di comunicazioni formali ma sostanzialmente vuote di progettualità, pericolosi attacchi ai genitori, talvolta clamorose estromissioni.
Si rivela invece sempre più determinante oltre che per l'Ente affidatario anche da parte dell'istituzione che ospita il minore predisporre una forma di partecipazione ed interessamento della famiglia alle nuove condizioni di vita del minore, pur nel rispetto del provvedimento di allontanamento.
L'architettura dei provvedimenti di intervento nei confronti dei minori non può prescindere dal riconoscimento dell'appartenenza primaria e dalla promozione, ove possibile, della continuità del legame.
Per i minori l'inserimento in comunità significa affrontare intense ansie di separazione e vissuti traumatici. Ciò che si rende evidente sono le numerose difficoltà dei ragazzi ad accedere all'offerta di un plusvalore affettivo ritenuto inaccettabile poiché fonte di profondi sensi di colpa nei confronti della propria famiglia. L'atteggiamento distanziante si manifesta anche attraverso condotte patologiche difensive e comportamenti regressivi che, se da una parte sottendono richieste di cure, dall'altro confermano la titolarità del ruolo di "malato" e l'assolvimento dei genitori dalle loro responsabilità.
L'investimento nella relazione educativa da parte dei minori, implica inoltre l'instaurazione di una relazione di dipendenza che può essere vissuta come minacciosamente regressivizzante e rievocatrice di esperienze traumatiche sperimentate nelle relazioni primarie. L'esposizione a nuovi legami e separazioni può allora non essere tollerabile e, in taluni casi, determinare unicamente un adattamento di superficie.
Il vincolo biologico e simbolico con le figure parentali non può reggere tradimenti e proposte delegittimatorie anche quando queste sembrano elicitate dagli stessi utenti o dalle famiglie.
Nella realtà della comunità educativa ciò che si osserva con frequenza è che il legame esclusivo di appartenenza, se non adeguatamente salvaguardato dagli operatori, viene tutelato dai membri della famiglia stessa, spesso clandestinamente, dando luogo a movimenti di opposizione e sabotaggio dei progetti educativi.
Appare interessante rilevare come un numero significativo di provvedimenti nei confronti dei minori si arenino alla fase di protezione senza riuscire ad evolvere in un fase più trasformativo-riparativa. Tale fenomeno suggerisce una riflessione connessa a quanto stiamo discutendo: l'allontanamento è, di fatto, un'azione che sancisce il fallimento delle relazioni genitori-figli, ciò che viene dolorosamente esperito dai membri familiari viene socialmente ratificato attraverso l'attuazione del provvedimento di allontanamento.
Da quel momento si viene a creare quello che Charmet (Charmet, 1998) chiama un nuovo soggetto antropologico: "il minore con decreto", si costruisce una realtà caratterizzata da un'infinita fase prognostica circa la recuperabilità genitoriale e si genera un contesto all'interno del quale si articola, di fatto, un'offerta educativo/terapeutica alternativa alla famiglia.
Prima di terminare questo lavoro desidero esporre alcune riflessioni in merito alla fase conclusiva del processo di supervisione.
L'intervento di supervisione, seppur trovi la sua realizzazione in un tempo non determinato, è tuttavia soggetto a conclusione.
I criteri ai quali fare riferimento per considerare esaurita la funzione dell'intervento sono evidentemente connessi agli obiettivi, di cui abbiamo parlato in precedenza, e previsti all'interno del contratto concordato nella fase preliminare.
Credo si possa affermare che le condizioni di un gruppo di operatori sono percepibili, in primo luogo, a partire dal clima nel quale si svolge la vita comunitaria.
Ponendosi in ascolto delle modalità con le quali gli educatori espongono gli eventi nel corso degli incontri, della qualità emotiva della narrazione, di ciò che sono in grado di cogliere nella relazione con i minori emergono alcuni indici qualitativi quali la capacità di mantenersi in contatto con i propri movimenti psichici, la disponibilità emotiva nell'incontro con l'"altro", la flessibilità del pensiero.
L'evoluzione delle rappresentazione mentali del gruppo in relazione alla figura del supervisore ed al significato della sua funzione può configurarsi quale ulteriore indice valutativo.
Nel corso dei primi incontri le aspettative inconsce del gruppo nei confronti del supervisore sono che egli si faccia carico di una molteplicità di angosce prendendo prioritariamente su di sé le funzioni di pensiero.
Tale richiesta da una parte pare essere espressione di bisogni regressivi di dipendenza, dall'altra pare veicolare l'ansia dell'incontro con un interlocutore sconosciuto lasciando emergere, in una fase iniziale, la fantasia che egli in possesso di un'esperienza istituzionale insufficiente o al contrario eccessivamente consolidata.
In un momento successivo il gruppo, fecondato da un lavoro di attivazione di risorse, si avvia a proporsi quale dispositivo di contenimento ed elaborazione delle ansie degli operatori aiutandoli ad esprimere, nella relazione educativa, una maggior tolleranza e flessibilità.
Il supervisore, in relazione alla restituzione al gruppo delle sue caratteristiche di funzionalità, viene progressivamente ad assumere una posizione più declinata su un versante protettivo del lavoro in corso, garantendo con i suoi interventi l'andamento di un processo al quale contribuisce con modalità meno dirette. In questa fase la percezione del significato della presenza del supervisore subisce delle modificazioni, ridimensionandosi in relazione all'acquisizione di una crescente fiducia nelle possibilità supportive del gruppo.
Una volta consolidata da parte degli operatori l'interiorizzazione del modello di pensiero costruito nel processo di supervisione l'intervento è destinato ad esaurirsi.
Nel corso della vita istituzionale di una comunità possono venir avviate diverse esperienze di supervisione che, lasciando una significativa traccia, contribuiscono a formare un corpus di conoscenze tecnico-metodologiche; gli interventi sono in grado, se condotti con sufficiente rigorosità, di promuovere nelle èquipe elementi di novità, rilanciando la capacità creativa.

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Martini G. (1998) (a cura di) "La supervisione come spazio intermedio mediatore di pensiero, di storie, di legami tra famiglie e curanti. Intervista a Aldo Bamà, Luigi Boccanegra, Simona Taccani" in INTERAZIONI 2-1998/12 ed. F.Angeli Milano

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Taccani S. (2001) intervento al seminario "Il processo di supervisione e le sue coordinate"
organizzato da CERP il 31/3/2001


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