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PSYCHOMEDIA
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Psicoterapia - Documenti e Comunicati



Conversazione su "I Femminielli" con Nicola Sisci

Maurizio Mottola



Da martedì 10 a giovedì 12 novembre 2009 si è svolta alla Galleria Toledo di Napoli I Femminielli - (id)entità e corpi sociali - Rassegna di arte, cinema e teatro sul tema dei femminielli napoletani, promossa dal Dipartimento di Neuroscienze e dal Dottorato di Ricerca in Studi di Genere dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Allo psicologo psicoterapeuta e regista Nicola Sisci, tra i curatori della rassegna, abbiamo posto alcune domande.
Chi è il "femminiello", personaggio tipicamente partenopeo?
Vorrei innanzitutto sottolineare come "il femminiello", inteso nella sua accezione originaria, sia oggi una definizione identitaria in cui solo pochissimi soggetti, ormai anziani, potrebbero riconoscersi. L'estinzione del fenomeno, o meglio la sua trasformazione, ha probabilmente tra le sue cause l'evoluzione sociale, in termini, da una parte, di una moltiplicazione delle diversità identitarie, dall'altra di una spinta globale all'omogeneizzazione culturale. Anche la trasformazione della struttura urbanistica e dei quartieri popolari della città di Napoli, dopo il terremoto del 1980, ha probabilmente contribuito alla scomparsa del fenomeno. Chi è il femminiello? Cosa significa la parola "femminiello"? Definire il femminiello semplicemente come un omosessuale o un travestito è improprio e riduttivo; allo stesso modo definirlo, come è usuale nella letteratura antropologica, "travestito istituzionalizzato" o, come fa l'antropologa Gabriella D'Agostino "soggetto biologicamente maschio che realizza la propria identità assumendo il comportamento femminile", significa soffermarsi di volta in volta su un aspetto parziale. La forte problematicità del campo che stiamo cercando di esplorare è dunque più che evidente, fin dal tentativo preliminare di formulare una definizione del fenomeno oggetto di studio. La parola "femminiello", vero e proprio ossimoro, si pone infatti su un irto crinale, che vede da una parte evidenti ambiguità lessicali e dall'altra questioni ontologiche molto complesse, configurandosi come quella che Matte Blanco avrebbe definito una "antinomia". Questa rappresentazione "bilogica" del femminiello, inclusa nel corpo sociale napoletano, articolata tra fascinazione/attrazione da un lato e distanziamento/isolamento dall'altro, sembra riconfermarsi anche nella contestualizzazione socio-geografica di tale "character",all'interno dei Quartieri Spagnoli, poveri e popolari, stretti tra Corso Vittorio Emanuele e Via Roma, le vie "bene" e borghesi della città. A Napoli i principali elementi di struttura discriminanti la figura del femminiello sono verosimilmente condivisi e costituiscono specifiche modalità di organizzare in termini di contenuti e di spiegazioni familiari ciò che, al contrario, è difficilmente spiegabile e comprensibile alla coscienza. Da un punto di vista lacaniano il femminiello potrebbe rappresentare per gli altri, uomini e donne, una deroga al divieto, la possibilità, rinvenuta nel simile, di essere altro da ciò che i codici simbolici prescrivono con la loro trascendenza sul piano del reale; ma d'altra parte potremmo, sempre per ipotesi, pensare che, alla fascinazione/attrazione, fa da controparte la spinta a segregare, a tenere serrato in una delimitazione spaziale circoscritta, i quartieri popolari, il ventre di Napoli, ciò che di più perturbante esista: l'ermafrodito, l'Uno, l'incontro con la realizzazione dell'onnipotenza-impotenza originaria e le relative angosce, descritte da Melanie Klein.

In che consistono gli antichi riti della "candelora", della "riffa", del "matrimonio masculino" e della "figliata"?
E' modo di dire diffuso a Napoli: "femminielli si nasce", come se nell'immaginario popolare quella del femminiello fosse una sorta di diversità naturale. In realtà possiamo supporre che la società tradizionale avesse la necessità di "produrre" il femminiello, come a rassicurarsi che l'ambiguità fosse riposta tutta da qualche parte, nel "femminiello" appunto, sorta di eccezione adatta al riconfermarsi dei ruoli di genere dominanti. I riti da lei menzionati nella domanda, troppo complessi nella loro fenomenologia per essere descritti in poche righe, possono essere considerati come aspetti attivi di integrazione sociale, messi in atto da parte dei femminielli con lo scopo di affermare e, sempre citando Gabriella D'Agostino, "sancire ritualmente la loro appartenenza di genere"; tra questi, quelli di maggiore rilevanza sono la "figliata" o "partorenza", lo "spusarizio", la "riffa" ed il pellegrinaggio a Montevergine. L'aspetto che ritengo più importante risiede nel fatto che tutta la società popolare napoletana partecipava o assisteva a questi riti, non solo i femminielli. Fenomeni come questi dimostrerebbero che esistono aree della mente indifferenziate, fortemente suscettibili a quel tipo di emozione che Sigmund Freud avrebbe definito "sentimento oceanico", ed esistono in tutte le persone, non solo nei femminielli; la possibilità di condividere questi aspetti in una funzione rituale collettiva, introducendo la categoria del "come se", potrebbe rappresentarne una forma di "contenitore" sociale.
Da psicologo psicoterapeuta come valuta l'omofobia e tale sua professione come interagisce con l'attività di regista? Fino a qualche decennio fa molti professionisti dell'area "psicologica-psicoterapeutica-psichiatrica" credevano ancora che l'omosessualità fosse una malattia da curare. Nel corso dei secoli, il continuo rimodellamento storico-culturale della rappresentazione di omosessualità ha portato nelle società occidentali ad una massiccia "interiorizzazione" del tabù omosessuale. Spesso resto stupito, durante la mia esperienza clinica con persone LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali), nello scoprire quanto l'interiorizzazione di tale tabù agisca inconsciamente anche in persone con tendenze omosessuali che - non reggendo l'ambivalenza che tale posizione implica a livello identitario - sembrano muovere slittamenti inconsci verso altre "soluzioni identitarie". Le persone transessuali che incontro nel mio lavoro di psicologo clinico sembrano evidenziare una netta presa di distanza dall'omosessualità ed una negazione del desiderio omoerotico, molto vicine alla posizione omofobica della "società eterosessuale". Tale soluzione, di fatto, consente ai soggetti in questione di "bypassare" il tabù, rientrando - tramite la pratica dell' intervento sul corpo - in ciò che, solo in apparenza (involucro corporeo), costituisce la "normalità" eterosessuale. La devianza dal comportamento sessuale "normale" sembra risolversi annullando le differenze e riproponendo gli stereotipi de "l'uomo perfetto" e de "la donna perfetta", "pattern" identificatori di marca sessista, che si ritrovano oggi nella maggior parte dei soggetti transessuali. Penso che per curare l'omofobia (e altre forme di patologie sociali, come la xenofobia) sia necessario promuovere un impegno eminentemente culturale, teso a dare particolare attenzione ai vinti, ai vulnerabili, ai "resi fragili" nei processi sociali. D'altra parte sono fermamente convinto che il progresso scientifico e culturale sia inarrestabile e -come nel recente passato si sono affermate idee di eguaglianza che riguardano le donne, le razze, le religioni- altrettanto accadrà per quel che riguarda le idee concernenti l'orientamento sessuale. Naturalmente ciò implica che dalle credenze degli esseri umani siano rimosse le residue vestigia di ignoranza, pregiudizio e discriminazione che ancora sopravvivono circa l'orientamento sessuale. Non è semplice rispondere alla sua domanda riguardo come la mia professione di psicologo influisca sulla mia attività di regista e documentarista. In un certo senso considero l'attività del regista (intesa come produzione di senso in un film) molto vicina a quella che lo psicoanalista Wilfred Bion avrebbe definito "Funzione alfa", cioè la possibilità di contenere in uno spazio mentale e dare senso al materiale psichico grezzo, per renderlo pensabile e comunicabile. In questo caso il materiale grezzo non è rappresentato da emozioni o da elementi beta, ma dalle sequenze video e dai suoni che un documentarista raccoglie nel corso del suo lavoro. Inoltre ritengo che la produzione filmica e documentaristica possa coadiuvare in maniera decisiva lo svolgimento e poi la divulgazione della ricerca scientifica. In fondo questa rassegna può essere considerata come il momento divulgativo dei risultati di 5 anni di ricerche, che, insieme con il gruppo di colleghi del "Progetto Orlando", ho portato avanti nella mia collaborazione con il Dipartimento di Neuroscienze della "Federico II". Colgo l'occasione per esprimere la mia gratitudine al Direttore del Dipartimento, professor Paolo Valerio, senza la cui fiducia e dedizione sarebbe stato impossibile realizzare tutto ciò.


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