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Psicoterapia - Documenti e Comunicati



Uso e abuso della diagnosi psichiatrica Conversazione con Fabrizio Starace

Maurizio Mottola



Nell’ambito della Settimana della Salute Mentale, lunedì 24 ottobre 2011 si è svolta a Modena la lezione magistrale Uso e abuso della diagnosi psichiatrica, tenuta da Allen Frances, professore emerito alla Duke University negli Stati Uniti, uno degli psichiatri di livello mondiale, la cui fama è legata alla direzione della quarta edizione del Diagnostic and statistical manual of mental disorders (DSM), la classificazione dei disturbi mentali usata dai medici di tutto il mondo (e di cui nel 2013 -a quasi dieci anni di distanza- è prevista la pubblicazione di una nuova versione). Allo psichiatra Fabrizio Starace, Direttore del Dipartimento Salute Mentale e Dipendenze Patologiche dell’Azienda Unità Sanitaria Locale (AUSL) di Modena, che ha promosso l’evento, abbiamo posto alcune domande.

Di che cosa ha trattato la lezione magistrale Uso e abuso della diagnosi psichiatrica, tenuta da Allen Frances?

La lezione di Allen Frances è stata centrata sul tema della diagnosi in psichiatria, affermandone da un lato la necessità, dall’altro il pericolo, che attraverso l’immotivato ampliamento della nosografia che il DSM-V sembra voler proporre si tenda a “psichiatrizzare” una larga parte di comportamenti umani. Occorre ricordare che le definizioni contenute nel DSM sono “costrutti”, utili per aumentare l’attendibilità della diagnosi (ossia la probabilità che di fronte allo stesso caso psichiatri diversi formulino la stessa diagnosi), che non rappresentano le malattie per quello che sono, ma per come noi le vediamo. In altri termini, la presenza di rigorosi criteri operativi nulla ci dice sulla validità della diagnosi stessa (ossia della capacità di cogliere effettivamente il fenomeno che si diagnostica); Allen Frances ha anche ricordato che la definizione stessa di disturbo mentale è vaga e non fornisce indicazioni sul confine tra normalità ed anormalità; il confine dipende da variabili culturali, economiche, sociali per nulla intrinseche alla malattia stessa.

Come mai, pur essendo cambiato l’atteggiamento culturale ed operativo nei confronti della malattia mentale, Allen Frances parla di “inflazione diagnostica”, “medicalizzazione della normalità e delle differenze individuali”, “uso eccessivo di trattamenti psicofarmacologici”, “ulteriore discriminazione del paziente psichiatrico”?

Il pericolo insito nel lavoro di costruzione del DSM-V sta proprio nella moltiplicazione delle categorie diagnostiche, ed al conseguente rischio di medicalizzazione e di sovra-prescrizione farmacologica immotivata. Si pensi alle condizioni depressive: ampliare i limiti diagnostici, includendo alcuni aspetti del lutto, comporterà la formulazione di un maggior numero di diagnosi. Già oggi negli USA il 10% della popolazione adulta assume farmaci antidepressivi, per una spesa complessiva che tocca i 10 miliardi di dollari; eppure le indagini epidemiologiche indicano che solo 1/3 delle persone che presentano una depressione grave sono in terapia: evidentemente gli altri sono trattamenti inappropriati, che avrebbero avuto un esito positivo anche senza alcun intervento farmacologico. All’inappropriatezza ed ai costi immotivati vanno aggiunti gli inevitabili effetti collaterali ed un complessivo aumento del livello di stigma. Una delle proposte formulate nel DSM-V è di includere tra le diagnosi quella di “Rischio Psicotico”: ciò comporterebbe un incremento del numero di soggetti falsi positivi (oltre l’80%), che verrebbero trattati inutilmente (senza parlare dei costi e degli effetti collaterali) e dell’etichetta che si porterebbero addosso, forse per tutta la vita. Allen Frances ha messo in guardia dal lasciare solo agli esperti la decisione sui criteri diagnostici: spesso si “innamorano” dei disturbi di cui sono esperti e perdono una visione d’insieme sul mondo reale.

Lei ha lavorato a Napoli prima di Modena: che differenze sta constatando nell’organizzazione e nella qualità dell’assistenza psichiatrica nei due differenti contesti socio-sanitari e culturali?

Sarebbe troppo lungo entrare nel dettaglio delle differenze: in estrema sintesi, esse non stanno tanto nella quantità di fondi destinati alla salute mentale, quanto nella capacità di trasformare gli investimenti in qualità assistenziale, organizzativa e gestionale corrispondente ai bisogni delle persone. A tal fine esiste un livello di partecipazione ed interazione costante con i portatori di interessi, garantito dalla presenza in ogni DSM di un comitato utenti familiari ed operatori, che si riunisce a cadenza regolare e tratta gli elementi di criticità e i miglioramenti da adottare. Vi è inoltre una adeguata e competente rappresentazione dei temi della salute mentale presso gli uffici regionali, che svolgono attività di coordinamento ed indirizzo delle attività previste dagli atti di programmazione e ne verificano con reportistica costante l’andamento. Aggiungo infine che vi è una generale percezione della sanità pubblica come “bene comune”, cui ciascuno partecipa e contribuisce. Sempre più frequenti sono i casi di persone che si trasferiscono, anche dalla Campania, per poter assicurare ad un proprio congiunto l’accesso alle cure. Forse questa domanda andrebbe posta a loro.


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