PSYCHOMEDIA
Telematic Review

Area Problemi di Psicoterapia (a cura di Paolo Migone)

 

Il Chigaco Institute of Psychoanalysis
e il sesto periodo di sviluppo
della tecnica psicoanalitica (1950)
Kurt R. Eissler

(Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, XVIII, 3: 5-33 [I parte], e 4: 5-35 [II parte])




Introduzione di Paolo Migone

Nel 1984, in un editoriale della rivista Psicoterapia e Scienze Umane, Pier Francesco Galli così introduceva la pubblicazione di questo classico articolo di Eissler del 1950:

"Abbiamo sempre sostenuto il valore della comprensione storica delle indagini psicoanalitiche e della ricomposizione dei punti di vista diversi seguendoli nella loro evoluzione. Lo consideriamo un elemento imprescindibile della formazione psicoanalitica, come sa chi ha seguito le nostre linee indicative. L'attenzione ai perché delle soluzioni teoriche, e degli scontri che hanno determinato, ha per noi una rilevanza diversa rispetto alla tendenza attuale a liquidare con argomentazioni storicistiche alcuni cardini del pensiero freudiano… (…) Proprio perché ci occupiamo da molto tempo di Scienze Umane, non ci convince una operazione che spesso evita il confronto con la crisi metodologica e di fondazione teorica che attraversa questo campo. (…)
Il lavoro di Eissler, che appare in questo numero, è del 1950. Come è noto ai nostri lettori, nel n. 2/1981, abbiamo pubblicato il suo scritto fondamentale sui «parametri» della tecnica [questo articolo è stato pubblicato su PSYCHOMEDIA]. Si trattava di un contributo teorico-clinico del 1953 che ha costituito un punto di riferimento per qualsiasi approfondimento teoreticamente fondato sulla tecnica psicoanalitica. Questi due lavori di Eissler vanno inquadrati nel clima di scontro sul problema della tecnica, iniziato in ambito psicoanalitico negli Stati Uniti nell'immediato dopoguerra. Essi hanno un valore storico e di attualità molto concreto" (Psicoterapia e Scienze Umane, 3/1984, pp. 3-4).
Nell'editoriale del numero successivo, presentando la seconda parte dell'articolo, così continuava: "Il lettore avrà modo così di familiarizzarsi con la forza polemica di questo autore e soprattutto con le argomentazioni fondamentali della discussione intorno alla 'esperienza emozionale correttiva' che ha segnato una grande parte della ricerca sulla specificità della tecnica psicoanalitica" (Psicoterapia e Scienze Umane, 4/1984, p. 3).

E' nello stesso spirito che qui ripubblichiamo questo fondamentale articolo di Eissler, e appunto come commento critico allo scritto di Franz Alexander "La esperienza emozionale correttiva" del 1946. Come sottolineato nell'editoriale, discute tematiche ancora attuali per il dibattito psicoanalitico, difficilmente liquidabili. Il duro scontro teorico tra Eissler e Alexander qui è senza mezzi termini, con una grande passione per le idee, in cui Eissler appare come uno degli esempi più alti e sofisticati del pensiero psicoanalitico classico.

La edizione originale di questo articolo si intitola "The 'Chicago Institute of Psychoanalysis' and the sixth period of the development of psychoanalytic technique", ed è uscita su The Journal of General Psychology, 1950, 42: 103-157 (fu ricevuto dalla redazione l'8-10-49). E' pubblicato da Heldref Publications, 1319 18th Street N.W., Washington, D.C. 20036-1802, USA, Copyright 1950, e viene qui ripubblicato su PSYCHOMEDIA col permesso della Helen Dwight Reid Educational Foundation. La traduzione italiana, a cura di Maria Noemi Plastino (Il Chicago Institute of Psychoanalysis e il sesto periodo dello sviluppo della tecnica psicoanalitica), è uscita su Psicoterapia e Scienze Umane, 1984, XVIII, 3: 5-33 (I parte), e 4: 5-35 (II parte). Ringraziamo la casa editrice Franco Angeli e la Helen Dwight Reid Educational Foundation per i permessi di pubblicazione sia in italiano che in inglese. Kurt Eissler ci ha concesso il suo permesso proprio poche settimane prima della sua morte, avvenuta il 17-2-99 (per alcune notizie biografiche su Kurt R. Eissler, si rimanda alla introduzione al suo articolo del 1953).


Il Chigaco Institute of Psychoanalysis
e il sesto periodo di sviluppo della tecnica psicoanalitica (1950)
 

Kurt R. Eissler

A. Introduzione

Non si può fare a meno di valutare l'attuale situazione della psicoanalisi altrimenti che come una crisi. Che si consideri tale crisi il risultato di una ricerca sovrabbondante ma valida in una molteplicità di direzioni, o come il risultato di un progressivo deterioramento degli standard scientifici, può dipendere dall'ottimismo o dal pessimismo dell'osservatore. Ma nell'un caso come nell'altro sentiamo la necessità di tentare di dare una valutazione della situazione almeno per quanto riguarda un aspetto della psicoanalisi.

Si sarebbe potuto prevedere che la morte di Freud avrebbe aperto un lungo periodo di «elaborazione terapeutica» delle sue scoperte, considerata la profusione di ricerche non condotte a termine da lui lasciate alla posterità. Ma al contrario sembra che, attualmente, il grande progresso che la psicologia gli deve dovesse essere in un primo Momento annullato prima di poter essere poi, in un secondo momento, forse permanentemente integrato. Nel suo lavoro Per la storia del movimento psicoanalitico Freud (1914c) ha scritto che nei primi anni pensava che la scienza non avrebbe fatto caso alle sue scoperte, fino a che, decenni più tardi, qualcuno avrebbe riscoperto «le stesse cose, adesso intempestive». Dopo la lettura del libro di Alexander, French et al. (1946) sulla Psychoanalytic Therapy, la prima parte delle supposizioni di Freud sembra una profezia. Questo libro immette la crisi, che fino a questo momento aveva interessato principalmente il campo della teoria, nella pratica mettendo in questione il fondamento, stesso di ciò che è stato il terreno comune dei tentativi terapeutici, malgrado tutti i disaccordi esistenti tra gli analisti in altri aspetti.

Alexander suddivide lo sviluppo della terapia psicoanalitica in cinque periodi: ipnosi catartica, suggestione da veglia, libera associazione, nevrosi da traslazione e rieducazione emozionale. Alexander concede la sua ammirazione al grande progresso della terapia psicoanalitica nel corso di queste cinque fasi, principalmente sotto la guida di Freud. Ma egli è certo del fatto che la trasformazione del «dramma in un atto» così come ha luogo nella catarsi, «in un procedimento avente come meta il raggiungimento di cambiamenti permanenti nella capacità funzionale dell'Io, mediante un training emozionale in lenta progressione» (Alexander, French et al., 1946, p. 18), non sia stata ancora completata. A suo parere la tecnica attuale è ancora inquinata dall'impurità delle prime fasi evolutive. Quindi «l'intento principale di questo libro è accelerare questa trasformazione, e incoraggiare lo sviluppo di forme più pertinenti di psicoterapia» (Alexander, French et al., 1946, p. 18). In ogni modo, io credo che se la nuova tecnica sviluppata da Alexander e French con la collaborazione dello staff del Chicago Institute of Psychoanalysis fosse accettata come valida dai centri più importanti di ricerca psicoanalitica, ciò ci costringerebbe a segnare l'inizio di una sesta fase. Dubito tuttavia che il futuro storico della psicoanalisi potrebbe scoprire in questa fase «la logica immanente delle leggi evolutive di una scienza» (Alexander, 1925a, p. 114) la quale, dopo tutto, mette in connessione fasi successive dello sviluppo scientifico.

In realtà, se dovesse succedere che la tecnica psicoanalitica si riorienti secondo le linee presentate in questo libro, lo sviluppo di tale tecnica avrebbe operato una svolta estremamente disorganica, più o meno sconnessa con le fasi precedenti. Il libro di Alexander e French vuol essere una provocazione per coloro che ancora credono che Freud, nelle sue teorie sulla mente umana e nella sua tecnica di ricerca e di terapia, abbia non soltanto posto i fondamenti di una psicologia scientifica, ma abbia anche creato uno strumento con il quale liberare l'individuo dalle catene dei suoi antenati e della sua società. Il libro di Alexander e French devia a tal punto dalle grandi potenzialità inerenti all'opera di Freud, da meritare una discussione dettagliata che, tuttavia, richiederebbe una trattazione più lunga dell'originale. La sventura dell'errore risiede nel fatto che, persino in condizioni ottimali, sono necessarie almeno due affermazioni per confutare l'errore di una.

B. Definizione di nevrosi

E' forse opportuno cominciare con l'esame dettagliato della definizione di nevrosi di Alexander. Egli ne fornisce due, che sono identiche l'una all'altra, per cui mi limiterò alla discussione della seguente:

"La psiconevrosi", scrive Alexander, "è il fallimento dell'individuo nell'affrontare con successo una data situazione, il fallimento nel trovare una gratificazione socialmente accettabile per bisogni soggettivi, in determinate circostanze" (Alexander, French et al., 1946, p. 8).

Tale definizione si riferisce essenzialmente alla relazione di un individuo con il successo e la gratificazione. Se una persona ha successo, e si sente gratificata, tale condizione preclude l'esistenza ad una nevrosi, secondo la definizione data; parimenti, se una persona fallisce e si sente insoddisfatta, questi sono i due fattori significanti che indicano una condizione nevrotica. E' facile accumulare prove per confutare questa definizione di Alexander. Basta soltanto citare il tipo nevrotico clinicamente ben noto che procura a sé stesso una «gratificazione socialmente accettabile» sotto forma di castelli in aria, o di una speranza illusoria in una gratificazione futura che non interferisca con la sua capacità di affrontare con successo la realtà esterna, o che possa addirittura spronare al successo i suoi sforzi. Il grande gruppo di nevrotici, quali molti ossessivi, i cui sintomi li fanno adattare a determinati modelli sociali, potrebbe costituire un'ulteriore prova clinica dell'insostenibilità della definizione di Alexander. Inoltre, l'insuccesso e l'insoddisfazione non sono indici di una nevrosi. Un filantropo che aspiri all'eliminazione della fame, o del lavoro infantile, o della pena capitale, fallirà e sarà incapace di «trovare una gratificazione socialmente accettabile» per i suoi bisogni, senza essere un nevrotico. Non è questa la sede per analizzare il rapporto esistente tra la nevrosi, il fallimento, e la frustrazione soggettiva; ma si può dire però questo, e cioè che la nevrosi è una delle reazioni possibili ad un fallimento o ad una frustrazione. Se una persona fallisce nel gratificare la propria ostilità, e invece la padroneggia, non è un nevrotico; ma se la sposta, o sviluppa angoscia di difesa, allora può essere affetto da un sintomo nevrotico.

Nella definizione di Alexander si possono notare due caratteristiche. La prima è il suo punto di vista esclusivamente behavioristico. Le condizioni di soddisfazione e di successo sono, in ultima analisi, termini behavioristici. Si vedrà che la nuova tecnica di Alexander e dei suoi collaboratori può essere accettata soltanto sulla base di un behaviorismo di cui in questo caso si è fatto un uso errato. La nevrosi è un concetto della psicologia che riguarda le reazioni dell'Io sotto l'impatto di un conflitto. La definizione di Alexander, che esime dal concetto di conflitto, non appartiene al regno della psicologia, se la psicologia è definita nei termini degli aspetti strutturali e dinamici di Freud [Nota 1: E' interessante paragonare la nuova definizione behavioristica di Alexander con una definizione precedente: «Ogni psiconevrosi è un tentativo di padroneggiameno autoplastico dell'istinto... Il tentato padroneggiamento auto-plastico e regressivo dell'istinto allevia soltanto una parte del sistema, e conduce a nuove tensioni nell'altra» (Alexander, 1925b, p. 16, corsivo di Alexander). L'interessante questione di se Alexander abbia adattato la sua nuova tecnica ad una nuova teoria o viceversa può essere soltanto oggetto di congetture. Il lettore converrà in ogni caso, quando entrerà in contatto con la nuova tecnica, sul fatto che Alexander non ha predetto correttamente il futuro quando ha scritto, nello stesso saggio, che «la dissoluzione del Super-Io è e continuerà ad essere il compito di tutta la futura terapia psicoanalitica» (Alexander, 1925b, p. 32)]. L'approccio behavioristico di Alexander diviene ancora più chiaro nella sua elaborazione di quella definizione. Egli ritiene che «quando la situazione esige una forza d'integrazione maggiore di quanto l'lo possieda, si sviluppa una nevrosi» (Alexander, French et al., 1946, p. 8). Così Alexander riduce la concezione dinamica di Freud della nevrosi ad un equilibrio di due soli gruppi di forze (le une esterne e le altre interne); tale equilibrio è appena sufficiente a spiegare i meccanismi di fuga o di aggressione primitiva; non è affatto giustificabile, dal punto di vista clinico, ridurre l'eziologia di una nevrosi ad un campo così limitato. Solo rompendo con l'aspetto genetico di Freud (rottura indicata dalla teoria e dalla prassi degli autori) Alexander poteva giungere alla conclusione che una nevrosi possa svilupparsi indipendentemente da un passato specifico, e risultare dall'equilibrio di forze determinatosi in un dato momento nella vita del paziente. Il suo ragionamento secondo cui «stati nevrotici acuti possono verificarsi in persone il cui lo ha sempre funzionato bene in passato» (Alexander, French et al., 1946, p. 8), non può essere accettato a meno che non sia dimostrato in numerosi casi clinici.

E inoltre, che si intende per un lo che abbia sempre funzionato bene? Alexander afferma di ricercare, in ogni paziente, quel momento nella sua vita in cui egli ha iniziato a rifiutarsi di crescere. Qualsiasi materiale regressivo il paziente riferisca che sia antecedente a questo momento, viene considerata da Alexander una resistenza, e non una penetrazione più profonda nelle origini della nevrosi (Alexander, French et al., 1946, p. 29). Tale concezione statica della nevrosi come avente origine in un determinato istante temporale, è il risultato della misurazione del «buon funzionamento dell'Io» esclusivamente in termini di acquiescenza esterna con situazioni di realtà.

Fin dal 1908 Freud ha dimostrato la lenta crescita di una nevrosi manifesta, con le sue numerose fasi preparatorie; questa fase pre-clinica si verifica molto prima del momento in cui appare la disfunzione dell'Io. Soltanto nel corso di un'indagine genetica allargata, cioè nel corso di un'analisi prolungata, si può determinare quando e dove si siano originati quei fattori che risultano nella disfunzione dell'Io. L'approccio behavioristico di Alexander, che considera la disfunzione dell'Io come il punto di partenza della nevrosi, e l'aspetto genetico, che considera la disfunzione il risultato di uno sviluppo disturbato, appaiono inconciliabili [Nota 2: Il saggio di Hartmann & Kris (1945) sull'approccio genetico nella psicoanalisi tende superfluo seguire nei dettagli la noncuranza da parte di Alexander dell'approccio genetico. Soltanto due argomenti nel ragionamento di Alexander contro l'importanza eziologica delle nevrosi infantili possono essere qui menzionati. Uno è che «le tendenze nevrotiche si trovano latenti in ogni persona» (Alexander, French et al., 1946, p. 8), e l'altro «che il paziente soffre non soltanto dei propri ricordi, quanto della propria incapacità ad affrontare i suoi veri problemi del momento» (Alexander, French et al., 1946, p. 22). Il primo argomento non presenta nulla di nuovo, e dal momento che le nevrosi infantili sono quasi dotate di ubiquità nella nostra società, esso conferma piuttosto che confutare il concetto eziologico di Freud. Il secondo argomento non è incontestabile. Mi sembra che esso non faccia abbastanza distinzione tra i sintomi e le cause. E' come se si dicesse di un paziente affetto da tubercolosi attiva che egli non soffre di un'infezione contratta anni addietro, ma che è affetto dal presente tempo freddo. Quando Alexander scrive: «Gli eventi passati hanno certo preparato la strada alle sue (del paziente) difficoltà presenti, tuttavia le reazioni di ogni persona dipendono da modelli di comportamento formatisi nel passato» (Alexander, French et al., 1946, p. 22), penso che egli dia indirettamente maggiore supporto alla teoria di Freud che alla propria]. Alexander sembra ignorare alcuni principi metodologici. Per poter concludere con una certa sicurezza che «un gran numero dei casi riferiti in questo lavoro» non hanno la tipica storia nevrotica (nevrosi infantile) (Alexander, French et al., 1946, p. 10), egli avrebbe dovuto controllare l'attendibilità degli strumenti adoperati nelle sue ricerche. Il fatto di aspettarsi di constatare la presenza o l'assenza di una nevrosi infantile dopo due colloqui con uno scienziato di 51 anni (Alexander, French et al., 1946, p. 146), non sembra giustificato; la stessa aspettativa si dimostra vera dopo 26 colloqui distribuiti in un periodo di 10 settimane, nel caso di un paziente di 42 anni. A meno che Alexander non abbia sviluppato qualche nuovo metodo di esplorazione psicologica veramente rivoluzionario, al quale però non fa riferimento, sembra poco probabile che egli stabilisca i presupposti per il raggiungimento di tale conclusione.

Una persona esperta nella metodologia della scienza conosce il tranello che rappresentano affermazioni che si riferiscono alla presenza o all'assenza di qualcosa che non sia direttamente accessibile al mero lavoro degli organi di senso. La psicoanalisi ha fornito le regole basilari d'analisi che andrebbero seguite al fine di salvaguardare l'attendibilità delle conclusioni. Quando uno scienziato ignora queste regole senza sostituirle con altre più attendibili, i risultati della sua ricerca si espongono al dubbio.

Il secondo punto che vorrei citare è la coincidenza della definizione di Alexander con le opinioni popolari. La nostra epoca postula la felicità ed il successo come gli elementi essenziali della salute mentale. Considerare il fallimento e la frustrazione come manifestazioni di malattia, significa seguire un argomento tendenzioso che esprime l'opinione popolare secondo cui la felicità ed il successo sono i traguardi stessi fondamentali della vita; tale opinione nega la realtà dell'ananke. Difatti gli autori descrivono la maggior parte dei loro successi terapeutici in termini di gradi di felicità e di successo dei loro pazienti, e non esaminano mai a fondo la struttura psicologica che sta alla base di queste condizioni. Accettando la tesi che l'infanzia dell'uomo sia un periodo di felicità paragonabile al Giardino dell'Eden (Alexander, 1942, p. 191; Alexander, French et al., 1946, p. 34), Alexander si collega ad un'altra opinione popolare, negando perciò la divergenza finora esistente tra le scoperte psicoanalitiche e le opinioni popolari a proposito della mente umana. Dalle pubblicazioni di Alexander non risulta chiaro su quali prove cliniche egli basi le sue opinioni a proposito della felicità dell'infanzia, un'età che sappiamo essere carica di conflitti, tormenti e tragedie. t necessario insistere qui su questa tesi, per paura che il lettore abbia l'impressione che una discussione sulla definizione di nevrosi sia una questione meramente accademica. Lungi dall'essere un equivoco meramente accademico, un errore nella definizione di concetti base induce il ricercatore ad un inevitabile fallimento nel suo approccio clinico e nella sua comprensione dell'essenza dell'uomo, della sua condizione, e del suo destino.

C. Traslazione e nevrosi di traslazione

Anche nei suoi primi scritti sull'isteria, Freud menzionava la grande importanza della relazione del paziente con l'analista nella terapia delle nevrosi. In seguito egli dimostrò la posizione unica e suprema della traslazione nella psicoanalisi ed in ogni psicoterapia, quando pubblicò il caso clinico di una paziente che egli aveva trattato nel 1899 (Freud, 1901). La traslazione divenne il problema centrale della terapia psicoanalitica.

Gli autori, principalmente Alexander, French e Weiss, dedicano una parte considerevole del loro contributo teorico alla discussione della traslazione. I loro scritti sono interessati in parte da una critica del modo in cui la traslazione è stata trattata fino a questo momento, e in parte dall'evoluzione della tecnica addotta. Secondo gli autori, è dovuto principalmente ad una manipolazione impropria della traslazione il fatto che molti trattamenti psicoanalitici sono stati interminabili, non hanno avuto successo; se lo sviluppo di una nevrosi da traslazione [Nota 3: Gli autori chiamano nevrosi da traslazione quella configurazione psicologica che è il risultato dell'assorbimento della nevrosi originale dalla relazione emozionale del paziente con il terapista] può essere prevenuto, o se lo sviluppo della traslazione è tenuto sotto controllo, programmato e mantenuto ad un adeguato livello d'intensità, allora, affermano gli autori, saranno evitati lunghi ritardi, il successo del trattamento sarà più profondo, e la partecipazione emozionale del paziente sarà più intensa di quanto non sarebbe successo in una psicoanalisi standard [Nota 4: Non è ben chiaro, come si vedrà in seguito, che cosa gli autori intendano con il termine psicoanalisi standard. Dire che intendono la tecnica quale è applicata da quegli psicoanalisti che seguono correttamente o no la tendenza fondamentale istituita da Freud non è esatto, perché gli autori affermano che la loro tecnica raggiunge veramente gli obiettivi che Freud aveva in mente. Quindi essi si riferiscono probabilmente ad una supposta media statistica. Dal momento che almeno la maggior parte degli analisti afferma di accettare le regole di base della tecnica delineata da Freud, mi prenderò la libertà di riferirmi principalmente agli scritti di Freud presentando la tecnica della «psicoanalisi standard»].

Il modo di procedere degli autori nella praticità verrà discusso nella sezione dedicata ai loro casi clinici. Visto che i loro scritti contengono delle affermazioni ingiustificate, sarà necessario riferirne in alcuni dettagli. P- soprattutto Weiss a fare delle affermazioni che mi sembrano insostenibili; egli ritiene ad esempio che «la nevrosi da traslazione è stata incoraggiata in tutti i suoi aspetti, sia positivi che negativi» (Alexander, French et al., 1946, p. 42). Weiss non fa alcun riferimento, per cui non so con sicurezza se un simile consiglio non sia forse stato dato occasionalmente da qualche analista. Ma indubbiamente una simile tecnica era disapprovata da Freud, il quale fin dal 1915 scriveva di non poter immaginare un «procedimento» più «insensato» (Freud, 1914b) di quello che incoraggia la traslazione. E in Analisi terminabile e interminabile (Freud, 1937a) in un contesto diverso egli si oppone di nuovo alla stessa tecnica. Si sa bene che un incoraggiamento deliberato della traslazione crea una situazione analitica caotica, in virtù del suo effetto di confusione sul paziente. Weiss continua:

"Fino a poco tempo fa, in verità, era diffusa tra gli psicoanalisti l'opinione secondo cui una simile nevrosi completa da traslazione fosse inevitabile, e che qualsiasi progresso nella vita emozionale del paziente avrebbe potuto essere raggiunto soltanto se fossero state risolte le sue fissazioni nevrotiche spostandole sull'analista" (Alexander, French et al., 1946, p. 42).

Su che basi Weiss fa simili affermazioni? Certo gli analisti si sono trovati d'accordo che soltanto a determinate condizioni una nevrosi da traslazione diviene manifesta, e che spesso portarla in evidenza richiede abilità ed esperienza, e che gli errori fatti dagli analisti possono rapidamente condurre ad un suo mascheramento. Tantomeno si è affermato che «ogni progresso nella vita emozionale del paziente» si basi sulla soluzione del rapporto di traslazione. Si sa che un'ampia serie sia di eventi che di terapie potrebbe ottenere un progresso nella vita emozionale del paziente, e questo è un punto su cui Freud ha ripetutamente insistito. Weiss si riferisce forse qui alla tesi di Freud secondo cui un'analisi ben riuscita dei sintomi (dopo che essi sono stati assorbiti dalla relazione di traslazione) offre la migliore garanzia disponibile per un cambiamento strutturale permanente nella personalità del paziente? Weiss ritiene inoltre che:

"...questo atteggiamento di laissez faire nei confronti della relazione del paziente con l'analista è stato ampiamente modificato. Oggi persino nella psicoanalisi standard si riconosce che la relazione di traslazione si può e si deve, in certe situazioni, controllare. Gli psicoanalisti hanno scoperto che la nevrosi da traslazione potrebbe essere usata dal paziente come resistenza all'insight" (Alexander, French et al., 1946, p. 42).

Si può dire con sicurezza che almeno a partire dal 1912, quando Freud pubblicò La dinamica della traslazione (Freud, 1912a) nessun analista responsabile abbia adottato un atteggiamento di laissez-faire nei confronti del fenomeno della traslazione. «Persino» nella psicoanalisi standard la relazione di traslazione dev'essere controllata non soltanto in certe situazioni, ma in tutte. Inoltre fin dal 1912 Freud mise in rilievo che una nevrosi da traslazione è una resistenza all'insight. Un esame attento della letteratura psicoanalitica mostrerà che il controllo della traslazione, la lotta contro la resistenza alla traslazione, la prevenzione o l'uso costruttivo dell'acting out, sono stati i problemi centrali della tecnica psicoanalitica. Oggi Weiss afferma che

"la crescita della relazione di traslazione 'è ristretta' a quelle sfaccettature della nevrosi da traslazione che riflettono il conflitto, evitando una nevrosi da traslazione più estesa che sarebbe stata più difficile da risolvere" (Alexander, French et al., 1946, p. 43).

Del tutto prescindendo dal fatto che è difficile assumere sintomi di una nevrosi da traslazione che non riflettano sfaccettature di un conflitto, non vedo perché la difficoltà di un compito debba opporsi al suo adempimento.

Inoltre, Weiss cerca di confutare la validità tecnica dell'attuale teoria della traslazione riferendosi alla possibile inadeguatezza della persona dell'analista come oggetto di traslazione:

"Per le emozioni particolari di quel paziente particolare", scrive Weiss, "egli può non rappresentare quella persona, nel passato del paziente, attorno a cui si accentrano i suoi disturbi emozionali" (Alexander, French et al., 1946, p. 43).

Con poche eccezioni, l'esperienza clinica non conferma le affermazioni di Weiss. Nella maggior parte degli esempi è impressionante osservare, ammettendo che sia stata applicata una tecnica adeguata, quanto la traslazione si allontani dalla vera personalità dell'analista. Ma l'argomento di Weiss è prova del fatto che egli sta discutendo qualcosa di diverso da quello che Freud intendeva per traslazione. Ciò che egli chiama l'adeguatezza dell'analista come oggetto di traslazione è soltanto un fattore che può anche clinicamente impedire al paziente di riconoscere la traslazione come tale. Questa confusione è dimostrata dalla sua tesi secondo cui una donna, i cui conflitti si accentravano intorno alla sua relazione con una sorella più grande, e che era stata da lui felicemente trattata, «avrebbe dovuto logicamente essere mandata in trattamento da una donna» (Alexander, French et al., 1946, p. 48). E' stato messo in rilievo (Bibring, 1936) come una somiglianza reale tra una persona importante dal punto di vista emozionale nel passato del paziente e l'analista, possa creare delle difficoltà insuperabili nel corso del trattamento. Nei termini interni al punto di vista di Freud, ci saremmo aspettati che una paziente, i cui conflitti principali coinvolgevano la sorella maggiore, rispondesse più prontamente e con successo ad un'analisi condotta da un uomo, che ad una condotta da una donna più anziana di lei.

La seguente citazione dimostra ciò che Weiss ritiene essere parte di una nuova tecnica che promette «metodi più rapidi... e... una manipolazione ancora più sottile della stessa relazione di traslazione» (Alexander, French et al., 1946, p. 43):

"Noi ci serviamo dell'atteggiamento positivo del paziente nei confronti del terapista per stabilire un rapporto, e per conservare in moto il processo di guarigione. Se appaiono sentimenti ostili o negativi, non li ignoriamo, ma li affrontiamo in modo da impedire che il paziente divenga così pavido da bloccare il processo, allungando il procedimento. Parimenti, se i sentimenti positivi diventano troppo intensi, dobbiamo trattarli, per paura che il paziente sviluppi una tale dipendenza dal terapista da desiderare di non smettere mai" (Alexander, French et al., 1946, p. 44).

Sebbene ciò esprima in breve alcuni dei punti della tecnica psicoanalitica quale è stata praticata negli ultimi trent'anni, non vediamo in che modo tali punti contribuiscano ad abbreviare in maniera significativa la terapia.

French descrive tre possibili reazioni dei pazienti alla terapia. Essi possono utilizzare razionalmente il trattamento, o mostrare sincere reazioni di resistenza, quali la collera diretta in caso di un'interpretazione spiacevole, oppure possono sviluppare una nevrosi da traslazione (Alexander, French et al., 1946, p. 75). La descrizione di French dell'utilizzazione razionale del trattamento sembra piuttosto una costruzione teorica che non un referto basato sulla realtà clinica. Se dovesse mai accadere che un paziente si comporti nella maniera descritta da French, ossia che egli ascolti ciò che il terapista ha da dirgli e se ne serva con successo per un adattamento senza tracce di resistenza o di acting out, dubiterei che ciò sia stato effettuato su base razionale, ma penserei piuttosto a vari meccanismi patologici che potrebbero risultare nel comportamento, i quali sembrano razionali soltanto dal punto di vista della società. Un'analisi del paziente posteriore alla sua «cura» deciderebbe quale meccanismo abbia attenuato il sintomo del paziente.

Più importante è però ciò che French dice a proposito della nevrosi da traslazione. Egli la considera un mascheramento secondario di reazioni dirette di resistenza. Egli scrive «una delle cause più frequenti di una nevrosi da traslazione è il bisogno di nascondere o di dissimulare... sincere reazioni di resistenza» (Alexander, French et al., 1946, p. 78). Inoltre, egli separa le sincere reazioni di resistenza dalla nevrosi di traslazione, e ritiene che esse siano irrazionali soltanto nella misura in cui la nevrosi è irrazionale. Dal momento che il terapista costituisce per il paziente una minaccia reale per la sua interferenza con le difese abituali del paziente, una resistenza sincera, non mascherata, può essere considerata normale (ibid., p. 77). Egli adduce un esempio clinico preso da una analisi, che desidero riportare per esteso perché conduce esso stesso a presentare alcuni argomenti contro la sua teoria. Mi permetterò di aggiungere un piccolo accenno di ulteriore costruzione al racconto di French. Egli discute:

"...il caso di una donna giovane e attraente che trascorse la maggior parte di un colloquio analitico parlando in termini entusiastici di un ministro, con cui ella si trovava in stretto contatto di lavoro in Chiesa. Ella concluse osservando che sembrava come se lei fosse innamorata del ministro. Il terapista assentì tranquillamente al fatto che ella ne fosse veramente innamorata, e il tempo restante di quell'ora fu trascorso a discutere amichevolmente del problema creato dal fatto che il ministro era sposato. Due giorni più tardi la paziente ebbe un violento attacco di collera; quando l'analista la vide (prima che la sua rabbia si fosse calmata) ella era del tutto ignara della causa del suo attacco" (Alexander, French et al., 1946, p. 76).

French considera l'attacco di collera della paziente una reazione naturale ed inevitabile all'intepretazione precedente. R difficile accettare la tesi di French senza dimostrarla ulteriormente. La sua spiegazione non tiene conto né del ritardo della reazione, né dell'evento della rabbia. Un altro paziente, in una situazione analoga, avrebbe potuto reagire con una depressione. Ma l'esempio di French acquista importanza quando egli aggiunge che per la paziente «l'attaccamento ad un uomo sposato era del tutto incompatibile con la sua coscienza, rafforzata com'era dalla sua educazione religiosa» (Alexander, French et al., 1946, p. 76). Quindi si può tranquillamente concludere che per la paziente sviluppare sentimenti nei confronti di un uomo sposato era qualcosa d'insolito. Quando si afferma più tardi che «ella aveva pensato ai suoi sentimenti verso il ministro nei termini del suo piacere di lavorare insieme a lui professionalmente» (Alexander, French et al., 1946, p. 76), appare evidente che questa descrizione è valida anche per un sentimento della paziente nei confronti del suo terapista, e perciò solleva la questione di fino a che punto l'episodio con il ministro possa essere stato uno spostamento dalla situazione terapeutica alla realtà esterna, un acting out o una provocazione per risvegliare la gelosia dell'analista, o un tentativo di seduzione. Certo, soltanto French può decidere se tale supposizione sia vera, ma io penso che questo esempio tenda piuttosto a mostrare che la distinzione tra sincere reazioni di resistenza e la nevrosi da traslazione si rivelerà artificiale nella maggior parte degli esempi clinici.

Se le sincere reazioni di resistenza sono isolate ed astratte dal contesto in cui si sono verificate, come ha fatto French in questo esempio, esse possano essere usate per giustificare la sua classificazione. Se però esse sono viste all'interno del contesto di una sezione longitudinale della storia dettagliata della vita, e di uno spaccato della situazione presente complessiva, nella maggior parte dei casi queste reazioni dirette di resistenza saranno riconosciute come parti di una nevrosi da traslazione. Che la maggior parte delle nevrosi da traslazione siano mascheramenti di reazioni dirette di resistenza alle interpretazioni è improbabile. Le nevrosi da traslazione cominciano spesso prima che sia stata data una qualche interpretazione. E tantomeno le loro manifestazioni sono ristrette alla situazione analitica. Esse compaiono nel trattamento ipnotico, nei fenomeni di massa, e nella vita di ogni giorno. Se consideriamo tali manifestazioni nel complesso, diviene molto probabile che French abbia prematuramente messo da parte la teoria di Freud secondo cui la traslazione è allo stesso tempo una resistenza, e una nuova insorgenza di una realtà psichica arcaica.

Inoltre, sembra che gli autori siano stati propensi a non tenere conto dei fenomeni di traslazione, dovunque essi possano in realtà vericarsi. Weiss biasima quegli analisti che interpretano ogni sogno del paziente come un sogno di traslazione. «Che egli comparisse o no, l'analista veniva trovato dietro una figura prodotta dal sogno» (Alexander, French et al., 1946, p. 42), si lamenta Weiss. Se con ciò si intende dire che soltanto se la persona dell'analista appare nel contenuto manifesto di un sogno si può considerarlo un sogno di traslazione, allora alcuni elementi importanti della traslazione del paziente devono essere sfuggiti all'attenzione di Weiss. Ma la concezione della nevrosi da traslazione di French è incompatibile con il suo prudente consiglio su come «scoraggiare la tendenza del paziente a sviluppare una forte nevrosi da traslazione» (Alexander, French et al., 1946, p. 85). Se i pazienti hanno realmente tali «tendenze», allora la sua teoria, secondo cui il mascheramento secondario della resistenza diretta è la causa più frequente di una nevrosi da traslazione, diviene del tutto inconsistente. French attribuisce una notevole importanza a questa tendenza, e rimprovera agli analisti di applicare una tecnica che, almeno ai loro occhi, mette la nevrosi da traslazione in forte risalto.

French discute della difficoltà del paziente alla prova di realtà in una situazione terapeutica in cui «l'analista» (in questo esempio non il terapista) «sopprima la sua propria personalità per quanto possibile... e cerchi di non permettere a sé stesso di arrabbiarsi se insultato, o di compiacersi se il paziente è entusiasta di lui» (Alexander, French et al., 1946, p. 84). In seguito egli allude all'«impressione di irrealtà che la tecnica standard favorisce». Egli ritiene che con un simile «indebolimento delle capacità del paziente alla prova di realtà, rendiamo molto più difficile all'Io del paziente partecipare allo sforzo per la conquista dell'insight» (Alexander, French et al., 1946, p. 85). Se viene facilitata la prova di realtà, allora la nevrosi da traslazione non sarà forte. Dopo una simile descrizione della tecnica standard, andiamo ad imparare quale sarebbe «l'atteggiamento moderno» (Alexander, French et al., 1946, p. 86 e sgg.). Sentiamo: «Il terapista» (stavolta non l'analista) «non dovrebbe aspirare ad essere uno schermo vuoto», ma dovrebbe cercare «di mettere il paziente a suo agio» comportandosi conformemente alle aspettative del paziente. Egli dovrebbe far ciò chiedendo al paziente di «fare un resoconto del suo problema, e delle circostanze che hanno condotto ad esso». Egli dovrebbe «accettare l'opinione propria del paziente riguardo al proprio problema». Nel caso che il paziente ritenga di soffrire di una malattia organica, tale possibilità dovrebbe essere analizzata oggettivamente; si dovrebbero ricercare le prove di tale opinione. «Inoltre noi trattiamo sperimentalmente il paziente come un essere normale e razionale, e continuiamo a farlo a meno che il paziente stesso non dimostri il contrario.» French continua ad enumerare i vantaggi di una simile tecnica. La sua descrizione dell'atteggiamento moderno è scoraggiante.

Anni fa Fenichel (1941) ha messo in rilievo il possibile fraintendimento che comportava la concezione dell'analista come di uno schermo, e suppongo che la maggior parte degli analisti si renda conto di questo rischio. Suppongo che la maggior parte degli analisti, senza considerare ciò un atteggiamento moderno, faccia quanto French consiglia, come domandare al paziente di rendere conto dei suoi problemi, e stabilire prove dell'esistenza di una malattia organica. Facendo così essi si differenziano da French unicamente per quanto riguarda il suo atteggiamento paternalista nel trattare « sperimentalmente » il paziente come, un essere normale e razionale. Un'altra riserva potrebbe essere necessaria considerando il consiglio di French di comportarsi conformemente alle aspettative del paziente. Se French intende l'uso della tecnica di Weiss di variare la scena per «adattarsi all'occasione», egli si espone a severe critiche. Weiss si adatta all'occasione sedendo dietro la scrivania in un esempio, fumando una sigaretta con il paziente in un altro, oppure siede accanto al paziente «come in un salotto, o accanto a lui sul divano in maniera ancora meno formale» (Alexander, French et al., 1946, p. 53). Meno formale che su un divano in un salotto? Se questo non porta ad una nevrosi da traslazione, il paziente dev'essere veramente inibito!

A mio parere French non ha fornito una presentazione corretta della tecnica standard. Oltre all'ingiustificata descrizione dell'analista come di una persona che sopprime la sua personalità cercando di non arrabbiarsi, il che è contrario a tutto ciò che Freud (1912b) ha insegnato e descritto come i requisiti preliminari della personalità dell'analista, French fa un uso indebito, a mio avviso, del termine prova di realtà in una situazione terapeutica in cui tutto dev'essere fatto per rendere il paziente capace di mettere alla prova la propria realtà psichica. French presenta una sottile argomentazione, che a prima vista sembra svalutare un'importante strumento terapeutico psicoanalitico. Egli ritiene che la capacità del paziente alla prova di realtà sia indebolita in realtà dall'«aura di mistero che risulta dal comportamento stranamente impersonale dell'analista» (Alexander, French et al., 1946, p. 85). Il fraintendimento che sta, dietro questa concezione diviene comprensibile quando French afferma che «nella psicoterapia di bambini ed adolescenti, il terapista abbandona questo atteggiamento impersonale in favore di uno di caldo e comprensivo interesse» (Alexander, French et al., 1946, p. 84 e segg.). La psicoterapia degli adolescenti è un problema troppo complesso per essere discusso qui, ma per quello che riguarda l'analisi infantile il cambiamento di tecnica al paragone di quella usata con gli adulti è dovuto all'esperienza clinica secondo cui i bambini non sviluppano nevrosi da traslazione nel senso in cui lo fanno gli adulti nevrotici. Più importante ancora è che French postuli un'incompatibilità intrinseca tra un atteggiamento impersonale ed uno di caldo e comprensivo interesse. Io non penso che sia mai stato possibile analizzare un paziente, qualunque sia stata la tecnica usata, a meno che l'analista non abbia avuto e mostrato un caldo e comprensivo interesse nei confronti dei suoi pazienti. Se la necessità e l'effetto benefico di simili atteggiamenti fossero veramente una scoperta recente, non vedo come dei pazienti avrebbero potuto essere trattati con successo in passato, e mi domando quale atteggiamento French mostrasse prima di acquisire quello «moderno».

Parimenti un «appello al buon senso del paziente, e cooperazione con l'Io del paziente» è stato un vecchio il lavoro in punto d'appoggio della tecnica standard (Freud, 1915-17). Se la situazione psicoanalitica è correttamente spiegata al paziente, si rende in tal modo accessibile il massimo di cooperazione possibile da parte del paziente. Sulla strada verso il raggiungimento di tale cooperazione, il paziente può ottenere delle informazioni estremamente importanti sui conflitti all'interno del suo Io, dei quali non era consapevole. Non è consigliabile, a meno che delle particolarità specifiche del paziente individuale non comportino un rischio troppo grande, come ad esempio nei casi di borderline, aiutare il paziente a mascherare conflitti, stabilendo familiarità. «L'impressione d'irrealtà» che il comportamento impersonale dell'analista «tende a produrre, soprattutto su un paziente non sofisticato» (Alexander, French et al., 1946, p. 84) [Nota 5: Nella mia esperienza è di solito il paziente sofisticato, per non dire eccessivamente sofisticato, che si lamenta all'inizio di una sensazione di irrealtà] mi è sembrata una delle occasioni principali per chiarire gli atteggiamenti di fondo dell'Io nei confronti della realtà, ma niente affatto un frammento di psicopatologia da poco creato in reazione alle peculiarità della situazione psicoanalitica, come French sembra ritenere. L'impressione d'irrealtà può scomparire con una rapidità sorprendente nella mia esperienza, se «il paziente è messo a proprio agio», per poi però non ritornare mai più, a scapito dell'analisi del paziente. Il fatto di comportarsi in conformità alle aspettative del paziente, a meno che il suo lo non sia indebolito a tal punto da non essere in grado di sopportare lo sforzo della situazione analitica, non gli fornirà in generale la migliore opportunità per familiarizzarsi con la propria realtà psichica. Uno studio attento dei casi che gli autori riportano mostrerà che essi non adducono alcuna prova dei progressi fatti dai loro pazienti nella capacità di mettere alla prova la realtà psichica, benché essi dovrebbero aver lasciato il trattamento con un cambiamento considerevole della facciata della loro personalità. Come si vedrà, gli autori perseguono degli obiettivi terapeutici affatto diversi da quelli che Freud aveva in mente, e quindi il loro paragone con la tecnica di Freud non è rilevante e suscita critiche.

La teoria della traslazione e della resistenza di Alexander si riduce alla riluttanza del paziente ad affrontare i propri problemi reali nell'esistenza. Le due citazioni che seguono familiarizzeranno il lettore con la cornice di riferimenti in cui Alexander cerca di costringere questo punto fondamentale. «Il materiale regressivo» scrive Alexander a proposito della nevrosi da traslazione, «non è un segno della profondità dell'analisi, bensì delle dimensioni della ritirata strategica dell'Io - una ritirata nevrotica da una situazione esistenziale difficile ad un ritorno ad un desiderio infantile di dipendenza, gratificabile soltanto nella fantasia» (Alexander, French et al., 1946, p. 29), e ancora: «La nevrosi da traslazione viene a servire al proposito della nevrosi originale: ritirata da una partecipazione reale all'esistenza» (Alexander, French et al., 1946, p. 33). Dal punto di vista storico è interessante notare che la cornice di riferimenti di Alexander si è ristretta in questo contesto alle due concezioni con cui Alfred Adler cerca di spiegare la totalità della psicopatologia delle nevrosi.

D. L'obiettivo della terapia e la terapia programmata

Gli autori elaborano ampiamente gli obiettivi della terapia, e la necessità di formulare un programma terapeutico per ogni paziente. Gli autori avrebbero ragione a richiedere che la psicoterapia si basi su di un programma, come ogni altra attività razionale. Alexander (Alexander, French et al., 1946, pp. 102-106), fornisce un elenco piuttosto lungo di quali sono le decisioni che bisognerebbe prendere all'inizio di una terapia; se sarà una terapia di sostegno o di scoprimento; se il paziente avrà dei colloqui giornalieri o settimanali; se si deve tentare di operare un cambiamento nelle condizioni esterne di vita del paziente; se lo sviluppo della relazione di traslazione vada incoraggiato o limitato; quali saranno i limiti degli obiettivi terapeutici. French dedica un capitolo alla «Psicoterapia programmata» (Alexander, French et al., 1946, pp. 107-131). Ma prima di entrare nei dettagli credo che dobbiamo decidere di un punto fondamentale che gli autori non hanno messo sufficientemente in rilievo, ossia il problema dei cambiamenti strutturali della personalità. Freud descrive l'obiettivo della psicoanalisi in vari modi, quali rimuovere le resistenze, rendere conscio del materiale inconscio, o colmare lacune mnestiche nella memoria del paziente (Freud, 1914a, 1915-17). La formulazione più comprensiva si riferisce alla trasformazione dell'Es in Io (Freud, 1932).

Nei suoi scritti tecnici Freud ha delineato una serie di regole per le varie fasi della «psicoterapia strutturale». Egli non ha mai insistito sul fatto che tutte quelle regole debbano essere strettamente seguite. Egli considerava soltanto una parte di esse indispensabile, quale il consiglio di non prendere appunti durante il colloquio analitico. Ogni analista ha il diritto di modificare tali suggerimenti clinici conformemente alla sua esperienza, se egli è in grado di dimostrare clinicamente che la sua innovazione condurrà ad un cambiamento strutturale della personalità del paziente. L'esperienza ha dimostrato che la tecnica di Freud non ha condotto al successo nel caso di schizofrenici e di delinquenti. Hug-Hellmuth, Anna Freud e Melanie Klein hanno fatto lo stesso con l'analisi infantile. Per quanto tali regole abbiano potuto allontanarsi dalla tecnica originale di Freud, esse hanno tutte una cosa in comune, e cioè un'alta probabilità che la tecnica, così com'è stata delineata dai suoi innovatori, sia necessaria per un cambiamento strutturale della rispettiva sindrome o gruppo generazionale. Quindi si può dire che ogni tecnica, che si serva o no di un divano, e che richieda dei colloqui giornalieri o poco frequenti, è una terapia psicoanalitica se, servendosi di validi strumenti psicoterapeutici, essa ha come meta o si risolve in cambiamenti strutturali della personalità [Nota 6: L'accento sugli strumenti psicoterapeutici validi è divenuto necessario da quando Freeman ha effettuato delle lobotomie in psiconevrotici. Tale operazione ha indiscutibilmente per conseguenza dei cambiamenti della personalità (cfr. Freeman & Watts, 1942)]. Un metodo psicoterapeutico può liberare permanentemente un paziente da un sintomo; può renderlo felice e dargli il successo; i suoi effetti possono ottenere il plauso della famiglia e della società del paziente; tuttavia, se non produce un cambiamento strutturale, non ha nulla a che fare con la psicoanalisi, sebbene il terapista possa aver applicato, della sua tecnica terapeutica, delle teorie psicoanalitiche. Addirittura vorrei arrivare ad affermare che, se un altro terapista avesse fallito in un precedente trattamento dello stesso paziente, ma potesse provare che la tecnica applicata prometteva una possibilità ragionevole di produrre un cambiamento strutturale nel paziente, allora egli potrebbe affermare di aver fatto uso di metodi psicoanalitici. Possiamo dire, forse, che ne ha fatto un cattivo uso, o che si sbagliava nel suo giudizio clinico, nello sforzarsi di ottenere un cambiamento strutturale, ma il suo metodo era vera psicoanalisi.

Una prova della ragionevolezza di questo punto implica alcune osservazioni aggiuntive, al fine di evitare fraintendimenti. Innanzitutto, dev'essere operata una distinzione tra cambiamenti strutturali e cambiamenti di contenuto. Tale distinzione è giustificata sia dal punto di vista storico che dal punto di vista clinico. Dal punto di vista storico la psicoanalisi è nata come una terapia avente come meta dei cambiamenti strutturali, anche prima che la fondazione teorica della terapia avesse raggiunto un concetto comprensivo di struttura. Freud ha ripetutamente e infallibilmente espresso l'opinione che una psicoterapia che «curi» un paziente con qualunque altro mezzo non possa essere considerata psicoanalisi. Nonostante tutti i disaccordi osservati tra gli analisti riguardo a questioni tecniche, l'obiettivo di un cambiamento strutturale è stato comune a tutti. Inoltre la differenza tra cambiamento strutturale e cambiamento di contenuto è abbastanza significativa da giustificare l'uso di termini distinti per designare delle tecniche che aspirino all'uno o all'altro.

Un cambiamento strutturale, come si intende qui, è un cambiamento interno che conduce ad acquistare padronanza. E' un cambiamento attuato nell'Io e sull'Io riguardante un allargamento della sua area di capacità principalmente attraverso l'eliminazione di certi meccanismi di difesa. Un cambiamento di contenuto è una ricanalizzazione dell'energia basata sullo spostamento, o su nuove repressioni, o su uno scambio di illusioni, o sull'edificazione di credenze magiche, o sull'imitazione. Un esempio clinico di ciò è il cambiamento di uno spendaccione in avaro; una metamorfosi che non è troppo difficile da compiersi. Entrambi gli atteggiamenti si basano su di un atteggiamento patologico nei confronti del denaro. Il risultato di essere un avaro è socialmente più accettabile e meno dannoso per l'individuo che il fatto di essere uno spendaccione, ma dal punto di vista strutturale il paziente rimane lo stesso. E' di estrema importanza tenere presente che ampi cambiamenti di contenuto sono possibili senza cambiamenti di struttura. Ciò può essere dimostrato da schiaccianti prove cliniche. I cambiamenti strutturali sono dolorosi per la persona, mentre i cambiamenti di contenuto sono di solito gratificanti, benché possano esso re introdotti da un breve periodo di tormento. Un paziente, come si può regolarmente osservare, è pronto ad accettare degli ampi cambiamenti di contenuto, al fine di evitare un cambiamento strutturale.

Devo ammettere che, anche con la maggior attenzione possibile, l'accertamento di un cambiamento strutturale è un compito clinico molto arduo, e può capitare il più delle volte che un presunto cambiamento strutturale si riveli in seguito essere stato soltanto un cambiamento di contenuto [Nota 7: Sharpe (1937) ha presentato la prova clinica di un cambiamento nella struttura del sogno come un indice di guarigione. lo ritengo tuttavia che non sia stata ancora trovata una misura attendibile della "sincerità" dei sogni. Ritengo inoltre che, a mio parere, il grado in cui il sogno sia accessibile a propositi secondari paragonabili a meccanismi quali la fuga nella salute, potrebbe essere stato sottovalutato, benché io non abbia difficoltà ad ammettere che degli analisti con maggiore esperienza clinica della mia potrebbero essere capaci di usare le strutture del sogno come indici attendibili della guarigione]. Inoltre è difficile determinare in termini negativi piuttosto che in positivi che cosa sia dal punto di vista teorico un cambiamento strutturale. Come verrà discusso più tardi, secondo me gli autori non hanno riferito neanche un esempio di cambiamento strutturale, e quindi non avrebbero dovuto chiamare il loro libro terapia psicoanalitica, benché essi si siano serviti delle conoscenze psicoanalitiche nel programmare i loro procedimenti terapeutici [Nota 8: In qualche modo gli autori devono essere stati consapevoli di questo stato di cose, perché tutti, con una sola eccezione (Benedek) si definiscono, in generale, terapisti. In un esempio il termine analista viene usato in senso di disapprovazione quando French, descrivendo una tecnica imperfetta, scrive "Con quest'aria di mistero che lo circonda, l'analista... cerca di comportarsi in conformità al suo ideale professionale..." (Alexander, French et al., 1946, p. 84), ma due pagine più tardi, spiegando in confronto la tecnica corretta, scrive: "Il terapista dovrebbe perciò spiegare le ragioni di ogni procedimento... ». A suo parere gli analisti commettono errori, mentre i terapisti usano la tecnica corretta? Considerata la distinzione fatta dagli autori stessi tra analista e terapista non è affatto comprensibile perché Alexander insista a considerare "tutto il lavoro esposto in questo libro come 'psicoanalitico'" (ibid., p. vii)]. La decisione di indurre dei cambiamenti strutturali o dei cambiamenti di contenuto è d'importanza primaria nella programmazione della psicoterapia, perché di solito esiste soltanto una strada per i cambiamenti strutturali, mentre ce ne sono molte che vanno verso il conseguimento di cambiamenti di contenuto. Per questo la tecnica avente come meta dei cambiamenti di contenuto può essere più flessibile di quella avente per meta dei cambiamenti strutturali. Chiamerò la prima psicoterapia «magica» e la seconda «razionale». Ci sono molti modi di magia, ma esiste solo una ratio. Mi sento qualificato a designare in tal modo due gruppi di tecniche, perché esse mostrano le caratteristiche associate a tali termini.

Nella psicoterapia razionale non ci sono segreti tra l'analista e il paziente. Non appena la verità diviene evidente per l'analista, egli con divide con il suo Paziente la sua conoscenza. Sebbene in molti esempi questo principio non possa essere idealmente compiuto, esso resta un obiettivo latente nella tecnica psicoanalitica. La preoccupazione principale dell'analista non è l'alleviamento del sintomo, ma il cambiamento della realtà psichica che sta dietro ad esso. La psicoterapia magica è sempre reticente, e non permette al paziente di condividere il massimo di conoscenza possibile, ed è interessata in primo luogo all'alleviamento dei sintomi. Su questo punto gli autori sono espliciti. Essi affermano che soltanto per il terapista è importante conoscere la dinamica e comprendere la storia genetica del paziente. Sulla base di tale conoscenza, egli deve escogitare una terapia che renderà il paziente capace di occuparsi con successo dei suoi problemi reali nel minor tempo possibile. Se una tale azione resiste all'impatto del tempo, ossia se è permanente, l'obiettivo della terapia è raggiunto. In realtà, se un sintomo scompare e non ritorna, un terapista che si accontenti della magia è soddisfatto. Nella psicoterapia razionale l'alleviamento dei sintomi può persino essere sacrificato in favore del mantenimento dell'obiettivo di un cambiamento strutturale [Nota 9: Cfr. Freud (1922, nota p. 512): "...Esso (il successo terapeutico) dipende in primo luogo dall'intensità del senso di colpa, a cui spesso la terapia non riesce a contrapporre una forza dello stesso ordine di grandezza. Ma forse dipende altresì dalla possibilità che la persona dell'analista sia collocata dall'ammalato al posto del suo ideale dell'Io; a ciò si connette per l'analista la tentazione di assumere verso il malato il ruolo del profeta, del salvatore d'anime, del redentore. Ma poiché le regole dell'analisi escludono decisamente una tale utilizzazione della personalità del medico, bisogna onestamente riconoscere che è posta qui una nuova limitazione all'efficacia dell'analisi, la quale non ha certo il compito di rendere impossibili le reazioni morbose, ma piuttosto quello di creare per l'Io del malato la libertà di optare per una soluzione o l'altra"], mentre nella psicoterapia magica quel problema non può mai sorgere.

E' stato per me estremamente interessante notare che French, nei suoi passi sulla prova di realtà, abbia messo in rilievo il ruolo dell'anacronismo, ossia il fatto che le reazioni presenti del paziente sono conformi a vecchi modelli. C'è una povertà di riferimenti al più fondamentale e geneticamente più vecchio principio della prova di realtà, ossia l'acquisizione da parte dell'individuo della facoltà di distinguere che cosa è esterno e che cosa è interno in un organismo psicobiologico [Nota 10: Cfr. Freud (1915, p. 15): "La sostanza percipiente dell'essere vivente ha in tal modo trovato, nell'efficacia della propria attività muscolare, un criterio per distinguere un 'fuori' da un 'dentro'"]. In ogni disturbo psicopatologico il disturbo primario riguarda la funzione del principio di realtà. Può essere importante ricordare in questo contesto che Schilder e Waelder hanno entrambi sostenuto che la magia si basa su di una mancanza d'applicazione della funzione vera e propria del principio di realtà. Per questo sospetto che potrebbe esistere un nesso causale tra la negligenza da parte degli autori di quella parte della prova di realtà, e la tecnica che si sono trovati obbligati ad applicare. In qualunque modo stiano le cose, si incontrano alcune affermazioni che riflettono delle opinioni che a mala pena dissimulano la magia.

Quando Weiss scrive che «il terapista può scegliere di riferirsi alla nevrosi infantile nelle sue interpretazioni, incoraggiando così una relazione dipendente di traslazione» (Alexander, French et al., 1946, p. 52), o ancora «trattare il paziente come una persona dipendente o indifesa, incoraggerà persino al segno più leggero lo sviluppo di una relazione dipendente di traslazione» (ibid., p. 53) [Nota 11: Weiss dev'essere senz'altro stato consapevole del fatto che Grotjahn (Alexander, French et al., 1946, p. 167) "ripetutamente espresse la sua simpatia al paziente per il fatto di aver dovuto crescere in una simile atmosfera" (vale a dire i genitori del paziente erano psicotici), trattandolo così come una persona dipendente e indifesa, senza causare tutti i cattivi effetti enumerati], o quando French afferma che «focalizzando l'interesse sulla nevrosi infantile, tendiamo a favorire la ripetizione compulsiva di memoria del passato a detrimento della funzione di prova di realtà» (Alexander, French et al., 1946, p. 88), allora gli autori si comportano come se fossero le parole a produrre l'evento. Ciò si avvicina comunque ad una superstizione squisitamente magica. Gli autori non chiariscono perché l'interpretazione della nevrosi infantile debba condurre ad una relazione dipendente di traslazione, o perché un interesse per tale struttura debba condurre alla sua ripetizione. Fino ad ora si supponeva in generale che l'interpretazione della nevrosi infantile potrebbe dare al paziente abilità nel padroneggiare la coazione a ripetere, che pervadeva la storia della sua vita prima che il suo Io imparasse a prenderne conoscenza.

Le innovazioni tecniche introdotte dagli autori, e le obiezioni che occorre sollevare contro le loro raccomandazioni, devono essere viste sotto l'aspetto delle differenze tra la terapia razionale e quella magica. French suppone che esistano due tipi principali di approccio terapeutico: l'adattamento dell'ambiente del paziente ai suoi bisogni, o la modificazione della struttura della personalità del paziente, «al fine di portarlo in armonia con le richieste del suo ambiente» (Alexander, French et al., 1946, p. 132). Questo schema generale delle possibilità terapeutiche, per quanto possa essere valido per la grande maggioranza degli attuali procedimenti terapeutici, significa una rottura definitiva con le dottrine basilari della psicoanalisi quali sono state formulate fino a questo momento.

Il cambiamento dell'ambiente, apparentemente considerato da French come un sistema terapeutico di ugual livello rispetto a quello che ha come meta delle «modificazioni» della struttura della personalità, non è affatto una terapia eziologica, ma può risultare, nel migliore dei casi, soltanto in un miglioramento sintomatico. French lo sa, naturalmente, dal momento che nello stesso paragrafo discute del sollievo che i pazienti potrebbero ottenere da un trattamento di sostegno. Egli si contrappone all'argomento secondo il quale i risultati così ottenuti sono «guarigioni da traslazione», mettendo in evidenza l'effetto frequentemente permanente che succede ad una simile terapia. E' importante notare che French parla di miglioramento dell'adattamento in connessione con tali risultati, e così sembra condividere la prospettiva behavioristica di Alexander, in base alla quale la personalità del paziente viene valutata in rapporto al comportamento esterno, senza sollevare la questione di quale potrebbe, se mai, essere il corrispondente cambiamento di personalità. Un cambiamento dell'ambiente, per quanto possa essere benefico in un gran numero di esempi clinici, è un espediente tipico della terapia magica. Esso è una conseguenza storica dell'antica consuetudine del pellegrinaggio; è un espediente di sostegno della resistenza del paziente in quanto conferma la credenza, da questi serbata, di non trovarsi di fronte ad un conflitto interno, ma ad uno esterno; essa offre un adempimento del desiderio come compensazione per dispiaceri incombenti; esso incoraggia inoltre il desiderio del paziente per la sensazione di onnipotenza magica. Benché sia spesso l'unica risorsa disponibile per alleviare la sofferenza del paziente, esso è essenzialmente fuori della sfera della psicoterapia razionale, nel senso della psicoanalisi.

Il secondo approccio terapeutico, ossia quello della modificazione della personalità al fine di stabilire un'armonia tra la struttura della personalità e l'ambiente, sembra affrontare il problema in una maniera più vicina alla psicoanalisi tradizionale, ma rivela ad un grado ancora maggiore fino a che puntò gli autori abbiano messo da parte la terapia razionale. L'approccio psicoterapeutico non è visto affatto come un aspetto del conflitto interno esistente, ma esclusivamente dal punto di vista delle richieste della realtà esterna. Qui la nuova tecnica raggiunge il livello della moderna terapia shock, e French potrebbe anche aver ripetuto l'affermazione di Freeman a proposito dell'obiettivo della sua terapia, che «si riduce alla questione di quale deviazione interferisca di meno con il suo (del paziente) adattamento sociale» (Freeman & Watts, 1945, p. 739). Qui l'obiettivo della terapia non è affatto dare all'Io del paziente il più grande accesso possibile ai conflitti, bensì confinare la terapia all'area delle collisioni accidentali tra il paziente e la società. Il terapista non ha affatto bisogno di preoccuparsi di liberare l'Io, ma piuttosto, tenendo presenti le richieste della società, di restringere la sua attività esclusivamente nei limiti ristretti del conflitto attuale del paziente. «Noi dovremmo accentrare la nostra attenzione piuttosto sui suoi problemi reali attuali», scrive French (Alexander, French et al., 1946, p. 88). Il passato a quanto pare non è reale, reale è solo il presente.

Di nuovo French parteggia per le resistenze dei pazienti. t proprio quello di cui la maggior parte di loro cerca di convincere l'analista, ossia che il loro problema è un conflitto con la realtà esterna. Ma, qual è l'effetto di un simile approccio? Esso premia il mascheramento della vera questione del conflitto interno in favore dell'accettazione di un piccolo settore della realtà esterna in termini behavioristici. Sebbene French discuta da un lato la terapia razionale (Alexander, French et al., 1946, pp. 136-140), l'esempio che egli descrive nel paragrafo sulla modificazione dei modelli di comportamento rappresenta una psicoterapia assolutamente magica. Egli sceglie la tecnica che ritiene necessaria in caso di asma, ed accentua gli effetti benefici della confessione:

"L'effetto di una simile terapia è naturalmente innanzitutto meramente sintomatico. Confessando che cosa lo disturba, il paziente trova momentaneamente sollievo dai suoi attacchi d'asma. Spesso, comunque, l'alleviamento sintomatico di questo tipo tende gradualmente a ridurre l'insicurezza e la dipendenza del paziente che ne stanno profondamente alla base" (Alexander, French et al., 1946, p. 136).

Qui non soltanto incontriamo, con il termine confessione, un espediente magico di veneranda età, ma anche un intero procedimento calcolato per garantire un adempimento dei desideri senza insight, nella speranza che ciò possa far sparire un sintomo superficiale. «Il proposito dell'interpretazione in tali casi è di aiutare il paziente a confessarsi, piuttosto che a chiarire i motivi» (Alexander, French et al., 1946, p. 136). Ogni procedimento magico crolla quando il soggetto si rivolta con ostilità contro colui che dispensa l'incantesimo. Quindi gli autori forniscono consigli su come evitare una simile situazione imbarazzante.

Weiss proclama:

"Gli atteggiamenti ostili nei confronti dell'analista sono spesso, d'altra parte, un'inutile complicazione della terapia. Se l'oggetto di un simile atteggiamento nevrotico può essere una persona della vita di ogni giorno del paziente, tale complicazione è tolta, e la terapia di conseguenza abbreviata" (Alexander, French et al., 1946, p. 46).

French è consapevole del fatto che ciò può seriamente danneggiare il paziente (Alexander, French et al., 1946, p. 81), e quindi raccomanda una tecnica più raffinata.

"Gli impulsi ostili sono prova di frustrazione, e la frustrazione è segno di un problema irrisolto. Se il problema può essere risolto, la frustrazione cesserà, e gli impulsi ostili che ne risultano scompariranno. Andando a scavare dietro gli impulsi ostili, per arrivare fino ai problemi che hanno loro dato origine, è quindi spesso possibile eliminare gli impulsi ostili senza focalizzare in un qualche momento l'attenzione del paziente direttamente su di essi..." (Alexander, French et al., 1946, p. 131).

Che cosa si intenda con andando a scavare dietro gli impulsi ostili» è dimostrato dal riferimento di French al racconto di Gerard di un caso di un paziente sofferente di ulcera pepsica e di angoscia da esame (Alexander, French et al., 1946, pp. 244-254). La tecnica applicata era quella di rendere il paziente capace di soddisfare le sue brame di dipendenza senza che il suo orgoglio venisse ferito. Ciò veniva fatto inducendo la moglie del paziente a gratificare le sue brame di dipendenza, «a dargli simpatia e tenerezza straordinaria», e inducendo il medico del paziente a cooperare facendo in modo che questi (uno studente di medicina) potesse «esaminare e programmare il trattamento di alcuni pazienti affetti da ulcera» (ibid., p. 250). Inutile dire che l'effetto terapeutico fu eccellente, come in quasi tutti i casi riferiti, e che il paziente perse la sua paura degli esami, passò ad una dieta regolare, perse il suo dolore addominale, e, sondo alle ultime notizie, si era adesso stabilito come medico in una cittadina con il figlio di tre mesi. Sebbene sarebbe allettante speculare sul perché tecniche di tal genere abbiano simili effetti miracolosi, voglio accennare alla misura in cui il paziente è tenuto all'oscuro a proposito della vera natura dei suoi problemi; alla misura in cui, inoltre, egli è indotto dall'adempimento dei suoi desideri, ad agio in senso del successo sociale. Tutto ciò è parte della psicoterapia magica, che in questo esempio non compare nelle sue forme rozze, ma si serve di alcune valide scoperte psicologiche per adeguarsi ai propri propositi (cfr. Glover, 1931).

French mette in rilievo quali complicazioni possano aver luogo se i pazienti che sono affetti da ulcera duodenale sono resi consapevoli dei propri sentimenti d'intensa ostilità. Può darsi che egli si sbagli o che abbia ragione, nel fare tale avvertimento. Può risultare impossibile applicare la terapia razionale ad un determinato gruppo clinico. Un medico, con ambizioni terapeutiche potrebbe perciò abbandonare l'impervio sentiero della terapia razionale, ed applicare la magia. Certo non c'è nulla da obiettare contro un simile procedimento, ma non è ammissibile descrivere la terapia magica con termini tali come se essa concernesse la terapia razionale. P- più in armonia con il pensiero scientifico valido ammettere che qui potrebbe essere stato raggiunto il punto in cui un cambiamento reale dell'Io è impossibile lì dove la struttura della personalità del paziente sia permanentemente danneggiata, e l'obiettivo del terapista ridotto a misure palliative. Ma stando alle parole di French, sembra che sia possibile dare a simili pazienti qualcosa di più che un palliativo. Egli dice:

"Numerose analisi di casi di ulcera duodenale hanno avuto buon esito, dando un notevole sollievo ai sintomi gastrointestinali, ma si sono risolti nel sostituire ad essa una reazione dei tipo... che si è dimostrato molto difficile da trattare" (Alexander, French et al., 1946, p. 130).

«Molto difficile da trattare» concerne una richiesta fatta dall'analista, ma non indica una limitazione definita da parte del paziente.

L'atteggiamento magico che sta alla base della nuova tecnica, che, comunque, è presentata in termini di ragione, fornisce agli autori una sensazione di conoscenza vicina all'onniscienza, che è ben lontana dai confini che ancora limitano la scienza della mente. French descrive la situazione dell'analista nelle prime ore durante le quali egli prende familiarità con il problema del paziente e con la storia della sua vita, servendosi del seguente paragone:

"Durante questo periodo l'analista può essere paragonato ad un viaggiatore che, dalla cima di una collina, guardi la regione in cui intende viaggiare. In questo momento è forse possibile per lui vedere anticipato in prospettiva tutto il suo viaggio" (Alexander, French et al., 1946, p. 109).

Una sensazione di potere derivante dall'onniscienza magica sembra essere espressa in un commento della Johnson sulla cura di un caso di asma bronchiale in trentasei colloqui. Ella afferma:

"Questo caso illustra... una terapia... che ha effettuato un'analisi attuale del conflitto, perché il terapista già conosceva la struttura dinamica della sindrome asmatica... si è ritenuto che in questo caso si sia raggiunto un vero cambiamento dell'Io... dal momento che il terapista aveva il vantaggio di conoscere la costellazione dinamica fondamentale nei casi di asma, così com'è stata elaborata in ricerche precedenti..." (Alexander, French et al., 1946, pp. 303 e sgg.; corsivo della Johnson).

Gli autori godono di un invidiabile ottimismo. Limitazioni alla conoscenza o al possibile raggiungimento di obiettivi psicoterapeutici sono poco menzionate; la Johnson arriva persino a dare l'impressione che la nostra attuale conoscenza dell'asma sia sufficiente per tutti gli scopi pratici.

La vera magia è di solito pittoresca, e fa appello alle emozioni; i procedimenti razionali sembrano grigi e montoni, e soltanto l'occhio in grado di discernere si accorge di come essi si adattino alle peculiarità della situazione di realtà. Alexander ritiene che la psicoanalisi non abbia adeguato la sua tecnica alla diversità dei casi, e che il suo «strumento terapeutico sia rigidamente fissato, e i pazienti uniformati» (Alexander, French et al., 1946, p. 25). Evidentemente egli basa tale impressione sul fatto che la maggior parte dei pazienti vengono trattati ogni giorno, mentre stanno sdraiati su di un divano. Alexander non fa menzione del fatto che il trattamento di un'isteria o di una nevrosi ossessiva procedono su linee completamente diverse; la sua impressione di monotonia o rigidità nella tecnica psicoanalitica risulta dal suo tenere gli occhi fissi su cose accessorie. L'osservatore ingenuo potrebbe credere che dipingere sia un procedimento monotono perché si usano sempre pennelli e pigmenti [Nota 12: Cfr. Sharpe (1937, p. 124): "Le sfumature della tecnica, quando l'analista armonizza con il suo materiale, nasceranno in risposta allo strumento particolare in cui egli lavora"].

Considerata la loro accettazione delle tecniche magiche, è abbastanza comprensibile il fatto che gli autori non tengano in gran conto l'importanza dell'uso dell'insight come strumento nella loro tecnica psicoterapeutica. Alexander attribuisce il valore più elevato alle «esperienze emozionali correttive necessarie a rompere il vecchio schema di reazione», al di sopra di «scarica emozionale, insight, e un'assimilazione completa del significato del materiale inconscio recuperato» (Alexander, French et al., 1946, p. 26). French postula come obiettivo della terapia un riadattamento emozionale, e non l'insight (ibid., p. 126). «In molti casi» egli scrive, «stimolare il paziente o indurlo ad un riorientamento emozionale non è questione di insight ma del notevole riadattamento emozionale preliminare che è necessario prima che l'insight sia affatto possibile» (ibid., p. 127). Egli descrive un caso in cui il terapista ha fatto diminuire l'angoscia della paziente con una terapia di sostegno, e conclude: «Diminuendo così la sua angoscia, speriamo di renderle possibile di affrontare spontaneamente la realtà della sua situazione» (ibid., p. 127). Ciò esprime chiaramente il fatto che all'insight, e quindi all'interpretazione, viene attribuito un valore secondario. Il terapista spera che un cambiamento emozionale da lui indotto non con l'interpretazione ma con un atteggiamento di comprensione, possa produrre per caso insight. Il lettore deve veramente avere l'impressione che l'insight sia connesso ad un considerevole pericolo. Tre pagine sono dedicate alle «complicazioni che risultano dai tentativi di forzare l'insight» (Alexander, French et al., 1946, pp. 128-130), e possiamo leggere che «i terapisti che sono stati affascinati dalla psicoanalisi, ma che non hanno ancora fatto molta esperienza pratica... spesso sopravvalutano terribilmente l'efficacia terapeutica dell'insight», che «ci si aspetta che curerà il paziente quasi fosse una bacchetta magica» (ibid., p. 128).

Potrebbe essere d'aiuto, nel chiarire questo problema, rendere più preciso l'uso del termine «obiettivo». Dopo aver stabilito come obiettivo della terapia un riadattamento emozionale invece dell'insight, mi sono stupito nel leggere di una tecnica in cui il principale obiettivo terapeutico era «o dare al paziente un sostegno emozionale, o rendergli possibile la confessione...» (Alexander, French et al., 1946, p. 136). Evidentemente l'uso improprio della parola obiettivo opprime qui la discussione. P- necessario operare una differenziazione tra obiettivi e mezzi. Un sostegno emozionale è uno strumento psicoterapeutico come l'interpretazione, ma quest'ultima conduce all'insight se è integrata dal paziente. Credo che un maggior rigore nel tenere distinti strumenti e obiettivi renderebbe più chiara la differenza tra la psicoanalisi e la nuova psicoterapia. La maggior parte degli analisti sarebbe d'accordo nel ripetere che un lo che abbia conseguito padronanza su parti della personalità precedentemente inconsce, non avrà difficoltà nel suo adattamento emozionale e sociale. Una padronanza senza insight è inconcepibile in un adulto; ma con ciò non si vuole affatto affermare che l'adattamento sia possibile soltanto per mezzo dell'insight. Indurre un adattamento - un obiettivo secondario per l'analista - non è troppo difficile in molti esempi clinici.

Postulando l'adattamento come l'obiettivo principale, e «accentrando l'attenzione del paziente... sui suoi problemi reali presenti... e... sui motivi delle sue presenti reazioni irrazionali» (Alexander, French et al., 1946, p. 88), French restringe il campo d'azione della psicoanalisi. In questo contesto voglio rimandare il lettore alla descrizione di Alexander (1927, pp. 4-6) della resistenza che un Io presenta contro la conoscenza della propria parte inconscia, e inoltre all'importanza da lui attribuita all'analisi di tali resistenze. Quando French mette in rilievo la fiducia e la confidenza che un paziente deve avere nel suo medico prima che possa venir fornita un'interpretazione sgradevole, egli enfatizza un punto di minore importanza. La questione principale è la resistenza dell'Io all'interpretazione del suo assestamento difensivo, che può essere combattuta con successo soltanto dando al paziente insight in quella parte della sua personalità. French mette giustamente l'accento sul lavoro preparatorio necessario prima di dare certe interpretazioni, ma dimentica, nella sua presentazione, di descrivere l'esatta natura di quel lavoro preparatorio, che è costituito da una serie di precisi passi interpretativi, accentrati su quel la resistenza secondaria al riconoscimento dei conflitti principali che Alexander ha descritto nel passo appena citato. Se French difende l'evitamento di quel lavoro analitico, stabilendo certi sentimenti positivi nel paziente verso il medico, allora sta mettendo in gioco degli espedienti magici. Che ciò venga evitato o no, dipende da se il medico vuole che il suo paziente raggiunga padronanza, o se limita le sue intenzioni all'induzione di un adattamento. L'insight potrebbe essere ottenuto con vari mezzi, di cui il principale è ancora l'interpretazione. Può darsi che molti analisti, anche dopo una lunga esperienza pratica, trattino l'interpretazione e l'insight come strumenti magici. Non sarebbe sorprendente, dal momento che i prodotti del pensiero razionale assai frequentemente acquistano essi stessi un significato magico per la maggioranza. Le ferrovie, l'elettricità, e la bomba atomica, continuamente citata, sono soggettivamente degli strumenti magici per la maggior parte di noi, ma ciò non toglie che abbiano un significato razionale oggettivo, e una possibile efficacia nella lotta dell'umanità per la sopravvivenza. Il tentativo costante, che pervade il libro, di ridimensionare l'insight, è un risultato significativo della vittoria della psicoterapia magica su quella razionale.

Nella sua diffidenza verso la terapia razionale, Alexander si spinge addirittura al punto di sostenere che la psicoanalisi necessariamente fallisce nel caso di un paziente che cerchi la terapia a causa di un disturbo fisico psicogeno, se il paziente è convinto della natura organica della sua malattia. Egli scrive:

«Se costui dovesse essere trattato secondo il metodo psicoanalitico standard, l'analista dovrebbe assumere un atteggiamento comprensivo ma impersonale, in attesa che si sviluppi la nevrosi da traslazione, fornendo pochi consigli o direttive, o non fornendone affatto. Come risultato il paziente potrebbe facilmente trasferire sull'analista tutte le emozioni conflittuali della sua vita passata, e tendere a divenire uno dei casi 'interminabili'... oppure, viceversa, potrebbe avere a nausea tutta la situazione terapeutica, sentire di non stare ricevendo un aiuto attivo, e abbandonare il trattamento dopo due o tre colloqui» (Alexander, French et al., 1946, p. 55) [Nota 13: Posso pensare ad altri effetti che la psicoanalisi potrebbe avere su un simile paziente, e li ho osservati nella pratica. Alexander stesso deve aver avuto un tempo maggior successo nell'applicazione della psicoanalisi standard, dal momento che in una precedente pubblicazione ha scritto: «Spesso è necessario un bel po' di lavoro psicoanalitico per strappare al paziente la sua convinzione che esista una base organica della sua malattia» (Alexander, 1927, p. 36)].

Alcuni dei nuovi consigli tecnici presentati possono essere compresi soltanto alla luce della diffidenza verso l'insight nutrita dagli autori. Un espediente introdotto da Alexander, e accettato dagli altri autori, dal momento che essi vi fanno allusione, è il dilazionamento nel tempo dei colloqui, cioè la variazione della frequenza settimanale o mensile del numero dei colloqui, intervallando lunghi periodi sospensione [Nota 14: Tali periodi vanno da uno a undici mesi (Alexander, French et al., 1946, p. 36)] prima di interrompere il trattamento. L'effetto benefico dell'espediente, come affermano gli autori, è vario e significativo, e così ampia è l'estensione dei problemi tecnici a quanto pare risolti, che, io stesso sono stato incline a pensare ad una bacchetta magica. Il vantaggio della manipolazione della frequenza dei colloqui è spesso presentato nel riferimento ai danni prodotti da una tecnica di colloqui quotidiani. Una simile tecnica «tende in generale a gratificare più di quanto non sia auspicabile il bisogno di dipendenza del paziente»; impedisce al paziente di divenire consapevole del proprio bisogno di dipendenza; esercita «un'influenza seducente sulle tendenze regressive e procrastinatrici del paziente» (Alexander, French et al., 1946, p. 28); «rende l'analisi meno penetrante dal punto di vista emozionale»; «tende a ridurre la partecipazione emozionale del paziente alla terapia» (ibid., p. 30); «può, in alcuni casi, rendere il paziente troppo dipendente dal terapista, aggravando così in realtà le difficoltà della terapia (ibid., p. 141).

D'altro canto una corretta manipolazione della frequenza dei colloqui vuole raggiungere il giusto livello emozionale, evitare regressioni, facilitare una cessazione naturale dell'analisi, prevenire la dipendenza del paziente dall'analista, ecc. E' difficile discutere qui tutte le affermazioni che gli autori fanno in favore di tale espediente, e respingere i loro commenti sfavorevoli sulla tecnica di Freud di colloqui quotidiani. Tuttavia, dal momento che il nucleo vero e proprio della situazione psicoanalitica viene travisato, sarebbe necessaria una discussione. Non si può concedere che la situazione analitica di colloqui quotidiani implichi di per sé nei pazienti delle reazioni emozionali costanti. Le loro reazioni emozionali dipendono dalle loro individualità, e dalla tecnica dell'analista. Fin dal 1938, Alexander ha dato rilievo al fattore della dipendenza, non soltanto in connessione con i colloqui terapeutici quotidiani, ma anche ,con quasi tutti t problemi della psichiatria clinica. Sarebbe interessante cercare di scoprire con dei questionari se la sua esperienza è confermata da quella di altri analisti. P- vero che un numero così grande di pazienti diventa dipendente dall'analista, in misura tale per cui terminare l'analisi diventa un problema di tale gravità da richiedere una manipolazione per mezzo di strumenti diversi da quelli della terapia analitica classica? La mia esperienza personale, e quanto ho sentito da altri, tende a indicare che si incontrano assai frequentemente i problemi relativi all'indurre un paziente a continuare il trattamento, e ad accettare il fatto che ancora è presente una psicopatologia non risolta.

Sembra ragionevole sollevare la questione di se l'importanza che Alexander annette alle reazioni di dipendenza sia una conseguenza del modo in cui egli ha applicato la tecnica classica. Egli interpreta la dipendenza del paziente dell'analista come una regressione verso una condizione arcaica felice e gratificante. E' pensabile che sia il contenuto dell'interpretazione a renderla inefficace nello «svezzamento» del paziente dall'analista? Sarebbe possibile ridurre il numero di forti e incontrollabili reazioni di dipendenza nei pazienti se la dipendenza dall'analista viene interpretata come una resistenza da traslazione? La dipendenza non è un'entità primaria: essa ha una grande varietà di significati e per essere compresa dev'essere dissolta nelle sue componenti. Assai di frequente essa è una formazione reattiva contro l'ostilità e contro un desiderio smodato d'indipendenza. Inoltre, non è possibile che la maggior parte delle reazioni di dipendenza forti e incontrollabili si verifichi se la tecnica classica è stata applicata in maniera impropria nelle prime fasi del trattamento?

E' interessante dal punto di vista storico citare l'opinione di Alexander a tale riguardo venti anni fa:

"La resistenza ad abbandonare la situazione analitica, che d'altronde ha molti prototipi, oltre alla separazione biologica al momento della nascita, quali ad esempio lo svezzamento, imparare a camminare, lasciare la casa dei genitori, ecc. deve, con tutte le sue motivazioni oggettive, divenire conscia" (Alexander, 1927, p. 48).

Mi domando quale esperienza clinica abbia indotto Alexander a cambiare la sua precedente opinione, secondo cui le reazioni di dipendenza sono per l'analista resistenze da traslazione. French scrive:

"Egli (il paziente) può trovare la relazione terapeutica seducente, e quindi inopportuna per il. fatto di stimolare in lui degli impulsi erotici. In tali casi dei colloqui. troppo frequenti possono complicare la' terapia, specialmente se il terapista trascura di interpretare e discutere i conflitti che si generano da questa traslazione erotica" (Alexander, French et al., 1946, p. 142).

Ciò mi fa pensare ad un chirurgo che metta in guardia dalla chirurgia perché, se praticata in condizioni poco igieniche, potrà fare del male al paziente. Ma French continua:

"In casi più seri, questa reazione alla terapia sotto forma di una pericolosa seduzione può risultare in conseguenze assai poco desiderabili, anche se interpretata" (Alexander, French et al., 1946, p. 142).

Interpretata come? Come una reazione alla terapia? Di nuovo sorge la questione di fino a che punto le esperienze sfortunate degli autori con la tecnica di colloqui quotidiani possano essere dovute all'uso improprio di quella bacchetta magica che è l'interpretazione.

Io penso che gli autori avrebbero dovuto pubblicare la descrizione di una delle loro analisi che comprendesse anche le interpretazioni date, per convincere il lettore della correttezza delle loro interpretazioni. Ma anche assumendo che gli autori abbiano applicato ogni conoscenza accumulata fino a questo momento e che, inoltre, abbiano condotto correttamente le analisi dei loro pazienti, è significativa la maniera in cui essi hanno risolto i problemi incontrati. Il loro atteggiamento non è di ritenere che ai loro pazienti sia necessaria una maggiore conoscenza, né domandano che sia richiesta quella migliore comprensione delle reazioni di dipendenza, al fine di combatterle con successo, ma sostengono che la situazione analitica ha trovato qui di per sé un limite, o ha causato per così dire, una malattia, e deve essere messa da parte. Quali che siano le reazioni specifiche del paziente alla situazione analitica, esse devono essere considerate dei dati significativi concernenti la struttura della sua personalità. In ogni caso essi arricchiscono la conoscenza del paziente e dell'analista. Questo aspetto non è stato messo sufficientemente in rilievo dagli autori, e quindi credo che essi abbiano fatto corto circuito nell'attribuire alla situazione analitica di per sé la responsabilità, e nell'operare uno spostamento verso un espediente psicoterapeutico a-razionale, lì dove la terapia razionale è ancora nei suoi pieni diritti.

Può darsi che il dilazionamento dei colloqui interessi il comportamento del paziente nella maniera descritta dagli autori. Cionondimeno da quanto essi riferiscono non è evidente che questo espediente tecnico abbia lavorato a beneficio del paziente. Dopo una riduzione del numero dei colloqui, a quanto sentiamo, il paziente diviene consapevole della misura della sua dipendenza. Hanno allora gli autori fatto ritorno a colloqui quotidiani, al fine di fargli comprendere le origini della sua reazione di dipendenza? Niente affatto. Se il paziente si comportava come se fosse stato indipendente, ciò veniva considerato un successo gratificante nella valutazione degli autori. In generale, io credo, gli autori hanno sottovalutato la componente magica nella mente umana. Ho notato in alcuni miei pazienti che, dopo una discontinuità nel trattamento dovuta a fattori esterni, stabilivano una situazione in cui essi continuavano ad essermi debitori di una piccola somma di denaro. Nonostante la componente aggressiva di tale comportamento, suppongo che ciò servisse al proposito di stabilire un legame persistente tra loro e me. Ciò equivaleva a mantenere l'illusione che essi non si fossero realmente separati da me. Una simile fantasia di contenuto magico avrebbe potuto renderli capaci di comportarsi esternamente in modo apparentemente maturo. Dal punto di vista psicoanalitico comunque, il trattamento era un fallimento, malgrado un possibile successo in termini di adattamento sociale. Certo se Alexander «svezza» i suoi pazienti inserendo tra un colloquio e l'altro dei periodi di tempo sempre più lunghi, egli nutre in loro certe fantasie magiche, anche se facendo ciò egli potrebbe trasformare la dipendenza reale in una dipendenza fantasmatica, e in un'apparente indipendenza esteriore. Il paziente potrebbe essere pronto a sopportare il carico di responsabilità se la compensazione, nella forma di una fiducia anche di breve durata verso l'ammirato terapista, appare all'orizzonte, per quanto distante. Dal punto di vista di una terapia razionale, comunque, questo è un insuccesso terapeutico.

Una breve osservazione storica sarà qui appropriata. Gli autori cercano di giustificare alcune delle loro innovazioni riferendosi ai consigli di Freud a proposito della tecnica delle fobie. Come ben si sa, Freud faceva notare che ai pazienti affetti da fobie, che smettevano di esporsi alla situazione fobica prima dell'inizio del trattamento, si deve richiedere al momento giusto di sottoporsi volontariamente alla situazione temuta. Ciò è necessario per spingere il trattamento negli strati patogeni della personalità. Dunque dal punto di vista storico non è proprio corretto quanto French scrive:

"Dei colloqui frequenti possono, in alcuni casi, rendere il paziente troppo dipendente dal terapista, aggravando così in realtà le difficoltà della terapia. Ad illustrazione di questo principio, consideriamo il problema terapeutico in molti casi di fobia. Freud faceva notare, molti anni fa, che simili pazienti tendono a fissarsi al loro trattamento analitico, ed è difficile indurli a portarlo a termine" (Alexander, French et al., 1946, p. 141).

Freud non attribuiva la difficoltà ad un impatto specifico della situazione analitica sul paziente; ciò si può vedere facilmente dal suo riferimento ad una condizione sintomatica che esisteva prima dell'inizio del trattamento analitico del paziente.

Per evitare fraintendimenti, si dovrebbe mettere in rilievo che gli autori non negano esplicitamente l'importanza di cambiamenti strutturali [Nota 15: E' interessante osservare come termini quali «dinamico» e «strutturale» siano diventati dei meri slogan. E' inoltre sorprendente con quanta parsimonia Freud abbia usato la parola «dinamico», persino nel suo settimo capitolo dell'Interpretazione dei sogni, in cui la personalità umana ha trovato la rappresentazione più dinamica, fino a questo momento. Notevole dal punto di vista storico è il paragone tra l'atteggiamento dei nostri giorni e l'orgoglio di Wernicke di aver raggiunto una teoria «meccanica» delle psicosi, benché una lettura intelligente delle sue Lectures convincerà del fatto che le teorie di Wernicke erano estremamente dinamiche. Oggi nessun autore oserebbe vantare la natura meccanica delle proprie teorie. Sembra che ai nostri giorni gli autori insistano sul dinamismo delle loro teorie, credendo che l'uso di un tale epiteto ne dimostri la correttezza] in un qualche passo dei loro scritti. Gli autori, comunque, hanno messo in correlazione i cambiamenti di comportamento osservati nei loro pazienti nel corso della terapia con cambiamenti strutturali, senza indagare più a fondo nel background che potrebbe aver dato sostegno alla modificazione dei modelli di comportamento dei loro pazienti. Dal momento che agli autori erano sconosciute le storie dettagliate dell'infanzia della maggior parte dei loro pazienti, essi non sapevano nemmeno se, la variazione del modello di comportamento osservata durante e dopo il trattamento non fosse dovuta ad un'ulteriore regressione.

Fino a che punto alcuni propositi teorici degli autori deviino dalla loro pratica si può osservare nell'obiettivo, professato da Alexander, di accelerare la trasformazione della psicoanalisi in un procedimento che ottenga dei cambiamenti permanenti nell'Io per mezzo di un «training emozionale in lenta progressione» (Alexander, French et al., 1946, p. 18), e nella prontezza con cui egli usa la parola guarigione in connessione con risultati terapeutici, anche se basati su di un solo colloquio (ibid., p. 163). Il training emozionale nell'unico colloquio condotto da Grotjahn riguardava un medico di quarantacinque anni, un rifugiato, affetto «da un'intensa depressione che risultava da un'estrema irritazione nei confronti di suoi figlio». In quella sola ed unica consultazione, il paziente aveva capito «che la vita sarebbe stata più facile adesso, se suo figlio e la moglie non avessero abitato con lui», «che le richieste di suo figlio in realtà non erano esagerate, ma lo sembravano, perché egli si sentiva insicuro... », che «egli si sentiva colpevole e responsabile», e che il comportamento di suo figlio era giustificato.

Ma questo successo, conseguito in un solo colloquio, non era abbastanza. Oltre al notevole sollievo da un'intensa depressione, il terapista aveva dispensato un aiuto permanente facendo in modo che il paziente potesse «adeguare la sua maniera di lavorare allo stile di vita americano». Ciò era stato ottenuto con il consiglio che il paziente avesse «un ufficio fuori casa» (Alexander, French et al., 1946, p. 156). Neanche i più ferventi sostenitori dell'efficacia del lavoro sociale oserebbero servirsi dei termini adattamento e guarigione a proposito di una tale semplice manipolazione dell'ambiente.

E' interessante notare che Alexander era inizialmente turbato dal dubbio nella genuinità dei risultati terapeutici rapidi. Quando per la prima volta egli «curò» un paziente con la nuova tecnica, egli ancora «pensava che questa fosse probabilmente una di quelle 'fughe nella salute' talvolta osservate nella psicoanalisi» (Alexander, French et al., 1946, p. 153). Tuttavia in seguito egli non tenne conto di questa possibilità, perché le sue osservazioni «non permettevano più una simile spiegazione compiacente» (ibid., p. 153). Evidentemente per non essere compiacente egli si astenne da ogni ulteriore pensiero a proposito di quella resistenza assai insidiosa che si manifesta con la fuga nella salute, e che costituisce uno dei compiti più difficili della terapia.

E. Esperienze emozionali correttive

Alexander introduce un termine di cui è difficile determinare se si tratta soltanto di un nome per un fatto già noto, o se descrive un nuovo principio terapeutico. In due scritti precedenti Alexander (1935, 1944) aveva ritenuto appropriato descrivere il processo della terapia psicoanalitica con tre concetti, ossia: scarica emozionale, insight, e elaborazione terapeutica o integrazione. Stavolta egli aggiunge un quarto concetto, cioè l'esperienza emozionale correttiva. Egli subordina l'importanza degli altri tre concetti al quarto (Alexander, French et al., 1946, p. 26). Che cosa significano le esperienze emozionali correttive nella presentazione che Alexander fa della terapia?

Il paziente ha l'opportunità di' manifestare i suoi vecchi conflitti nella relazione di traslazione. L'analista assume un atteggiamento diverso da quello dei genitori del paziente. Alexander scrive:

"…l'atteggiamento oggettivo e comprensivo dell'analista permette al paziente di affrontare diversamente le proprie reazioni emozionali, e cosi di dare un nuovo assetto al vecchio problema. Il vecchio modello era un tentativo di adattamento da parte del bambino al rapporto parentale. Quando uno degli anelli di questa relazione interpersonale (la risposta parentale) cambia attraverso il medium dei terapista, la reazione del paziente diviene smussata...
...il significato terapeutico delle differenze tra la situazione conflittuale originale e la presente situazione terapeutica è spesso trascurato. E proprio in tali differenze è il segreto del valore terapeutico del procedimento analitico" (Alexander, French et al., 1946, p. 67).

Alexander mette senza dubbio l'accento su un punto importante della tecnica psicoanalitica. Non so in che misura tale punto sia stato trascurato, ma temo che Alexander dia ad esso, benché effettivamente importante, un rilievo eccessivo per adattarsi alle esigenze della sua tecnica. La sua conclusione è che l'analista dovrebbe «fornire con il suo stesso atteggiamento, le nuove esperienze necessarie a produrre dei risultati terapeutici» (Alexander, French et al., 1946, p. 67). Vedremo più tardi in un esempio clinico come egli proceda nella pratica. A questo punto si dovrebbe mettere in rilievo che in alcune fasi della psicoterapia di schizofrenici, delinquenti, alcolizzati, tossicodipendenti, e probabilmente di molti nevrotici gravi, la ricerca costante di una simile tecnica diventa una necessità, durante certe fasi del loro trattamento.

D'altra parte ritengo che Alexander, nei suoi frequenti riferimenti al fallimento dell'insight nel produrre dei cambiamenti di personalità, limiti chiaramente il concetto dell'insight all'insight intellettuale. Nei suoi primi scritti Freud ha messo in evidenza il fatto che l'insight intellettuale è inefficiente e sprecato in ogni sforzo terapeutico. Ogni qualvolta Freud si serve dei termine insight egli si riferisce ad un atto psicologico che concerne tutte le strutture della personalità, compresa la sfera emozionale, o che su di esse ha effetto. L'insight è stato usato nella maggior parte degli scritti analitici nel significato attribuito da Freud a tale concetto. Il disprezzo da parte di Alexander dell'insight intellettuale è dunque superfluo.

Potrebbe diventare più facile capire ciò che Alexander intende per concetto di esperienza emozionale correttiva, se discutiamo l'esempio letterario di Jean Valjean, l'eroe di Les Miserables di Victor Hugo, che Alexander cita come paradigma. Potrebbe essere interessante mettere in rilievo che spesso è difficile interpretare psicologicamente i romanzi di Hugo, considerate le tendenze politiche e le teorie sociali che stanno dietro la sua produzione artistica. Les Miserables è stato scritto nell'assunzione che il crimine sia una reazione alle condizioni sociali. In quel capolavoro letterario, che non può essere classificato soltanto come un romanzo psicologico, bensì come un programma di tendenza, era espressa una filosofia sociale di ampia portata. Inoltre Les Miserables è stato scritto nel periodo romantico della letteratura francese, con la sua predilezione per le trame complicate, e non si riesce a distinguere in che misura certi eventi siano stati introdotti per salvaguardare la costruzione della trama, o con il proposito di presentare la natura umana. Certo Hugo differisce del tutto da Dostojevsky, che «viveva» i suoi romanzi nel loro progredire, e non anticipava quale svolta avrebbero preso le vicissitudini dei suoi eroi. Ma cerchiamo di fare del nostro meglio con la conversione di Jean Valjean. Alexander si riferisce alla maniera cristiana e clemente con cui Monsigneur Bienvenu, il vescovo, aveva trattato un crimine commesso da Jean Valjean. Il criminale incallito fu colto allora da sorpresa, perché prima d'allora non aveva mai fatto esperienza della bontà umana. Poche ore più tardi, egli commise una violazione della legge di minore gravità nei confronti di un ragazzo. Nel commettere tale violazione e subito dopo, egli fu travolto da una tempesta emozionale, i cui effetti lo indussero a cominciare tipo di vita sociale, una vera e propria antitesi del suo passato. Egli divenne da criminale un uomo veramente santo.

Dalla presentazione che Alexander ne fa non è chiaro se egli consideri la reazione di jean alla bontà del vescovo, o il successivo misfatto di Jean, o entrambi, l'esperienza emozionale correttiva. Secondo Alexander, l'effetto della bontà del vescovo su Jean non è «altro che un romanzo». Alexander ritiene che il comportamento successivo durante la rapina al ragazzo, sia significativo della «percezione dinamica» di Hugo. Comunque la regressione di Jean al comportamento criminale è spiegata da Alexander come la «recrudescenza del sintomo» prima che esso possa essere abbandonato; quindi esso non rientra esattamente nel concetto di esperienza emozionale correttiva. Per quanto io possa vedere, il nuovo concetto di Alexander, può significare un'inquietudine esclusivamente emozionale che risulta in un cambiamento di comportamento, così come è descritto nella vita di molti santi, il più famoso dei quali è la miracolosa metamorfosi di San Paolo. Inoltre, per tornare all'esempio clinico di Alexander, voglio dire che il comportamento da delinquente di jean contro il ragazzo, fu introdotto da Hugo probabilmente per poter mantenere Jean nella condizione di criminale braccato, dettaglio senza il quale le complicazioni successive del romanzo sarebbero state impossibili.

Ma, comunque stiano le cose, prendiamo Jean Valjean come un caso di prova dell'efficacia delle «esperienze emozionali correttive». Vediamo quale fu il suo destino, dopo che nella sua vita si verificò quella rivoluzione emozionale. E' evidente che egli non era cambiato, nel senso cui la psicoanalisi aspira attraverso dei cambiamenti di struttura. Innanzitutto, la dicotomia cui egli si trova di fronte dopo la sua conversione, ossia quella di diventare un angelo o un mostro, non è di buon auspicio.. Il riferimento alla necessità di diventare migliore del vescovo indica in particolare che ha avuto luogo soltanto uno scambio di esponenti. Il meccanismo che ne sta alla base può essere così descritto: «Dal momento che sono stato il peggiore dei criminali, devo adesso diventare più santo dell'uomo più santo che abbia incontrato finora». In realtà Jean non si liberò mai dal vescovo. Per tutto il resto della sua vita egli fu in competizione con il suo «terapista», per così dire. Persino sul suo letto di morte, egli chiese se meritava o no l'approvazione del vescovo. Ma allo stesso modo egli non si liberò mai del suo passato. Ciò è splendidamente espresso da Jean in un paragone tra un chiostro, in cui egli visse per molti anni, e le galere da cui veniva. In realtà egli non ama nessuno, tranne una bambina di nome Cosette. La sua bontà verso gli altri si compie su un livello intellettuale, secondo un piano stabilito, con poca partecipazione interiore. La sola persona verso cui egli sviluppi un forte attaccamento emozionale positivo è la figlia di una donna cui egli aveva indirettamente e inavvertitamente distrutto la vita. Di nuovo il senso di colpa e il carattere di formazione reattiva sono piuttosto cospicui. In tutta la sua bontà ed apparente altruismo nei confronti della bambina, la psicopatologia è solo semplicemente travestita. Quando più tardi Cosette si innamora di Marius, l'egoista manipolazione di Cosette da parte di Valjean diviene assai evidente, ed egli è gettato in un profondo conflitto. Quando si rende conto di avere perso la battaglia per l'eliminazione del suo rivale, egli applica di nuovo il suo atteggiamento esternamente altruistico, e salva la vita di Marius. Ma lo fa con l'odio nel cuore, secondo le parole stesse di Hugo, e dopo il matrimonio di Cosette e di Marius si ritira completamente dalla vita, confessa all'innamorato di Cosette di essere un ex-forzato, e gli fa credere di proposito di aver continuato la sua carriera criminale, mettendo così in pericolo la felicità degli sposi.

Alexander non avrebbe potuto scegliere esempio migliore di quello di Jean Valjean per dimostrare l'insufficienza e i limiti delle esperienze emozionali correttive. Esse potrebbero indurre una persona a spostarsi da un estremo all'altro, ma non producono dei cambiamenti strutturali, e non portano all'integrazione.

L'esperienza emozionale correttiva è lo strumento principale usato nella psicoterapia magica. E' l'incantesimo del mago sul suo soggetto. La descrizione di Hugo della conversione di Valjean è un esempio tra mille delle vecchie credenze magiche. L'odio è combattuto dalla bontà. La siccità è mutata in pioggia dall'aspersione del campo per mano dello stregone. Egli dà alla natura un esempio di ciò che dovrebbe accadere * Benché la magia sia distrutta dalle leggi inalterabili della fisica e della biologia, la mente umana reagisce tuttavia ad essa, e un criminale può perciò essere indotto a scaricare la sua forza di distruzione in ripetuti atti di carità, sebbene ciò non cambierà la sua realtà psichica. La società valuta soltanto il comportamento, e non si preoccupa delle motivazioni. Ma gli psicoanalisti non dovrebbero mai mettersi a far le marionette della società, ed accettare modelli superficiali di comportamento come indici della realtà psichica.

Il riferimento di Alexander alla tecnica di Aichhorn della terapia dei delinquenti non è giustificato, dal momento che il dogma di fondo di Aichhorn è che né la severità punitiva, né la gentilezza e la cordialità sono gli strumenti più adeguati nel trattamento di delinquenti. La cordialità e la gentilezza possono essere necessarie durante la fase preparatoria del trattamento, quando l'obiettivo fondamentale di stabilire un'adeguata relazione di traslazione domina gli altri momenti del processo terapeutico. Al fine di rendere un delinquente analizzabile, la psicoterapia magica è certamente non soltanto indicata, ma assolutamente necessaria. Ciò è ugualmente vero per certe fasi della psicoterapia di schizofrenici. E' Aichhorn in particolare a far notare l'insufficienza di una terapia che si interrompesse dopo aver raggiunto uno stadio in cui il delinquente cessa di mostrare i sintomi del suo disordine originale. E' stato un vero trionfo terapeutico, e un grande contributo per la società, quando egli poté provare che il delinquente, dopo aver subito una serie di «esperienze emozionali correttive» (nella terminologia di Alexander), fu in grado di sopportare la terapia razionale, consistente in cambiamenti strutturali. Lo stadio della riabilitazione, quale è stato descritto da Hugo e accettato da Alexander come una cura, era ben conosciuto all'epoca della psicologia pre-freudiana. L'impresa suprema di Freud fu proprio aver sollevato il «livello del cambiamento deliberato di personalità» assai più in alto di quanto fosse stato ritenuto possibile, o di quanto si sapesse prima. I tentativi degli autori di annullare tale impresa, ricomponendola in una matrice pre-freudiana, è deplorevole

E' logico, considerata la posizione di Alexander, che egli supponga che i ricordi recuperati siano soltanto dei meri indicatori del progresso del trattamento, e che egli ne neghi l'importanza nei termini di un cambiamento strutturale. L'evidenza clinica confuta le sue asserzioni. Il trattamento ipnotico, che lascia le strutture dell'Io completamente intoccate, può riordinare l'equilibrio dinamico della personalità con un drenaggio unilaterale dell'energia contenuta legata ai sistemi della rimozione. Il ricupero di ricordi da soli, se fosse possibile, certo non potrebbe soddisfare le richieste della terapia razionale, ma è un fattore integrale per dare all'Io padronanza. La svalutazione da parte di Alexander dell'approccio genetico è necessaria per svalutare l'insight e l'interpretazione, e per rendere la relazione di traslazione di per sé lo strumento terapeutico centrale. Se il paziente venisse a conoscenza della sua relazione di traslazione, l'incantesimo magico si dissolverebbe, e tutto il duro e lungo lavoro richiesto dalla terapia razionale diverrebbe obbligatorio.

F. Osservazioni storiche

Alexander cerca di adattare il suo approccio tecnico all'interno della storia della psicoanalisi. Egli rivendica Ferenczi e Rank come padrini spirituali della sua innovazione. Alexander si riferisce al principio di Ferenczi e Rank secondo cui il paziente può essere curato senza ricordare il proprio passato (Alexander, French et al., 1946, p. 22). Egli ritiene che il suo lavoro sia

"una continuazione e realizzazione delle idee proposte per la prima volta da quegli autori. Essi hanno sostenuto l'importanza dell'esperienza emozionale, al posto della comprensione intellettuale genetica delle fonti dei sintomi del paziente. Essi hanno sostenuto che l'esperienza emozionale dovrebbe prendere il posto della ricerca di memorie e della ricostruzione intellettuale" (Alexander, French et al., 1946, p. 23).

Così Alexander ha recensito, assai favorevolmente The Development of Psychoanalysis (Ferenczi & Rank, 1923) nel 1946, facendo rilevare una differenza essenziale tra la psicologia standard e la sua nuova tecnica d'approccio.

Non so se il lettore ha familiarità con l'antica storia greca di quell'uomo che aveva preso in prestito un vaso, e aveva restituito danneggiato al suo proprietario. Quando fu processato, egli si difese affermando innanzitutto che non aveva mai preso in prestito il vaso, poiché quando l'aveva preso in prestito il vaso era già danneggiato, e infine che il vaso non era danneggiato quando egli l'aveva restituito al suo proprietario. Mi sono ricordato di questa storia quando ho rivisto quello che Alexander ha scritto a proposito dello stesso libro nel corso di poco più di due decenni. Quando egli recensì il libro nel 1925 (Alexander, 1925a), fece rilevare che, per quanto contenesse delle affermazioni corrette, esso non diceva nulla di nuovo; discutendo il problema della tecnica psicoanalitica nel 1935 (Alexander, 1935) egli faceva rilevare che Ferenczi e Rank avevano torto perché «ovviamente la funzione d'integrazione dell'Io è trascurata, insieme all'espediente tecnico corrispondente, l'elaborazione terapeutica», e afferma riassuntivamente che «la tecnica di Ferenczi e Rank non può essere classificata come terapia di abreazione» (Alexander, 1935, p. 597). Abbastanza stranamente nel 1946 Alexander vuole liberare la psicoanalisi dai residui nascosti della terapia dell'abreazione, per mezzo di una tecnica che, con le sue stesse parole, egli aveva chiamato dieci anni prima terapia d'abreazione. Nel 1946 Ferenczi è proclamato rappresentante di una reazione costruttiva all'insoddisfazione verso la tecnica psicoanalitica.

Mi spiace che la prima recensione di Alexander del libro di Ferenczi e Rank non sia disponibile in inglese [Nota 16: Le citazioni dalla revisione del libro da parte di Alexander sono tradotte da me]. Nel 1925 Alexander era ancora consapevole del fatto che rimproverare all'analisi di trascurare le esperienze emozionali nella terapia era possibile soltanto non tenendo conto del lavoro di Freud. Vale la pena citare qualche passo dalla polemica di Alexander contro Ferenczi; tali passi ci sembrano oggi l'anticipo da parte di Alexander di una recensione critica del libro che egli avrebbe scritto vent'anni. più tardi. Egli affermava (Alexander, 1925a, p. 115):

"Il pensiero di base del... libro è espresso in maniera assai succinta nell'affermazione degli autori secondo cui la psicoanalisi entra oggi in una nuova fase, ossia nella fase dell'esperienza emozionale (Erlebnisphase) che segue la fase intellettuale (Erkenntnisphase) di questi ultimi anni. Secondo Ferenczi e Rank, quest'ultima consisteva in parte in un'ipertrofia della ricerca teorica, e in parte, per quanto riguarda la terapia, in un'enfasi eccessiva della conoscenza comunicata al paziente durante il trattamento... Devo confessare che non mi è familiare, specialmente per quanto concerne la tecnica psicoanalitica, una mera fase intellettuale, almeno da quando Freud, tredici anni fa, ha pubblicato scritti di ampia portata sulla tecnica".

Per provare ciò Alexander cita dalla Dinamica della traslazione di Freud (1912a), e continua:

"Il contenuto essenziale dell'opuscolo di Ferenczi & Rank (1923) è compreso in queste frasi di Freud. Ferenczi e Rank non hanno presentato l'importanza della tecnica del fattore emozionale in maniera più chiara, più persuasiva, o più distintamente (vale a dire di Freud)... Una persona che dovesse non avere preso in considerazione le scoperte di Freud di quell'epoca commetterebbe un errore personale, ma non assolverebbe affatto il suo compito terapeutico nel senso della psicoanalisi. Se qualcuno dovesse insistere a parlare di una fase di esperienza emozionale, egli dovrebbe datarne l'inizio a tredici anni fa, quando; Freud pubblicò il saggio citato, e non farla cominciare a partire dalla pubblicazione del libro di Ferenczi e Rank".

Se soltanto Alexander avesse riletto la sua recensione, prima di pubblicare il nuovo libro, quanta confusione avrebbe risparmiato agli studenti delle scienze della mente, già fortemente oppressi dallo spuntare di movimenti secessionistici. Nella sua recensione del 1925 Alexander non faceva riferimento ad opinioni, ma a fatti, e non vedo come egli possa conciliare l'Alexander del 1925 con quello del 1946. Quando inoltre egli rimproverava Ferenczi e Rank di aver trascurato la dissoluzione della traslazione e l'elaborazione terapeutica, che

"deve compiere la vera parte analitica (das eigentliche Analytische) e per mezzo di cui il cambiamento permanente dell'Io... è rinforzato» e poi vent'anni più tardi commette lo stesso errore, il lettore potrebbe dire che è possibile che ricerche successive abbiano provato che quei due meccanismi avevano un'importanza minore di quanto non si potesse ritenere prima, quando Alexander pensava che Ferenczi e Rank avessero «perso la coincidenza".

Ma nel 1925 Alexander scriveva che

"la più grande pressione che possiamo esercitare sul paziente, al fine di indurlo a rinunciare, consiste nello scoprire la traslazione; questo processo che progredisce lentamente, e che diventa continuamente più distinto, rende sempre più conflittuale e difficile per il paziente giocare il ruolo del bambino che capita nella traslazione in un'epoca in cui egli è un adulto. Il conflitto interno è il fattore più efficace che contribuisca alla dissoluzione della traslazione".

Qui Alexander si riferisce ad esperienze cliniche, a fatti che egli doveva aver osservato con i propri occhi, e di nuovo si incontra una contraddizione inconciliabile quando egli afferma, vent'anni più tardi, che la situazione analitica di per sé crea una crescente dipendenza del paziente dall'analista. Alexander non esitava a parlare dell'atteggiamento ambivalente di Ferenczi e Rank verso alcune parti della terapia analitica (Alexander, 1925a, p. 122), e, a sua volta, egli dovrà rimproverare a sé stesso oggi la stessa ambivalenza diagnosticata in altri venti anni fa.

Più sopra non ho espresso la mia opinione personale sullo stupendo lavoro di Ferenczi. Ho soltanto cercato di paragonare i fatti riportati da Adexander in due periodi diversi del suo lavoro. Per quanto riguarda l'affermazione di Adexander di aver continuato il lavoro di Ferenczi, sono convinto che Ferenczi sia penetrato troppo in profondità negli abissi della mente umana per riconoscere volontariamente la paternità di un autore che aderisce ai principi delle spiegazioni semplici. Egli scrive (Alexander, 1927, p. xvii):

"Non posso condividere la diffidenza a priori di alcuni scienziati verso le formulazioni semplici. lo sono prevenuto in maniera diversa: ossia contro i tentativi di spiegazione oscuri e complicati. Sono convinto che in natura le connessioni siano estremamente semplici".

L'ultimo libro di Alexander dimostra di nuovo che egli aderisce fiducioso a tale principio. Ma chiunque abbia avuto occasione di dare un'occhiata alla Natura, che si tratti del fisico o del biologo, si sente confuso dal dedalo infinito di enigmi irrisolvibili. Persino chi studia gli insiemi più piccoli, quali gli atomi, riconosce l'impenetrabilità della natura agli occhi del ricercatore, e nota che ogni scoperta risulta in una visione più ampia di continenti senza carta geografica. Tuttavia Alexander si lascia continuamente sfuggire tali nuove visioni, e ritorna beatamente ai vecchi concetti, che sembrano veramente semplici di fronte alle scoperte più recenti. Egli ripete una vecchia formulazione quando scrive: «Non prima del 1930 (Alexander, 1930) il ritorno di ricordi è stato dimostrato essere non la causa del progresso terapeutico, ma il suo risultato» (Alexander, French et al., 1946, p. 20). Tuttavia un esame attento degli Studi sull'isteria potrà provare che questo punto era stato già dimostrato nel 1895. Breuer & Freud (1892-95) scrivevano:

"Benché il paziente si liberi dal sintomo isterico soltanto riproducendo le impressioni patogene che lo causano, ed esprimendolo con tutte le manifestazioni affettive, pure il compito terapeutico consiste soltanto nello spingerlo a questo, e una volta che questo compito sia risolto, al medico non rimane più nulla da correggere o da abolire. Tutto ciò che occorre in fatto di contro-suggestione, è già stato impiegato durante la lotta contro la resistenza. Il caso può in certo modo paragonarsi all'apertura di una porta chiusa a chiave; quando la chiave ha funzionato, abbassare la maniglia per aprire la porta non presenta più alcuna difficoltà" (Breuer & Freud, 1892-95, p. 419).

Tale formulazione era corretta nei termini del concetto della mente umana sviluppato da Freud all'incirca fino al 1900, e coincide ampiamente con le opinioni di Alexander nel 1946. Ma dal 1900 è divenuto evidente che ci sono molti ricordi al cui ritorno il paziente si oppone con una tale e forte resistenza, che l'analisi deve attaccare il problema da due direzioni diverse: analizzando la resistenza, e indovinando il contenuto dei ricordi rimossi. Quest'ultima costruzione farà sorgere nel paziente certe aspettative che faciliteranno l'apparizione delle memorie di cui si era alla ricerca, e rivelerà al paziente il contenuto contro cui la sua resistenza è diretta. Inoltre è divenuto evidente che le più importanti memorie inconsce non possono più essere ricordate dal paziente, in quanto non possono essere verbalizzate, e di conseguenza devono essere ricostruite dall'analista (Freud, 1937b). Chiunque ritenga che la mera scoperta dei ricordi, dopo aver tolto le resistenze, concluderà il lavoro dell'analista, non ha mai seriamente cercato di ottenere una storia adeguata di un sintomo nevrotico. Non è forse il ritorno dei ricordi dell'infanzia soltanto il passo iniziale nel lavoro che consiste nell'interpretare il loro significato? Inoltre, nelle nevrosi ossessive il paziente riproduce facilmente una storia abbastanza completa dei suoi sintomi, compresi per lo più ricordi d'infanzia pertinenti. Costituiscono tali ricordi il risultato del processo terapeutico, o non sono forse la manifestazione di un'intensa resistenza contro l'esperienza delle emozioni? L'estrema semplicità che Alexander si aspetta di incontrare nella natura presuppone una cecità ostinata verso settori significativi della vita. Senza di essa le leggi della psicologia apparirebbero complicate almeno quanto quelle dell'atomo.

G. Interpretazioni di prova

Per continuare la discussione sulla nuova tecnica, il lettore dovrebbe familiarizzarsi con un altro nuovo espediente, ossia con le interpretazioni di prova, che Alexander raccomanda di applicare principalmente durante il primo colloquio, al fine di misurare la forza dell'Io del paziente. Alexander valuta la reazione del paziente a tali interpretazioni nei termini della capacità di insight del paziente, e del carattere e della misura della sua probabile resistenza e della sua futura cooperazione (Alexander, French et al., 1946, p. 98). Vale la pena di leggere il resoconto originale di Adexander (1944) su di un esempio di tale tecnica.

Un uomo d'affari di quasi sessant'anni, accompagnato da sua moglie, l'aveva consultato a causa di una fobia sviluppata di recente. Alexander scoprì subito che quella fobia era una scusa per la riluttanza del paziente a far fronte al mutamento della sua condizione esistenziale, dovuto all'indebolimento delle sue capacità. Alexander descrive una serie di interpretazioni prova e loro valutazioni come segue:

"Cominciai prudentemente con lo spiegare al paziente che la sua fobia era di origine emozionale e non fisica. Incontrai immediatamente una resistenza massiccia, egli era convinto che tutta la situazione fosse il risultato del suo colpo di sole. Qui non arrivai nemmeno alla prima base, e lanciai un altro «pallone di prova». Continuai col suggerirgli con tatto che forse si sbagliava nel giudicare l'abilità dei suoi collaboratori nel condurre gli affari senza il suo aiuto. Nella sua opinione egli era irriducibile. Allora cominciai ad approcciarlo da un altro punto di vista, a discutere con lui le difficoltà emozionali dell'andare in pensione in generale. Gli dissi che spesso una persona non vuole rendersi conto di avere perso la propria utilità. Il paziente divenne evidentemente irrequieto. Continuai col dirgli quanto è difficile cedere il proprio posto alla gioventù. Aggiunsi che nutrivo qualche dubbio sulla validità della sua critica ai suoi collaboratori. Richiamai la sua attenzione sul fatto che le sue affermazioni a loro riguardo erano molto contraddittorie. Più tentativi facevo, più diventava chiaro che sarebbe stato impossibile fargli vedere la spiacevole verità, per quanto garbatamente io procedessi... Gli dissi la verità con tutto il tatto possibile, e cioè che egli non era in grado di affrontare il cambiamento della sua situazione esistenziale... Quando ebbi finito il paziente saltò dalla sedia e con voce stridula chiamò la moglie nella sala d'aspetto «Mamma, andiamo a casa!» …sua moglie mi telefonò qualche giorno dopo per dirmi che suo marito non aveva più parlato di tornare in ufficio. Penso di aver risparmiato al paziente una lunga analisi, e a me stesso un fallimento terapeutico. Se il paziente avesse mostrato una minore resistenza, dopo la mia prima interpretazione avrei cambiato tutta la mia strategia" (Alexander, 1944, p. 330).

Tale racconto è interessante, tra l'altro, per il possibile disaccordo su che cosa possa significare il tatto nella terapia. Si rimanda il lettore alle osservazioni di Reik (1935, pp. 102-111) sull'argomento. Reik mette giustamente in rilievo l'intimo rapporto esistente tra il tatto e i tempi dell'interpretazione, una connessione di cui sembra che Alexander si sia dimenticato [Nota 17: Ferenczi può aver avuto ragione quando ha rimproverato Alexander di mancanza di senso delle sfumature più sottili della personalità. Egli ha scritto: "...la sua [di Alexander] percezione delle diverse sfumature non costituisce il suolato forte" (Ferenczi, 1926, p. 82)]. Penso che Alexander raccomandi qui una tecnica che ciascuno dovrebbe essere messo in guardia dall'applicare. Il fatto che il paziente abbia smesso di pretendere di andare al suo ufficio, come riferito dalla moglie, potrebbe essere stato il segno dell'inizio di una grave depressione. Un terapista dotato di esperienza clinica capirebbe dalla storia del paziente e dai suoi sintomi manifesti che egli non è affatto un soggetto d'analisi, e che pazienti di questo tipo richiedono un tipo di psicoterapia che può essere chiamata «di custodia», consistente ossia in colloqui ripetuti che coprano possibilmente il resto della loro vita, con miti incoraggiamenti e evitando assolutamente ogni provocazione. Un paziente il cui disturbo abbia raggiunto questo grado, non dovrebbe mai, quando si reca nello studio di un medico, essere esposto ad un'umiliazione. Cercare di far diminuire le difese del paziente significa rischiare un serio peggioramento in questo tipo di paziente. Penso che Alexander non avrebbe potuto scegliere un esempio clinico migliore per convincere il lettore dell'inadeguatezza delle interpretazioni di prova. Noi non possiamo condividere il suo ottimismo a proposito del fatto di aver evitato un fallimento terapeutico.

H. Casi riportati

Alexander ha dimostrato il principio della flessibilità nella tecnica psicoterapeutica in un caso d'isteria da conversione, e di un grave disturbo della personalità (Alexander, French et al., 1946, p. 55 e sgg.). Si tratta di un uomo d'affari di quarantadue anni, affetto da un tic incontrollabile alle braccia. Egli aveva avuto tre attacchi di stati d'incoscienza parecchi anni prima. Esisteva la possibilità di un'epilessia focale. Il paziente era una persona irritabile e intollerante, che aveva perso la propria potenza poco prima d'iniziare il trattamento. Il trattamento si compose di ventisei colloqui durante un periodo di dieci settimane. Undici mesi dopo il trattamento, la guarigione da tutti i sintomi continuava immutata.

Come ha fatto Alexander a raggiungere un successo così notevole? Nel primo colloquio egli arrivò alla conclusione che le notevoli difficoltà del paziente fossero il risultato dei problemi di cui egli aveva sofferto in gioventù a causa di un padre tirannico dispotico, di idee ristrette e severo. Il paziente aveva perso all'età di dodici anni una madre protettiva. Dopo la morte del padre egli aveva riscosso successo nei suoi vari tentativi di provare la propria superiorità rispetto a suo padre come uomo d'affari, e aveva considerevolmente ampliato l'impresa ereditata. Questo era comunque l'unico settore della sua vita in cui egli avesse successo. In tutte le relazioni umane, con la moglie, con il suo unico figlio, con le persone che erano in società con lui, egli falliva. Fin dall'inizio della terapia il paziente cercò di stabilire una situazione in cui potesse ripetere l'antico modello di comportamento sviluppato nella relazione con il padre. Ma Alexander si contrappose allo stabilirsi di ribellione, ammirazione o devozione, evitando scrupolosamente ogni possibilità di discussione, minimizzando il proprio contributo, e convincendo il paziente che «se il paziente si fosse dedicato alla professione, era possibile che sarebbe divenuto più esperto dell'analista stesso» (Alexander, French et al., 1946, p. 58).

Tale atteggiamento nei confronti del paziente era, per quanto mi sia dato vedere, l'espediente principale con cui Alexander accelerò il progresso nella condizione del paziente. Giustamente Alexander mette in rilievo il fatto che il conflitto del paziente con il padre non era stato interiorizzato, e che non si era sviluppato un senso di colpa per la sua ostilità contro il padre (Alexander, French et al., 1946, p. 59). Tale mancanza di interiorizzazione dev'essere vista simultaneamente alla tecnica di Alexander, e quindi si può autorizzare il commento seguente: «Il paziente giunse a quanto pare alla terapia in uno stato di grande tensione». Il comportamento di Alexander era proprio l'opposto di ciò che egli si aspettava, ma coincideva con un vecchio desiderio. Alexander gli fornì generosamente adempimenti di desideri. Dal momento che il conflitto non era interiorizzato, ma riguardava ancora un oggetto esterno, l'adempimento del desiderio non generava sensi di colpa. Così come aveva cercato di superare il padre negli affari, il paziente cercava adesso di superare Alexander nel suo nuovo campo di competizione. Quando Alexander riferisce che «egli stesso (il paziente) riconosceva di poter adesso agire come un padre nei confronti del figlo, poiché aveva trovato infine nel trattamento ciò che sempre aveva voluto, ossia comprensione e sostegno da parte di una persona di autorità» (Alexander, French et al., 1946, p. 59), ciò può soltanto voler dire che egli non guarì dai suoi sintomi perché la sua personalità era cambiata, ma perché un suo desiderio era stato soddisfatto. Non è qui il caso di discutere dell'opportunità di una simile tecnica (dal punto di vista clinico il successo fu estremamente brillante) ma si dovrebbe mettere in rilievo il fatto che la guarigione fu effettuata con mezzi estranei alla psicoanalisi. E' la tecnica che ricordava a Freud l'imperatore d'Austria Giuseppe che, dopo essersi travestito, prese conoscenza delle privazioni dei suoi sudditi, e con degli atti di carità rimosse la fonte della loro infelicità.

Alexander parla dell'assoluta confusione del paziente quando era messo a confronto con un'autorità benevola, e illustra ciò servendosi di due sogni: in uno il paziente fece dell'analista un despota come il padre, nell'altro «egli fece del padre il ripristinatore benevolo della sua potenza. In realtà l'analista era la persona benevola, e il padre il tiranno» (Alexander, French et al., 1946, p. 60). Non sono propenso a seguire Alexander in tale valutazione. Questi due sogni non rimandano ad alcuna confusione; essi indicano che, dal punto di vista della realtà psichica, il padre e l'analista erano sullo stesso piano; essi erano divenuti identici non per traslazione, ma in seguito al lavoro dell'inconscio in cui gli estremi sono rami della stessa radice (Freud, 1910). Alexander era riuscito a rappresentare un quadro che era inerente alla relazione del paziente con il padre probabilmente fin da un'epoca assai remota. Così egli era riuscito a far coincidere una relazione di realtà con una relazione inconscia e rimossa. Il racconto di Alexander non è abbastanza dettagliato per convalidare l'ipotesi che il paziente, durante il periodo di guarigione, avesse inseguito ossessivamente un modello d'azione esattamente opposto a quello da cui era stato precedentemente dominato. Se Alexander avesse cercato di dimostrare che tali cambiamenti di personalità che vanno da un estremo all'altro possono essere raggiunti senza la psicoanalisi standard, avrebbe incontrato piena approvazione. Ma egli si è spinto troppo in là, ritenendo che la sua tecnica aveva insegnato al paziente degli atteggiamenti adulti, e «che egli aveva portato il paziente ad una più rapida correzione del suo atteggiamento nevrotico» (Alexander, French et al., 1946, p. 65) di quanto non sarebbe stato possibile con la tecnica standard. Egli ha attaccato a tale proposito Iá tecnica psicoanalitica, e ha dimostrato tutti gli effetti nocivi che la psicoanalisi classica avrebbe avuto su questo paziente. Ciò non era affatto necessario, dal momento che il paziente mostrava alcuni segni caratteristici che secondo Freud lo rendevano comunque inadatto alla psicoanalisi. Ciò non significa certo che non ci siano delle altre tecniche che potrebbero alleviare i disturbi consci del paziente. Ma Alexander evidentemente non ha tenuto conto del fatto che il paziente non è cambiato, nel senso che gli psicoanalisti hanno finora dato alla parola. Il paziente aveva sviluppato i modelli di comportamento che erano più adeguati al suo ambiente. Secondo la definizione di Alexander, questo è uno degli obiettivi principali della psicoterapia, e così egli si sente soddisfatto di averlo raggiunto. Tuttavia tale successo clinico, per quanto ammirevole, non convincerà dell'insufficienza della tecnica classica coloro che hanno come meta principale dei cambiamenti strutturali.

Rese da rivedere il resto dei casi riportati. Metterò in evidenza alcuni dei punti che a mio parere sono esposti a critiche, e quindi procederò ad una valutazione generale della nuova tecnica.

I casi riferiti sono in totale ventuno. Uno di essi è un caso di nevrosi di guerra, un argomento assai particolare che non verrà discusso qui. E' difficile valutare i casi riferiti, dal punto di vista di una psicologia strutturale, quale la psicoanalisi di Freud, in quanto si danno soltanto degli sguardi occasionali al materiale pertinente. Inoltre, l'uso di alcuni termini è completamente diverso da quello della consuetudine psicoanalitica, e quindi è grande la possibilità di fraintendimenti. Ad esempio la Gerard usa il termine insight in un contesto che vale la pena di citare per esteso, perché dimostra assai chiaramente una delle inconciliabili differenze tra la psicoanalisi e la nuova tecnica. La Gerard dà il seguente resoconto del primo colloquio con una ragazza ventunenne sofisticata, che aveva da poco sofferto di un attacco di fobie acute:

"Durante il primo colloquio venne dato alla paziente insight nella su ostilità nei confronti della madre, con la spiegazione di come tale ostilità si sviluppasse dalle restrizioni materne alla sua indipendenza e autoespressione - un risultato delle ambizioni della madre nei suoi confronti, e dalle conseguenti restrizioni della sua vita sociale. La terapista discusse con lei del fatto che tutti i figli sviluppano simili ostilità nei confronti dei genitori, e mostrò alla paziente come ella, per paura di perdere amore, avesse sviluppato delle difese contro la propria ostilità infantile con un'esagerata obbedienza e timidezza, ed evitando attività proibite. Le venne fornita una spiegazione di come il conflitto si fosse intensificato con una grave formazione di sintomi durante il suo primo viaggio lontano da casa, poiché scegliendo di stare con il suo fidanzato, ella stava realmente disertando la madre, e si stava adesso divertendo. Venne anche fatta una allusione a proposito delle reazioni di colpa ad ogni divertimento, a causa della sua educazione a sacrificare così tanto per il conseguimento di obiettivi nel lavoro. Tale colpa a sua volta la rendeva ancora più dipendente da sua madre, che le aveva imposto disciplina nell'infanzia, e la cui presenza poteva proteggerla dall'indulgere ai suoi desideri di piacere. Tali interpretazioni erano seguite dal suggerimento permissivo secondo cui ella avrebbe potuto cercare di trattenersi dal reprimere i sentimenti di rabbia nei confronti della madre quando sopravvenivano dei pensieri di critica, e dalla spiegazione della naturalezza di tali sentimenti, invece dell'insegnamento tradizionale secondo cui si dovrebbero amare i propri genitori in ogni circostanza. Le venne poi suggerito che una moderata indulgenza nei propri confronti, come un pranzo con le sue colleghe dell'associazione femminile universitaria, o un drink con loro dopo la lezione al bar, se sentiva di esservi disposta, avrebbe potuto aiutarla a guarire, e le venne inoltre suggerito di frequentare le lezioni o ricominciare a studiare soltanto se si fosse sentita bene e lo desiderava. Al fine di proteggerla però da una perdita troppo rapida delle proibizioni, ella veniva incitata a non abbandonarsi oltre alla sensazione di benessere" (Alexander, French et al., 1946, pp. 237 e sgg.).

Ho citato il racconto del caso perché sono rimasto sorpreso dall'indicazione che una terapista ritenga di aver conferito insight in uno dei più importanti conflitti dello sviluppo femminile durante un primo colloquio in cui, per di più, le elaborate teorie, come viene citato, venivano riversate su di una paziente che non aveva potuto probabilmente seguire quella sinossi della psicologia moderna. In verità sono d'accordo con French quando dice giustamente che è «quasi ovvio... focalizzare l'attenzione del paziente su di un problema alla volta» (Alexander, French et al., 1946, p. 91). La Gerard, tuttavia, ha raggiunto «eccellenti risultati con un trattamento durato un periodo di due mesi» (ibid., p. 234), con dodici colloqui e pochi incontri supplementari, e nonostante una tecnica contestabile, almeno durante il primo colloquio. Certo se un medico autorevole impone le sue teorie ad una giovane paziente, essa è necessariamente costretta ad intellettualizzare il conflitto, sempre che si possa verificare affatto una risposta. L'intellettualizzazione di un conflitto è una difesa potente contro un sintomo acuto, e quindi è comprensibile che la paziente, durante il secondo colloquio, racconti «di aver cominciato a sentire che sarebbe guarita». Non voglio coinvolgere il lettore nella confusione del trattamento seguente, ossia nella conversazione della terapista con la madre al fine di renderla più permissiva [Nota 18: Notevole è il fatto che fin dal 1899 Freud riconobbe distintamente quale tipo di consigli specifici egli avrebbe potuto dare al padre di una paziente per far fermare i sintomi della paziente. Egli scriveva (Freud, 1901, p. 335): «Speravo, però, che egli non si sarebbe lasciato indurre a farlo, giacché in tal caso essa (la paziente) avrebbe appreso quale efficace strumento avesse nelle sue mani... Sapevo bene che se il padre non le avesse ceduto essa non avrebbe rinunciato tanto facilmente alla propria malattia». Questa osservazione clinica illustra splendidamente la precoce adesione di Freud ad un trattamento eziologico basato sulla sua propensione a rinunciare ad un rapido successo clinico. Ciò è ancora più notevole per il fatto che, come dimostra una successiva citazione dallo stesso libro, egli era ancora profondamente influenzato a quell'epoca dai concetti della struttura della malattia che egli aveva sviluppato durante il periodo catartico della psicoanalisi], e nel terzo colloquio durante il quale la paziente ricevette insight nella relazione di traslazione e istruzione a proposito di fatti della vita, ecc., ma voglio mettere l'accento sul fatto che ci sono numerose giovani donne affette da fobie che reagiscono splendidamente alla terapia se il terapista ha la fortuna di cominciare il trattamento quando il sintomo è ancora allo stato nascente. In particolare ricordo una paziente con una disposizione della personalità simile a quella del caso della Gerard, le cui fobie scomparvero con la somministrazione di bromuro e con un minimo di attività terapeutica. In ogni caso, quando l'acutezza del sintomo si fu calmata, e vennero stabiliti i requisiti preliminari per il trattamento intensivo, la inviai ad un collega per un trattamento analitico standard.

A questo punto è necessario discutere una questione di principi terapeutici. Nel caso di Alexander si trattava di un paziente la cui età e la cui storia si opponevano all'analisi standard. Nel caso della Gerard erano presenti tutti i requisiti preliminari per il successo della analisi. La paziente era una persona giovane e intelligente, la cui struttura della personalità e sintomatologia riunivano tutte le caratteristiche di un soggetto che dovrebbe trarre un grande profitto dall'analisi estensiva. Non c'è dubbio che il sintomo per cui ella cercava aiuto avrebbe potuto essere tolto da varie terapie. Ma è questa una giustificazione sufficiente per privare la paziente dei benefici che la psicoanalisi standard offre ad una persona giovane e intelligente?

L'esperienza clinica mostra che i sintomi fobici dovrebbero essere considerati un signum mali hominis, nei termini dell'intera storia esistenziale. Nessuno può dire con sicurezza come questa ragazza reagirà allo sforzo psichico della nascita di un bambino, della menopausa, di una grave privazione cui potrebbe essere sottoposta. L'esperienza clinica mostra inoltre che la psicoanalisi, sebbene non fornisca al soggetto immunità contro lo sviluppo di reazioni psicopatologiche, se esposto più tardi a degli sforzi, diminuisce tuttavia in maniera considerevole la probabilità di tali reazioni. E' sorprendente in quanti esempi di gravi disordini psicogeni, quali ad esempio la schizofrenia, si trovi il racconto di fobie dichiarate che si sono verificate negli anni successivi all'adolescenza. Nella mia esperienza queste fobie, che sono 'in verità sintomi preliminari del disturbo successivo, spesso devastante, sono particolarmente inclini a scomparire, e a tale proposito sono assai differenti da ciò che si chiama la fobia classica, che di solito è un disturbo piuttosto ostinato, che sfida spesso anche uno sforzo terapeutico prolungato. Non è significativo il fatto che la paziente della Gerard, a quanto riportato, sia rimasta priva di sintomi anche tre anni dopo la fine del trattamento, perché una identica sequela di eventi può essere ritrovata in pazienti che non sono mai stati sottoposti a trattamento, prima dell'inizio della malattia finale. A seconda dei fattori precipitanti, dell'epoca del loro manifestarsi e della sintomatologia clinica specifica successiva, una seconda fase della malattia può presentare difficoltà insuperabili. Siamo forse qualificati a privare una promettente giovane donna delle condizioni terapeutiche che le garantirebbero l'accesso ai sistemi ottimali per il rafforzamento della personalità umana?

La situazione era completamente diversa nel caso della Johnson (Alexander, French et al., 1946, pp. 293-297) di un giovane di diciannove anni affetto da una acuta depressione. Questo paziente si trovava evidentemente ancora nel pieno dell'adolescenza, e il suo sviluppo era impedito da un conflitto irrisolto riguardante la morte della madre avvenuta quando lui aveva tre anni. Johnson fece emergere una reazione ritardata di lutto, aprendo così una nuova strada verso la maturità. Il problema della tecnica psicoanalitica ma senz'altro applicata agli adolescenti non può essere discusso qui, esiste un gran numero di adolescenti affetti da una psicopatologia considerevole, che cionondimeno non dovrebbero essere analizzati perché non hanno ancora avuto sufficienti opportunità di sperimentare il mondo per conto proprio. Se l'ostacolo acuto che blocca l'accesso costruttivo al mondo è stato tolto, allora non si dovrebbe intentare un'ulteriore terapia, ma il paziente dovrebbe essere informato delle possibilità terapeutiche di cui servirsi in seguito nel caso che ne insorga la necessità.

La notevole inclinazione degli autori a prendere i racconti dei loro pazienti come dei valori nominali è insolita tra analisti. Fuerst offre un buon esempio di prontezza nell'accettare acriticamente le parole del paziente in un caso di frigidità con cui egli aveva ottenuto un «Completo riadattamento sessuale» in tre colloqui. Una donna di colore di diciannove anni aveva avuto delle relazioni sessuali «completamente soddisfacenti» con il marito fino alla nascita di un bambino. Un'ernia ombelicale causata dalla nascita del bambino aveva manifestamente offeso l'orgoglio della paziente per la propria bellezza. Questo fatto era sfuggito al ginecologo, ma «al terapista esperto in materia psicologica... fu immediatamente manifesto il fatto che la paziente era estremamente impacciata, e disturbata dalla deformità del suo addome» (Alexander, French et al., 1946, p. 160). Mi domando se anche il terapista più esperto possa accertare nel corso di tre colloqui se una relazione sessuale di una paziente sia stata «completamente soddisfacente» o se la sua terapia ha condotto ad un «completo riadattamento sessuale». Finora si è creduto, a quanto pare falsamente, che ci voglia molto tempo prima, che i pazienti scoprano, nel corso del trattamento, che cosa sono veramente le loro esperienze sessuali, quali le fantasie che accompagnano i rapporti, e in che misura l'orgasmo possa essere stato raggiunto su una base improvvisata. Tutti questi fatti essenziali necessari alla valutazione della vita sessuale del paziente, sono stati a quanto pare delle sottigliezze inutili, che possono sicuramente d'ora in avanti essere messe da parte.

La stessa superficialità di giudizio clinico è patente in un contributo dello stesso autore all'analisi di disturbi del carattere. Una donna di ventisette anni era stata trattata con buon esito durante quindici colloqui per un periodo di quattro mesi, e il lettore non sarà più sorpreso di sentire che il trattamento raggiunse «un vero cambiamento della personalità» paragonabile ai risultati di una psicoanalisi standard (Alexander, French et al., 1946, p. 227). La paziente era stata affetta da un profondo senso di inferiorità e di colpa, da manifestazioni ossessivo-compulsive, da fobie, e da idiosincrasia al cibo. Dopo il primo colloquio «ella fu sempre tranquilla, amichevole, e molto seria nel suo atteggiamento nei confronti della terapia». Nel secondo colloquio già «si sentì risvegliare», e disse «a quanto pare non ho mai vissuto la mia vita» (ibid., p. 224). L'autore considerò questa una manifestazione di insight, e non sollevò la questione di come tali scoperte possano essere conciliate con un atteggiamento «tranquillo e amichevole». A meno che non si debba supporre che una tale verbosità sia soltanto una mancanza di sincerità, ci si aspetterebbe che una scoperta reale da parte di una paziente di non aver mai vissuto la propria vita sia seguita da una piccola quantità di emozioni soggettivamente spiacevoli. Cionondimeno Fuerst insiste che

"i colloqui settimanali erano condotti ad un alto livello di partecipazione emozionale, e l'intensità del trattamento costantemente maggiore che non in una psicoanalisi standard di colloqui quotidiani" (Alexander, French et al., 1946, p. 223).

Fuerst non avrebbe dovuto considerare quella docilità ed obbedienza mostrate dalla paziente durante il trattamento «un alto livello di partecipazione emozionale», e non avrebbe dovuto elogiare l'intensità del suo trattamento per il fatto di essere maggiore di quella della psicoanalisi, perché il livello emozionale che la sua paziente sembra aver raggiunto non sarebbe considerato adeguato per il successo della conduzione di una «psicoanalisi standard». Quando la paziente diceva: «Adesso capisco che non si può avere tutto. Ho imparato ad essere soddisfatta di quello che ho» (Alexander, French et al., 1946, p. 227), l'autore valutava ciò come il segno di «un atteggiamento più maturo». Tuttavia Fuerst rese difficile alla paziente esprimere i suoi veri sentimenti. Egli scrive:

"Una volta ella manifestò un tipo di confusione compulsiva... e si sentì colpevole sia di recarsi dal terapista, che di qualunque altra cosa. L'analista l'interruppe però, e osservò semplicemente che comprendere il suo comportamento era più importante che lamentarsi. La paziente si sentì immediatamente meglio, e gli disse di essere stata in verità molto meglio, e che la sua relazione con la madre era molto migliorata" (Alexander, French et al., 1946, p. 226).

Questa informazione è importante, perché può dare una chiave per capire che cosa la paziente, ritenesse che fosse la comprensione. A quanto pare ella prese l'interruzione del terapista come una critica, e cercò prontamente di conciliarselo raccontandogli del progetto compiuto. L'autore riporta che da quel momento in poi la paziente «divenne molto più libera e disinibita nel suo atteggiamento. Ella si senti più sicura di sé e non sentì più il bisogno di rimproverarsi per ogni cosa» (Alexander, French et al., 1946, p. 226). Non potrebbe darsi che la paziente si sia sentita intimidita, e abbia smesso di parlare del suo vero disturbo?

Quasi tutti questi autori applicano una tecnica di valutazione dell'Io che si espone a critiche. Quando un sintomo di un paziente scompariva sotto l'influenza del loro trattamento, essi supponevano che l'Io avesse integrato alcune esperienze costruttive, e che No del paziente fosse forte, considerato il rapido progresso. Non credo che tale conclusione sia incontestabile. Se un paziente cessa di avere un sintomo psicogeno, ciò può accadere per altre ragioni che non per un'integrazione. Può accadere su di una base prevalentemente imitativa, o al fine di guadagnarsi gli elogi del medico, o ancora potrebbe essere affrettato dalla paura di perdere la stima del medico. Inoltre credo di aver osservato che, abbastanza frequentemente, è l'Io debole che vuole restare conforme ad una cornice attraente di referenze, e quindi è incline a mostrare grande abilità nello spostare la propria sintomatologia ad un'area meno accessibile della personalità. E' proprio questo inseguimento nei settori meno cospicui della difesa che rende la psicoanalisi una faccenda lunga. Dal momento che gli autori accettano la scomparsa di un sintomo come guarigione, e come manifestazione della forza dell'Io, la loro terapia richiede certamente un minor numero di colloqui. In verità, gli ' intervalli di una settimana tra i colloqui facilitano il mascheramento del ritiro del paziente in formazioni meno cospicue.

La tecnica usata dalla maggior parte degli autori può essere caratterizzata come altamente seducente per il paziente: elogi e consigli venivano concessi liberamente, i pazienti venivano rassicurati che i loro conflitti erano naturali, le loro aggressioni universali. E' una specie di assoluzione cattolica senza punizione. Oso dire che i pazienti erano allettati al benessere. Dal momento che gli autori non indagavano a fondo le difese dei pazienti, ma facevano affidamento sul loro rozzo comportamento sociale, e sui loro racconti secondo cui essi si sentivano meglio, non penso che abbiano alcun diritto di paragonare i loro risultati terapeutici a quelli della psicoanalisi. L'obiettivo della psicoanalisi si trova ad un livello della personalità completamente differente dall'obiettivo della tecnica degli autori.

I. Osservazioni generali

A questo punto vorrei ritornare ad una discussione generale. Per quanto io stesso ho osservato, posso soltanto confermare le ripetute affermazioni degli autori secondo cui anche i sintomi più gravi tendono a scomparire, in un gran numero di pazienti, dopo una breve terapia. Benché io sia interessato principalmente a quel campo della ricerca che è accessibile soltanto alla psicoanalisi standard, ho applicato la psicoterapia di breve durata in un considerevole numero di pazienti per un periodo di sei anni. Ho fatto le stesse esperienze sorprendenti che gli autori descrivono. Pazienti affetti da esaurimento cronico, personalità schizoidi, stati acuti d'angoscia, e una lunga serie di altre sindromi, hanno risposto ad una grande varietà di tecniche, che vanno dalla somministrazione di bromuro al semplice incoraggiamento e ad interpretazioni occasionali. Posso aggiungere adesso, dopo essere entrato in contatto con un grande settore della popolazione durante la mia esperienza nell'esercito, che non sembra esistere alcun agente terapeutico che non possa essere usato con successo al fine di alleviare il dispiacere psicogeno del paziente in determinate circostanze. Un gran numero di soldati ha riferito, nelle proprie storie esistenziali, di miglioramenti ottenuti da chiropratici o semplicemente da «alcune pillole prescritte da un dottore», miglioramenti paragonabili nondimeno a quelli riferiti dagli autori. Non si dovrebbe dimenticare che in questo Paese il desiderio di adattarsi alla macchina sociale, di comportarsi come gli altri, è una forza motivante molto forte nella maggior parte dei nostri pazienti. Se soltanto si presenta una piccola occasione, direi, se si presenta una qualunque occasione, essa è prontamente accettata da un gran numero di pazienti al fine di un adattamento esterno. Il paziente medio non vuole insight nei propri problemi, non desidera chiarire la propria posizione nell'universo, non vuole allargare il proprio Io, ma vuole esattamente ciò che gli autori gli offrono, e cioè «adattamento sociale» nel senso di essere capace di mantenersi al livello accettato dalla maggioranza. Egli reagirà con gioia ad ogni offerta magica.

Nella seguente citazione Alexander arriva assai vicino alla verità a proposito della nuova terapia che egli difende:

"Durante un colloquio il paziente può reagire con angoscia violenta, con il pianto, con attacchi di rabbia e con ogni sorta di sconvolgimenti emozionali, insieme ad un acuto aggravamento dei suoi sintomi, soltanto per raggiungere una sensazione di profondo sollievo prima della fine del colloquio. Tali esperienze, benché in effetti curative, sono dolorose; esse potrebbero essere descritte come dei traumi benigni. In questo fatto si deve forse rintracciare il nucleo della credenza popolare secondo cui in certi casi di disturbi mentali alcune esperienze accidentali e potenti possono improvvisamente restituire la salute mentale. Forse questa è la spiegazione psicologica dei miracoli della Bibbia, delle guarigioni di Lourdes, in realtà delle guarigioni magiche di tutte le culture in tutte le epoche" (Alexander, French et al., 1946, p. 165) [Nota 19: Cfr. Freud (1901, p. 337 e sgg.): "Per il destino è più facile (ossia: combattere i motivi della malattia): non ha bisogno di affrontare né la costituzione, né il materiale patogeno del malato; elimina un motivo di malattia, ed il malato è temporaneamente, talora anche permanentemente, liberato dal suo male. Quante meno guarigioni miracolose e scomparse spontanee di sintomi dovremmo registrare noi medici nell'isteria, se ci fosse dato più sovente accesso a quegli interessi vitali dei malati che invece ci vengono tenuti nascosti! In un caso si tratta di una data che è trascorsa; in un altro sono venuti a cessare i riguardi per una certa persona... ed ecco che il male, fino allora così ostinato, è eliminato di colpo... perché gli è stato sottratto il motivo più forte, una delle funzioni che assolveva nella vita del malato". Cfr. un altro passaggio nello stesso saggio (Freud, 1901, p. 392), che Alexander potrebbe ben adottare nella storia della sua tecnica: "...la barriera innalzata dalla rimozione può crollare sotto l'impeto di violenti eccitamenti, provocati da una causa reale, e che la nevrosi può essere vinta dalla realtà. Ma non è mai dato calcolare in generale in chi, o in che modo, una simile guarigione sia possibile". Il lettore dovrebbe tener presente che questi passi sono stati scritti nel 1900, prima dell'introduzione esplicita dell'aspetto strutturale nella psicoanalisi].

In verità Alexander ritorna al trattamento magico trasportato dalla fraseologia psicoanalitica. E' esattamente ciò da cui Freud aveva messo in guardia, e che egli fece uno sforzo supremo per tener lontano dalla psicoanalisi. E' dogma immutabile della psicoanalisi astenersi da tali procedimenti magici, come è stato espresso da Freud (1922, nota 18) in L'Io e l'Es quando egli affermò che il ruolo del profeta o del sapiente è incompatibile con la psicoanalisi, e quindi che il compito della psicoanalisi non può essere rendere impossibili le reazioni patologiche, ma dare all'Io del paziente la libertà di scegliere l'una strada o l'altra. Ciò non significa che la terapia magica sia sconsiderata; significa soltanto che un medico che si serva della terapia magica dovrebbe sapere di trovarsi al di fuori dei confini della psicoanalisi. In ogni caso, nonostante il grande successo della tecnica di Alexander (quasi seicento pazienti sono stati trattati in un periodo di otto anni da lui e dal suo staff) egli è ben lontano dal record di Lourdes, dove fino al 1913 furono curati 4.445 pazienti rappresentanti circa 190 diverse malattie (Bertin, 1906). Così come quanto riportato su Lourdes non indica la proporzione di coloro che hanno cercato la guarigione e di quelli che l'hanno realmente ottenuta, anche il libro di Alexander manca di informazioni proprio a tale riguardo. La buona volontà dei pazienti e la volontà di essere curati dalla magia è stupefacente; temo che Alexander e i suoi collaboratori abbiano postulato specifiche correlazioni causali tra la terapia e un cambiamento esterno in pazienti in cui si deve postulare un'equazione di ordine completamente diverso.

La psicoanalisi è in crisi. Tale crisi si è limitata finora principalmente alla teoria. Il libro di Alexander inaugura una nuova fase in cui tale crisi si allarga ai problemi della tecnica psicoanalitica. La chiamo crisi perché il disaccordo concerne differenze che non provengono da una cornice comune di riferimenti sui quali ci sia accordo. Il disaccordo tra analisti, e a tale proposito tra ogni categoria di scienziati, può essere di due tipi differenti. Il primo discende da una mancanza di cornici comuni di riferimento. L'altro può concernere problemi che sono accettabili in quanto legittimati, ma che non possono essere chiariti adesso; essi sono soltanto una questione di opinione. Alcuni dei problemi menzionati nel libro di Alexander e French sono di questo tipo. Ad esempio, il consiglio di French di fornire delle formulazioni psicodinamiche precoci, di programmare il trattamento analitico, di vagliare le possibili complicazioni che ci si può aspettare durante la terapia: questi consigli si riferiscono a questioni che potrebbero essere chiamate problemi legittimi.

Non sono d'accordo con French su questi punti. Credo che tali procedimenti conducano quasi sempre all'intellettualizzazione. Inoltre credo che, nonostante il progresso compiuto dalla scienza della mente durante gli ultimi cinquant'anni, sia impossibile procedere nel modo delineato da French [Nota 20: Vedi l'assai diverso atteggiamento assunto da Reik (1935); Fenichel (1941) cerca di combinare entrambi gli atteggiamenti]. Il nucleo individuale del paziente è tuttora al di là delle previsioni, e quando l'analisi lo raggiunge esso si rivela una sorpresa per lo stesso analista. Tuttavia sono ben consapevole del fatto che French potrebbe avere ragione a tale riguardo. Il tempo e l'esperienza futura risolveranno la questione. Invece i punti che ho cercato di esporre alla critica riguardano questioni che non posso considerare problemi legittimi della tecnica psicoanalitica, e suppongo che almeno alcuni psicoanalisti siano d'accordo con me a tale proposito. Quindi ritengo che la caratterizzazione di crisi sia appropriata. Se un gruppo di scienziati non può più trovarsi d'accordo sulla portata dei problemi che ricadono nel loro campo. ci dev'essere qualcosa che non va, e quanto prima il problema viene concisamente delineato, tanto meglio per gli scienziati. Alexander ritiene di aver portato a compimento il contenuto immanente della psicoanalisi, ma io credo che la sua tecnica sia, per così dire, un ramo secondario in quello sviluppo, un tentativo di stabilire il grado in cui la conoscenza psicoanalitica possa spingersi verso la psicoterapia magica. Senza dubbio questa è un'impresa legittima, di per sé, ma dannosa se intrapresa nella maniera in cui l'hanno fatto Alexander e il suo gruppo. Senz'altro la sua tecnica diventerà la tecnica standard presso il Chicago Institute, la tecnica che egli chiama standard verrà usata soltanto in circostanze eccezionali. Senz'altro la nuova tecnica eserciterà un grande fascino sulla maggior parte di coloro che operano nel settore. E' rapida, meno costosa per il paziente, meno dolorosa, e sembra più sensibile della tecnica «ortodossa». In breve essa soddisfa quasi tutte le obiezioni di solito sollevate contro la psicoanalisi.

Mi domando che cosa penserà uno storico della psicoanalisi, tra cento o duecento anni, di una disputa come quella presentata qui, e come egli procederà per scoprire quali sono le forze sotterranee che hanno dato origine al profondo clivaggio tra psicoanalisti che non hanno nient'altro in comune tra loro se non la denominazione [Nota 21: Ernest Lewy (1941) ha anticipato una risposta pertinente, e, a mio parere, soddisfacente, alla questione. In una cornice più generale, ma in riferimento ad una specifica questione storica, una risposta alla questione fu tentata da Gregory Zilboorg (1944). A proposito dello specifico disaccordo qui delineato, vorrei menzionare un problema con cui, come suppongo, ogni analista dovrebbe avere familiarità per sua esperienza personale. La tecnica «ortodossa» impone grandi richieste alla personalità dell'analista. Essa comporta, tra gli altri fattori, un lento progresso, un blocco della scarica motoria, e di conseguenza della scarica diretta dell'energia motoria, un'accentuazione della sfera puramente mentale dell'esistenza umana; tutti questi fattori implicano una certa indifferenza verso la sfera percettiva-sensoriale dell'esistenza umana. Al fine di integrare tale tecnica è necessario raggiungere una perfezione tale da derivare dall'attività mentale quei piaceri comunemente accessibili nella sfera cinestesica. Si può sicuramente presumere che un simile grado di sublimazione possa essere raggiunto soltanto in rare circostanze. Può valere la pena di considerare fino a che punto la nuova tecnica protegga il terapista dall'essere esposto ad un simile problema. Nelle faccende umane l'effetto di un'azione spesso ne tradisce le motivazioni. Cfr. Fliess (1942)]. Il gruppo di cui ho cercato di delineare le opinioni correrà il rischio di essere chiamato dogmatico, di idee ristrette, conservatore, intimidito dal rispetto per il genio di Freud e quindi troppo abbagliato per vedere la nuova luce all'orizzonte. E' possibile che un simile giudizio venga accettato dal futuro storico, e che egli mi considererà come rappresentante di un gruppo che Alexander (1930) aveva in passato descritto come segue:

"...c'è una massa inerte di ciechi seguaci, che applicano acriticamente le opinioni di un'autorità, che hanno faticosamente appreso le idee del maestro, e cercano ora di difenderle disperatamente da ogni innovazione che richiederebbe un nuovo investimento intellettuale. Dal momento che raramente essi hanno giudizio o coraggio per una valutazione critica, si sentono confusi e inermi se la critica comincia ad insidiare le opinioni tradizionali, scuotendo così il loro cieco credo nell'autorità, di cui hanno terribilmente bisogno. Perciò essi non amano l'innovatore, che è capace di emanciparsi dal fascino del maestro" (Alexander, 1930, p. 2).

Una simile ostinata adesione ai dogmi ereditati dall'opera di un genio si verifica di frequente; dopo tutto, chi è abbastanza sicuro della purezza del suo desiderio di trovare la verità, di essere in grado di garantire di non essere vittima di tale debolezza? D'altra parte, se dovesse risultare che la nuova tecnica di Alexander non ha rappresentato un nuovo passo logico in avanti nello sviluppo della tecnica psicoanalitica, lo storico' dovrebbe volgere allora le sue ricerche verso prove documentarie che potrebbero contribuire a spiegare il possibile errore di Alexander. Per quanto possa vedere, ci sono due gruppi di condizioni che lo storico dovrà esplorare: quelle sociologiche, e quelle soggettive. Allora egli saprà se Freud aveva o no ragione quando commentava brevemente che il desiderio di accelerare la terapia analitica può probabilmente essere collegato a periodi di prosperità economica (Freud, 1937a). Abbastanza stranamente Alexander data il suo interesse per una tecnica più rapida e flessibile agli anni 1938-39, che coincidono abbastanza bene con una nuova ondata di prosperità economica. Inoltre, se non mi sbaglio, più o meno in quell'epoca anche altri gruppi di analisti hanno cominciato a guardarsi intorno alla ricerca di espedienti per abbreviare la terapia. Speriamo che la preannunciata depressione economica abbia un effetto calmante sull'attuale fervore terapeutico. Lo storico potrà sapere allora se ciò che Freud credeva, citando Anatole France, ossia che l'abuso di potere possa essere un ostacolo alla ricerca psicologica obiettiva, fosse corretto (Freud, 1937a). Probabilmente Freud aveva ragione quando proponeva che ciascun analista si sottoponesse ogni cinque anni ad un'analisi personale (Freud, 1937a) (suppongo che Freud pensasse ad un'analisi diretta dalle regole della tecnica standard). Dall'altra parte lo storico dovrà decidere se fosse stata raggiunta quella fase della psicoanalisi che Freud aveva immaginato quando aveva predetto che l'oro puro dell'analisi avrebbe fatto lega con il rame dei consigli diretti che si sarebbero originati dall'applicazione della psicoanalisi a grandi masse (Freud, 1918).

Inoltre il futuro storico potrebbe cominciare a lavorare, per il suo materiale soggettivo, agli scritti di Alexander, per accertare il background del suo punto di partenza terapeutico. Egli dovrà ricercare in che misura una forte avversione a far parte di una minoranza [Nota 22: Vedi Alexander (1940b, p. 312): "La mentalità di un gruppo minoritario non l'ha mai attratto (cioè non ha mai attratto Alexander)… Le minoranze credono sempre di essere gente eletta, diventano superstiziose, prendono le distanze, sono provocatorie e di idee ristrette". Stando al suo abbozzo biografico, questo onore di essere membro di un gruppo minoritario ha trattenuto Alexander, durante i suoi anni di formazione, dall'unirsi al gruppo psicoanalitico della sua città nativa. Non potrebbe darsi che tali simpatie e antipatie creino alcuni dei disaccordi che gravano attualmente così pesantemente sulla psicoanalisi? Dopo tutto dei fatti psicologici non è possibile accertarsi con quella precisione che rende sempre più difficile a medici e biologi servirsi della scienza come campo di battaglia per le proprie emozioni. In questo contesto può essere interessante citare ciò che Freud stesso pensava del possibile effetto che il suo essere membro di un gruppo minoritario avrebbe potuto avere sul suo lavoro scientifico. Egli scriveva (Freud, 1924): "E forse non è stato un fatto puramente casuale che il primo esponente della psicoanalisi fosse un ebreo. Per aderire alla teoria psicoanalitica bisognava avere una notevole disponibilità ad accettare un destino al quale nessun altro è avvezzo come l'ebreo: è il destino di chi sta all'opposizione da solo". Sembra che almeno qui ci sia un esempio in cui l'esser membro di una minoranza ha avuto un effetto benefico sulla creatività scientifica] contribuisca a trovare la verità nella ricerca psicologica. Coloro che troveranno delle nuove verità a proposito della mente umana nella epoca storica attuale costituiranno una minoranza impopolare per un gran numero di anni a venire, e coloro che intraprendono il viaggio pericoloso che consiste nello scandagliare le profondità della mente umana dovrebbero essere consapevoli del fatto che non c'è gloria che li aspetti nel corso della loro vita.

Il futuro storico dovrà preparare la sua mente al significato delle reazioni iniziali all'opera di Freud in coloro che continuano a fare della ricerca psicoanalitica il lavoro della loro vita. Egli dovrà paragonare i racconti di uomini come Alexander e Sachs, che hanno letto entrambi il libro di Freud sui sogni in fasi comparabili del loro sviluppo mentale. L'uno l'ha respinto considerandolo folle, l'altro ne ha immediatamente afferrato il significato epocale [Nota 23: Franz Alexander (1940b, p. 310): «L'autore si ricordava vagamente di aver letto una volta, anni addietro, mentre era studente di medicina, L'interpretazione dei sogni di Freud (1899)… L'autore restituì il libro a suo padre, dicendo sprezzantemente 'questa può non essere filosofia, ma certamente non è medicina'. Il libro gli sembrava folle». Hans Sachs (1944, p. 3): «La prima volta che aprii la Traumdeutung [L'interpretazione dei sogni] fu per me un momento destinale - come l'incontro con la femme fatale, solo con un risultato decisamente più favorevole... Quando ebbi finito il libro avevo scoperto l'unica cosa per cui per me valeva la pena di vivere;…»; e ancora (Sachs 1944, p. 40 e sgg.): «Mi capitò tra le mani un libro dal titolo affascinante ma sconcertante di Traumdeutung. Dal primo momento mi sentii fortemente stimolato dalla sua originalità fuori del comune, ed ero esaltato dalla prospettiva completamente nuova, a partire dalla quale molti fatti banali e noti da tempo acquistavano un significato sorprendente. Nessun altro libro scientifico mi aveva detto di problemi che io, come chiunque altro, avevo sempre avuto davanti agli occhi, e che tuttavia non avevo mai visto o cercato di comprendere. Nessun altro libro aveva mai fatto sembrare la vita così strana, e nessun altro libro ne aveva spiegato così a fondo gli enigmi e le contraddizioni. Dissi a me stesso che tali stupende rivelazioni richiedevano e meritavano l'esame più completo; anche se alla fine fosse risultato che ogni teoria avanzata nelle sue pagine era sbagliata, non avrei rimpianto la perdita di tempo. Ero deciso a dedicare a tale compito dei mesi, e persino degli anni, se l'avesse richiesto»]. La verità della vecchia massima francese: On revient touiours à ses premiers amours è stata verificata per il nevrotico; in che misura essa possa essere valida per lo scienziato, dovrà essere il futuro storico a deciderlo. Egli troverà molti altri passaggi notevoli negli scritti di Alexander che dovrebbero facilitarlo nella valutazione finale. Voglio citarne soltanto uno che ritengo importante. Rivedendo la modificazione della psicoanalisi da parte di uno dei suoi colleghi, Alexander cercò di svalutare la presunta originalità di quell'autore scrivendo (Alexander, 1940, p. 4):

"A causa di un forte culto dell'autorità, o forse soltanto di un istintivo rispetto per la sensibilità del maestro, soltanto poche di queste modificazioni più o meno diffuse sono state affermate esplicitamente".

Come si spiegherà il futuro storico l'affermazione del discepolo, dopo la morte del maestro, secondo cui questi, che aveva sopportato il peso dell'isolamento spirituale e della persecuzione fisica con equanimità, potrebbe essere ferito dalla parola della verità?

Allora lo storico saprà se sia stato saggio offrire ad una civiltà già sovraccaricata in maniera schiacciante dall'impatto della tecnologia sull'individualismo dei gruppi suoi membri, un sostituto di quella ultima isola di vero individualismo che la civiltà attuale possiede nella psicoanalisi. Sarà lo storico d'accordo con Alexander a proposito delle «implicazioni nel miglioramento della salute mentale del paese» (Alexander, French et al., 1946, p. iv) che egli assume come inerenti alla sua tecnica, quando troverà che Alexander elogia una massima quale: «Niente ha successo quanto il successo» (ibid., p. 40) [Nota 24: Morris (1947, p. 330) discute le implicazioni che la concentrazione sul successo avevano sulla civiltà americana che, a detta di William James, soffriva di "una malattia nazionale: 'l'adorazione esclusiva della dea-prostituta, il Successo'"], e che ritiene che «non esiste un fattore più terapeutico dell'esecuzione di attività in passato indebolite dalla nevrosi» (Alexander, French et al., 1946, p. 40) [Nota 25: Cfr. Alexander, French et al. (1946, p. 4): "Il terapista non ha bisogno di aspettare la fine del trattamento ma, al momento giusto, dovrebbe incoraggiare il paziente (o persino obbligarlo) a fare quelle cose che in passato aveva evitato..." (ibid., p. 41). Alexander (1925a, p. 120): "Alla fine liberiamo l'Io del paziente eccetto che dalle responsabilità del sé dandogli proibizioni o comandi. Tutte queste attività non sono altro che formali, se paragonate alle attività autentiche che hanno come meta convincere il paziente per mezzo del materiale ottenuto con l'analisi..." (traduzione mia)], oppure registrerà tali valutazioni soggettive come vuoto riecheggiamento di una società esclusivamente preoccupata da valori utilitaristici? Sarà quello storico completamente confuso al punto di non capire se sta studiando un trattato di psicoterapia o un libro di preghiere per maestri di una scuola domenicale quando leggerà "Il terapista deve preparare il paziente ai fallimenti, spiegandogli che essi sono inevitabili, e che la cosa più importante per lui è essere sempre pronto a fare nuovi esperimenti"? (Alexander, French et al., 1946, p. 141).

Il futuro della scienza della mente è coperto di tenebre come la strada della civiltà occidentale. Sopravviverà la psicoanalisi in quanto scienza esatta e terapia eziologica, all'attuale calderone delle streghe? Nessuno lo sa; ma può essere opportuno concludere con un referto storico, che mostrerà quanto sia antica l'attuale discussione. Plutarco riferisce del seguente incidente nella vita di Alessandro Magno, che cadde in uno stupore melanconico dopo aver ucciso il suo amico Clito mentre era ubriaco:

"Gli amici introdussero perciò nella sua presenza il filosofo Callistene, parente di Aristotele, e Anassarco di Abdera. Dei due, Callistene cercò di alleviare l'affanno del re mediante delicati richiami di carattere etico, insinuandosi nel suo animo col ragionamento, e girando attorno al misfatto per non causargli dolore. Anassarco invece, che come filosofo batteva fin dagli inizi della sua carriera una via tutta particolare… appena entrato gridò ad alta voce: «Ecco là Alessandro, colui a cui in questo momento tutto il mondo volge gli occhi. Ma lui si è gettato per terra e piange come uno schiavo, perché ha paura della legge e del biasimo degli uomini, mentre egli dovrebbe costituire per essi la legge, e stabilire il limite tra ciò che è giusto ed ingiusto. Non hai conquistato il diritto di governare e dominare, invece di essere sottoposto ad una vana opinione? E non sai» concluse «che Zeus ha la Giustizia e la Legge sedute al suo fianco? Ciò rende legale e giusto tutto ciò che fanno i dominatori». Gli argomenti di Anassarco ebbero l'effetto di alleviare, certo, la sofferenza del re; ma ne resero anche più vanitoso il carattere, e più disposto a violare la legge in molte circostanze" (Plutarco, Le vite parallele, vol. III, pp. 478-479).

Callistene che cerca di avere «una presa sulla passione» e Anassarco che presenta sulla scia del momento un'esperienza emozionale correttiva! Ci troviamo veramente al centro di una discussione moderna. Tuttavia Plutarco, il grande descrittore filosofico della natura umana, non permise a sé stesso di lasciarsi accecare dalla scomparsa dei sintomi, ma percepì il deterioramento del carattere facilitato dal dubbio procedimento clinico di Anassarco.


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