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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Modelli e Tecniche in Psicoterapia



Il campo della psicoterapia: un modello a quattro vertici

di Tullio Carere-Comes

Prima parte: L'ascolto e i suoi quattro punti cardinali



I. L'ascolto

È legittimo parlare di un "campo" della psicoterapia? Un campo è una porzione delimitata di spazio che contiene certe cose e ne esclude altre. Definire il campo della psicoterapia equivale a definirne l'identità. Ma è possibile dire che cosa in generale sia psicoterapeutico e che cosa non lo sia? A prima vista sembrerebbe di no. Esistono centinaia di scuole, ciascuna con il proprio paradigma teorico e tecnico che genera un proprio campo d'azione. Più che di un campo si tratterebbe dunque di una molteplicità di campi, o di un arcipelago.
A questo si arriva necessariamente se partiamo da modelli di sviluppo o di funzionamento mentale o di patogenesi: ogni modello genera il suo campo operativo. Ma è necessario partire da un modello della mente? Questo è certamente il logos dell'occidente, più portato a dire che ad ascoltare (Corradi Fiumara, 1985), un pensiero che crea categorie e le impone all'esperienza. Tuttavia è possibile una partenza diversa: non da un modello della mente, ma dall'osservazione di ciò che effettivamente accade nella seduta di psicoterapia.
È stato spesso segnalato il fatto che le differenze tra terapeuti di scuole diverse sono molto più accentuate nella teoria che nella pratica. È stato anche osservato che l'esperienza tende a livellare le differenze di scuola: "i terapeuti più inesperti sono inclini ad adottare degli orientamenti teorici esclusivi", mentre "la diversità e la flessibilità vengono con l'esperienza" (Beitman et al.,1989). In altre parole, l'esperienza tende a rendere la pratica clinica sempre più autonoma dai paradigmi teorici. Questo significa che la relazione psicoterapeutica tende a svilupparsi secondo una propria logica interna, che si afferma e diviene tanto più evidente quanto più diminuisce il condizionamento esercitato da fattori paradigmatici (la scuola di appartenenza) e personali (l'inesperienza).
A sua volta, la logica interna dell'operazione psicoterapeutica è determinata dai bisogni che in essa sono in gioco. Quanto più il terapeuta si pone in sintonia con questi e ad essi risponde, affrancandosi dalla dipendenza dai fattori che possono condizionare il suo ascolto, tanto più emerge la struttura essenziale del campo psicoterapeutico.
Decide il terapeuta se entrare nel campo autentico della psicoterapia, sintonizzandosi con i bisogni che si esprimono nella relazione, o restare nell'orto chiuso delle preferenze personali e ideologiche. Ma qual è precisamente il senso di questa alternativa? Non può essere, come molti pensano, che essa sia fittizia, perché in ogni modo la percezione dei bisogni non può che essere filtrata attraverso le teorie che abbiamo in mente? Conviene allora partire dalla questione da cui dipende ogni altra: che cosa significa ascoltare?

L'ascolto sintetico

Una buona capacità di ascolto alterna e integra due momenti polari: nel primo l'ascolto è sintetico, vale a dire globale e non selettivo, nell'altro è analitico, cioè focalizzato e discriminativo.
Il momento sintetico può essere definito dalla formula di Bion: opacità di memoria e di desiderio. Freud ne aveva già accennato diversi decenni prima:

"La riuscita migliore si ha nei casi in cui si procede senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti" (1912, p. 535).

In poche parole è descritto l'atteggiamento basilare e fondativo della psicoterapia: l'attenzione "ugualmente fluttuante". Se questo manca, non si può parlare di ascolto autentico, perché tutto ciò che è detto viene codificato in schemi predefiniti. Apparentemente tutti accettano la raccomandazione di Freud, perché è difficile rifiutare l'invito ad ascoltare senza pregiudizi. Tuttavia all'adesione formale al principio si accompagna spesso una serie di distinguo. Si fa notare che la mente non può essere del tutto sgombra (Thöma e Kächele, 1987, p. 237 e seg.). Se non disponessimo di una serie di conoscenze, ipotesi o modelli, non riusciremmo a sentire altro che un brusio caotico. Solo queste preconcezioni ci permettono di costruire delle percezioni a partire dalla massa di impressioni sensoriali che riceviamo in ogni istante. Secondo la "teoria dello specchio" l'inconscio dell'analista, debitamente purificato da ogni traccia di controtransfert, può rispecchiare fedelmente l'inconscio del paziente. Ma la mente non è mai una tabula rasa, completamente priva di aspettative e preconcezioni. Aver pensato che possa esserlo, si ritiene, è stata una debolezza di Freud, una concessione allo Zeitgeist. La metafora reikiana del "terzo orecchio" viene trattata ironicamente come la "dottrina dell'immacolata percezione", e Bion è liquidato come "un mistico".
Argomentazioni di questo tipo si basano in parte su un malinteso, consistente nel considerare l'ascolto sintetico come un approccio autonomo e autosufficiente, invece che come momento di un processo che include anche un momento analitico. È evidente che la mente non può essere sgomberata da preconcezioni e aspettative in modo completo e permanente, e del resto se anche lo fosse non sarebbe più possibile udire alcunché. Ma è ugualmente evidente che quelle preconcezioni e aspettative possono essere messe temporaneamente tra parentesi. È precisamente ciò che accade durante questa temporanea sospensione che genera grandi preoccupazioni e resistenze nei confronti dell'ascolto "senza memoria e senza desiderio".
La soppressione degli schemi depositati nella memoria con i quali è abitualmente organizzata l'esperienza apre l'accesso a una quantità di dati in modo non selettivo. Quando poi, nel momento successivo dell'ascolto, è rimessa in funzione la memoria, può accadere di rilevare che alcuni di quei dati non sono inquadrabili negli schemi percettivi abituali. Il contrasto può essere risolto mediante una elaborazione del materiale che elimini l'incompatibilità con i paradigmi esistenti, oppure con una correzione di questi che li renda atti ad accogliere i nuovi dati (rispettivamente assimilazione e accomodamento, nei termini di Piaget). Ogni vero ricercatore è aperto ad entrambe le possibilità, mentre quando la seconda non è ammessa i dati sono manipolati per ottenere la conferma delle convinzioni acquisite.
Una procedura conoscitiva corretta richiede che tutti i modelli, schemi o paradigmi acquisiti siano sistematicamente rimessi in gioco, modificati o abbandonati nel momento in cui si rivelino inadatti a organizzare utilmente i nuovi dati. Possiamo affermare che questa sia la posizione normalmente assunta dagli psicoterapeuti nel loro lavoro? Purtroppo no. È sostanzialmente vero il contrario: è praticato in tutte le scuole un tipo di ascolto finalizzato a produrre l'autoconvalida delle teorie su cui si fonda l'identità della scuola, mentre vengono scoraggiate le deviazioni dall'ortodossia dottrinale. Questo stato di fatto è riconducibile in primo luogo ad una sorta di "peccato originale" della psicoterapia, cioè al rapporto che Freud stabilì con i suoi allievi, di fatto trasformati in seguaci:

"I suoi seguaci si davano a lui totalmente o non rimanevano nel movimento" (Cooper, 1984).

La frase citata non è stata pronunciata da un "nemico" della psicoanalisi, ma da Arnold Cooper, nella sua veste di presidente della Società psicoanalitica americana. Cooper giustifica la scelta di Freud di "stabilire la psicoanalisi come un movimento di aderenti alle sue idee" piuttosto che permettere un libero confronto, perché questo consentì alla psicoanalisi di diventare rapidamente "una forza potente nella nostra cultura". Oggi le cose sono cambiate, dice Cooper: la psicoanalisi è maturata, il dibattito è molto vivo tra i gruppi psicoanalitici che sostengono idee molto diverse "senza che le questioni possano avere risposta, o essere respinte, per appello all'autorità".
Sono realmente cambiate le cose? È vero che non c'è più un'autorità unica capace di sottomettere tutti al suo volere, ma lo stile è rimasto e si è trasferito ai singoli gruppi, al cui interno il processo "formativo" è ancora oggi lo strumento per trasformare dei ricercatori in seguaci. Afferma per esempio Kohut (1984, p. 160 e sg.) che l'analisi didattica è all'origine della "malattia della psicoanalisi" da cui sono affetti tutti i gruppi psicoanalitici di sua conoscenza. Si tratta di una addiction, cioè dipendenza morbosa, dal tipo particolare di salute e benessere che un analista acquisisce al termine della sua analisi didattica, e che è inestricabilmente connesso con la sua identità professionale. Questa a sua volta si basa su di un insieme di credenze teoriche che gli vengono trasmesse dal suo analista didatta, e che dovranno essere difese con ogni energia, perché da esse dipendono l'identità professionale, e quindi la salute e il benessere. Pertanto "egli le difenderà lealmente, mostrando ostilità e disprezzo verso coloro che non le condividono". Di qui l'esistenza dei gruppi psicoanalitici "che si fanno la guerra, si disprezzano e si temono". Tutto ciò deriverebbe, secondo Kohut, da un transfert narcisistico insufficientemente analizzato su un ideale personificato, come Freud o altri capiscuola, o su un particolare corpo dottrinario.
La malattia è così diffusa, anche al di fuori dei gruppi di derivazione freudiana, che la sua derivazione dal "peccato originale" della psicoanalisi non basta a spiegarla. Forse bisogna pensare ad un peccato ancora più originale, quello che spinge tutti i gruppi ad affermarsi come "forze potenti nella nostra cultura" e a mascherare la volontà di dominio con le più varie motivazioni ideali. Non ci si può aspettare che gli psicoterapeuti siano immuni dalla malattia che affligge il resto dell'umanità, ma che ne siano un po' più consapevoli forse sì. Questa maggiore consapevolezza, d'altra parte, non è qualcosa che si possa concedere dietro presentazione della credenziale di un regolare processo formativo che includa un'analisi didattica, perché, come è stato osservato da tempo1, questo processo produce in effetti un abbassamento della consapevolezza in questione: il cui banco di prova sta invece nella capacità di ascolto, nel momento in cui è in gioco l'identità professionale del terapeuta.
Se un terapeuta si definisce ad esempio freudiano o junghiano, e i dati che ha accolto nel momento dell'ascolto sintetico (globale e non selettivo) di un determinato paziente non si lasciano assimilare senza forzature in schemi di riferimento rispettivamente freudiani o jughiani, egli dovrà, se non vorrà espellere o contraffare quei dati, adottare o elaborare nuovi modelli (non più freudiani o junghiani) capaci di integrarli. Come si vede, ne va della sua identità: per questo è così difficile ascoltare. Un terapeuta che ha bisogno di difendere la propria appartenenza di scuola si troverà sempre in difficoltà se vorrà ascoltare veramente, cioè sospendendo la memoria e il desiderio. Il bisogno di salvare gli schemi mentali su cui si fonda l'identità oppone una resistenza formidabile all'ascolto autentico.

L'attenzione liberamente fluttuante

Nella formula freudiana "attenzione ugualmente fluttuante" l'avverbio è stato sostituito, nell'uso corrente, da "liberamente". Il motivo della sostituzione è da ricercarsi nel fatto che l'ideale implicito nella formulazione originaria, di dare un peso uguale a ogni elemento che entra nel campo percettivo, pone il terapeuta di fronte a difficoltà insormontabili. Un'operazione del genere, anche se fosse possibile, introdurrebbe una forzatura che vanificherebbe del tutto l'intenzione freudiana di un ascolto "da inconscio a inconscio". Se l'ascolto deve essere guidato dalle risonanze che l'inconscio del paziente suscita nell'inconscio del terapeuta, questi non può ascoltare ogni cosa in modo equanime, ma è tenuto a distribuire la propria attenzione in modo disuguale, in funzione dei legami associativi che il materiale attiva in lui.
Stabilito che l'attenzione non può realmente fluttuare in modo "uguale", ma solo in modo "libero", i problemi non sono finiti. Infatti, se il flusso attentivo è liberato da scopi coscienti, sottratto al controllo volontario e abbandonato alla spontaneità preconscia e inconscia, il risultato può essere uno stato mentale simile a una fantasticheria in cui i dettagli del materiale fornito dal paziente finiscono per ricevere scarsa attenzione. E' evidente che la libertà può essere eccessiva e occorre introdurre un fattore correttivo. Osserva ad esempio Sandler (1992):

"L'analista dovrebbe permettere alla sua mente di vagare in ogni luogo, consentendosi non solo di reagire al materiale del paziente, ma anche di tollerare ogni pensiero e sentimento che possano emergere. Tuttavia - e questo è vitale - nel processo di autoesplorazione l'analista ha bisogno dichiedersi di quando in quando - ma non di continuo - perché la sua mente è andata in questa o quella direzione, e di riflettere sulle possibili implicazioni contro transferali. L'analista non deve, a mio parere, cercare di impedirsi di pensare a qualsiasi cosa cui la sua mente si rivolga, ma deve anche chiedersi perché, in quel punto, ha avuto bisogno di distogliere la sua attenzione dal paziente. E ciò che è essenziale qui è che l'analista si muove tra due poli: permettere alla sua attenzione di fluttuare e rimetterla in linea."

Secondo Sandler, e molti altri, l'eccesso di libertà dell'ascolto sintetico (liberamente fluttuante) dovrebbe essere corretto dall'applicazione dell'ascolto analitico (focalizzato e selettivo). Il terapeuta dovrebbe di quando in quando interrompere la fluttuazione spontanea dell'attenzione, mettere a fuoco un punto particolare e chiedersi perché in quel momento la sua mente è andata in una direzione piuttosto che in un'altra. Certamente: il passaggio al momento analitico non è solo opportuno, è anche necessario, se si vuole perseguire una finalità terapeutica che, comunque la si intenda, richiede sempre che sia messo a fuoco un problema o un obiettivo.
Tuttavia, se l'unico fattore che impedisce all'ascolto sintetico di perdersi nella fantasticheria e nella confusione è il passaggio all'ascolto analitico, in cui rientrano in gioco le teorie e le aspettative che erano state messe temporaneamente tra parentesi, queste riacquistano il peso determinante che avevamo inteso togliergli. È un punto su cui conviene riflettere bene, perché se la teoria del terapeuta, assieme al complesso delle sue aspettative personali e ideologiche, esercita un influsso decisivo e insopprimibile sin dal momento dell'ascolto, è evidentemente escluso che si possa parlare di un "ascolto autentico", e la frammentazione del campo psicoterapeutico in tanti settori quante sono le teorie, e forse anche quanti sono i terapeuti, è inevitabile. D'altra parte, se la libertà dell'ascolto sintetico, "liberamente" fluttuante, non è meglio fondata, ed è connotata solo come "spontaneità", non frenata da alcun controllo volontario e cosciente, è ovvio che deve intervenire, "di quando in quando", una messa a fuoco selettiva guidata dalla teoria.
In altre parole: si può parlare di "libertà" dell'attenzione in senso forte, e non puramente spontaneistico? La questione è stata affrontata già in tempi molto remoti, e in culture molto lontane dalla nostra. La pratica di sospendere gli schemi abituali del pensiero cosciente per lasciare emergere i pensieri e i sentimenti subconsci, al fine di giungere a una comprensione non intellettuale, cioè all'insight, è nota da molto tempo ed è coltivata in alcune scuole tradizionali. Ecco come è descritta ad esempio la pratica dello Zazen:

"Appena il pensiero cosciente si interrompe, il subcosciente, non essendo più arginato dalle barriere della coscienza, scorre liberamente; d'altronde, l'osservazione del subcosciente che passa davanti all'occhio della coscienza conduce alla vera comprensione, cioè a quella non intellettuale, di questo subcosciente" (Deshimaru, 1978, p.12).

La difficoltà principale di questo processo è stata messa bene a fuoco nella tradizione buddista. È stato osservato che non è sufficiente lasciar "scorrere liberamente" il subcosciente (o lasciar "fluttuare liberamente" l'attenzione), perché è facile farsi catturare dal flusso associativo, o viceversa obbligarlo a entrare negli schemi abituali di interpretazione dell'esperienza, cioè nella teoria che il soggetto ha in mente. Ad esempio un analista freudiano, uno kleiniano e uno junghiano lasciano tutti fluttuare "liberamente" la propria attenzione, ma finiscono regolarmente per produrre delle interpretazioni che confermano la teoria che avevano in mente sin dall'inizio.
Per questo gli autori buddisti raccomandano di oscillare tra un atteggiamento di attenzione fluttuante (mindfulness) e uno di concentrazione su un punto particolare, che può essere il respiro, l'asse corporeo, un suono, un'immagine o altre cose ancora, ma mai una teoria. La necessità di avere un punto al quale ancorare l'attenzione, per evitare che si perda nel flusso associativo, ha un riscontro nel mito di Ulisse che si fa legare all'albero della nave per ascoltare il canto delle sirene senza esserne sedotto e trascinato negli abissi. Chiunque abbia lavorato con l'inconscio sa che quel pericolo esiste. In mancanza di un punto neutrale, cioè non teoretico, di ancoraggio, per scongiurare quel pericolo è inevitabile ricorrere alle reti del "processo secondario". Ma se l'unico modo che abbiamo per non essere risucchiati dal flusso associativo è interpretarlo, queste interpretazioni sono, prima di ogni altra cosa, delle razionalizzazioni, cioè manovre difensive che hanno lo scopo di proteggere la nostra identità dall'angoscia dell'ignoto.
La necessità di trovare o costruire dentro di sé un punto di ancoraggio non teoretico, come presupposto per una capacità compiuta di ascolto, è stata percepita del resto anche in campo psicoanalitico:

"Solo se il centro di gravità del sé dell'analista è sufficientemente basso da permettere una respirazione costo-diaframmatica, e solo se questo sé mentale e fisico ha raggiunto una coesione sufficiente e la capacità di contenere gli affetti, l'analista si sentirà abbastanza ben equipaggiato da consentire l'accesso in sé stesso, e quindi nella seduta, alle emozioni violente che il paziente tenderà altrimenti a scaricare contro di lui oppure a scindere per farne esperienza altrove" (Speziale-Bagliacca, 1991).

Questo autore utilizza felicemente la metafora del centro di gravità, punto privilegiato cui attribuiamo una sorta di capacità di attrazione: come se l'attenzione potesse permettersi di vagare a piacimento, nella sicurezza di ritornare sempre nel luogo dove può fermarsi e riposare. L'espressione "centro di gravità" indica pertanto il punto intorno al quale l'attenzione può gravitare per non smarrirsi nel flusso associativo.
Chiamiamo o il centro o "punto zero" dell'attenzione, e a, b, c, d le rappresentazioni mentali su cui essa, liberamente fluttuando, si posa. La sequenza a -> b -> c -> d corrisponde a un flusso attentivo disordinato,mentre la sequenza a -> o -> b -> o -> c -> o -> d corrisponde a uno sviluppo in cui non viene mai perduto il contatto con il centro. Solo la seconda sequenza riflette una fluttuazione realmente libera, perché l'attenzione, oscillando continuamente tra gli oggetti di osservazione e il suo punto di origine, o in altre parole tra soggetto e oggetto, non si perde mai, mentre nel secondo caso la fluttuazione non è veramente libera, perché l'attenzione è catturata e condizionata dagli oggetti su cui si posa2.
L'addestramento dell'attenzione a posarsi su uno o più punti teoreticamente neutri per non perdersi nel flusso associativo, o al contrario per non arrestarlo indebitamente con l'applicazione anticipata e difensiva di griglie teoretiche, è stato particolarmente curato in alcune scuole dell'antichità, e meriterebbe di trovare un posto di rilievo nella formazione degli psicoterapeuti odierni. Questa disciplina dell'attenzione si inserisce in un processo più ampio, che sarà esaminato più avanti.

L'ascolto analitico

Oltre alla modalità sintetica di ascolto globale e non selettivo, l'esperienza richiede anche un ascolto di tipo opposto. Il modo analitico, che non accoglie indiscriminatamente ma opera distinzioni, è stato definito in questo modo:

"Non si fanno esperienze senza porre delle domande. Il pervenire a riconoscere che le cose stanno in modo diverso da come si credeva inizialmente presuppone ovviamente che si sia passati attraverso la fase della domanda, che ci si sia chiesti se le cose stiano in questo modo o quel modo. L'apertura che è implicita nell'essenza dell'esperienza è appunto, vista logicamente, questa apertura del 'così o altrimenti" (Gadamer, 1965, p. 418).

Il modo analitico è selettivo e focalizzato, interroga attivamente il materiale o le parole dell'interlocutore, che sottopone al vaglio delle teorie e delle ipotesi. Non solo il discorso dell'altro, ma il vissuto nel senso più ampio deve essere interrogato ripetutamente per poter essere compreso. Il terapeuta non può evitare di porsi continuamente delle domande nel tentativo di dare significato all'esperienza che ha di sé e dell'altro nella relazione, come ad esempio: l'affetto che il paziente manifesta in questo momento è riferibile primariamente a questa o ad altre relazioni? La noia che sto provando è una risposta a qualcosa che il paziente sta facendo o è indizio di una mia difficoltà personale?
Lo sviluppo della terapia è determinato in modo decisivo dalle domande che si fanno e dalle risposte che si ottengono. Ogni terapeuta porrà interrogativi diversi a seconda dell'esperienza, degli interessi personali e della formazione ricevuta. L'impegno ad ascoltare non obbliga chi lo assume a cancellarsi come individuo con una personalità e una cultura specifiche, certamente non prive, tra l'altro, di pregiudizi e fissazioni. Al contrario, la relazione psicoterapeutica è resa possibile dalla dialettica tra le due dimensioni dell'ascolto. La prima apre lo spazio che consente all'altro di esprimersi, la seconda crea le premesse per un confronto. Una è fondativa dell'operazione psicoterapeutica, l'altra costruisce su quelle fondamenta.
All'interno del flusso di informazioni, accolte in modo per quanto è possibile globale e indiscriminato nel momento dell'ascolto sintetico, viene selezionato, nel momento successivo, un numero limitato di elementi intorno ai quali viene focalizzata l'attenzione. Ciò significa che la psicoterapia è necessariamente focale in ogni sua fase. Come fanno notare Thöma e Kächele (1987), poiché la capacità umana di assorbire ed elaborare l'informazione non è illimitata, è inevitabile che la percezione sia selettiva e l'attenzione focalizzata. Questo tuttavia non è in contrasto con l'esercizio dell'ascolto sintetico, o attenzione ugualmente sospesa:

"L'attenzione ugualmente sospesa e la focalizzazione svolgono funzioni complementari: la condizione funzionale che permette di ottenere la massima quantità di informazione (l'attenzione ugualmente sospesa) e l'organizzazione di questa informazione secondo i punti di vista più significativi (la focalizzazione) si alternano in primo piano nella mente dell'analista". "Consideriamo il fuoco formato interattivamente come l'asse del processo analitico, e quindi concettualizziamo la terapia psicoanalitica come una terapia focale continua, senza limiti di tempo, a fuoco variabile" (Thöma e Kächele, 1987, p. 346-347).

Gli stessi autori che avevano escluso la possibilità di un ascolto "senza memoria e senza desiderio" descrivono ora invece in modo molto felice l'articolazione dei due tipi di ascolto o attenzione: a conferma dell'ipotesi precedente, che questo tipo di incomprensione nasce spesso dal malinteso di considerare una modalità dell'ascolto separatamente dall'altra.
Di regola in ogni terapia si alternano diversi fuochi tematici, e le diverse fasi del lavoro si caratterizzano per la prevalenza dell'uno o dell'altro. Anche all'interno della singola seduta la comunicazione tende a organizzarsi intorno a uno o a pochi centri di interesse. Nella scuola di Ulm la formazione dei fuochi è giustamente colta nel suo carattere interattivo, cioè inquanto è determinata dalla personalità e dalle convinzioni dei due partner della coppia terapeutica, oltre che dalla qualità imponderabile del loro incontro.
Ogni singola percezione è un'interpretazione, perché per costruirla dobbiamo selezionare e organizzare i dati disponibili, e per farlo utilizziamo e facciamo valere i nostri punti di vista, schemi, valori e interessi personali. Questo vale sia per il terapeuta, sia per il paziente, ed è inevitabile. Ne deriva che l'ascolto di entrambi ha un carattere insuperabilmente soggettivo, ed è priva di fondamento la pretesa che le percezioni, costruzioni o interpretazioni dell'uno o dell'altro possano mai essere oggettive. Chi lo sa e se ne ricorda, non cade nell'illusione di prendere per vere le proprie percezioni, resta ben consapevole della loro natura soggettiva, e quindi si pone in atteggiamento di confronto e di dialogo con chi gli sta di fronte. In altre parole, passa dal piano puramente soggettivo al piano intersoggettivo.
Una categoria importante di resistenze alla terapia è di tipo iatrogeno: si tratta di resistenze che si producono quando il terapeuta dimentica o non è consapevole della natura soggettiva delle costruzioni, dei valori e dell'esperienza che propone. Il Dizionario di psicoanalisi di Laplanche e Pontalis (1967) alla voce "psicoanalisi selvaggia", riporta quanto segue:

"È presuntuoso considerare l'analisi selvaggia come il fatto di psicoterapeuti non qualificati e sarebbe un modo comodo di ritenersi esenti da tale pericolo. Ciò che Freud denuncia infatti nell'analisi selvaggia non è tanto l'ignoranza quanto un certo atteggiamento dell'analista che veda nella sua 'scienza' la giustificazione del suo potere".

Ancora una volta la volontà di potenza si camuffa e si dà una copertura "scientifica": ciò che dico è vero, o è più vero di ciò che dicono gli altri, perché ho alle spalle un istituto scientifico o perché sono un interprete autorizzato dell'inconscio. Il vero atteggiamento scientifico è un'altra cosa. Significa non dare mai nulla per scontato, sapere che non sappiamo mai nulla di certo, che anche le leggi che sembrano più stabilite sono solo ipotesi che hanno ricevuto un buon grado di conferma, ma che potrebbero essere abbandonate domani. Il vero scienziato è sempre pronto a rimettere in discussione le sue ipotesi in un confronto pragmatico ed euristico.
L'ascolto è un processo bifasico, che oscilla tra un momento sintetico, in cui l'attenzione è globale e non selettiva, e uno analitico, in cui l'attenzione è discriminativa e focalizzata. Per una comprensione più precisa del processo, dobbiamo considerare anche un'oscillazione più sottile, interna a ciascuno dei due momenti. Come spesso si osserva in una coppia di opposti, ognuno dei due poli contiene in sé embrionalmente l'altro: come nell'esempio classico della coppia sessuale, in cui il maschio ha in sé un nucleo femminile e viceversa. Non esiste un maschio "puro", o esiste solo come patologia che affligge un individuo di sesso maschile incapace di ospitare in sé il proprio opposto. Così possiamo dire che non esiste un ascolto sintetico puro, perché è sempre riconoscibile un elemento analitico implicito o latente, e viceversa.
Abbiamo osservato, a proposito dell'ascolto sintetico, che l'attenzione, per essere veramente libera, deve poter disporre di una sorta di "centro di gravità" teoreticamente neutro, cui ancorarsi e continuamente ritornare per non perdersi nel flusso delle impressioni e delle associazioni. Questo significa che un elemento di focalizzazione è presente anche nell'ascolto sintetico. Reciprocamente, anche l'ascolto analitico può essere realizzato solo con la collaborazione dell'atteggiamento opposto. Infatti la focalizzazione non consiste evidentemente in una concentrazione esclusiva e rigida sul tema prescelto, bensì in una esplorazione di materiali psichici tutti in qualche modo connessi a un punto centrale. Perché questa esplorazione possa aver luogo, l'attenzione non può essere rigidamente focalizzata, ma neppure liberamente fluttuante: deve invece poter fluttuare intorno al punto focale che è stato selezionato. Si tratta quindi di una fluttuazione dell'attenzione che non è libera, ma vincolata dal tema prescelto.
Se chiamiamo f il tema focale prescelto, il processo dell'attenzione si potrà rappresentare così: a -> f -> b -> f -> c -> f -> d 3 Se confrontiamo questa sequenza con quella che caratterizza l'andamento dell'attenzione nel momento sintetico (a -> o -> b -> o -> c -> o -> d), osserviamo che in nessuno dei due casi l'attenzione è completamente libera né rigidamente fissa, mentre in entrambi è orientata intorno a un punto. La differenza, nei due momenti, è che in un caso questo punto è teoreticamente neutro e il suo contenuto è indifferente (ad esempio la respirazione), mentre nell'altro l'attenzione oscilla intorno a un punto che è stato prescelto proprio perché il suo contenuto è stato giudicato significativo.
La sequenza che si ottiene nel momento sintetico, essendo ancorata a un punto neutro, tenderà a riflettere il processo che si sviluppa spontaneamente in un momento dato della relazione terapeutica, mentre la sequenza che si ottiene nel momento analitico corrisponderà al processo determinato dalla decisione di lavorare intorno a un tema prescelto. Entrambi i momenti sono presenti in qualsiasi relazione che voglia essere psicoterapeutica, in primo luogo perché una relazione, per il solo fatto di essere definita terapeutica, quindi finalizzata a un obiettivo di cura, non può mai essere del tutto spontanea; in secondo luogo perché una relazione che tolga ogni spazio alla spontaneità e voglia essere rigidamente programmata non potrebbe essere terapeutica.

La psicoterapia autentica

Dopo aver esaminato gli aspetti principali del processo dell'ascolto, ritorniamo al punto da cui siamo partiti: in che senso è possibile parlare di una psicoterapia autentica, cioè di un processo determinato in primo luogo dalla logica interna della relazione che si sviluppa tra paziente e terapeuta, piuttosto che da una teoria scelta arbitrariamente?
La questione si pone perché, come si è visto, il processo della terapia è determinato anche dalle teorie del terapeuta. Si tratta di vedere se questo influsso sia necessariamente determinante e decisivo - nel qual caso si potrà solo parlare di terapia kleiniana, rogersiana o comportamentale, e non di terapia autentica - o, al contrario, se esso possa essere reso subordinato a un processo relazionale sostanzialmente o almeno relativamente autonomo dalle teorie con cui si cerca di comprenderlo e guidarlo.
La possibilità di sintonizzarsi con un processo non condizionato dalla teoria dipende evidentemente dalla possibilità di un ascolto in cui ogni teoria venga messa temporaneamente tra parentesi. Abbiamo osservato che l'attenzione "ugualmente sospesa", caratteristica dell'ascolto sintetico, per non perdersi nel flusso associativo, né arrestarlo con interpretazioni anticipate e difensive, deve potersi ancorare a un punto teoreticamente neutro, contrassegnato come o. Questa "disciplina dell'attenzione" è solo un aspetto di un processo più vasto di neutralizzazione, in cui svolge un ruolo decisivo anche una componente affettiva di fiducia, che può essere indicata in questi termini: è impossibile prendere le distanze da tutto ciò che è noto senza un atto di affidamento all'ignoto. Bion, che forse più di ogni altro ha richiamato l'attenzione sulla necessità dell'ascolto sintetico, "senza memoria e senza desiderio", si è riferito a questo atto con l'espressione F in O, che significa fede nell'ignoto, nella cosa in sé, o nella realtà ultima e inconoscibile.
La necessità che l'atteggiamento indicato con l'espressione F in O si stabilisca dipende dal fatto che la soppressione, anche se temporanea, di ogni abitudine mentale e ogni aspettativa sconvolge l'esperienza ordinaria ed è sentita come estremamente minacciosa per il senso di "realtà". La presa di distanza dall'esperienza abituale è avvertita,

"fintanto che F (in O) non sia stato istituito, come un attacco estremamente grave all'io" (Bion, 1970, p.68)4.

In altre parole, a causa della minaccia al senso di realtà e all'io, se un atteggiamento di fiducia nell'ignoto (o nell'inconscio, per usare un termine che ci è più familiare) non si è stabilito, è estremamente difficile, e forse anche pericoloso, abbandonare le assunzioni e le teorie che governano la percezione ordinaria del mondo.Ciò significa che un ascolto realmente sintetico, cioè caratterizzato da mente sgombra e attenzione ugualmente sospesa, è problematico fintanto che F in O non è stato istituito. La stessa disciplina dell'attenzione, in cui questa è addestrata ad ancorarsi a un punto teoreticamente neutro o, è molto ardua se non può fondarsi su F in O. In mancanza di una effettiva capacità e volontà di neutralizzazione radicale di ogni assunto teorico, l'ascolto sintetico è impraticabile; non rimane che l'ascolto analitico, governato da scelte a priori e incapace di fondare una psicoterapia autentica. Stabilito che la base di questa è nell'ascolto sintetico, resta da vedere in che modo i due tipi di ascolto possono coordinarsi per produrre un processo terapeutico fondato sui bisogni realmente in gioco nella relazione, e non sulla scuola di appartenenza del terapeuta.
Nel momento in cui il terapeuta mette a fuoco la propria attenzione su un punto o una tematica, su cui poi dirige l'attenzione del paziente, il processo prende un orientamento determinato, uscendo dall'indeterminatezza in cui era tenuto dall'accoglimento indiscriminato e non selettivo di qualsiasi tema. La scelta del terapeuta, pur essendo ovviamente influenzata dalla preparazione ricevuta e da ogni sorta di fattori personali, non può non tener conto anche delle effettive esigenze del paziente, che neppure il più manipolativo dei terapeuti può permettersi di ignorare del tutto. Un grado minimo di accordo deve sempre essere trovato, se si vuole fare qualcosa. Da questo punto di partenza si aprono schematicamente due strade: sulla prima il terapeuta concederà il minimo necessario per ottenere l'assenso, l'alleanza, la compliance o la complicità del paziente in un lavoro le cui linee generali sono già codificate e alle quali si atterrà per quanto possibile riducendo al minimo le deviazioni. Sulla seconda il terapeuta avrà come obiettivo principale la sintonia con i bisogni di guarigione e di crescita del paziente, da raggiungersi attraverso il confronto continuo e la messa alla prova sul campo di qualsiasi ipotesi.
La prima strada è percorsa dai seguaci di tutte le scuole, per i quali l'ortossia dottrinale è il valore guida cui ogni altro deve essere subordinato. La seconda è non conformista e aperta al dialogo; dal rischio sempre presente di cadere nell'eclettismo spicciolo e improvvisato si salva solo grazie a uno sforzo continuo di integrazione. Quest'ultima, se è evitato quel pericolo, conduce alla psicoterapia autentica, mentre la prima è percorsa dalle molteplici pratiche di indottrinamento che costituiscono una parte considerevole di ciò che oggi passa sotto il nome di psicoterapia o psicoanalisi.
Siamo così giunti alla conclusione che la psicoterapia autentica ha necessariamente un carattere integrativo. Nella prossima sezione discuterò un modello di psicoterapia integrata, il cui valore potrebbe essere verificato con questo criterio: un modello è valido se permette un ascolto fedele delle richieste che si esprimono nella relazione e una risposta in sintonia con queste.



II. Il campo della psicoterapia

Il campo e la selva

Sulla relazione di terapia si depositano aspettative realistiche e irrealistiche intrecciate e mescolate in varie proporzioni. Se il terapeuta rispondesse positivamente alle prime e mostrasse l'impossibilità delle seconde, il processo avrebbe uno sviluppo ideale. Di fatto può accadere che richieste legittime siano disattese e pretese illegittime alimentate. Come distinguere le une dalle altre?
Risposte semplificative del tipo: "il paziente ha bisogno solo di prendere coscienza dei propri conflitti inconsci", oltre a basarsi su assunzioni arbitrarie, non reggono se sono messe seriamente alla prova. Il Psychotherapy Research Project della Fondazione Menninger è uno studio sul trattamento e il follow up di 42 pazienti, la metà dei quali in "psicoanalisi propria"l'altra metà in "psicoterapia analitica" protrattosi per 30 anni. Riassumendone i risultati, Wallerstein ha scritto:

"Le distinzioni postulate tra le modalità terapeutiche della psicoanalisi e delle psicoterapie analitiche espressive e supportive sono pressocchè inesistenti (hardly exist) in forma pura o ideale nel mondo reale della pratica clinica; i trattamenti psicoanalitici nella pratica effettiva sono misture inestricabilmente intrecciate di elementi più o meno espressivo-interpretativi e più o meno supportivo-stabilizzanti; quasi tutti i trattamenti (incluse le psicoanalisi presumibilmente pure) comportano più elementi di sostegno di quanto inteso originariamente, e questi elementi di sostegno rendono conto di una quantità sostanzialmente superiore di cambiamenti di quanto era stato previsto all'inizio" (Wallerstein, 1985).

Se si osserva ciò che i terapeuti realmente fanno, e non ciò che dicono di fare, si vede che fanno di regola una quantità di cose non previste dal metodo che dichiarano di praticare, perché vi sono costretti dalla logica della relazione, cioè dai bisogni che in essa sono effettivamente in gioco. Non solo le analisi che dovrebbero essere "pure" sono in realtà "misture inestricabilmente intrecciate" che includono una notevole quantità e varietà di interventi non analitici, ma a questi ultimi si deve la maggior parte dei cambiamenti ottenuti (per un esame dettagliato dei risultati, v. Wallerstein, 1986).
Affermazioni riduttive, secondo le quali i pazienti non avrebbero bisogno d'altro che di questo o di quello, possono servire come parole d'ordine e segni di riconoscimento per una scuola, non certo come strumenti validi per capire di che cosa ha realmente bisogno un singolo paziente in un momento determinato. A questo fine serve piuttosto un modello che includa i principali bisogni espressi dalle persone che chiedono un trattamento psicoterapeutico di qualsiasi tipo, ordinati in uno schema coerente o in un sistema di coordinate che permetta di orientarsi nella varietà sterminata di situazioni che possono verificarsi in una relazione di psicoterapia. Un modello di questo tipo, per quanto imperfetto, sarà sempre meglio di un filtro rigido che prescrive a priori che cosa si debba fare o di una collezione di modelli diversi e non integrati, tra cui scegliere di volta in volta secondo l'intuizione e l'improvvisazione del momento.
Un modello integrato, in quanto permette di situare all'interno di un sistema di coordinate ogni interazione tra paziente e terapeuta, definisce il campo della psicoterapia, cioè il luogo in cui si coltiva una relazione psicoterapeutica. Certamente a volte la terapia è anche un campo di gioco o di battaglia, ma la metafora agricola è prevalente: una relazione deve essere coltivata perché produca frutti.
Il campo è una porzione limitata di spazio: uno spazio definito da regole, principi e procedimenti che consentono di stabilire checosa includere e che cosa escludere. Chi non sta in un campo sta nella selva. La metafora copre due nozioni distinte. In primo luogo la selva sta per tutto ciò che non è terapeutico: precisamente imposizioni (soprattutto l'ortodossia dottrinaria che si traveste da scienza) e interferenze di bisogni o problemi del terapeuta. In secondo luogo la selva è lo spazio ignoto che avvolge il campo da ogni parte e include tutto ciò che non è codificato. In questo spazio si entra quando si segue l'ispirazione del momento. Si tratta di azioni deliberate che possono essere giuste o sbagliate, ma non derivano da inconsapevolezza o arroganza dottrinale. Ogni terapeuta deve rapportarsi anche a questo ignoto, perché non tutto è codificabile. La pretesa di ridurre ogni cosa al già noto produce solo irrigidimenti e forzature. Occorre a volte avventurarsi nell'ignoto, ma è possibile farlo con ragionevole sicurezza solo a partire da un campo base: è facile smarrirsi, e soprattutto è difficile, se non impossibile, verificare a posteriori l'effetto dell'atto non codificato, se non esiste un campo base cui continuamente ritornare.

I bisogni in psicoterapia

"La proliferazione tumultuosa di 'scuole' di psicoterapia è stata accompagnata da una cacofonia assordante di pretese rivali, e ha prodotto confusione, frammentazione e scontento" (Beitman, Goldfried e Norcross,1989).

Negli ultimi tre decenni, parallelamente alla proliferazione delle scuole, si è verificata anche una lenta mutazione del clima culturale. Le barriere dogmatiche si sono fatte meno impenetrabili, e in generale gli psicoterapeuti sono oggi più inclini a riconoscere le limitazioni del proprio metodo e i vantaggi di approcci differenti. Si può ormai parlare dell'integrazione psicoterapeutica come di un'area di interesse chiaramente delineata.
Negli anni ottanta questo movimento verso l'integrazione si è espresso in modo particolare nella forma di una diagnostica differenziale (Frances, Clarkin e Perry, 1984; Gislon, 1988). Il principio che informa questo tipo di integrazione è l'ipotesi che ad ogni metodo, o gruppo di metodi, corrisponda un'indicazione particolare. Non è stato tentato un improbabile accoppiamento tra un manuale diagnostico (come il DSM-IV) e i vari tipi di psicoterapia, ma è stato fatto lo sforzo di definire i vantaggi e gli svantaggi differenziali di ogni tipo di trattamento. L'obiettivo era di pervenire all'abbinamento ottimale tra i bisogni del paziente, per come sono valutati nel colloquio diagnostico, e le modalità di trattamento che presumibilmente offrono la risposta migliore a quei bisogni.
Questo approccio ha il merito principale di mettere al primo posto i bisogni del paziente, in contrasto con l'approccio ideologico che costringe il paziente ad adattarsi al metodo del terapeuta. Un suo punto debole è di basarsi su un'ipotesi che ha ricevuto scarse conferme empiriche. Come osservano ancora Beitman, Goldfried e Norcross (1989),

"nonostante un considerevole aumento della quantità e della qualità della ricerca psicoterapeutica, esistono poche condizioni in cui un dato sistema di terapia porta a risultati differenziali. Con poche eccezioni, l'evidenza che raccomanda l'uso di una forma di psicoterapia piuttosto che di un'altra per il trattamento di problemi specifici non è irresistibile".

È vero, d'altra parte, che la vaghezza delle evidenze empiriche accomuna a tutt'oggi ogni tipo di psicoterapia. La difficoltà maggiore è un'altra. Il metodo della diagnostica differenziale si basa sul presupposto implicito che gli psicoterapeuti applichino effettivamente i metodi che dichiarano di applicare: ma questo presupposto appare sempre meno fondato.Tra ciò che i terapeuti fanno e ciò che dicono di fare c'è di regola una distanza più o meno ampia, dipendente dal fatto che nemmeno il più rigido e dogmatico dei terapeuti può ignorare del tutto i bisogni del paziente, e quindi evitare di modificare il suo modo di lavorare per venire incontro al paziente almeno quanto basta per non perderlo e ottenere la sua collaborazione. Non solo questo è sempre avvenuto, ma certamente ora sta avvenendo ancor più che in passato. L'abbassamento del rapporto tra domanda e offerta di psicoterapia che si verifica ovunque fa sì che i terapeuti siano sempre più inclini a prendere in considerazione i bisogni dei pazienti per adattare il proprio metodo a questi, piuttosto che il contrario.
I bisogni dei pazienti stanno alla base di ogni discorso sulla terapia, o almeno dovrebbero starci, perché il senso di qualsiasi terapia sta precisamente nell'essere una risposta ai bisogni di cura: come effettivamente sono, non come i terapeuti immaginano che siano in base ai loro pregiudizi ideologici. Ma come sono effettivamente questi bisogni? Si può parlare di bisogni "oggettivamente" esistenti? Certamente no: se un bisogno sia reale o immaginario, genuino o indotto, è in gran parte questione di interpretazione. Il punto è che l'interpretazione del paziente al riguardo non può valere a priori meno di quella del terapeuta. Una relazione terapeutica, al pari di qualsiasi altra relazione, può essere detta autentica se nessuno dei due impone all'altro le proprie interpretazioni, ma entrambi sono disposti a metterle in gioco, confrontarle e negoziarle.
Se la determinazione di bisogni deriva dal libero gioco e confronto delle interpretazioni, e non è operata d'autorità dal terapeuta (secondo il quale il paziente non avrebbe bisogno d'altro che di prendere coscienza dei conflitti inconsci, o di correggere malapprendimenti, o di assumere farmaci, o qualsiasi altra cosa la sua formazione lo porti a credere) si crea uno spazio relazionale in cui le pretese di sapere dell'una e dell'altra parte si neutralizzano reciprocamente. In un tale spazio la percezione dei bisogni cambia, fluttua, evolve: non resta immobile ma si trasforma nel tempo, anche nel tempo breve, anche nel corso di una singola seduta. Se dunque la terapia non è l'applicazione cieca di un principio assunto a priori, ma la risposta ai bisogni del paziente per come si affermano nella dialettica relazionale, è chiaro che le modalità terapeutiche, dovendo conformarsi a bisogni che cambiano, debbono cambiare anch'esse. Per cui con lo stesso paziente in momenti successivi, e anche nella stessa seduta, può porsi la necessità di applicare modalità terapeutiche diverse, come l'esplorazione di un conflitto inconscio con la tecnica delle libere associazioni e l'aiuto a risolvere un problema con modalità cognitive e comportamentali.
Dopo aver chiarito che in una psicoterapia autentica la definizione dei bisogni risulta dalla dialettica della relazione, dal confronto e dal negoziato tra paziente e terapeuta, e non da una predefinizione contenuta nel modello teorico del terapeuta, bisogna ora aggiungere che da uno psicoterapeuta ci si può e ci si deve attendere qualcosa di più che una disponibilità al dialogo. E' lecito attendersi che abbia studiato e continui a studiare il modo in cui nelle principali scuole psicoterapeutiche (analitiche,cognitivo-comportamentali, esperienziali-umanistiche) trovano accoglimento e risposta i bisogni fondamentali di una persona che chiede aiuto psicologico. L'analisi comparata delle diverse modalità di intendere e trattare i bisogni fondamentali dei pazienti nelle diverse scuole è la disciplina di base nella psicoterapia integrata. Da questo studio emergeranno delle mappe generali dei bisogni di pertinenza della relazione psicoterapeutica, e degli strumenti di orientamento per capire in che zona sta navigando la relazione terapeutica in un momento dato.

Psichiatria e psicoterapia

Iniziamo l'esame del campo della psicoterapia dall'osservazione che esso è parte di un insieme più vasto, il campo della psichiatria. Infatti, anche se la domanda esplicita del paziente è di psicoterapia, e su questa base si stipula un contratto e inizia un lavoro regolare, non di rado si rendono opportuni o anche necessari interventi di tipo farmaco- o socio-terapeutico.
Il campo della psichiatria può essere descritto come uno spazio relazionale generato da tre vertici: psicoterapeutico, farmacoterapeutico e socioterapeutico. Ogni psichiatra, indipendentemente dalla formazione e dall'orientamento, opera in questo campo, ma spesso accade che un vertice sia privilegiato a priori sugli altri: ad esempio quello farmacoterapeutico nella psichiatria organicistica, o quello psicoterapeutico a Chestnut Lodge. Tuttavia si può anche decidere di privilegiare non un vertice particolare, ma l'ascolto dei bisogni che effettivamente e di volta in volta il paziente esprime, consapevolmente o meno5.
Questo orientamento pragmatico e non ideologico sarebbe tutto quello che serve se si trattasse di integrare tre funzioni, ciascuna delle quali già sufficientamente integrata al proprio interno. Così non è, perché in particolare la parola "psicoterapia" è solo un contenitore per una congerie disparata di pratiche molto diverse tra di loro. Di conseguenza, dopo aver individuato il campo della psichiatria come l'ambito generale in cui collocare lo specifico della psicoterapia, occorre tornare a questo per tentare di cogliere qualcosa come una "struttura fondamentale" o una "essenza" della psicoterapia, che ci permetta di parlarne come di un'entità identificabile. Il presupposto minimo perché una cosa sia integrabile con un'altra è che questa cosa esista. Per la psicoterapia questo presupposto non si può dare per scontato: esistono la psicoanalisi freudiana o la terapia comportamentale, ma esiste la psicoterapia come tale? Bisognerebbe mostrarlo, e non vedo altro modo di farlo che costruire un modello capace di render conto di ciò che effettivamente avviene in ogni relazione psicoterapeutica, quale che sia la sua etichetta.
Può essere di aiuto una rappresentazione grafica del campo psicoterapeutico all'interno del campo psichiatrico:

Fig. 1. Il campo della psichiatria

La divisione geometrica del campo psichiatrico porta alla costruzione di tre settori quadrangolari. Estraendo il settore psicoterapeutico, otteniamo una figura che si presta bene alla rappresentazione grafica delle funzioni fondamentali della psicoterapia, avendo la forma di un quadrilatero diviso da due assi ortogonali:

Fig. 2. Il settore psicoterapeutico all'interno del campo psichiatrico

Ho osservato prima che in psicoterapia la determinazione dei bisogni, se non è operata d'autorità, risulta dalla dialettica relazionale. Ciò esclude che si possa parlare di bisogni oggettivi. Tuttavia, affermare che i bisogni "psicologici" (come possono essere sommariamente chiamati quelli di competenza della psicoterapia) sono soggettivi, o più precisamente intersoggettivi, è quasi una tautologia che ha lo scopo di mettere in guardia rispetto alla tentazione, sempre in agguato, di un'indebita oggettivazione, ma non autorizza affatto a ritenerli arbitrari.
Nelle scienze umane non esistono leggi oggettive perché gli esseri umani non sono oggetti, ma in ogni disciplina umanistica si osservano regolarità tipiche o configurazioni ricorrenti che non hanno valore normativo o nomologico, bensì probabilistico o euristico (Fornaro, 1998). In particolare il vissuto della relazione terapeutica (che è fuorviante e confusivo chiamare transfert e contro transfert) si organizza regolarmente intorno a poche unità elementari di significato (coinemi, nella terminologia di Fornari).
Le prime due unità sono naturalmente i ruoli parentali, la madre e il padre. Non è necessario, ma è molto probabile, che in ogni terapia il paziente attribuisca occasionalmente o sistematicamente al terapeuta una funzione materna o paterna. Altrettanto regolarmente si osserva che il terapeuta in parte accoglie la richiesta che gli è rivolta come legittima (cercando cioè di funzionare come un buon contenitore materno o un emancipatore paterno) (Zapparoli, 1979, Speziale-Bagliacca, 1993), in parte la ricusa come illegittima. Ciò equivale a dire che il terapeuta non può essere realmente una madre o un padre per il suo paziente, cioè non può sostituire quelle figure a tutti gli effetti, ma non può nemmeno sottrarsi al dovere di rispondere come meglio può alla domanda del suo paziente facendosi carico di alcune funzioni di competenza dell'uno o dell'altro ruolo. Chi dovrebbe farlo, se non lui?
La madre e il padre sono le figure che in tutte le culture presiedono al processo che trasforma un bambino in un adulto: la prima gli fornisce una base sicura, un contenitore protetto che prolunga il contenitore prenatale, in cui il bambino può sentirsi incondizionatamente accolto. Il secondo ha il compito di farlo uscire da quella base e di accompagnarlo nel mondo esterno, dove non c'è più nulla di garantito e tutto deve essere conquistato con la lotta e con il lavoro. Non importa chi in pratica si assuma questi ruoli (se per esempio il padre sia colui che lo ha generato o lo zio materno): la mancanza o l'insufficienza di questi ruoli porta quasi inevitabilmente a disturbi dello sviluppo e alla ricerca, nella vita adulta, di figure vicarie.
Essendo lo psicoterapeuta, nella nostra cultura, la più significativa delle fugure su cui si depositano richieste di vicarianza parentale, sarà di vitale importanza per lui discriminare in ogni momento del processo la parte realistica di quella richiesta, che lo impegnerà in una funzione riparativa (nella quale si dovrà porre come "nuovo oggetto di esperienza"), da quella non realistica, che dovrà essere riconosciuta come tale ed elaborata.
Abbiamo in tal modo descritto i primi due vertici del campo terapeutico, uniti da una linea che è giusto rappresentare graficamente come orizzontale, perché corrisponde all'asse naturale della crescita, come è appropriato rappresentare con una linea verticale l'asse culturale sul quale avviene (quando avviene) la lenta trasformazione di un individuo semplicemente adulto in un soggetto consapevole. A questa seconda parte del processo hanno presieduto nelle varie epoche e culture figure diverse: lo sciamano, il sacerdote, il filosofo, lo scienziato. A queste, per molti tuttora valide figure di riferimento, si aggiunge oggi per altri, cui esse appaiono per un verso o per l'altro inadeguate, quella dello psicoterapeuta.
Si deve ripetere per l'asse culturale ciò che è stato detto per quello orizzontale: che lo voglia o meno, al terapeuta sono rivolte anche richieste di ordine culturale. Anche qui dovrà discriminare le risposte che rientrano nella sua competenza (e nella sua capacità) da altre che richiedono un trattamento diverso. In linea di massima credo che il terapeuta non possa svolgere adeguatamente la sua funzione su questo asse se non dispone di una minima libertà di movimento su tutta la sua estensione, da un vertice all'altro.
Per designare i due vertici dell'asse verticale uso le lettere K e O, introdotte da Bion per indicare rispettivamente la conoscenza e l'ignoto. In questi due vertici il terapeuta svolge rispettivamente le funzioni dello scienziato e del mistico: il primo sta alla conoscenza come il secondo al mistero.
Per non privilegiare a priori alcun vertice il quadrilatero della fig. 2 può essere leggermente modificato e trasformato in un quadrato:


Fig. 3. Il quadrato della psicoterapia

Certamente anche sull'asse orizzontale si produce conoscenza. Nel vertice M il terapeuta accoglie dentro di sé i vissuti che il paziente non è in grado di tollerare per restituirglieli parzialmente elaborati, mentre nel vertice P lo mette di fronte a ciò di cui non vuole ancora rendersi responsabile. Sono le operazioni conoscitive appropriate per un paziente-bambino.
Nel vertice K, invece, si stabilisce un'alleanza adulta con un soggetto motivato e determinato a prendere coscienza dei condizionamenti, dei pensieri irrazionali o delle fantasie inconsce che intralciano la sua esistenza, e ben disposto a collaborare con discipline, pratiche ed esercizi atti allo scopo da eseguirsi dentro o fuori la seduta.
Nel vertice opposto O si entra quando si giunge al limite di ciò che può essere conosciuto, modificato, riparato. La capacità della coppia terapeutica di correggere, risanare, penetrare le tenebre dell'inconscio non è infinita: al contrario, è quasi sempre penosamente inadeguata alle attese. Se questo limite non è percepito e accettato si cade nell'accanimento terapeutico, nella pretesa onnipotente di capire e risanare tutto. La resa che allora si impone non è un atteggiamento rassegnato e depressivo. La formula bioniana "F in O" esprime un atteggiamento di abbandono di ogni sforzo egoico a favore di un'apertura e un affidamento al processo della terapia.
L'asse verticale, che unisce i vertici O e K, è la linea su cui si effettua il lavoro che si riconnette idealmente alla pratica delle scuole filosofiche dell'antichità, ispirata alla massima "conosci te stesso". Questo asse, su cui paziente e terapeuta creano un sodalizio di ricerca in cui si pongono le questioni dell'identità e della verità, può essere detto asse filosofico, come quello orizzontale, sul quale si trovano i fattori necessari per la maturazione psicologica e si snodano le vicende che ad essa conducono,può essere detto asse psicologico.
In generale, una prevalenza di atteggiamenti ispirati alle quattro figure dette è riconoscibile nella quasi totalità delle scuole psicoterapeutiche. Dove peraltro, osserviamo ancora una volta, le risposte di ruolo sono erogate troppo spesso sulla base di assunzioni a priori, piuttosto che dei bisogni effettivi del paziente per come emergono di momento in momento nel processo reale.
All'interno del quadrato descritto dai quattro vertici M, P, O e K si sviluppa il gioco relazionale. Alla descrizione dei suoi due assi saranno dedicate le sezioni che seguono di questo lavoro.



Note

1 "Ciò che noi consciamente ci proponiamo di conseguire presso i nostri candidati è lo sviluppo di un io forte e critico. Le caratteristiche del nostro comportamento come analisti didatti, nonché il nostro sistema di training, vanno in direzione del tutto contraria a questo traguardo conscio: le cose funzionano in maniera tale da condurre sicuramente il candidato a un indebolimento di queste funzioni dell'io" (Balint, 1947). "È molto difficile aspettarsi che uno studente che ha trascorso alcuni anni nella condizione artificiale e talvolta 'da laboratorio' di un'analisi di formazione, e la cui carriera dipende dal fatto di superare le'resistenze' in un modo che il suo didatta trovi soddisfacente, possa essere nella posizione più soddisfacente per difendere la sua integrità scientifica contro le teorie e la pratica del suo analista. E quanto più a lungo resta in analisi, tanto meno è probabile che riesca a farlo. Infatti, dal punto di vista del suo analista, le obiezioni del candidato alle interpretazioni vengono classificate come 'resistenze'. In breve, nella situazione di training è intrinsecamente presente la tendenza alla perpetuazione dell'errore" (Glover,1952).

2 La sequenza riportata sopra (a -> o -> b -> o -> c -> o -> d) riproduce schematicamente il movimento dell'attenzione tra i suoi oggetti (percezioni, rappresentazioni, sensazioni, affetti) e un punto teoreticamente e affettivamente neutro. Questa oscillazione non implica che il flusso dell'attenzione debba esserecontinuamente spezzato per ritornare al punto zero: l'oggetto a della sequenza riportata deve essere inteso piuttosto come una sottosequenza (a1 -> a2 -> a3 ), al termine della quale l'attenzione viene nuovamente neutralizzata. In altre parole, l'attenzione deve anche potersi perdere e lasciarsi catturare dai flussi associativi senza opporre resistenza, a patto che esista una base (teoreticamente e affettivamente neutra) cui ritornare dopo un periodo più o meno lungo di erranza.

3 Anche in questo caso i singoli oggetti della sequenza debbono essere intesi come sottosequenze: a = a1 -> a2 -> a3 (Vedi nota precedente).

4 V. in particolare il terzo e quarto capitolo di "Attenzione e interpretazione". V. anche Eigen, 1985.

5 Questo orientamento è rappresentato specialmente dal modello biopsicosociologico di Engel (1980) e dal modello integrato di Zapparoli (1988): entrambi, se pure con sfumature diverse, insistono sulla necessità di considerare tutti e tre gli ambiti - biologico, psicologico e sociologico - e di scegliere di volta in volta un approccio o l'altro in funzione dei bisogni reali del paziente, e non per una decisione a priori.


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