PM --> HOME PAGE --> NOVITÁ --> SEZIONI ED AREE --> PSICOPATOLOGIA

PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Oltre le apparenze

di Adolfo Pazzagli e Mario Rossi Monti


Questo contributo è stato pubblicato in Neurologia e Psichiatria: un divorzio impossibile? Neuroscienza ed antropologia del secondo millennio: contributi in onore di Raffaello Vizioli.

Il volume, curato da Gianfranco Buffardi, è stato pubblicato dalle Edizioni SEAM (Formello,1999) http://www.seamlibri.it che ringrazio per avere permesso la riproduzione del testo.




1. All 'inseguimento del <<primario>>

Il limitarsi soltanto alle apparenze ha da sempre costituito motivo di profonda insoddisfazione per ogni psichiatria che non voglia limitarsi alla sola registrazione dei comportamenti. Fin dal suo costituirsi come disciplina autonoma la psichiatria si è posta infatti il problema di che cosa sta aldilà di ciò che appare, nella speranza di trovare dei fattori retrostanti al disturbo mentale mediante ricondurre ciò che appare alla superficie ai fattori generatori del disturbo mentale stesso.
Se la Psicopatologia Generale di Karl Jaspers aveva posto con grande rigore l'esigenza ineludibile di indagare il piano dei vissuti che sottendono i comportamenti e di passare - in altri termini - dai sintomi dell'espressione ai sintomi dell'esperienza, la psicoanalisi freudiana, attraverso la valorizzazione del mondo inconscio e della realtà psichica, aveva indicato come fosse anche diventato necessario estendere la analisi della vita psichica oltre la dimensione cosciente e spostarsi lungo un vettore temporale, oltrepassando il presente per valutare in quali modi il passato individuale influisca su di esso.
Che cosa si nasconde dietro ciò che osserviamo? Sulla natura di quel <<che cosa>> si sono confrontate e si differenziano le diverse concezioni della psichiatria. In che misura è possibile - ad esempio - ricondurre o correlare un determinato quadro clinico con una alterazione neurotrasmettitoriale oppure con un particolare assetto personologico? E' possibile inoltre stabilire tra questi due elementi una relazione causale oppure si tratta di soltanto meaningfull connections? Del resto, come ha scritto Lipowski (1989), <<presumere .... che processi biochimici siano alla base della attività mentale e del comportamento non implica ritenere che essi ne siano l'agente causale quanto piuttosto che essi rappresentano dei meccanismi di mediazione>>. In altri termini, qual'è - si potrebbe dire - il rapporto tra figura e sfondo?
La ricerca di una alterazione retrostante al disturbo domina tutta la psichiatria che sembra avere rincorso per più di un secolo entità che a volte sono apparse più simili a fantasmi che non ad enti di natura. Tutta la storia della schizofrenia - ad esempio - è dominata dalla ricerca del <<primario>>. Eugen Bleuler (1911) vedeva nel disturbo delle associazioni il sintomo primario della schizofrenia, il sintomo dal quale potevano essere fatti discendere tutti gli altri. In questo senso, aldilà della ipotetica lesione e del sintomo primario che ne sarebbe la espressione diretta, l'intera sintomatologia della schizofrenia poteva essere considerata come secondaria, allo stesso modo di quanto accade nel caso di una lesione del muscolo abducente oculare, ove il sintomo primario è rappresentato da una paralisi del movimento oculare verso l'esterno che comporta a sua volta una contrattura del muscolo interno che produce il sintomo secondario. Così nella schizofrenia il sintomo primario sarebbe il disturbo delle associazioni ed i sintomi secondari sarebbero rappresentati dal frastagliamento della psiche in complessi a sfondo affettivo che determinerebbero i disturbi formali del pensiero.
Questa impostazione se da un lato faceva riferimento ad un modello riduzionistico, postulando un processo morboso organico di cui il sintomo primario sarebbe la diretta espressione, dall'altro promuoveva l'ampliamento di una dimensione dinamica nella quale i sintomi scaturiscono dalla interazione fra persona e disturbo sulla base delle reazioni psicologiche individuali.
A distanza di alcuni decenni dalla teorizzazione bleuleriana gli studi sui <<sintomi base>> della schizofrenia condotti dalla Scuola di Bonn, nell'ambito di una tradizione di ricerca bleuleriana, hanno conseguito il risultato di spostare il confine del primario un po' più in là, arrivando ad identificare dei sintomi (o -forse meglio - dei fenomeni [Stanghellini, 1997]) che sarebbero più vicini ad un ipotetico substrato organico del disturbo.
Ma cosa ci autorizza a parlare di maggiore prossimità al substrato organico del disturbo se i dati di cui per ora disponiamo invece che costituire veri e propri modelli esplicativi non vanno al di là di approssimativi sketch ? Infatti, a dispetto di una imponente ma per ora inconcludente messe di dati, a distanza di cento anni dalla identificazione della schizofrenia <<non è stata identificata un'anomalia neuropatologica caratteristica delle psicosi funzionali>>. Il solo modo per validare questa altrimenti vacillante costruzione sarebbe quello di identificare un marker indipendente della schizofrenia ma <<sfortunatamente, al momento, non esiste un marker simile>> (Frith, 1992). Tanto che molti ricercatori hanno cominciato a chiedersi se la ricerca biologica in psichiatria non stia cercando nel modo sbagliato o nel posto sbagliato (Maas, Katz ,1992; van Praag,1993).
Molte di queste domande sono destinate - almeno per ora - a rimanere senza risposta. L'insoddisfazione per un livello di analisi che si basi sulla sola descrizione delle apparenze costituisce comunque la molla che spinge ad un continuo approfondimento nello studio dei disturbi mentali. In un modo o nell'altro il tentativo è quello di dare una risposta, seppure parziale, ad alcuni di questi interrogativi, portando un po' di luce nel grande cono d'ombra che si stende dietro ogni etichetta diagnostica.
L'anello mancante che permetterebbe di collegare aree tradizionalmente così distanti, spesso addirittura viste come mutuamente escludentisi, sembra essere costituito dallo studio dell'influenza delle esperienze di vita sull'assetto neurobiologico dell'individuo. La psichiatria biologica si è infatti tradizionalmente interessata al reperimento di una alterazione neurotrasmettitoriale o neurochimica retrostante ai disturbi mentali, occupandosi, all'interno della dicotomia cartesiana, del vettore che conduce, per così dire, dal corpo alla mente. Sempre più diffuse evidenze suggeriscono tuttavia di prendere in considerazione un altro versante del problema, vale a dire quanto e come l'ambiente, le esperienze di vita o l'esperienza soggettiva in genere possano influire o modificare il substrato biologico (Eisenberg,1995). Gli studi estremamente dettagliati di Kandel e Schwartz (1985) su determinati comportamenti <<semplici>> della lumaca marina Aplysia hanno dimostrato che l'apprendimento può indurre modificazioni nelle connessioni sinaptiche. Anche gli studi sulle vicissitudini dell'attaccamento compiuti nei primati non umani hanno dato corpo all'idea che le esperienze di vita e l'ambiente influiscano in maniera determinante sullo sviluppo delle strutture cerebrali (Hubel,1978). Bessel van der Kolk (1987) - in una sintesi sull'argomento - ha sottolineato come i recenti studi sui primati mostrino che l'ambiente sociale può produrre importanti effetti sullo sviluppo neurobiologico. Ad esempio, gravi perturbazioni dell'attaccamento nel corso dei primi anni di vita sarebbero in grado di produrre durature alterazioni a livelli neurobiologico. In particolare una precoce deprivazione sociale sembra condurre ad una alterazione delle strutture cerebrali implicate nei processi di affiliazione e di formazione di legami: <<la deprivazione di complessi stimoli sociali durante lo sviluppo di questo sistema [deputato allo sviluppo dell'attaccamento sociale] potrebbe dare luogo a effetti neurologici simili a quelli osservati nel sistema visivo a seguito della deprivazione sensoriale>> (Kraemer,1985). Questa impostazione di ricerca ha ribaltato i termini in cui si è tradizionalmente posta la ricerca biologica in psichiatrica. L'assunto riduzionistico di una causalità che segue soltanto una direzione dal basso verso l'alto (bottom-up), vale a dire dal substrato organico ai fenomeni mentali, ha dovuto confrontarsi con l'ipotesi che il processo causale possa essere - per così dire - bi-direzionale. Gli studi sulla cosiddetta downstream causality mostrano come uno stato mentale autoindotto (ad esempio, la disforia) possa modificare il flusso cerebrale ematico in una particolare regione cerebrale (Pardo et al., 1993). Da questo punto di vista si potrebbe cominciare a pensare agli interventi di carattere psicoterapeutico come avere e proprie terapie <<biologiche>> (Kandel,1979;Mohl,1987).


2. Una neurologia <<dinamica>>?

Nonostante che una parte delle neuroscienze sia ancora dominata dall'idea di un cervello standardizzato, un organo la cui configurazione sarebbe determinata una volta per tutte da un programma genetico, nel corso degli ultimi vent'anni si è assistito ad una spettacolare avanzata di studi che hanno invece valorizzato una immagine per così dire individualizzata delle strutture neurali nelle quali - all'interno di una solida cornice geneticamente determinata - l'ambiente di vita incontrato nel corso dello sviluppo lascerebbe un'impronta indelebile. Come ha scritto in un Editoriale della rivista Science Torsten Wiesel (1994) <<i geni che controllano lo sviluppo embrionale modellano la struttura del cervello infantile; in seguito l'esperienza del bambino nel mondo regola in maniera più fine il pattern delle connessioni neurali che sottendono le funzioni cerebrali>>
In questo senso la storia - la storia della specie, ma anche la storia del singolo individuo e delle sue vicissitudini nei primi anni di vita - riconquista un ruolo non secondario nella organizzazione e nello sviluppo del cervello. Gerald Edelman ha molto insistito ad esempio sul fatto che due individui appartenenti alla stessa specie non hanno un cervello identico e che anzi <<è impossibile trovare un'identica configurazione di cellule nervose, nella stessa posizione e nello stesso momento, persino in due gemelli geneticamente identici>>. Ciò non toglie tuttavia che i vincoli globali siano una caratteristica della intera specie: da una parte verrebbe infatti garantita <<l'esistenza di configurazioni comuni a tutti gli esemplari di una specie>> e, dall'altra, l'interazione con l'ambiente di vita di quel determinato e specifico individuo porterebbe ad una diversità individuale al livello delle più minute reti neurali. E' probabile - ha ipotizzato Edelman - che proprio questa diversità individuale <<sia una delle caratteristiche più importanti della morfologia che dà origine alla mente>> (Edelman, 1992).
Proprio per questi motivi la tanto abusata analogia tra cervello umano e computer è destinata a tramontare ed anzi si è dimostrata fallace, almeno in riferimento ai computer di cui oggi disponiamo. I computer di una certa <<specie>> sono infatti tutti uguali fra loro in quanto i loro circuiti sono programmaticamente determinati e stabiliti una volta per tutte. Nello sviluppo del cervello umano invece la azione di processi stocastici, come ad esempio la migrazione o la morte delle cellule, fanno sì che, a differenza di quanto accade in un computer, ogni cervello sia unico nel suo genere. Più che a un calcolatore o una centrale telefonica il cervello umano assomiglia insomma <<all'enorme aggregato di interazioni caratteristico di una giungla>> all'interno del quale <<il cervello dà origine a mappe e circuiti che adattano in modo automatico i propri confini al variare dei segnali>> (Edelman,1992).
All'idea di una programmazione rigida e preordinata si sono affiancati dati che segnalano una notevole plasticità dei circuiti cerebrali, soprattutto nel corso dello sviluppo infantile. Gli studi sul sistema visivo del gatto neonato, a partire dai celebri esperimenti di Hubel e Wiesel (1959), hanno mostrato come l'influenza delle condizioni ambientali plasmasse lo sviluppo del sistema visivo. Esperimenti ormai celebri (Rosenzweig,1978;Greenough,1978;Fuchs et al., 1990) hanno mostrato come un ambiente arricchito, particolarmente sollecitante e prodigo di stimoli comporti, nello sviluppo del cervello dei ratti, una maggiore ricchezza e complessità delle connessioni neuronali. E' noto, del resto, che nel periodo infantile il cervello umano è dotato di una plasticità tale da potere - in caso di lesione di determinate aree - recuperare le funzioni delle aree lese con la attività di aree diverse dello stesso emisfero o dell'emisfero opposto. Mentre ad esempio una emisferectomia sinistra comporta nell'adulto una grave compromissione delle funzioni linguistiche, nei primissimi anni di vita lo stesso intervento non pregiudica lo sviluppo di una buona competenza linguistica (Dennis, Whitaker, 1977). Gli studi sull'apprendimento del linguaggio dei segni nei sordomuti hanno mostrato inoltre come le aree della corteccia cerebrale che svolgono generalmente una funzione al servizio dell'udito vengano invece riconvertite nella elaborazione di funzioni visive (Sacks,1990). Nonostante la plasticità tenda a declinare con il passare degli anni, anche nel cervello adulto si possono realizzare ampie riconversioni o riattribuzioni funzionali di aree cerebrali. Michael Merzenich (1984) ha dimostrato come nella scimmia la amputazione di un dito della mano comporti un rimaneggiamento delle mappe cerebrali che vengono rapidamente riorganizzate attraverso una espansione delle aree cerebrali rappresentanti le dita rimaste integre. La tradizionale immagine dell'homunculus per così dire stampato in maniera fissa ed indelebile sulla corteccia cerebrale di ogni essere umano sembra così essere entrata irreversibilmente in crisi per lasciare il posto ad una ampia fluidità funzionale dei sistemi neuronali, contenuta all'interno di vincoli geneticamente prefissati.
In qualche modo, estrapolando questi dati, si potrebbe arrivare a pensare che, pur all'interno di un progetto comune a tutta la specie, il cervello di ciascun individuo sia almeno in parte lo specchio del suo ambiente di vita. All'ambiente unico in cui ciascuno di noi è vissuto corrisponderebbe un cervello in un certo senso unico, plasmato proprio da quell'ambiente e da quelle esperienze che ne hanno accompagnato e sostenuto lo sviluppo. Nel corso della crescita individuale si realizzerebbe infatti un progressivo impoverimento delle vastissime potenzialità originarie del cervello umano. Un po' come accade quando percorrendo una strada ci si lascia alle spalle la possibilità di imboccare vie laterali o percorsi alternativi, nel corso dello sviluppo l'enorme numero di possibilità evolutive del cervello umano verrebbe drasticamente ridimensionato e sfrondato dall'ambiente e dall'esperienza e ricondotto all'interno di una specifica direzione evolutiva. Se, ad esempio, alla nascita il neonato è potenzialmente un poliglotta, l'immersione continua in un ambiente nel quale si parla una determinata lingua lo indirizzerebbe verso una specifica competenza linguistica, obbligandolo tuttavia a rinunciare ad una totipotenza linguistica originaria (Mehler et al.,1988). Lo sviluppo del cervello di ogni singolo individuo si realizzerebbe così nel tentativo di ritagliarsi una propria strada all'interno dei vincoli imposti da un lato dal programma genetico e dall'altro dalle esperienze che quell'individuo incontra nel suo particolare ambiente di vita. Come quando potando i rami di un albero se ne indirizza lo sviluppo della chioma in una direzione invece che in un'altra, allo stesso modo le esperienze di vita si assumerebbero il compito di sfrondare la grande chioma di possibilità evolutive di cui ogni cervello umano dispone alla nascita.
Alla economia essenziale di un cervello nitidamente disegnato da un programma genetico si contrappone così l'immagine di un complesso ridondante di circuiti destinato ad essere rosicchiato dall'esperienza per conseguire attraverso una drastica restrizione delle sue possibilità una maggiore specificità e competenza. Il tradizionale modello dello sviluppo cognitivo centrato sul concetto di integrazione delle funzioni cognitive ha progressivamente lasciato il posto ad un modello che sottolinea l'importanza di una progressiva specializzazione delle funzioni che andrebbe di pari passo con il passaggio da una condizione di indifferenziazione ad una condizione di differenziazione e con la tendenza ad una reciproca separazione. In questo senso lo sviluppo e la maturazione delle facoltà cognitive sarebbe soggetto ad una logica selettiva per la quale le funzioni mentali non si svilupperebbero tanto per stadi quanto piuttosto per moduli specializzati ed interconnessi nell'ambito dei quali verrebbero selezionate le funzioni più efficaci.
Nell'ambito della patologia neurologica la impostazione di carattere romantico di Oliver Sacks, che si rifà alla grande tradizione della neuropsicologia sovietica, ha sottolineato l'importanza degli elementi unici e personali di ogni quadro clinico. L'idea di fondo è che la neurologia non possa prescindere dallo studio della personalità e delle vicissitudini della interazione tra personalità e disturbo, nell'ambito della quale ogni individuo può cercare di ritagliarsi, a suo modo, un certo ambito di libertà dalla malattia. I casi brillantemente descritti da Oliver Sacks (1986), se non aggiungono nulla alle conoscenze strettamente neurologiche sulla malattia, costituiscono affascinanti esempi di come possano essere varie e determinanti nella vita di ciascun malato le modalità di coping nel confronto del disturbo. Ogni patologia neurologica pone infatti l'individuo di fronte alla necessità di mettere a punto una modalità personale di confronto con il disturbo facendo perno su quegli aspetti della sua struttura personalità che gli consentano di ri-categorizzare almeno certi aspetti dell'esperienza della malattia, sviluppando il più possibile le sue capacità di compenso.
Di qui l'importanza di una analisi fenomenologica del mondo nel quale il paziente vive, di come il disturbo si inscrive nella sua storia di vita, nella sua personalità, nella sua esperienza. Una approfondita analisi idiografica del mondo nel quale il paziente vive nulla toglie ad una ricerca di respiro più ampio rivolta alla individuazione delle costanti presenti in ogni specifico quadro patologico. Anzi costituisce un indispensabile approfondimento nell'intervento terapeutico sul singolo caso ed un invito alla cautela verso ogni approccio al sintomo eccessivamente riduttivo.


3. L' <<Ordine>> nosografico: alcune questioni aperte

Queste considerazioni assumono particolare rilevanza in una psichiatria che da qualche decennio si è resa sempre più sorda all'ambito della soggettività abbracciando invece una impostazione operazionale ed ateoretica all'ombra della quale sintomi e disturbi, intesi come entità naturali, si moltiplicano e proliferano incessantemente. La costante progressione con la quale le entità diagnostiche categoriali sono costantemente aumentate di numero nelle ultime edizioni del DSM mostra come una impostazione categoriale non metta al riparo da quei rischi di confusività e di mancanza di punti di discontinuità che venivano imputati al modello dimensionale.
In molti casi la ricerca sembra essersi ridotta ad una sorta di gioco linguistico, ad un affaccendamento ossessivo intorno a pseudo-entità che esistono spesso solo nella mente dell'osservatore. Una analisi della attuale sistematizzazione nosografica, allo stesso tempo mutevole ed asfittica, ha condotto Herman van Praag (1993) alla sconfortante conclusione che la situazione della classificazione disturbi mentali sia oggi peggiore di trenta anni fa: allora si era consapevoli del caos, ogg il caos è codificato e così molto più nascosto.
Alcuni degli ambiti nei quali la attuale nosologia ha fatto ordine, dando per chiusi e risolti problemi che sono invece ancora lontani da una soddisfacente soluzione, sono costituiti dall'area della depressione, dei disturbi da attacchi di panico e dei disturbi di personalità.


i) La espansione depressologica

La dilatazione dell'alone semantico del termine depressione ha tolto ad esso quasi ogni significato clinico. Pur tralasciando tutte le diverse sfumature di sentimenti di tristezza che fanno parte della psicopatologia della vita quotidiana, all'interno delle fenomeniche più tipicamente patologiche ci si confronta con una ampia gamma di sentimenti depressivi che va dalla centralità delle esperienze di colpa, di retrospezione dolorosa e di arresto del fluire temporale (tipiche della depressione melancolica) a esperienze depressive - non necessariamente di minore impegno - collegate con la intolleranza della separazione, con l'impossibilità di collocarsi ad una opportuna distanza dall'oggetto e con profondi sentimenti di disforia e di rabbia rivolti verso il Sé e verso gli altri, talora organizzati in un vero e proprio odio per il proprio mondo interno o per una realtà esterna vissuta come comunque insoddisfacente. Questo tipo di esperienze, caratteristiche dell'area borderline, non contattano nuclei di colpa e si inseriscono - a differenza delle esperienze depressive della melancolia - in una struttura temporale che privilegia il qui ed ora dell'immediatezza (Kimura, 1992).
Al termine depressione è stato affidato l'impossibile compito di coprire un ambito immenso che spazia dalla psicologia normale alla psicopatologia, e che - all'interno della psicopatologia - comprende situazioni cliniche molto diverse fra loro. Il termine depressione è diventato un ombrello così ampio da assomigliare, più che a un normale ombrello, ad un tendone da circo sotto al quale è possibile trovare ogni sorta di animale e di pagliaccio.
Questa perdita di specificità è legata ad una delle ossessioni che dominano la psichiatria contemporanea: l'ossessione della quantificazione e della oggettivazione. E' stata infatti drasticamente privilegiata la valutazione quantitativa della intensità del fenomeno depressione a scapito di una analisi della qualità degli affetti depressivi. Dimenticando, ad esempio, che - a parità di valutazione quantitativa - non si può mettere sullo stesso piano un episodio depressivo maggiore ed un episodio depressivo successivo ad uno scompenso di carattere psicotico acuto che - più che come un secondo <<disturbo>> sovrammessosi al primo - si connota come fase di un percorso individuale nel quale all'abbandono della <<soluzione>> delirante ha fatto seguito una depressione <<da sgonfiamento>>.


ii) I disturbi da attacchi di panico

La individuazione del disturbo da attacchi di panico consegue alla applicazione di una logica assai discutibile sul piano metodologico basata sul criterio ex juvantibus (Bignami,1982). Sulla base della risposta terapeutica all'uso di certi psicofarmaci è stata individuata e dissezionata dal continuum dell'ansia un'area nosografica specifica. Una logica di questo tipo non tiene inoltre conto del potente effetto suggestivo che le certezze dello sperimentatore esercitano sui soggetti osservati e sui dati che da questi vengono ricavati.
La psichiatria ha già fatto ricorso nella sua storia a questo tipo di espediente. Joseph Zubin (1985) ricorda che negli anni '40 Stockings (1945) propose di dividere la schizofrenia in sindrome <<disglicolica>> e <<disossica>> a seconda che il disturbo rispondesse alla terapia con coma insulinico oppure con ETC. Con la stessa logica, tenendo conto della risposta positiva di alcuni sintomi del Morbo di Parkinson alla terapia con anti-colinergici, si sarebbe dovuto concludere che il Morbo di Parkinson costituisce una patologia del sistema colinergico, lasciando in ombra il ruolo centrale svolto dal sistema dopaminergico.
Nel caso degli attacchi di panico la ricetta di successo sembra essere la seguente: si ritaglia con un bisturi farmacologico un quadro clinico che risponde all'uso di un farmaco e si costruisce così una griglia mali-rimedi. Non manca niente. Abbiamo una malattia ma disponiamo anche del rimedio: l'ultimo annulla la prima. Il cerchio si chiude, senza fastidiosi resti. L'inserimento del farmaco, in un punto qualsiasi di questo percorso, chiude il problema, lo sterilizza, lo elimina.
Ma è davvero così? Possiamo fidarci di una categoria clinica farmacologicamente fondata? Non sarebbe un po' come voler dare dignità di disturbo nosograficamente separato a quei dolori che in ortopedia rispondono all'uso dell'acido acetilsalicilico o voler fare un'entità nosografica di quei mal di denti che risentono positivamente di un po' di aspirina, magari inventando anche una teoria prostaglandinica del mal di denti (Rose,1990)? Oltre che costituire - a seconda dei punti di vista - un <<teratoma>> nosografico oppure una rete per le allodole, questo modello non rischia, anche e soprattutto, di lasciare fuori dalla porta qualcosa che poi rientra dalla finestra? Quale è il destino di una persona che ha bisogno, per vivere con se stessa, di un farmaco che faccia da <<guardiano>> a quegli aspetti di sé che si esprimono nel panico? E poi, panico di che cosa? Ad un esame meno superficiale è facile constatare che dietro questa etichetta nosografica si nascondono situazioni diversissime tra loro, che si estendono dall'area tradizionale delle nevrosi a quella, ad esempio, della organizzazione border-line di personalità nel senso di Kernberg (1987).
Sempre più frequentemente si incontrano pazienti che nel corso del primo colloquio utilizzano questo termine (<<soffro di attacchi di panico ... >>) per dare un nome al loro disagio ed ai loro disturbi. Se non si vuole colludere con un tentativo di negazione della sofferenza che utilizza i nomi come se fossero entità concrete, nel tentativo di sfuggire alla sofferenza derivante dal contatto con ciò che dietro al nome si nasconde, è necessario ricordare che non stiamo parlando di entità naturali, cioè di ciò che in una classificazione biologica corrisponde ad una specie animale o ad una pianta, ma soltanto di una provvisoria aggregazione di fenomeni intorno ad un nome. In questo senso, nel contatto con il paziente, non ha tanto importanza il <<nome>> quanto le esperienze che intorno e dietro ad esso si intravedono. Se non ci si accontenta della etichetta nosologica, molto spesso si assisterà - con il tempo - ad una importante trasformazione: ciò che in un primo momento era stato presentato come un sintomo isolato si trasforma in una sequenza di eventi e di esperienze interne all'interno della quale il sintomo si trova inserito in una struttura narrativa. Una operazione di questo tipo - quando compiuta insieme con il paziente - ha sempre una importante implicazione terapeutica.


iii) Disturbi di personalità

In questi ultimi decenni l'area dei disturbi di personalità ha assunto sempre maggiore importanza tanto da non costituire più un capitolo marginale della patologia psichiatrica al quale fare riferimento con la sbrigativa nozione di personalità psicopatica. Come è noto a partire dal DSM-III è stata proposta una classificazione dei disturbi di personalità da collocare su un asse separato e distinto da quello delle principali sindromi cliniche in modo da favorire la individuazione di disturbi che tendono ad essere facilmente sottovalutati quando le sindromi cliniche maggiori si impongono alla attenzione.
Nel passaggio dal DSM-III al DSM-IV il numero delle sindromi cliniche individuabili in una prospettiva categoriale sull'asse II è stato ridotto da 12 ad 11. E' rimasta invece invariata la tripartizione in cluster più ampi all'intero dei quali i vari disturbi di personalità possono essere raggruppati.
Da più parti è stata avanzata l'ipotesi che - nella pratica clinica - ben pochi psichiatri sarebbero favorevoli a sottoscrivere l'affermazione che l'intero campo dei disturbi di personalità possa essere compendiato in 11 distinti disturbi di personalità (Clarkin, Kernberg, 1995). Anche perché sarebbe possibile dare dignità di <<disturbo di personalità>> ad ogni insieme di tratti di personalità raggruppato intorno ad un concetto organizzatore. In fondo dallo sviluppo di ogni tratto si potrebbe immaginare un corrispondente disturbo di personalità. Se ciascuno di essi fosse individuato e proposto come categoria discreta l'area dei disturbi di personalità lieviterebbere con grande rapidità estendendosi quasi all'infinito. Joel Paris (1997) ha recentemente dichiarato con grande chiarezza ed onestà che <<non esiste alcun fondamento teorico cui fare riferimento per stabilire se i disturbi di personalità siano tre o trecento>>
Inoltre è evidente che i disturbi di personalità si sovrammettono ampiamente, tanto che è molto spesso necessario fare ricorso a più di una categoria diagnostica per definire l'assetto personologico di un paziente. Si affaccia in questo modo alla ribalta la ambigua nozione di comorbidità. La ambiguità del concetto consiste nel fatto che co-morbidità, se le parole hanno un senso, vuol dire co-presenza di due morbi e in ciò si tradisce la inespressa ma insinuante vocazione categoriale degli ultimi DSM. Se invece, come sembra di capire, per co-morbidità si intende co-sindromicità, cioè il reperire nel medesimo paziente sintomi appartenenti a sindromi diverse, questo significa inserire nell'ordinato schema proposto dai DSM un fattore di totale sconvolgimento visto che numerosi studi di carattere epidemiologico hanno indicato che più della metà di tutti gli individui con un disturbo DSM hanno almeno un disturbo addizionale in comorbidità con il primo (Pfohl et al.,1986; Nurnberg et al. 1991;Clark et al., 1995; Faravelli et al., 1995).
Se la comorbidità ha infettato l'asse I - tanto che non sembrano quasi più esistere casi puri - la situazione è ancora peggiore sull'asse II. Una stretta minoranza di pazienti soddisfano infatti i criteri per un solo disturbo di personalità senza rientrare anche in altre categorie diagnostiche di asse II. Il disturbo border-line di personalità si trova - come sempre - proprio nell'occhio del ciclone. Secondo Widiger e Rogers (1986) almeno in 4 diversi studi è stato riscontrato che il 96% dei pazienti con disturbo border-line di personalità soddisfano anche i criteri per almeno un altro disturbo di asse II. Che cosa vuol dire parlare di disturbo border-line, ad esempio, se la comorbidità attribuita a questa categoria raggiunge livelli paradossali? Se il disturbo border-line di personalità ha una comorbidità approssimativamente compresa tra il 50 e il 79% dei casi (Clarkin et al., 1983; Kass et al., 1985; Widiger et al., 1986; Dahl, 1986) è necessario chiedersi: che disturbo è un disturbo che è quasi sempre associato ad altri disturbi? Ha titolo ad essere considerato un disturbo autonomo? Può ancora dirsi un disturbo con caratteristiche specifiche e come tale mantenuto isolato dagli altri? Per non parlare del fatto che la comorbidità del disturbo border-line non è solo una questione che riguarda l' Asse II ma coinvolge anche i disturbi di Asse I. Alcuni dati indicano infatti una elevatissima percentuale di depressione maggiore (80%) in pazienti border-line (Zanarini et al.,1989) mentre altri studi indicano più prudentemente un range di sovrapposizione che va dal 30 al 78% (Battaglia, Bellodi,1993). In presenza di così ampie percentuali di comorbidità viene da pensare che il disturbo border-line abbia perso la sua specificità, se mai l'ha avuta. Da questo punto di vista infatti ogni disturbo sarebbe un disturbo border-line visto che la logica della comorbidità dilata i suoi confini in tutte le direzioni.
Tutto ciò ha indotto Clarkin e Kernberg (1995) a sostenere che <<il sovrapporsi dei disturbi di asse II è talmente esteso nei campioni clinici da risultare una presa in giro del significato del termine "sovrapposizione", che viceversa implicherebbe una certa unità e distinzione tra le entità che si sovrappongono>>.
Invocare il concetto di co-morbidità non migliora certo la situazione. Nonostante se ne voglia proporre un'immagine edulcorata secondo la quale con la comorbidità si affaccerebbe all'interno di una impostazione categoriale una prospettiva dimensionale, la comorbidità non rappresenta né più né meno che un espediente truffaldino, mediante il quale cercare di tenere in piedi una costruzione abbastanza traballante. Attraverso questo stratagemma della comorbidità si vorrebbe conservare, per così dire, la botte piena e la moglie ubriaca: pur senza rinunciare ad un modello sostanzialmente fissista e categoriale, dare allo stesso tempo dignità alle ricombinazioni che la clinica impone all'attenzione, vedendole nei termini di semplici giustapposizioni di entità diverse, o al più cercando di chiarirne le connessioni in chiave fortemente riduzionista. Gli estensori del DSM-IV addirittura incoraggiano l'uso di questo espediente nella speranza che attraverso di esso si possano più facilmente individuare nuovi raggruppamenti patologici ottenuti tramite una ricombinazione dei quadri esistenti.
Il punto è che le distinzioni categoriali - soprattutto nell'area dei disturbi di personalità - non tengono, fanno acqua o al massimo <<rappresentano poco più che grotteschi stereotipi>> (van Praag,1993) dotati di una utilità terapeutica e prognostica assai bassa. Infatti questo inquadramento di carattere sintomatologico-descrittivo sembra avere uno scarso valore predittivo (Tyrer et al.,1991) per cui alle raffinate distinzioni categoriali non sembrano corrispondere grandi vantaggi sul piano prognostico e terapeutico.
Sul piano della ricerca biologica si è fatta sempre più pressante la necessità di indagare - non tanto il substrato organico di un determinato disturbo di personalità (la neurobiologia del disturbo di personalità evitante, ad esempio) - quanto piuttosto il substrato biologico di una determinata, specifica funzione, come ad esempio la disforia o la rabbia. In questo senso si è mossa anche la impostazione di ricerca di Cloninger (1987) che ha proposto un modello di carattere dimensionale che descrive tre dimensioni della personalità in riferimento a variazioni che interessano i tre principali sistemi neurotrasmettitoriali, nell'intento di approfondire lo studio della complessa ed intima relazione che lega substrato cerebrale, stimoli di provenienza ambientale, comportamenti e tratti di personalità.
Sul piano dell'intervento terapeutico la appartenenza ad una specifica categoria diagnostica nell'ambito dei disturbi di personalità non ha grande rilevanza per l'orientamento terapeutico. Da questo punto di vista, tra gli item elencati nei criteri diagnostici del DSM assumono maggiore rilevanza non tanto quelli che fanno riferimento soltanto ad una variabile comportamentale quanto piuttosto quelli che consentono di collocare anche i comportamenti esteriori sullo sfondo di una configurazione più profonda, di carattere strutturale della personalità, sulla base della quale diventa possibile istituire almeno un filo di continuità e comprensibilità con i comportamenti manifesti. Ad esempio, all'interno dei criteri diagnostici del DSM-IV per il disturbo borderline di personalità gli item che fanno riferimento a <<impulsività in almeno due aree che sono potenzialmente dannose per il soggetto, quali spendere, sesso, abuso di sostanze, guida spericolata, abbuffate>> o quello successivo (<<ricorrenti minacce, gesti, comportamenti suicidari, o comportamento automutilante>>) non risultano comprensibili se non alla luce di altri item che fanno invece riferimento alla esperienza soggettiva (come <<sforzi disperati di evitare un reale o immaginario abbandono>>, <<alterazione dell'identità: immagine di sé e percezione di sé marcatamente e persistentemente instabili>>, <<instabilità affettiva dovuta a una marcata reattività dell'umore>>, oppure <<sentimenti cronici di vuoto>> o <<rabbia immotivata e intensa>>). Solo facendo riferimento a questi ultimi aspetti sarà possibile pensare un progetto terapeutico che non sia soltanto un mero controllo comportamentale. Del resto è stato dimostrato come la <<terapia dialettico-comportamentale>> di Marsha Linehan (1993, Linehan, Koerner,1995) consenta - nel trattamento dei pazienti borderline - un importante contenimento ed un drastico ridimensionamento delle condotte parasuicidarie al quale tuttavia non corrisponde un mutamento del mondo interno che resta dominato dalla disforia e da un funzionamento complessivamente compromesso (Paris, 1997).
L'insoddisfazione per i criteri meramente comportamentali ha condotto Kernberg a sottolineare l'esigenza di affiancare alla diagnosi descrittivo-comportamentale di <<disturbo>> - una diagnosi di <<organizzazione strutturale>> che fa riferimento a una organizzazione intrapsichica dotata di stabilità, continuità identità nel tempo. Come è da sempre implicitamente accaduto ogni qual volta un clinico si è <<preso cura>> di una persona sofferente all'interno di un rapporto duale, ogni progetto terapeutico individuale impone l'assunzione di una prospettiva dimensionale. Ad ogni clinico non interessa soltanto sapere a quale categoria (o a quale pseudo-entità) è possibile ascrivere un paziente. Né l'intervento terapeutico può essere orientato soltanto sulla base di comportamenti esteriori-oggettivabili ma di cui restano oscure le motivazioni più profonde. Viceversa: A quale punto di un percorso individuale e di una storia si trova il paziente? Quali sono le difficoltà con le quali sta cercando ora di fare i conti? Quali nodi sono venuti ora al pettine, rispetto ad una organizzazione strutturale di personalità che si era mantenuta fino ad un certo punto in fase di compenso? Sono queste le domande alle quali non si può sfuggire se si vuole non soltanto <<curare>> ma anche <<prendersi cura>> delle persone.
Del resto, come scriveva uno dei pionieri dello studio della personalità, <<i sintomi rappresentano quelle parti del Sé che il carattere non riesce a legare e tenere unite, e che si staccano e assumono vita quasi indipendente>> (Reich, 1933). Considerare questi sintomi come entità discrete, separate dalla persona e dalle vicissitudini che li hanno prodotti, induce a considerare questa specie di schegge impazzite del Sé come un prodotto di scarto, qualcosa di cui è opportuno liberarsi definitivamente, dimenticando che così facendo si amputa una parte del proprio Sé, precludendosi la possibilità di cercare un nuovo modo di <<legare>> e <<ri-unire>> il sintomo alla persona ed alla sua storia.


Bibliografia

American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM III, APA, Washington 1980.

American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM III-R, APA, Washington 1987

American Psychiatric Association, Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM IV, APA, Washington 1994

Battaglia M., Bellodi L., Il disturbo border-line di personalità: uno sguardo alla luce di dati fenomenologici, familiari e biologici. In Maffei C. (a cura di) Il disturbo border-line di personalità, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.

Bignami G., Disease models and reductionist thinking in the biomedical sciences. In S.Rose (Ed.), Against biological determinism, Allison & Busby, London, 1982
Black J.E., IsaacsK.R., Anderson BJ., Alcantara AA.,Greenough W.T., Learning causes synaptogenesis, whereas motor activity causes angiogenesis, in cerebral cortex of adult rats, Proc.Natl.Acad.Sci. USA, 87,5568-5572,1990
Bleuler E. (1911), Dementia praecox o il gruppo delle schizofrenie, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1985.
Clark L.A., Watson D., Reynolds S., Diagnosis and classification of psychopathlogy: challenges to the current system and future directions, AnnualReview of Psychology,46,121-153,1995.

Clarkin J.F.,Kernberg O.F.,Fattori evolutivi nel disturbo border-line di personalità e nell'organizzazione border-line di personalità in Paris (a cura di), Il disturbo border-line di personalità, Cortina, Milano, 1995.

Clarkin J., Widiger T., Frances A., Hurt S., Gilmore M., Prototypic typology and the border-line personality disorder, Journal of Abnormal Psychology,92, 263-275, 1983
Cloninger C.R., A systematic method for clinical description and classfication of personality variants, Archives of General Pychiatry, 44, 579-588, 1987.

Dahl A.A., Some aspects of the DSM III personality disorders illustrated by a consecutive sample of hospitalized patients. Acta psychiatica scandinavica, 73, 61-66, 1986.
Dennis M., Whitaker HA., Hemispheric equipotentiality and language acquisition. In Segalowitz SJ, Gruber FA. (Eds.), Language development and neurological theory, New York, Academic Press, 1977.

Edelman G., Sulla materia della mente, Adelplhi, Milano, 1992.

Eisenberg L., The social construction of the human brain, American Journal of Psychiatry, 152, 1563-1575,1995.

Faravelli C., Spiti R., Cimminiello L., La tassonomia psichiatrica: alla ricerca dei principi organizzatori, Giornale Italiano di Psicopatologia, 1, 24-29, 1995.
Frith C.D., Neuropsicologia cognitiva della schizofrenia, Cortina, Milano, 1995
Fuchs JL.,Montemayor M., Greenough WT., Effect of enviromental complexity on size of the superior colliculus, Behav.Neural. Bio, 54,198-203,1990.
Greenough W.T, Development and memory: the synaptic connection. In Teyler T. (Ed.) Brain and learning, Grylock Pub., Stanford Conn.,1978.
Hubel D.H., Effects of deprivation on the visual cortex of cat and monkey, Harvey Lectures, 72,1-51, 1978.
Hubel D.H., Wiesel T.N., Receptive fields of single neurons in the cat's striate cortex, Journal of Physiology, 148,574-91,1959.

Jaspers, K. (1959) Psicopatologia generale, Il Pensiero Scientifico, Roma, 1964.
Kandel E.R., Psychotherapy and the single synapse: the impact of psychiatric thought on neurobiologic research, New England Journal of Medicine, 301, 1028-1037, 1979.

Kandel E.R., Schwartz J (Eds.), Principles of neural science, New York, Elsevier, 1985.

Kass F.,Skodol A.E., Charles E., Spitzer R., Williams J., Scaled rating of DSM III personality disorders. American Journal of Psychiatry, 142, 627-630, 1985.

Kernberg O.F. (1987), Disturbi gravi della personalità, Bollati-Boringhieri, Torino, 1994.

Kernberg OF., Clarkin J.F., La valutazione della terapia dei disturbi di personalità, Psicoterapia e ScienzeUmane,3,41-61,1994.

Kimura Bin, Ecrits de Psychopathologie Phénoménologique, Presses Universitaires de France, 1992.

Kraemer G.W., Effects of differences in early social experimences on primate neurobiological-behavioral development. In Reite M.,Fields T. (Eds.),The Psychology of Attachment and Separation, Academic Press, Orlando, 1985.

Linehan M., Cognitive Behavioral Treatment of Borderine Personality Disorder, Guilford, New York, 1993.

Linehan M., Koerner K., Una teoria comportamentale del disturbo borderline di personalità. In Paris J. (a cura di), Il disturbo borderline di personalità, Cortina, Milano, 1995
Lipowski Z.J., Psychiatry:mindless or brainless, both or neither?, Canadian Journal of Psychiatry, 34, 249-254, 1989.

Maas J.W., Katz MM., Neurobiology and psychopathologicval states: are we looking in the right place? Editorial, Biological Psychiatry, 31,757-758, 1992.

Mehler J., Jusczyk P.W., Lambertz G., A precursor to language development in young infants, Cognition, 29,143-178,1988.

Merzenich M.M., Functional maps of skin sensations. In Caldwell Brown C. (Ed.), The many facets of touch: the foundation of experience, Johnson and Johnson, Skillman N.J., 1984.

Mohl P.C., Should psychotherapy be considered a biological treatment?, Psychosomatics, 28, 320-326,1987.

Nurnberg G., Raskin M., Levine P.E., Pollack S., Siegel O., Prince R., The comorbidity of borderline personality disorder with other DSM-III Axis II personality disorders, American Journal of Psychiatry, 148, 1311-1317, 1991.

Pardo J.V., Pardo P.J., Raichle M.E., Neural correlates of self-induced dysphoria, American Journal of Pychiatry, 150, 713-719, 1993.

Paris J., Contesto sociale e disturbi di personalità, Cortina, Milano, 1997.

Pfohl B., Coryell W., Zimmerman M., DSM-III Personality Disorders: diagnostic overlap and internal consistency of individual DSM-III criteria, Comprehensive Psychiatry, 27, 21-34, 1986.

Reich W. (1933), Analisi del carattere, Sugarco, Milano, 1973.

Rose S., Molecole e menti, Liguori, Napoli, 1990.

Rosenzweig M.R.,Biologia della memoria, il Mulino, Bologna, 1978.

Sacks O., L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Adelphi, Milano, 1986.

Sacks O., Vedere voci. Un viaggio nel mondo dei sordi, Adelphi, Milano,1990.

Stockings G.T., Schziophrenia in military psychiatric practice, Journal of Mental Science, 9, 110-117, 1945.

Stanghellini G., For an anthropology of vulnerability, Psychopathology, 30, 1-11, 1997.

Tyrer P., Casey P., Ferguson B., Personality disorder in perspective, British Journal of Psychiatry,159, 463-471,1991.

van der Kolk B.A., Psychological Trauma, American Pychiatric Press, Washington, 1987.

van Praag H., <<Make-Believes>> in Psychiatry or the Perils of Progress,Brunner/Mazel, New York, 1993.

Widiger T.A.,Frances A., Warner L., Diagnostic criteria for the border-line and schizotypal personality disorders. Journal of Abnormal Psychology, 92, 43-51, 1986.

Widiger T.A., Rogers J.H., Prevalence and comorbidty of personality disorders, Psychiatric Annals,19, 132-136, 1989'.

Wiesel T.N., Genetics and behavior,Editorial, Science, 264, 1647, 1994.

Zanarini M., Gunderson J.G., Frankenburg F., Axis I phenomenology of borderline personality disorder. Comprehensive Psychiatry, 147, 161-167, 1989.

Zubin J., Negative Symptoms: are they indigenous to schizophrenia?, Schizophrenia Bulletin, 11, 461-470,1985.


PM --> HOME PAGE --> NOVITÁ --> SEZIONI ED AREE --> PSICOPATOLOGIA