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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

L'incontro con l'altro. Dal folle allo straniero

di Stefano Mistura


Relazione letta al convegno Crisi e Cronicità, Reggio Emilia, Sabato 2 dicembre 2000


            Accogliere lo straniero dev'essere anche provare
            la sua intrusione.........
            Jean-Luc Nancy

Introducendo il libro di Eugène Minkowski dedicato a "La schizofrenia", ho trovato conveniente sostenere che il lavoro dello psichiatra consiste innanzi tutto in un fare e volere che costringe alla responsabilità, del resto implicita in ogni scelta. Si tratta però, lo sappiamo bene, della responsabilità di un soggetto esposto al rischio, non di un soggetto padrone di una tecnica indiscutibile. Sono convinto che nel rapporto con il malato, come del resto nel rapporto con l'altro in generale, si debba abituarsi all'idea che l'altro deve restare altro, assolutamente esteriore a noi stessi. Solo se si accetta tale esteriorità, abbandonando ogni velleità di comprensione totalizzante - cioè a dire di una appropriazione più dolce - si può essere calati nel momento elettivo dell'essere umano. L'accettazione dell'assoluta esteriorità è la cifra che scandisce la responsabilità per l'altro.
Prendersi cura responsabilmente dell'altro presuppone l'impossibilità di facili reciproche identificazioni; ciò, naturalmente, getta chiunque in un'atmosfera di incertezza. L'altro mi pone in questione, crea in me una inquietudine: più volte Minkowski ha indicato come la responsabilità si annidi nella frattura che l'altro stabilisce nel mio essere soggetto. La mia identità di soggetto è responsabile in quanto messa in questione, in quanto in essa converge la domanda e il mio essere umano coincide con lo spazio scavato nel mio essere che l'altro, posto di fronte a me con il suo volto, mi provoca.
Il compito "impossibile" di ogni curante sta nel fatto che il suo io deve responsabilmente aprirsi all'assoluta esteriorità dell'altro: questa è incontenibile; tuttavia, soltanto quell'apertura può definire lo spazio della cura. Che nell'io del curante si apra un varco per l'essere dell'altro implica una sofferenza chiara e anche un vero e proprio dolore, i quali, in fin dei conti, risultano essere costitutivi della persona posta in relazione autentica con l'altro.
La sofferenza che deriva dal porsi in modo responsabile di fronte all'altro può essere terribile, ma è in grado di fornire emozioni tali che ci distanziano dal male e ci fanno avvicinare al bene. Un vecchio midrash nel Talmud dice: quando l'uomo stampa i soldi usa un clichè e con un clichè fa qualsiasi tipo di moneta. Tutti i pezzi sono simili. Ma quando Dio ha creato l'uomo aveva come modello la propria immagine. E tutti gli uomini sono diversi. Non perché hanno un colore diverso di capelli, o ciascuno ha un naso con una propria forma, non perché hanno attributi particolari, ma perché ciascuno è "io". Dire "io" significa affermare la propria singolarità, la propria unicità, come se si fosse altro dal genere umano. È un isolamento ingiustificato, ingiustificabile, non vero! Allora il Talmud aggiunge: per questo possiamo dire che l'universo è creato da me. E un talmudista della Lituania commenta: si, e ciò significa che sono responsabile di tutto. Questa responsabilità terribile è la radice dell'umana dignità.
Questa posizione sulla responsabilità prelude ad una tesi cara a Emmanuel Lévinas là dove afferma che comprendere la miseria del volto che grida giustizia non consiste nel rappresentarsi un'immagine, ma nel farsi responsabile, ad un tempo maggiore e minore, dell'essere che si presenta nel volto: minore perché il volto mi richiama ai miei obblighi e mi giudica, maggiore perché la mia posizione di 'io' consiste nel poter rispondere a questa miseria essenziale d'altri, nel dover trovare delle risorse all'interno di me stesso.
L'apertura che offre Minkowski nei confronti dell'altro-folle, mi sembra particolarmente fertile oggi verso l'altro-straniero. E' evidente, infatti, che è un atto di malafede o una illusione pericolosa ritenere nel momento attuale che le pratiche di spersonalizzazione, cioè, i meccanismi istituzionali, resi evidenti dalla psichiatria asilare, attraverso i quali determinate categorie di esseri umani sono ridotte a non-persone, non siano praticabili nella nostra società razionale, 'egualitaria' e umanistica. Come ha dimostrato Michel Foucault nelle ultime lezioni della sua vita, tenute al Collège de France, i procedimenti giuridico-politici che rendono efficace la spersonalizzazione sono diversi e molto diffusi e rispondono ad un unico principio informatore: un doppio registro giurisprudenziale per chi è incluso e per chi è escluso. In questa dialettica del 'dentro' e del 'fuori', si impone oggi una riflessione sull'atteggiamento nei confronti degli stranieri, che incarnano la forma più inquietante e 'moderna' di devianza.
Lo straniero prende su di sé molte delle caratteristiche che hanno portato il folle all'internamento: lo straniero è diverso e 'brutto', non si capisce; è fonte di malinteso e di mancanza di dialogo: lo straniero è un pericolo; è un enigma e, soprattutto, non comunica. Inoltre se resta legato alla propria comunità di origine, al fine di non sbriciolare la sua identità, rappresenta un rischioso corpo estraneo per gli individui della comunità ricevente, ma che si considera invasa.
Georg Simmel nel suo lavoro del 1908 "Excursus sullo straniero" ha sostenuto però che lo straniero non è il diverso assoluto e riconosciuto come tale con cui si mantiene una distanza cognitiva e culturale, ma l'eterogeneo che si mescola agli ospitanti. Un eterogeneo che non proviene necessariamente dall'esterno, ma che può essersi sviluppato all'interno della società, nelle maglie dei suoi costumi e delle sue tradizioni, e che perciò va identificato e possibilmente espulso o eliminato. Il fatto che i nazisti abbiano sterminato, insieme agli ebrei, malati di mente, handicappati, zingari e omosessuali, mostra come una parte consistente della società europea fosse disponibile (ma quanto ancora lo è?) a trasformare in nemici anche gli stranieri interni, oltre a quelli esterni.
Lo straniero viene così posto in bando: in quanto pericoloso non viene incluso, ma escluso: è abbandonato; diviene un bandito, "rimesso alla propria separatezza e, insieme, consegnato alla mercé di chi lo abbandona....dimesso e, nello stesso tempo, catturato." (Giorgio Agamben)
Come si vede siamo lontani dall'atmosfera creata nel "Sofista" platonico nel passo - ripreso da Heidegger per l'introduzione di "Essere e Tempo" - nel quale lo Straniero di Elea chiede che venga chiarito che cosa si debba intendere con la parola 'essente', il che è come dire che è pertinenza dello Straniero formulare la domanda fondamentale e definitiva.
In realtà, lo Straniero sta aprendo la questione sull'essere del non-essere ed ha paura che lo prendano per pazzo: teme di passare per un figlio-straniero-pazzo. "Lo straniero porta e pone la temibile questione: si sa in anticipo messo in discussione dall'autorità paterna e razionale del logos. L'istanza paterna del logos si prepara a disarmarlo, a trattarlo da pazzo, e questo nel momento stesso in cui la questione da lui posta, la questione dal di fuori, sembra eversiva solo in questo richiamo a ciò che dovrebbe essere chiaro persino ai ciechi." (Jacques Derrida).
Ancor prima del personaggio platonico, il patriarca Abramo aveva fondato la tradizione del popolo ebraico sulla condizione dello straniero respinto dalla città. Gli ebrei sono infatti stranieri per definizione; per lunghi secoli in Egitto, a Babilonia, sotto il dominio romano o dispersi per l'Europa e per le rive mediterranee dell'Africa, essi sottolineano l'estraneità di un popolo che non può essere identificato con un territorio. Gli ebrei indicano l'intimo legame necessario tra estraneità e ospitalità; anche se la storia si è incaricata di ricordare che sono stati costretti nei ghetti, sottoposti a statuti costrittivi ed eliminati nei lager nazisti.
L'esperienza del popolo ebraico ci fa riflettere sulla attuale condizione di ogni straniero: questi è l'ospite che forse resterà, ed è in questa essenziale precarietà che prende corpo la sua pericolosità. Lo straniero rappresenta qualcuno che non è che si contrapponga alla comunità che lo ospita, a causa della sua differenza, ma propriamente la mette in fibrillazione per la possibilità di restarci. Fino a quando lo straniero è identificabile attraverso la sua alterità, confinato in quanto altro, può non costituire soverchi problemi, dal momento che non frattura che episodicamente la superficie della società che lo ospita. Diversa è la situazione determinata dallo straniero che intende restare e, quindi, condividere - 'come noi' - lo stesso spazio sociale: è a questo momento che il suo volto esprime la forza per la frantumazione del sistema.
Il nodo che lega insieme estraneità e ospitalità ci rinvia alla prossimità semantica tra i termini 'hospes' e 'hostis' individuata da Emile Benveniste nel 1969: l'ospite straniero può essere considerato come il nemico con il quale si interrompono temporaneamente le ostilità. Un tempo lo straniero - essenzialmente altro - era un 'hostis' che si presentava come autentico ostacolo all'ospite e che veniva accolto mantenendo integra la sua alterità. Ciò era possibile perché l' 'hospes' accogliente pensava sempre sé stesso come possibile 'hostis' e quindi come potenziale straniero a sua volta. La doppia, contemporanea dimensione di 'hospes' e 'hostis' sta a significare che " soltanto se ognuno ritrova lo straniero in sé stesso, soltanto se l'altro che parla in noi, l' 'hostis' che abita in noi, è riconosciuto e ascoltato, possiamo essere-con lo straniero che viene, autonomo, affrontarne il pericolo, dialogare con esso. E riconoscere pericolo-e-dialogo come essenziali a noi stessi. Se tace o è messo a tacere lo straniero in noi, con quel 'prò-blema' che ci affronta 'da fuori' potremo avere soltanto rapporti di inimicizia........E nessuna comunità.........sarà concepibile mai " (Massimo Cacciari).
Nelle "Nuove letture talmudiche"(1996) Emmanuel Lévinas ha sviluppato una sua personale riflessione sui concetti di ospitalità e di ostilità che ritengo molto utile in questo contesto. Assumendo il Monte Sinai come metonimia dell'ospitalità, come luogo offerto al popolo eletto per essere accolto e per accogliere i Comandamenti e il patto con Dio, non tralascia però di rappresentare lo stesso Monte come frontiera tra la guerra e la pace, come luogo di fraternità, umanità e ospitalità offerto allo straniero, che appare quindi come il 'terzo' che si inserisce nel patto privilegiato tra il popolo d'Israele e Dio, ed esige dal primo la responsabilità per sé come altro, ponendo la questione della giustizia. In Lévinas il punto di partenza è la pace che origina da una reciprocità che precede l'universalità; infatti, il popolo eletto non abita a casa sua, ma è ospitato e per questo deve ospitare, essendo a sua volta ospite. In tale prospettiva, che vede al primo posto l'accoglimento del 'volto', dello straniero e dell'alterità, l'ospitalità dell'Altro si manifesta come fondamento dell'etica.
Jan Patocka nel suo libro "Saggi eretici", pubblicato clandestinamente a Praga, ha scritto che "L'uomo deve lasciar crescere dentro di sé l'inquietante, l'inconciliabile, l'enigmatico, ciò da cui la vita comunemente intesa si distacca per passare all'ordine diurno." Ragionare in base ai valori diurni significa essere mossi dalla volontà di definire e sottomettere il reale ai soli fino di un sapere quantificabile infeudato ai valori della tecnica. Separando il buio dalla luce ne subiamo le devastazioni, mentre bisognerebbe invece spingere lo sguardo fino alle soglie di quell'oscurità.
Noi abbiamo paura della diversità: questo è già follia ed è anche un modo per difendersi da essa. Vorremmo creare distanze e porre confini precisi, ma non ci siamo riusciti del tutto: il confine, infatti, separa accomunando. Abbiamo così medicalizzata la follia, ma non abbiamo certo neutralizzato la diversità, né abbiamo diminuito la nostra paura a fronte dell'Altro diverso. Il rapporto con l'Altro diverso è la cifra con cui si misura il tasso di civiltà: Michel Foucoult ha scritto che ogni società si può giudicare dal modo in cui organizza e vive il rapporto con l'altro. Come se ogni società avesse bisogno di costruirsi una realtà e un fantasma della diversità per costruire e mantenere la propria identità. Come se non potessimo avere un'identità senza mettere in atto qualche meccanismo di identificazione ed esclusione di coloro che sono diversi da noi.
In conclusione diciamo che nel percorso che ci ha guidati dal folle allo straniero il nostro filo di Arianna è stato il volto dell'Altro quale immagine in grado di suscitare quella forma severa dell'amore che è la responsabilità.


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