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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia


Struttura antropoanalitica dell'ipocondria

I Parte


Per una specificità strutturale dell'ipocondria

di C. F. Muscatello, P. Vistoli, P. Scudellari, A. Grossi, N. Isola



Un ringraziamento agli Autori e al Direttore della Rivista Psichiatria generale e dell'et evolutiva che ci hanno consentito di riprodurre i due lavori che seguono (pubblicati in Psichiatria generale e dell'et evolutiva Vol.37 - Fasc.4 - 2000)

Mario Rossi Monti - Antonella Di Ceglie



Il più antico concetto di malattia quello dell'impurità.
A. Pazzini


E resta il tormento più grande quando un uomo non sa se
la propria sofferenza sia una malattia o un peccato.
Kirkegaard


Non sappiamo perché certi termini nascano, perché alcuni si conservano, perché altri, invece, scompaiono. Un termine, un segno, sono l'esito di un confinamento, ovvero di una delimitazione arbitraria di alcune congetture su una certa porzione di realtà. Gregory Bateson (1979), rifacendosi a Korzybski, sottolinea di frequente la fondamentale differenza tra "mappa" (descrizione della realtà) e "territorio" (realtà). Il termine "ipocondria", pur conservandosi nel tempo, appartenuto a mappe estremamente differenti fra loro, rischiando di rendere sempre più nebuloso ed aleatorio il "territorio" da circoscrivere e da descrivere.


Breve catalogo dei diversi usi del termine «ipocondria». Vicissitudini di un concetto.

Kenyon, in un articolo del 1965, elenca ben diciotto usi diversi del termine "ipocondria", evidenziando sia la confusione terminologica che la discordanza di opinione tra i diversi Autori.
L'etimologia della parola si fa derivare da "male degli ipocondri", termine quest'ultimo che si trova gi in Ippocrate (V sec. A. C..) come denominazione anatomica. Sette secoli pi tardi Galeno sembra essere stato il primo autore ad aver descritto la melanconia come una "malattia ipocondriaca" (con sede nei visceri addominali), senza precisare se si trattasse di una patologia biliare o splenica.
Per i greci la sede delle passioni e dei sentimenti era addominale. Si comprende quindi come nell'ipocondria essi intravedessero uno squilibrio delle passioni, (un disturbo "psichico") causato da una particolare disfunzione degli organi ipocondriaci.
Questa concezione alchemico-umorale ancora profondamente radicata nella scienza medica del XVII secolo. Cos parlano, attraverso un brano di Moliere ("Monsieur de Pourceaugnac", 1670), i dottori del tempo:

«Il celebre Galeno stabilisce dottamente tre tipi di questa malattia che noi chiamiamo melanconia (...) la terza, ovvero l'ipocondria, che proprio la nostra, che procede viziata da qualche zona del basso ventre e della regione inferiore, ma particolarmente dalla milza, la cui infiammazione conduce al cervello del nostro malato una gran mole di fuliggine spessa e sporca, il cui vapore nero e maligno comporta depravazione alle funzioni delle facoltà principali (facultatis principis), e determina la malattia della quale, a nostro parere, egli manifestamente affetto e convinto. A prova di quanto dico, quale diagnostico indiscusso di ciò che dichiaro, voi avete solo da soppesare quell'aspetto controllato che si vede; quella tristezza condivisa di paura e di sospetto, segni patognomonici e peculiari di questa malattia...E tenendo presente che la veritiera provenienza di tutta la malattia un umore grasso e puzzolente, e un vapore scuro e spesso che oscura, infetta e sporca gli spiriti bestiali sar anche lecito che egli si bagni nell'acqua limpida e pulita, con parecchio siero di latte chiaro, per cui si purifichi per l'azione dell'acqua e si schiarisca per l'azione del latte chiaro il buio di quel vapore»

Nella citazione adombrato un mutamento di prospettiva nell'uso del termine "ipocondria": esso descrive già, anche se marginalmente, una disposizione d'animo e uno stile relazionale a cavallo fra la tristezza melanconica e la diffidenza paranoidea.
Nei primi decenni del '700 si arriverà a connotare con il medesimo termine un vero e proprio stile esistenziale. Secondo il profilo che dell'ipocondria ci fornisce il medico inglese Cheyne (1733) nel suo libro The english maladie tale malattia, della quale pare che egli stesso fosse affetto, comprendeva un insieme di sintomi che delineavano anche lo stile di vita di una intera classe sociale: lamentosità petulante, disforia, meteoropatia e un diffuso malessere fisico, soprattutto digestivo. L'Autore si riferisce a larga parte dell'aristocrazia inglese del tempo, alle prese con velleità artistiche, umore melanconico e inquietanti disturbi somatici. In questo senso "The english maladie" segnala una svolta rispetto alla precedente dominante visione galenico-ippocratica: in accordo con lo spirito del tempo gli incubi dei visceri entrano in risonanza con gli incubi della ragione.

Ci sembra interessante sottolineare come, tra i primi autori che tentano di delineare una definizione psichiatrica dell'ipocondria, Sydenham (1682, cit. da Lipowski, 1988) colga una radice comune fra disturbo isterico e disturbo ipocondriaco. Questo orientamento lo ritroviamo, come osserva Lipowski, nel D.S.M.-III-R (1986) che inserisce l'ipocondria e l'isteria nello stesso gruppo dei disturbi somatoformi. Cos scriveva Sydenham: "L'isteria rappresenta un sesto di tutti i disturbi osservati dai medici. L'ipocondria è l'equivalente maschile dell'isteria" (cit. da Lipowski).
Altre mappe del medesimo territorio, ormai definitivamente siglato come "ipocondria", furono prodotte nell'arco di tutto il XIX° secolo. Agli estremi di questo periodo Sims (1799) e Seglas (1895) sembrano osservare e descrivere la stessa porzione di realtà clinica.
Sims rileva che la mente dei suoi pazienti «quasi interamente occupata dallo stato della loro salute, che essi immaginano infinitamente peggiore di quanto in realtà sia. Essi si credono affetti da quasi tutte le malattie che hanno visto, di cui hanno letto, o ancora, di cui hanno sentito parlare» (Sims, 1799, cit. da Lipowski).
Seglas, un secolo pi tardi, osserva negli ipocondriaci «una preoccupazione esagerata per il proprio stato di salute, in rapporto a sensazioni soggettive che l'individuo cerca di interpretare in modo più o meno razionale» (Seglas, 1895, cit. da Maurel, 1975).
Queste descrizioni cliniche si soffermano sul rilievo di una discrepanza che in questi pazienti sembra costantemente presente. Tra dati obiettivi e preoccupazioni soggettive c'è un salto di comprensibilit che rende queste ultime sempre immotivate. Gillespie (1928), pur in altro contesto storico e culturale, traccia molto efficacemente il profilo dell'ipocondria, sottolineando quelle stesse caratteristiche che avevano già attirato l'attenzione di Sims e di Seglas:

«L'ipocondria una preoccupazione per una malattia fisica o psichica, reale o supposta tale; una discrepanza fra il grado di preoccupazione e le ragioni per essa, così che questa di gran lunga in eccesso rispetto a quanto sarebbe giustificato; una situazione affettiva che si caratterizza, in particolare, come interesse, come convinzione, e successivamente come preoccupazione unita ad una indifferenza per i pareri e per l'ambiente, e una totale resistenza alla persuasione" (Gillespie, 1928).


La prospettiva psicoanalitica sull'ipocondria

Freud, a partire dagli ultimi anni del secolo scorso, mette a disposizione dell'osservatore il potere di risoluzione dello strumento psicoanalitico, cercando a più riprese di fornire chiavi interpretative per spiegare l'apparente inderivabilità psicologica di diverse condizioni cliniche, ivi compresa la condizione ipocondriaca.
Freud si occupato a più riprese dell'ipocondria, ma in modo tutto sommato poco sistematico e con alcune resistenze che tradivano un certo imbarazzo personale. Egli se ne occupa negli scritti più antichi (1894, 1895), in un epoca in cui, come risulta dalle lettere a Fliess, egli viveva questo problema angosciosamente su di sé. In un passaggio della lettera 39, del 19 aprile del 1894, sembra confessare il proprio coinvolgimento diretto e le proprie difficoltà:

«E' troppo penoso per il medico che si arrabatta per tutte le ore del giorno nel comprendere le nevrosi non sapere se lui stesso soffre di una depressione logica o ipocondriaca [...]. I monelli e mia moglie stanno bene; a lei non ho confidato i miei deliri di morte».

Fin dal 1894 Freud individua come singole entità cliniche la nevrosi d'angoscia, l'ipocondria e la nevrastenia, che vengono così scorporate dall'unico, onnicomprensivo concetto di "nevrastenia" usato da Beard (1880). Egli le considera direttamente connesse con «una serie di pratiche nocive e turbamenti derivanti dalla vita sessuale». Queste forme, successivamente raggruppate nella categoria delle "nevrosi attuali", costituirebbero per l'Autore «il nucleo e la fase preliminare del sintomo psiconevrotico». Per Freud l'ipocondria è una nevrosi attuale e il sintomo ipocondriaco non è interpretabile simbolicamente, non ha un significato nascosto, ma invece il segno dell'accadere di qualcosa di fisico («ingorgo libidico») che sfugge all'elaborazione psichica. Scorporato rispetto alla catena dei rimandi simbolici il sintomo ipocondriaco è pertanto inanalizzabile.
Con l'«Introduzione al narcisismo» (1914) Freud introduce la variabile rappresentata dalla libido narcisistica e ravvisa nell'ipocondria «una modificazione della ripartizione della libido (oggettuale e narcisistica)» e un'alterazione del grado di erogeneità degli organi del corpo. Per Freud l'organo ipocondriaco rappresenta il luogo e il risultato di uno squilibrio libidico, una «nuova zona erogena» colonizzata e inventata dal sovraccarico narcisistico della libido del paziente (organo-dolorosamente-teso = organo-genitale-in-stato-di-eccitazione). Freud stesso, comunque, si dichiara insoddisfatto delle sue teorizzazioni sull'ipocondria e in una lettera a Ferenczi dice: «Ho sempre sentito che le oscurità nella questione dell'ipocondria sono una disgraziata lacuna nel nostro lavoro» (Jones, 1953). Evidentemente Freud che in alcune situazioni appare tanto "saturante" e sistematico nelle sue dimostrazioni e spiegazioni, ha sentito lo strumento psicoanalitico impotente di fronte alla oscura elusività della problematica ipocondriaca.
Ferenczi (1919) raccoglie il discorso freudiano dell'ipocondria come nevrosi attuale spingendosi oltre. Pur non offrendo una diversa interpretazione metapsicologica del fenomeno ipocondriaco egli propone un punto di vista diverso da cui osservare il problema. e indica nell'ipocondria il segno di un fallimento delle più precoci relazioni fra il bambino e il suo ambiente. Nel 1931, parlando di quel particolare trauma rappresentata dalla freddezza affettiva e dalla mancanza di ascolto dei bisogni del bambino da parte dei genitori, Ferenczi precisa che l'evento peggiore si verifica quando il bambino avverte un trauma, un dolore psichico e lo dice, ma i genitori «dicono che non successo niente». Ritroviamo queste intuizioni di Ferenczi in un lavoro di Anna Freud (1952) che descrive i drammi del bambino, il quale particolarmente attento alla propria salute soltanto perché non c'è nessuno che se ne occupi per lui. Sono idee che si collegheranno successivamente ai fondamentali lavori di Bion (1963) sulla funzione alfa della madre, che soccorre, ascolta e metabolizza le ansie del bambino, e alle successive teorizzazioni di Kohut. La difettosa interazione fra il bambino e le figure genitoriali costituisce un elemento fondamentale nel pensiero di Kohut (1971) che non dedica all'ipocondria contributi specifici, ma ne parla spesso nei suoi scritti. Egli si occupa di un'area particolare delle relazioni umane precoci, quella fra il soggetto e i suoi «oggetti-Sé», dominata da bisogni di conferma narcisistica. Kohut colloca l'ipocondria in un momento preciso della storia del Sé in rapporto ai suoi oggetti. Un Sé difettoso, prodotto di una serie di esperienze traumatiche con l'«oggetto-Sé» rappresentato dai genitori, se ferito nella sua aspettativa idealizzante di unione narcisistica con l'«oggetto-Sé», può disgregarsi. Compare allora per Kohut l'ipocondria, segno che qualcosa di terribile sta accadendo e precisamente la perdita del proprio significato e del proprio valore narcisistici.


Gli ipocondriaci: un ritratto di E. Dupré

A conclusione di questo breve excursus sulle vicissitudini del concetto di ipocondria ci pare opportuno riportare il penetrante profilo dell'ipocondriaco così come ce lo delinea Dupré (1925), il quale si sofferma molto opportunamente sulla singolarità e sulle lussureggianti metafore del linguaggio ipocondriaco. In "Pathologie de l'imagination et de l'emotivité" così li descrive:

«I malati lamentano di provare in differenti parti del corpo delle sensazioni abnormi a carattere più penoso e molesto che doloroso, da cui deriva la natura insolita di questi disturbi, e la cui durata inspiegabile li inquieta particolarmente. Si tratta di sensazioni bizzarre, per lo più indefinite e descritte dai malati con un gran lusso di immagini e di paragoni (...) Queste parti del corpo sono rimpicciolite, ingrandite, appiattite, gonfiate, rinsecchite, raggrinzite, spostate, modificate nella loro forma, nella loro temperatura, nel loro peso, nella loro formazione di secreti, nella loro mobilità o nella loro fissità. Sono attraversate da crampi, da attacchi, da applicazione di cose, e ancora, sono compresse da tenaglie etc...Corpi estranei si interpongono, gas si insinuano, correnti circolano, ribollimenti gorgogliano, scricchiolii e crepitazioni scrosciano, etc...Avvertono strette, battiti, tiramenti, dislocazioni. A queste sensazioni penose si aggiungono altri malesseri di natura ancora pi vaga, e che i malati designano con il termine di paralisi, di congestione, di anemia, di morte, di putrefazione, di carie, etc...Per rendere conto della sede e della natura delle loro sensazioni i malati manifestano una mimica dove dominano l'espressione tormentata e contratta del volto e la ripetizione degli atteggiamenti e dei gesti».

Le definizioni e gli usi del concetto di ipocondria, sia nella psichiatria classica che in quella contemporanea, coprono un ambito nosografico che possiamo sinteticamente riassumere nelle seguenti due posizioni:

a) l'ipocondria è un'entità nosografica a sé stante;
b) l'ipocondria è un sintomo "trasversale" che interessa ambiti clinico-nosografici diversi e non contigui.

 
L'ipocondria come entità nosografica a sé stante.

La posizione nosografica dell'ipocondria sempre stata estremamente controversa. Alla sua introduzione come categoria psichiatrica l'ipocondria ha subito rivelato una bipartizione in due varietà: una forma delirante (hypocondria major) e una forma nevrotica (hypocondria minor). Come afferma Maurel (1975), il dibattito del XIX e XX secolo sull'ipocondria era così posto: "Esistono due ipocondrie, l'una semplice, o nevrotica, l'altra delirante. O bisogna ammettere l'unicità del disturbo?".
Numerosi Autori, a cavallo fra l''800 e il '900 hanno studiato e descritto l'ipocondria secondo un criterio dicotomico: Baillarger (1860), Cotard (1880), Seglas (1895), Morel (1860), Legrand du Saulle (1881) si sono occupati in modo particolare della forma delirante. La forma nevrotica è stata particolarmente studiata da Krafft-Ebing (1890), Marchand e Roy (1905) e Dubois de Berne (1904).
Ballet (1903) chiama «piccola ipocondria» quel disturbo psichico presentato da soggetti preoccupati delle cause, della natura, delle conseguenze di sensazioni diverse, localizzate o diffuse, descrivendo altresì soggetti ossessionati dalla convinzione di essere affetti da qualche grave malattia ("media e grave ipocondria").
Gillespie (1928) riconosce all'ipocondria lo statuto di psiconevrosi autonoma, ed altri Autori, tra cui Shirvaiker (1957) e Roth (1959), hanno sviluppato tale impostazione.
Vichmann (1932) ed Esselevie (1933) ammettono l'esistenza di una forma reattiva e di una forma costituzionale, quest'ultima considerata come entità morbosa autonoma.
Bini e Bazzi (1949) hanno intravisto nel cosiddetto «stato d'allarme ipocondriaco» (o «psichestesie d'allarme») un sintomo che accomuna le varietà cliniche della psiconevrosi neurastenica.
Cardona (1950), per contro, discutendo il problema dell'ipocondria, ne ha rivendicato l'autonomia nosologica rispetto alle altre forme psiconevrotiche.
Pilowsky (1970) distingue una "primary hypochondriasis" da una "secondary hypochondriasis", considerando la prima come una sindrome nevrotica indipendente, mentre ritiene che una grande percentuale di pazienti affetti dalla "secondary hypochondriasis" presentino primitivi disturbi ansiosi o affettivi.
Timsit (1973) ha confrontato pazienti affetti da nevrosi ipocondriaca con altri pazienti che presentavano svariati disturbi psichiatrici, concludendo che l'ipocondria merita di essere inclusa in una sua autonoma categoria nosografica.
Per finire, un intero filone di ricerche da cui emergono i lavori di Kellner (1986), tenta attualmente di individuare quei meccanismi neurofisiologici connessi con la soglia del dolore che sottenderebbero il disturbo ipocondriaco. Con tale ipotesi, non lontana da quella neurofisiologica di Dupré, si ripropone lottocentesca categoria nosografica di «ipocondria cum materia».


L'ipocondria come sintomo "trasversale" che interessa ambiti clinico-nosografici diversi e non contigui.

Secondo questo secondo modello l'ipocondria va intesa come un sintomo, una condizione trasversale rispetto all'intero ambito della psicopatologia. In tal modo viene prestata esclusiva attenzione ai multiformi vissuti psicopatologici centrati sul corpo in diversissime condizioni cliniche. Con questo assunto di base aspetti della patologia ipocondriaca coprirebbe un ampissimo settore della psicopatologia che si estende dagli stati di depersonalizzazione somatopsichica a certe sindromi fobico-ossessive, da alcune tematiche deliranti melanconiche ai più bizzarri deliri somatici caratteristicamente schizofrenici.
Come osserva Callieri (1987) a proposito dell'ipocondria delirante «il problema molto confuso: sotto il nome di delirio ipocondriaco vengono compresi tutti i deliri che hanno come oggetto il corpo [...] Il punto di riferimento dell'ipocondria si sposta dalla malattia al corpo, diviene cioè più vago».
In questa prospettiva trasversale, che ha comunque il merito di confrontarsi con l'ubiquità clinica del disturbo, l'ipocondria sembra doversi accontentare di essere collocata nei «dintorni» di una qualche sindrome «forte» della psichiatria.
Numerosi Autori infatti, all'interno di questa prospettiva «trasversale» del sintomo ipocondriaco, hanno finito per aggregare l'ipocondria al nucleo delle sindromi depressive, considerandola o una forma di «depressione mascherata», o un «equivalente depressivo», o un «sintomo della depressione» (Henne, 1955; Janzarik, 1957; Ladee 1967; Dorfman, 1968; Lipsitt, 1970; Lopez-Ibor, 1972; Huapaya, 1974; Drossmann, 1978; Barsky, 1979; Katan, Kleinmann e Rosen, 1982; Ford, 1983).
Altri Autori connettono l'ipocondria alla schizofrenia: chi alla «fase prodromica» (Offenkranz, 1962), chi alla «fase di stato» (Symonds, 1928; Zaidens, 1950; Cowden e Brown, 1956). Bleuler e Kretschmer (cit. da Callieri, 1973) vedono nell'ipocondria l'espressione clinica di una schizofrenia arrestata o latente; Bunke (cit. da Callieri, 1973) considera l'ipocondria il punto di arrivo di uno sviluppo psicopatico di personalità.
Ladee (1966), analizzando unampia casistica, include la patologia ipocondriaca nellambito della schizofrenia, in quello delle psicosi maniaco-depressive e in quello delle psicosi reattive.
Un esempio di questa posizione estrema rappresentato dal lavoro di Benassi (1957) in cui l'Autore battezza come «ipocondria delirante» svariate condizioni cliniche: psicosi maniaco-depressiva, melanconia involutiva, cenestopatia, schizofrenia paranoide ed ebefreno-catatonica, demenza senile, paralisi progressiva, ecc...(1)
Una posizione particolare, che conserva ancor oggi una sua provocatoria attualità, quella di Cotard (1889) il quale riconosce all'ipocondria una sola natura, quella delirante: «Così come esistono persone affette da un delirio persecutorio sfumato, da una depressione moderata... e da tanti altri disturbi mentali che vengono apprezzati solo dal medico, lo stesso vale per l'ipocondria. Secondo noi non c'è differenza nosologica: anche quando l'ipocondria un preludio, una forma attenuata, essa folle (elle est vsanique) come il delirio ipocondriaco della forma conclamata».

Il quesito intorno all'autonomia nosografica dell'ipocondria viene affrontato e differentemente risolto nelle successive versioni del DSM.
Nel DSM III (1980) l'ipocondria figura nell'ambito dei disturbi somatoformi (insieme al disturbo di somatizzazione, al disturbo di conversione, al dolore psicogeno e ai disturbi somatoformi atipici), definendo un'area nosografica specifica, ma ristretta e quasi puntiforme. L'ipocondria viene inserita fra i disturbi somatoformi: 1) come nevrosi ipocondriaca per quanto riguarda la sua espressività nevrotica; come Disturbo Delirante di tipo somatico per quanto riguarda la sua espressività psicotica.
Nel corso dell'evoluzione di questo modello l'insieme di sintomi che corrisponde fondamentalmente alla forma nevrotica dell'ipocondria rafforza progressivamente la propria identità nosografica, mentre la grande ipocondria (o ipocondria maior) stempera grandemente la propria autonomia nosografica, configurandosi semplicemente come una delle possibili varianti tematiche dei deliri sistematizzati cronici. Va segnalato inoltre che nel DSM-III (1980) e nel DSM-III R.(1987) queste due forme vengono contrapposte in base ad un criterio non sufficientemente definito, ed epistemologicamente sospetto, quale il grado di "intensità" del convincimento ipocondriaco. Il DSM-IV (1994), che introduce l'elemento discriminante dell'insight, presente o assente a seconda delle due varietà, si discosta ben poco dal precedente.

Nell'intento di circoscrivere meglio l'area dell'ipocondria e di evidenziare il suo peculiare profilo psicopatologico, che nelle ultime classificazioni andato via via sbiadendo, ci proponiamo di ribadire la centralità strutturale che l'ipocondria occupa nella psicopatologia clinica. Ma soprattutto dell'ipocondria intendiamo approfondire le arcaiche stratificazioni specificamente connesse al problema del «male» nella sua più peculiare accezione antropologica. Lo studio dell'ipocondria rappresenta infatti, appunto per queste sue estese e sotterranee ramificazioni, uno dei possibili varchi alla comprensione antropoanalitica del fenomeno psicopatologico.


Per una specificità strutturale dellipocondria.

«Nel 'sano' - scrive Callieri (1987) - il corpo viene esperito impervio verso il proprio interno e, per contro, estremamente aperto all'esterno, cioè dischiuso al mondo. Nel modo di essere ipocondriaco la pervietà unidirezionale e condizionatamente diretta al versante interiore, a quanto è "impresso" nel corpo che si costituisce come rivelatore di una sofferenza senza sbocco». Scrive ancora Callieri: «L'ipocondriaco intenziona il proprio corpo in quanto possibilità di un evento patologico, subdolo, sovente catastrofico e spesso incontrovertibile [...]. Nel modo di esistere ipocondriaco il corpo è continua sorgente di messaggi rivelatori di tormentoso dubbio o di sgomenta certezza [...]. L'incontro con l'altro da sé precluso, in un orizzonte esistenziale sempre pùi coartato e inibito. Nel delirio ipocondriaco, come dice Janzarik, la corporeità può diventare uno specifico "surrogato di mondo", un Weltersatz, che succhia e riassorbe ogni spinta verso il fuori». Con singolare pregnanza espressiva Tatossian (1981) scrive che il «solo vero partner dell'ipocondriaco è il suo corpo, e gli altri, medico compreso, sono comparse. La teatralità ipocondriaca [...] non ha il senso della teatralità isterica, che resta un appello all'altro. L'ipocondria [...] resta una passione solitaria»
Il corpo dell'ipocondriaco finisce così per essere ridefinito all'interno di una angosciosa topografia fantastica, in cui alcuni organi potranno completamente autonomizzarsi, altri assumere nuove funzioni, altri addirittura annullarsi Queste esperienze fanno dell'ipocondria il nodo fenomenologicamente enigmatico del rapporto mente-corpo, così come si presenta all'occhio dello psicopatologo.
Abbiamo visto come appaia problematica e controversa la collocazione dell'ipocondria all'interno di una "mappa", di un universo linguistico, quello nosografico, che non può far a meno di parlare in termini dicotomici, o comunque discontinui (nevrosi o psicosi, distimia o schizofrenia, ecc...). Ma il problema della sua collocazione non è certamente solo nosografico. Essa solleva complesse questioni di carattere psicopatologico e fenomenologico tuttora insolute.
Fare della psicopatologia antropoanalitica significa cercare la continuità nella discontinuità, tracciare un percorso a ritroso dal fenomeno alla struttura, un percorso «narrativo» che consenta di intravedere attraverso le discontinuità clinico-nosografiche una continuità vitale ed esistenziale.
Per usare un'analogia geologica non si tratta soltanto di definire le caratteristiche che emergono dall'osservazione finale, ma anche e soprattutto saper leggere la sequenza delle singole stratificazioni sottostanti nel senso che ad esse attribuito da Piaget (1970) quando si esprime a proposito dell'"epistemologia genetica": «Affermare la necessità di risalire alla genesi - suggerisce Piaget - non significa comunque accordare un privilegio a questa o a quella fase considerata come prima in assoluto: significa invece ricordare l'esistenza di una costruzione sempre complessa e indefinita, e soprattutto insistere sul fatto che, per comprendere i motivi e le dinamiche bisogna conoscere tutte le fasi, o per lo meno il massimo possibile».
Ciò vale anche per l'ipocondria, come per tante altre condizioni psicopatologiche. Anche l'ipocondria ci obbliga, infatti, a confrontarci con una «visione del mondo» in progress, di cui l'espressività clinica rappresenta solo la ricapitolazione finale (2).
Le vie che i vari Autori hanno percorso nel tentativo di effettuare questo passaggio dal fenomeno alla struttura sono diverse.
Alcune di queste esprimono, più o meno direttamente, un'esigenza a nostro avviso irrinunciabile: quella di individuare quale specificità, quale singolarità si addensi intorno a questo linguaggio che parla col corpo e sul corpo «malato».
Malattia come metafora? Ma metafora di cosa?
H. Ey (1950) ad es., confrontandosi con l'onnipresenza clinica del tema ipocondriaco, arriva a parlare di un «complesso ipocondriaco immanente alla natura umana», che si declina clinicamente a seconda dei diversi livelli di strutturazione psichica sottostante.
Altri Autori di scuola fenomenologica (Basaglia, 1956; Janzarik, 1957; Plugge, 1958; Ruffin, 1959; Hafner, 1961; Cargnello, 1964; Borgna, 1983) hanno prestato particolare attenzione alla dimensione esistenziale del tema ipocondriaco, partendo dalla riflessione sul paradosso del corpo che si offre all'esperienza percettiva al tempo stesso come «soggetto» dell'esperire e «oggetto» dell'esperienza. Tale distinzione, mutuata dal pensiero di E. Husserl, si fonda sui concetti di "Leib" (inteso come corpo immediatamente vissuto, o «corpo che sono») e "Krper" (inteso come corpo-oggetto, mediato dall'autoriflessione, o «corpo che ho»). Ogni forma psicopatologica che investa tematicamente la corporeità (ci riferiamo in particolare allipocondria) appare a questi Autori l'espressione di una autoriflessione esasperata (di un «crampo autoriflessivo», come stato detto), che trascina il soggetto verso il distacco oggettivante del corpo fino al suo estraneamento. Come osserva in modo radicale Hafner (1961) la regione corporea che si reifica nellipocondria si avvicina al modo di essere di un oggetto, trasformandosi, cioè, in una regione anonima ed estranea, stralciata dalla totalità dell'esistenza e delle esperienze vissute. La riflessione di questo autore utilizza in modo drastico la dicotomia concettuale Leib e Körper, collocando risolutamente la sindrome ipocondriaca nell'area concettuale del Krper. Ma non ci sembra che questa dicotomia, applicata in modo così radicale, rappresenti un efficace e limpido strumento euristico per la ricerca psicopatologica. Del resto, a proposito dei rischi che corre la fenomenologia sul “pensare per dicotomie”, Binswanger (1946) scrive che «l'obiettivazione porta alla contrapposizione tra psichico e fisico; mentre noi vogliamo piuttosto “scavare un tunnel” al di sotto di questa contrapposizione».Della radicale contrapposizione Leib/Krper uno di noi (Gentili, Muscatello, Ballerini, Agresti, 1965) si occupato, nel tentativo di risolverla secondo una più coerente visione fenomenologica (3).

Da ricordare, proseguendo la nostra perlustrazione psicopatologica attorno all'ipocondria, le importanti analogie riscontrate da Schilder (1935) fra depersonalizzazione somatopsichica ed ipocondria. In entrambe le forme appare notevolmente aumentata la tendenza all'autoanalisi, con ripetuti tentativi di descrivere, attraverso lo studio di sé stessi (con l'ausilio di comparazioni ed analogie spesso ispirate ad oggetti inanimati), l'esperienza di cambiamento e di estraneamento. Questo esperire mutamenti polarizzerebbe l'attenzione verso una esasperata auto-ossevazione e, quindi, favorirebbe la scissione che ne può conseguire.
Organi e funzioni si distanzierebbero sempre più dall'Io, perdendo l'ovvio connotato dell'appartenenza. Stabilitosi un tale circolo vizioso diverrebbe impossibile ritornare alla precedente, indivisa ed ingenua, unità dell'esperienza. «Nel rapporto fra depersonalizzazione e ipocondria - scrive Callieri (1987) - appare attendibile l'ipotesi che la genesi dell'esperienza di estraneamento di parti del corpo sia dovuta ad una primaria e costante auto-osservazione ipocondriaca. L'«organo ipocondriaco» viene mentalmente allontanato, tende a ridursi ad oggetto fra gli altri oggetti, si pone al di fuori dell'esperienza della propria corporeità come dato globale».
In questa cornice si inscrive il concetto di "spasmo autoriflessivo" di Ladee (1966), di "reflexiv Character" di Jaspers (1913), di "somatic style" degli autori cognitivisti.
In una recente ed articolata sintesi del problema Kuchenhoff (1985), autorevole rappresentante della scuola fenomenologica di Heidelberg, definisce la sindrome ipocondriaca come una costellazione di fenomeni psicopatologici esistenzialmente correlati:
«Noi siamo dell'opinione - scrive - che esista una sindrome ipocondriaca autonoma, non per un "nosos" ipocondria. La sindrome ipocondriaca non indica cioè alcuna malattia, ma la forma fenomenologicamente autonoma di un rapporto Io-mondo particolare, caratterizzato da una amplificazione progressiva del valore che riveste la malattia. Questo rapporto Io-mondo si fonda sulla perdita dell'ovviet naturale del vissuto di integrit somatica e psichica, cosicché l'attenzione e l'affettività si limitano a forme di auto-osservazione, di sentimento di malattia, o di convinzione di malattia, mentre l'incontro interumano viene allo stesso modo limitato e reso impossibile».


L'ipocondria come metafora del Male?

Il sintomo ipocondriaco ci si presenta ora in primo piano, e con caratteristiche così perentorie da definire, da solo, una precisa entità nosografica; ora sembra piuttosto accompagnare perifericamente, a tratti, molteplici forme cliniche nosograficamente diverse. La continuità che si intravede ha assunto piuttosto, nell'analisi dei diversi Autori, l'aspetto di un confuso agglomerato di possibilità nosografiche polimorfe ed irrelate.
Una analisi a ritroso che risalga dalla fenomenologia alla struttura, e che indichi le tappe di una condizione umana che sfocia in quella specifica «visione del mondo» che è «il modo di essere» ipocondriaco, ci appare finora fallita, se pure è stata mai veramente tentata.
Lo stesso Kuchenhoff, pur latore di una riflessione fenomenologica fra le più avanzate, fonda tutta la singolarità del rapporto Io-mondo dell'ipocondriaco sul concetto di «perdita dell'ovvietà del vissuto di integrità somatica e psichica». Egli, nel compiere un'operazione comunque imprescindibile, sembra ripiegarsi di fatto su una tautologia.
Ci siamo allora chiesti se fosse possibile andare oltre, se fosse possibile considerare questa «perdita dell'ovvietà del vissuto di integrità somatica» in un contesto più ampio, che ne consenta quantomeno una ulteriore comprensibilità, che movimenti il significato, altrimenti solo descrittivo, di questo pur valido assunto.
Come dire: dobbiamo davvero prendere questo concetto come radicale ultimo della riflessione fenomenologica sull'ipocondria, e intendere questa esperienza psicopatologica come luogo di alienità irriducibile, precluso ad ogni approccio ermeneutico antropologicamente fondato; oppure possiamo pensare questa condizione psicopatologica come inscritta in un campo metaforico che ci consente lo spazio di un possibile ascolto, di una relazione pensabile?
L'idea ipocondriaca è forse una metafora per dire altro?
Potremmo in questo caso ipotizzare che l'ipocondria non rappresenti tanto un sintomo il cui valore si limita ai confini del corpo, quanto piuttosto una chiave per entrare nel problema del "mal-essere", vale a dire del "male" in tutta l'estensione dei suoi significati antropologici.
Ci è parso di intravedere nella tematica ipocondriaca una delle testimonianze più dirette di un'arcaica esperienza del «male» che nella crisi psicotica, intesa come crisi antropologica radi-cale, dispiega l'intero repertorio delle sue metafore primarie: contagio fisico, infezione, impurità, indegnità, peccato, maleficio magico, maledizione divina, possessione demoniaca.
In questa prospettiva un riflessione sull'ipocondria spinge a confrontarsi con le situa-zioni di crisi radicale dell'uomo, quelle che il grande antropologo Ernesto De Martino ha definito «crisi della presenza».


«Crisi della presenza» e simboli primari del male.

Analizzando i vissuti psicotici di «fine del mondo» («apocalissi psicopatologiche») in analogia con le crisi di una società o di un gruppo sociale che vengono definite «apocalissi culturali», E. De Martino (1962) scrive:

«La 'presenza' (il Dasein) e sempre esposta al rischio di flettersi, di ripiegarsi, di naufragare, di restare prigionieri della situazione, di non deciderla, di non andare oltre di essa, di non trascenderla...E' il rischio di non esserci-nel-mondo, di non passare con la situazione invece di oltrepassarla col valore, di ripeterla invece di deciderla, di non riprendere il passato restando esposto al suo ritorno irrelato...di tornare alle origini, di perdere la prospettiva del futuro arretrando sgomenti di fronte al possibile, di rifiutare il divenire come campo del progettabile, di rifiutare il fare come potenza progettante...E' infine il rischio dell'assenza, della presenza che dilegua e scompare [....] In altri termini la vita storica dell'uomo comporta necessariamente un continuo distaccarsi da situazioni, un continuo oltrepassare le situazioni che passano: in cui è però anche incluso il rischio di non poter effettuare il distacco e di morire con colui che muore...»

Nell'orizzonte della crisi la soggettività (la «presenza»), che è polo di decisione e di scelta, si scopre incapace di darsi motivazioni all'agire e a scegliere secondo valori, si scopre smarrita, menomata, "legata", contagiata da un male indecifrabile. "Mal-essere" e "mal-fare" si fondono in un'esperienza che è quella di una perplessità senza sbocco.
Nelle parole di un salmo penitenziale babilonese (Pettazzoni, 1936) ritroviamo l'espe-rienza di questa angoscia senza nome che si interroga sul significato del "male".

Implora Il supplicante di Babilonia:

Possa il male che è nel mio corpo,
nei miei muscoli e nei miei tendini
andarsene oggi.
Scioglimi dal mio incanto...
perché un cattivo incanto
e una malattia impura,
e la trasgressione,
e l'iniquità
e il peccato
sono nel mio corpo,
e uno spettro malvagio mi si è attaccato"

Nelle parole dell'orante si dispiega tutta la gamma delle metafore obbligate del "male" connesse con l'esperienza umana dell'angoscia e dello scacco nelle quali «l'ordine cosmo-biologico del "mal-essere" (infelicità, malattia, morte, scacco) si confonde con quello magico-religioso del "mal-fare", attraverso i temi simbolici del contagio fisico, della trasgressione, del peccato, del maleficio magico, della maledizione divina, della possessione demoniaca.» (Muscatello, 1979) I temi iniziali del contagio fisico, dell'infezione e dell'impurità si colorano nel corso della preghiera di valenze etiche, sconfinano in un sentimento di indegnità per culminare in una fantasia persecutoria di possessione ("e uno spettro maligno mi si e attaccato").
Come scrive Ricoeur (1960) a proposito dell'impurità, concepita come "macchia" che contamina il corpo ed esige di essere detersa attraverso lavacri rituali purificatori:

«La rappresentazione dell'impurità rimane nel chiaroscuro di una infezione quasi fisica che addita un'indegnità quasi morale. Questo equivoco non è espresso concettualmente, ma vissuto nella qualità del timore, semi-fisico e semi-etico, che aderisce alla rappresentazione dell'impuro».

Soffermandoci ancora sul testo di questa antica preghiera individuiamo altri aspetti significativi. Vediamo come il male sia avvertito profondamente radicato nel corpo: «il male che è nel mio corpo, nei miei muscoli, nei miei tendini...», è il primo lamento dell'orante. E' «malattia impura», infezione di impurità.
Questo male trova solo successivamente ulteriori declinazioni. Esso coincide anche con un «cattivo incanto», espressione di una intenzionalità malvagia esterna, ed è, contemporaneamente, trasgressione, iniquità, peccato.
Kirkegaard ha condensato con parole indimenticabili la condizione di angosciosa perplessità dell'orante babilonese: "E resta il tormento più grande quando un uomo non sa se la propria sofferenza sia una malattia o un peccato" (cit. da Jaspers, 1913)
Nella perdita di tutti i parametri di riferimento, in un mondo che è diventato indecifrabile, l'angoscia dell'orante babilonese appare assai simile all'angoscia destrutturativa nella fase del "trema" e della perplessità delirante. «Essa si situa fra l'esperienza naturale (il mal-essere, la malattia), quella morale (l'impurità, il peccato, la colpa) e quella magico-demoniaca (il maleficio, la maledizione)» (Muscatello, 1979).

Nell'approdare al termine di questa prima parte del lavoro vogliamo ora trarre, in prima approssimazione, alcune conclusioni.
Ci è parso di intravedere nell'esperienza ipocondriaca una delle testimonianze più arcaiche e dirette di ogni crisi antropologica radicale, o, se vogliamo dirlo con De Martino, di ogni «crisi della presenza»; la crisi psicotica, soprattutto all'esordio, ce ne rappresenta un estremo, esemplare modello. E' nella crisi psicotica che il tema ipocondriaco può attingere ad un lin-guaggio grandioso e sacrale, fondato sulla espressione estrema di un Mal-Essere che coinvolge l'intero universo cosmobiologico.
Le tematiche ipocondriache possono essere colte appieno nel loro spessore antropologico solo se si considera questo linguaggio del corpo e sul corpo malato (legato, paralizzato, contagiato, infetto, corrotto, combusto), una declinazione arcaica delle grandi metafore del male attraverso le quali si esprimono nell'uomo le più radicali esperienze di alienazione e di scacco.


NOTE

(1) Nel concetto di delirio ipocondriaco vengono da Benassi assemblati tutti i deliri che hanno come oggetto il corpo. L'Autore ne individua sei forme: 1) delirio di malattia; 2) delirio di trasformazione corporea; 3) delirio ipocondriaco-ansioso; 4) delirio di gravidanza; 5) delirio di antropopatia e di zoopatia interna; 6) delirio dermatozoico.)

(2) La fenomenologia descrittiva sembra avere in gran parte esaurito la sua spinta verso nuovi scenari conoscitivi in ambito psicopatologico. Tuttavia, in quanto disciplina soprattutto attenta ad esperienze interiori private e spesso indicibili, non potrà mai esaurire la sua funzione ermeneutica ed esigerà sempre rinnovate capacità di attenzione e di ascolto. Su questo problema occorre riflettere criticamente, ripensando anche di riaprire l'orizzonte fenomenologico oltre il limite della mera trasversalità descrittiva. Ciò potrebbe restituire nuova freschezza e originalità d'approccio alla psicopatologia.

(3) E' lo stesso Husserl (1950), in un passaggio significativo della Quinta Meditazione Cartesiana, a mettere in guardia contro i rischi della oggettivazione del corpo o di una sua parte: «Tra i corpi di questa natura - scrive - trovo il mio corpo nella sua peculiarità unica, cioè come unico a non essere mero corpo fisico, ma corpo vivente. Questo corpo intero è la sola ed unica cosa in cui io direttamente governo e impero». Husserl ci avverte che adottando il sistema delle scienze naturali non ci è dato di incontrare il corpo come noi lo viviamo, ma solo una sua degradata e parziale oggettivazione. E a proposito dei rischi dell'oggettivazione del corpo che corre il pensiero fenomenologico Binswanger scrive che «l'obiettivazione porta alla contrapposizione tra psichico e fisico; mentre noi vogliamo piuttosto “scavare un tunnel” al di sotto di questa contrapposizione». D'altronde già nel 1985 uno di noi (Gentili, Muscatello, Ballerini, Agresti), in un lavoro dal titolo «Psicopatologia del vissuto corporeo nella schizofrenia: studio clinico e fenomenologico dei deliri a tema somatico», aveva tentato di stabilire un ponte fra coscienza dell'oggetto e coscienza del corpo quali elementi di una correlazione fenomenologica indissolubile. In questo studio gli autori hanno inteso analizzare la fenomenologia dei deliri schizofrenici che hanno per tema il corpo, prescindendo volutamente dalla classica contrapposizione Leib / Körper, da essi considerata un falso problema. L'attenzione degli autori si è soprattutto rivolta alla descrizione e all'analisi di quelle esperienze che indicano un abnorme vissuto del proprio corpo come aspetto parziale e complementare di una abnorme esperienza della totalità dell'Io.
In questo lavoro si afferma che la netta dicotomia fra Leib e Körper, utilizzata dai fenomenologi per lo studio della psicopatologia del vissuto corporeo, è stata, in un certo senso, il risultato di una forzatura e di una equivoca interpretazione del pensiero di Husserl. I termini di Leib e Körper acquistano infatti valore operativo solo in quanto espressione di un'unica modalità di coscienza di cui il Leib rappresenta un momento limite approssimativamente il più vicino alla coscienza immediata di sé e il Körper rappresenta il momento approssimativamente estremo in cui il corpo diventa per la coscienza rappresentabile e fruibile come oggetto. In una prospettiva radicalmente fenomenologica l'utilità della terminologia Leib - Körper va vista solo come possibilità di ritrovare i diversi livelli della coscienza percettiva ed autopercettiva del proprio corpo senza dicotomizzarli. «Leib - conclude testualmente il lavoro - non è solo corpo immediatamente vissuto, ma già conosciuto ed esperito fin dall'inizio, Körper non sarà mai oggetto disanimato, devitalizzato, esclusivamente astratto, ma anche vissuto».


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