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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

Coscienza ed “erlebnis”. Fenomenologia psicopatologia e clinica dell’esperienza psicotica “statu nascendi”.

di Gilberto Di Petta*



SINTESI CRITICA
L’Autore, muovendo dall’ impostazione fenomenologica husserliana, ribadisce che ogni esperienza vissuta (Erlebnis), anche la più patologica, come il delirio o l’ allucinazione, è dotata di un’ intrinseca carica intenzionale. Questa carica intenzionale contiene in sé, non tanto l’oggetto esterno, quanto la stessa fondamentale possibilità di rapporto di quel-soggetto-lì, che sta vivendo quell’esperienza-lì, con il (con-quel-lì) mondo, con (quell’) l’altro (lì), con se-stesso. Ma, dove c’è intenzionalità, là vi è anche, indissolubilmente, coscienza, poichè l’ intenzionalità è, di fatto, il tratto vitale di unione tra la coscienza e il mondo. Ogni Erlebnis, dunque, è, per definizione intenzionale e cosciente, nel senso che è sempre diretto-ad-un-oggetto e che il suo ingaggio mondano si compie, dal principio alla fine, sulla scena madre della coscienza. L’Autore pone dunque la coscienza fenomenologica, entità alquanto desueta nella psicopatologia pragmatica più recente, al centro stesso della problematica psicopatologica, suggerendo la possibilità di concepire ogni singola esperienza vissuta come un vero e proprio atto di coscienza e quindi, di fatto, come un vero e proprio stato di coscienza. L’Autore riflette, a questo punto, sulla necessità di individuare una sorta di snodo cruciale tra i vari stati che transitano sullo sfondo della coscienza e ritiene di ravvisarlo in quella dimensione peculiare nota come stato crepuscolare. Lo studio dello stato crepuscolare è stato possibile, per l’Autore, a partire dal suo lavoro quotidiano con lo spettro di alterazioni della coscienza che sono fenomenologicamente (eideticamente) visibili nella variegata, intensa e complessa esperienza tossicomanica. Visto il carattere di intensità e di transitorietà dello stato crepuscolare è assai suggestiva, secondo l’Autore, la possibilità che esso costituisca una sorta di snodo cruciale tra diverse e caratteristiche configurazioni psicopatologiche, come l’atmosfera predelirante (Wahnstimmung) e l’esperienza-della-fine-del-mondo (Weltuntergangserlebnis), che preludono alla psicopatologia delle psicosi schizofreniche, ma anche come utile punto di répere nell’ampio spettro delle condizioni dissociative (le vecchie isterie), negli stati misti pertinenti ai disturbi dell’umore, nelle condizioni borderline che scompensano in episodi psicotici e come interfaccia delle condizioni psicoorganiche (stati tossicomanici, epilessie temporali, stati confusionali etc.) Non si pone più, quindi, il problema di una coscienza multipla poiché sono già di per sé multipli e diversi i vissuti (Erlebnisse) che, di volta in volta, incarnano la coscienza stessa. Vengono presentati, in questo lavoro, come casi clinici paradigmatici, un caso personale dell’Autore e “Il caso Elena” di G. Enrico Morselli, nei quali la transizione tra uno stato di coscienza ed un altro si configura come vera e propria transizione da un mondo ad un altro, da una vita ad un’ altra. Questo tentativo di radicale chiarificazione fenomenologica di ambiti psicopatologici considerati, da sempre, alla stregua di un confuso “porto delle nebbie” e, pertanto, poco frequentati dalla finezza operazionalistica delle attuali classificazioni anglofone, costituisce la premessa indispensabile per un passo ulteriore: la fondazione di un approccio terapeutico centrato su di una radicale fenomenologia dell’incontro. In entrambi i casi clinici descritti nel testo l’Autore sottolinea, infatti, l’innestarsi della ricognizione psicopatologica e della presenza terapeutica sulla comune radice dell’atteggiamento fenomenologico. Essere presenti-con il malato nelle fasi della sua transizione attraverso mondi altri e altre vite nel fuoco empatico ed intenzionale è possibile solo nella misura in cui, nel terapeuta, sono chiari i profili di certe esperienze di soglia che, attualmente, non trovano descrizione e cittadinanza in nessuno dei linguaggi psicopatologici e, meno che mai, in quelli nosografici accreditati presso la Comunità scientifica internazionale.


INTRODUZIONE
Allucinazioni e deliri, considerati dalla psichiatria classica sintomi primari, inderivabili, endogeni, scaturigini dall’organico più buio e insondabile, hanno rivelato, invece, nella propria evidenza fenomenologica di esperienze vissute, la loro intima struttura intenzionale e quindi, come tale, mondana, cioè la loro pretesa veritativa, conoscitiva e il loro intenso carico di senso e di significato. Nei termini di una psicopatologia (fenomenologicamente fondata) che intenda avere una articolazione dialogica e, quindi, in qualche modo anche terapeutica, è il caso di dire che il tentativo intersoggettivo è, in nuce, potenzialmente presente anche nella chiusura autistica più radicale, poiché anch’essa è riconducibile, in definitiva, ad un’ esperienza interna (Erlebnis) ed ogni esperienza interna, per definizione, si origina o, meglio, si coorigina, intersoggettivamente. Ogni vissuto, infatti, nascia già ingaggiato con il mondo, con l’altro-da-sé, con il soggetto che ne fa direttamente e esperienza. Ogni delirio, ogni allucinazione sono, in ultima analisi, un appello (Anrede) così ultimo, rifiutante e disperato, a cui perfino le cose, nella distanza infinita messa dagli altri esseri umani, a volte si sognano di rispondere. Anzi, talvolta accade che più sono forti la chiusura e lo scacco e più è pulsante, all’interno di questo blocco, la ricerca di incontro e di comunicazione (vedi Borgna, op. cit.). La sconvolgente capacità di penetrazione anche nelle roccaforti più autistiche che hanno mostrato gli psicopatologi fenomenologicamente fondati, da Binswanger a Benedetti, da Callieri a Borgna, da Tatossian a Van Den Berg, ci ha mostrato quanto elevato sia il potere di risoluzione di un apparentemente semplice vissuto che intenziona un altro vissuto, a sua volta intenzionate (e pertanto costituente) altri vissuti. Da qualunque parte venga esperito e qualunque vissuto sia, il vissuto (allucinatorio-delirante) esprime (è latore di) una carica intenzionale che, come tale, non può mai, per definizione, rimanere senza oggetto, ma, soprattutto, senza soggetto. A chiarificazione di ogni travisamento di ordine immanentistico (il vissuto prigioniero della realtà oggettiva ad esso preesistente) o, al contrario, idealistico (il vissuto come contenitore apriorico di tutta la realtà) sento qui la necessità di specificare ulteriormente che, secondo me, l’ intenzionalità che costituisce la struttura portante dell’esperienza vissuta contiene, non già l’oggetto in sé, quanto, piuttosto, la possibilità della relazione con l’oggetto. Questa possibilità è, innanzitutto, una possibilità trascendentale, in senso kantiano, ovvero possibilità costitutiva dell’oggetto stesso: è la possibilità-di-costituire-l’oggetto (esterno) in soggetto personificato dalla propria stessa interiorità. Ma, proprio in quanto possibilità, essa è anche soggetta alle vicissitudini a cui ogni possibilità, in quanto diversa dalla necessità, proprio per questo suo carattere possibilista è soggetta, dello smarrimento, dell’intoppo, dello scacco. Il carattere trascendentale dell’intenzionalità, ovvero il suo essere un a priori costitutivo, si esplicita proprio in questo suo aspetto possibilistico. L’intenzionalità, in altri termini, non dà affatto per scontata la presa sull’oggetto (Auffassung) o la presa dell’oggetto, bensì rappresenta il fondamento più concreto e naturale della possibilità che, quel soggetto che esperisce ha di entrare in relazione con l’oggetto della sua stessa esperienza. Per quanto riguarda, poi, le vicissitudini mondane di questa possibilità-di-relazione-con o, meglio, del gioco infinito dei possibili a cui va incontro la storia individuale del rapporto di ognuno di noi con il mondo, con se stesso e con gli altri, è ampiamente stato scritto nei trattati di psicopatologia, oltrechè abbondantemente rilevabile sul piano di confronto della psichiatria clinica. Questa premessa pone, dunque, in grande evidenza l’ intenzionalità e, attraverso di essa, lascia apparire nella sua evidenza fenomenologica quell’entità (vitale) che è la coscienza, di cui l’intenzionalità è l’aspetto portante, poiché ogni coscienza è, da Franz Brentano in avanti, sempre coscienza-di-qualcosa. In altri termini, la coscienza umana è definibile solo a partire dall’intenzionalità, così come l’esperienza vissuta (Erlebnis) è configurabile solo a partire dalla coscienza che la vive. La via, dunque, che dal vissuto, attraverso il disvelamento della sua peculiare struttura intenzionale, porta alla coscienza, consente di porre in chiaro la calzante coincidenza di esperienza vissuta e di coscienzialità, ovvero la compresenza di vissuto e di coscienza. Se ogni vissuto è intenzionale, se la coscienza è intenzionale, diventa chiaro che il vissuto è, in ultima analisi, il modo di manifestarsi della coscienza (di questa-coscienza-qui o di quella-coscienza-lì) nel qui ed ora dell’ esperienza-che-sto-vivendo. Dove c’è un’ esperienza vissuta lì vi è, innanzitutto, coscienza: niente è possibile vivere, ovvero esperire, fuori dalla coscienza, in quanto tutto ciò che è definibile come vissuto ha una sua intenzionalità, e l’intenzionalità è il predicato che consente alla coscienza di essere esattamente ciò che essa è, ma, soprattutto, come essa è. Su queste premesse le esperienze psicopatologiche vanno tutt-, a mio avviso, attentamente rivisitate come esperienze-della-coscienza (Bewusstseinserlebnisse) o di coscienza o coscienti, ovvero esperienze in cui il centro del campo è occupato da una coscienza-che-patisce, c-che-intenziona, c-che-si-mondanizza, c-che-si-temporalizza, c-che-coesiste. La patologia psichiatrica, allora, va riletta, a partire da questa impostazione, come patologia che affligge essenzialmente la coscienza umana, e la coscienza ridiventa, in questo modo, la scena madre della fenomenologia delle esperienze psicopatologiche. Questo consente di squadernare, ovvero di sventagliare la coscienza in una possibilità di varianti o stati. Ognuno di questi stati di coscienza che si colora di un sintomo vissuto assai pregnante (es. il delirio) è da considerare uno stato psicopatologico o, per meglio dire, un modo di essere di quella coscienza lì, un come di quella-coscienza-lì. Nel corso di questo lavoro, pertanto, il termine stato di transizione tenderà a perdere la sua specificità di stato-al-limite o di stato-di-passaggio tra due stati altri invece dotati di permanenenza e di stabilità, e tenderà a diventare la metafora viva del modo in cui si articolano, dentro una qualunque sintomatologia psicopatologica, esperienza vissuta e coscienza, ovvero su come si dà, alla mia osservazione, quel Dasein che vive quel tipo di esperienza lì. In particolare, nel corso di questo lavoro, la visione sarà focalizzata su uno di questi stati o modi, quello che classicamente è noto come stato crepuscolare. In questo studio lo stato crepuscolare sarà completamente ridefinito e sarà considerato come la feritoia attraverso la quale guardare una serie di movimenti della coscienza verso-, per- e da- altre esperienze psicopatologiche, in particolare quelle che caratterizzano lo status nascendi psicotico.


I. COSCIENZA ED “ERLEBNIS”
Pongo al centro del campo, adesso, come ho premesso, la coscienza, come una sorta di tema di fondo (Grundtheme) o, come in seguito meglio tratteggerò, di linea di fondo (Grundlinie), da cui prende le mosse questo mio percorso e a cui tornerò continuamente per orizzontarmi e ripartire. Ignorata dagli psicoanalisti come mero teatro di un copione altrove scritto, negletta dai comportamentisti come camera oscura del comportamento, predata dai cognitivisti come schermo/display di funzioni e strutture più o meno complesse, la coscienza è rimasta, per lungo tempo, l’ultima terra di nessuno. Antica roccaforte dell’idealismo e vetta attuale delle neuroscienze, la coscienza fenomenologica, ovvero la coscienza nel suo significato originario greco di syneidesis, è finita, ad un certo punto, come la cenerentola della favola: protagonista inattesa di una splendida festa, ma solo fino a mezzanotte. Le stesse nosografie psichiatriche, quelle tradizionali e quelle correnti, hanno sempre posto il coinvolgimento della coscienza come discrimine tra organicità e funzionalità della psicopatologia stessa, con la sola eccezione del francese Ey, non a caso permeato, nonostante la sua teoria si chiami organo-dinamismo, di fenomenologia penetrata nella cultura clinica francese tramite Bergson, Sartre, Merleau-Ponty e Minkowsk. L’opinione di Eugen Bleuler, al quale dobbiamo ancora, malgrado tutto, il costrutto clinico e concettuale di schizofrenia (1911), era che le malattie mentali potessero avere luogo sono in assenza di una vera e propria alterazione dello stato di coscienza. Viceversa, la presenza di un’alterazione dello stato di coscienza deponeva per un’ipotesi etiopatogenetica chiaramente organica. E’ evidente, qui, che il termine coscienza si è prestato dall’inizio ad una grossa confusione semantica, che tra l’altro perdura. Non è certo la coscienza come vigilanza quella che qui interessa. Nessuna patologia sintomatica, non soltanto quella psichiatrica, si manifesta in assenza di vigilanza. La diminuzione quantitativa della vigilanza, dalla confusione mentale fino al coma è, di per sé un sintomo che annienta tutti gli altri, ed è indice di una compromissione diffusa e grave dell’encefalo su base dismetabolica, traumatica, tossica e infettiva. La coscienza a cui alludo in questo lavoro è quella che solo la pregnanza della lingua tedesca rende nella sua struttura, nella sua forma e nella sua ontologia : Bewusstsein. La particella Be qui indica il moto verso un luogo, il carattere prossemico, intenzionale e approdante-a-qualcosa della coscienza stessa, basta pensare alla sua funzione polarizzante in parole come Be-wegung, che significa movimento e Be-gegnung, che significa incontro. Ma anche ad un termine, ancora più calzante, come Be-sinnung, che significa tornare alla consapevolezza, tornare alla coscienza. La desinenza Sein, come è noto, significa essere. L’essere tout court. Sono note, oltretutto, le fortissime risonanze che questa parola, essere, evoca nella storia della fenomenologia, della filosofia dell’esistenza, nella storia del pensiero occidentale in generale. Il termine greco che significa la coscienza è Syneidesis che, a ben vedere, è ancora più esplicativo della valenza che la coscienza umana, fenomenologicamente intesa, configura: la particella syn sta, qui, per concorrenza o concordanza, concomitanza e la parola eidesis, che intrappola il termine eidos (che contiene il tema id del verbo orao, che significa vedo) sta a significare l’attività noematico-eidetica, ovvero l’attività intuitivo-immaginativa che caratterizza la vita umana nella sua essenza. Dove l’immagine, travalicando la separazione interno-esterno, non è altro che l’insieme (syn) di coscienza e di mondo (del vissuto e del suo oggetto).La particella syn greca qui sta anche per indicare la comunione ma, vorrei dire, la concomitanza di coscienza e mondo. Dove c’è coscienza là c’è mondo. Con il greco eidos, forma, si esprime ciò che in tedesco è reso come Sein, l’essere. La forma, in altri termini, è sostanza. Perché la forma è idea. La forma è presa ontologica, è organizzazione plastica e viva della materia. La forma è materia vivente. Ma eidos è, da orao (oida), anche visione. Quindi, fenomenologicamente, è visione costituente, organizzatrice, compenetrante. I dati dell’esperienza sensiblile (sinnliche Erfahrung) sono confezionati, sul piano coscienziale, in forme dell’esperienza, ovvero in vissuti (Erlebnisse). Allucinazioni e deliri sono esattamente e propriamente questo: forme della coscienza vissuta, che, in quanto tali, contengono il mondo o, per meglio dire, contengono la premessa della relazione con il mondo o contengono ciò che resta del rapporto con il mondo. Come si può notare mi vado inoltrando lungo una via sempre più complessa. E’ evidente, allora, la straordinaria pregnanza semantica della parola coscienza: qualcosa che intrappola in sé l’essere stesso, al tempo stesso come essere-relato-a-qualcosa-dentro-di-lui-che-contiene-la –possibilità-del-rapporto-con-il-fuori-di-lui. La perifrasi italiana è lunghissima. Mi riferisco, ovviamente, qui, alla coscienza intenzionale che, in quanto tale, è coscienza costituente e costitutiva. Ovvero è coscienza impregnata, al tempo stesso, di me e di altro, di me e di mondo. L’ autentico atto di coscienza, dunque, alla fine, è il vissuto. Il vissuto è, al tempo stesso, atto-di-coscienza se còlto nella sua forma dinamico-intenzionante, e stato-di-coscienza se isolato in forma per così dire pura. Il vissuto, in sostanza, è sempre la coscienza-di-qualcosa. Quindi anche in un’emozione, in quanto vissuto, noi ritroviamo, tutta intera, la coscienza del mondo.
Ma come si dà la coscienza-di-coscienza?
E’ difficile cogliere nel suo insieme lo stato di coscienza cosiddetto ordinario o normale. Potremmo dire, forse, che non c’è un definito stato ordinario di coscienza. E’ rappresentabile come un flusso di vissuti. E’ la corrente degli Erlebnisse. Tutto il pensiero di Bergson e di Husserl sottende questa impostazione. Quando possiamo cogliere un vissuto in maniera più nitida allora finisce che ci troviamo, in quel momento, di fronte ad uno stato ben definito della coscienza. Verosimilmente, in questo caso, si tratta di uno stato non ordinario della coscienza. La tranquilla ordinarietà che consente, come diceva Binswanger, di far sì che il mondo accada, diventa discontinua. Quello che nel linguaggio comune è la fissazione Binswanger la esprime come Verstiegenheit, ovvero esaltazione fissata. La corrente continua dei vissuti si inceppa. Questo stato dell’inceppamento in tedesco si dice Zu-stand. A qualcosa che offre caratteristiche omogenee di durata come la coscienza vissuta, si oppongono stati di coscienza tali da perturbare lo scorrere fluido della vita interiore del soggetto e che consentono a noi osservatori di coglierlo attraverso una risonanza tra quello stato particolare e qualcosa dentro di noi che quello stesso stato richiama.


II. ALLUCINAZIONE E DELIRIO : L’ALTRA COSCIENZA
Alla rappresentazione di una coscienza normale, ovvero di una coscienza della koinonia binswangeriana, una coscienza che lascia accadere tranquillamente il mondo intorno a sé e dentro di sé, si contrappone un’altra coscienza, ovvero una coscienza “altra”. Questo “altra” è un termine carico di tutta la storia fenomenologica. Altra coscienza è la coscienza dell’ alter recuperato, appunto dalla psicopatologia di radice fenomenologica, alla dialogia del senso. L’ “altra” coscienza ovvero la coscienza dell’ Alter è una coscienza segnata da stati “altri”. Ma cosa sono questi stati? E che senso ha parlare di stati altri anziché di sindomi nosografiche o di sintomi? Rimettere in gioco, qui, la coscienza, ovviamente, non avrebbe avuto senso se la coscienza doveva accontentarsi di essere un puro nomen. Se la psicopatologia decide di lavorare sulla coscienza allora la coscienza deve giocare un ruolo di primo piano nell’ incontro con lo psicotico. A questa idea di riconsegnare gli stati psicopatologici alla pienezza semantica di stati altri di coscienza, ovvero di forme (Gestalten) della coscienza alterata, ci sono arrivato per una via poco ortodossa, ovvero attraverso la clinica, la fenomenologia e la psicopatologia degli stati tossicomanici, poiché in quelle situazioni mi si è parata davanti, in tutta la sua problematicità, la coscienza, più che il vissuto. Debbo chiarire, innanzitutto, che le cose cambiano molto se si considerano delirio e allucinazione come sintomi discreti o epifenomeni o se si considerano gli stessi come stati altri di coscienza. Stati altri di coscienza significa, qui, mondi, complessi e pluriarticolati. Il mutamento del punto di vista si traduce, quindi, anche in un mutamento di approccio. Considerando ogni sintomatologia complessa, come il delirio o l’ allucinazione, uno stato (una forma) che transita sullo sfondo della coscienza, ovvero quella determinata coscienza in quel momento lì particolare, ogni volta che ci si rapporta ad un vissuto ben caratterizzato per forma ed esperienza si può dire di starsi trovando di fronte ad uno stato di transizione o, meglio ancora, uno stato in transizione poiché è uno stato di coscienza che di per sé è qualcosa di fluido cioè in transito continuo. E’ uno stato, il sintomo psicopatologico vissuto, che transita per dare luogo, campo e tempo, ad un altro stato (ad un altro sintomo psicopatologico vissuto). E quando non scorre, il sintomo diventa la vita stessa del soggetto (il suo mondo), impedendogli fattivamente di declinarsi nel mondo secondo altre modalità. Questo studio prosegue, ora, con il tentativo di caratterizzare uno stato di transizione particolare e con una funzione a mio avviso peculiare tra gli stati di transizione della coscienza: lo stato crepuscolare. Il contatto quotidiano con centinaia di tossicomani mi ha indotto a considerare l’esperienza vissuta dello sballo, termine passe-partout del gergo tossicomanico di valenza immediata e universale in tutte le sottoculture e controculture imperniate sull’uso di stupefacenti, come esperienza inscrivibile pienamente nella dimensione crepuscolare della coscienza.
Sono partito, per questa mia osservazione, da studi pioneristici condotti da Callieri nel 1954 con la somministrazione di LAE 32 (monoetilamide dell’acido lisergico) a soggetti volontari e dalla sua descrizione, ad un certo punto, di una condizione da Callieri definita di calma crepuscolare. L’esperienza dello sballo è descrivibile, fenomenologicamente, come il raggiungimento di una condizione di coscienza liminare, di stato sottosoglia a vari altri stati, in cui tutto è ancora perfettamente percettibile ma al livello minimo e quindi con eliminazione della possibilità di ogni impatto troppo sgradevole ma anche troppo gradevole. Il crepuscolo o l’ aurora, in effetti, sono atmosfere lontane dai toni violenti e dalle azioni incisive del giorno o della notte. Poter vivere sempre nella tenerezza del crepuscolo rappresenterebbe, per certi aspetti, una condizione climatica ideale per la fragilità che è costitutiva della condizione umana. Il cosiddetto flash, che segna l’esperienza drogastica del primo periodo, quella della cosiddetta luna di miele, in realtà poi tende progressivamente ad attenuarsi, con lo svilupparsi della dipendenza e della tolleranza. Ciò che invece, prende consistenza fino a segnare per sempre la condizione tossicomanica, è proprio lo sballo, lo stare fatti, che, da come io ho potuto studiare, è configurabile come un’esperienza crepuscolare. Anche da un punto di vista estetico e, di questo la letteratura e l’arte ci dànno ampie conferme, lo stato crepuscolare e/o quello aurorale sono diventati tematiche ricorrenti e ricche. In proposito riflessioni di un valore straordinario sono state fatte da Gaston Bachelard in un suo lavoro del 1960 “La poetique de la reverie”. In termini di psicopatologia fenomenologica quello che i poeti chiamano reverie, ovvero la fantasticheria e lo stato in cui la coscienza si abbandona all’estasi e alla malinconia delle immagini è proprio lo stato crepuscolare. E’ questo, il momento dello stupore e della meraviglia, dell’abbandono e del guizzo improvviso che scuote, in cui il soggetto si percepisce in armonia arcana e profonda con il cosmo, ma è anche il momento solcato dalla sottile e pervasiva inquietudine dell’attesa. E’ un momento transitorio e stranamente potenziale. Creazione e distruzione si mescolano, qui, in un indistinguibile caleidoscopio di colori e di forme. Bachelard distingue nettamente la reverie, che è una sorta di sognare con gli occhi aperti, dal sogno vero e proprio. Nella reverie il soggetto è cosciente, vigile, e assiste alla propria produzione immaginativa, nel sogno il soggetto è passivo, paralizzato sul piano della motilità finalizzata, e agito da contenuti che si impongono all’assenza dello stato di vigilanza. I comportamenti drogastici dell’ ultima generazioni trovano non a caso il loro ambientamento nei rave-party. Il termine rave significa, in inglese, deriva, trascinamento di un’esperienza fino al suo deragliamento, delirio, entusiasmo fino all’esaltazione, estasi. Il rave nasce proprio come risposta all’interdizione della festa durante la notte. L’incontro proibito, qui, forzando la metafora, è quello con l’alba. L’ after-hour prolunga, allora, la magia della danza sfrenata e ritmata dalla techno fino all’alba e a volte oltre ancora, fino a toccare di nuovo il tramonto. Da tramonto a tramonto, passando per la cruna dell’alba. L’esperienza della soglia chiaroscurale tra il buio, la luce e il buio, coglie la coscienza in uno stato di esaltazione estatica che la sostanza chimica induce rapidamente e sostiene oltre la delicatezza della transizione naturale. Il problema è quindi quello della gestione dello stato di trance, l’uscita che molto spesso esita nel down. Mi sono reso conto, a poco a poco, che nell’incontro con il tossicomane io mi trovo di fronte, sempre, ad una coscienza umana di cui colgo lo scarto di risonanza con la mia stessa coscienza perché la sua è coscienza alterata (altra) dalla presenza di un corpo estraneo, che è la sostanza. Sia che la sostanza sia presente sul piano biochimico, sia che la sostanza sia presente sul piano fantasmatico-immaginativo, la sostanza diventa un costituente invariante della coscienza tossicomanica. Rispetto all’incontro con lo psicotico (Begegnung) l’incontro con il tossicomane è, piuttosto, un confronto o, meglio, uno scontro (Gegenuber) tra orizzonti non assimilabili perché uno dei due ha violato il comune denominatore dell’appartenenza alla risonanza emotiva naturale della coscienza umana ordinaria. Rispetto a questa estraneità, ovvero rispetto alla presenza di un elemento costituente estraneo (la sostanza d’abuso) nella coscienza dell’altro che ho di fronte a me che presuppongo essere come me, la mia coscienza appercepisce, coglie e vede una commistione di organico e di inorganico. Ci sono, cioè, parti della mia coscienza vissuta che entrano in risonanza con la sua coscienza vissuta e parti che, in questo vis-a-vis delle coscienze, non entrano in risonanza, ovvero che rimangono mute. Il tossicomane cronico entra in uno stato di parziale mineralizzazione della mente che è poi, in definitiva, lo stesso stato nel quale entra lo psicotico cronico trattato con neurolettici. L’importanza della descrizione accurata dello stato crepuscolare della coscienza deriva dal fatto che, a mio avviso, esso può essere assunto come feritoria di collimazione di numerose condizioni psicopatologiche, oltre quelle tossicomaniche, nonché, addirittura, come posizione privilegiata per la fenomenologia dello sguardo. L’esperienza dello stato crepuscolare è ciò che intendo, in questo lavoro, come linea d’ombra della coscienza.


III. STATO CREPUSCOLARE : LA “LINEA D’OMBRA”
Per coscienza crepuscolare (Daemmerzustand-Daemmerung-zustand) si intende, classicamente (Jaspers, Mueller, Sscarfetter), una condizione in cui il campo di coscienza del soggetto è ristretto, ovvero è coartato attorno a pochi o, addirittura, ad un solo contenuto. Non c’è, in altri termini, una vera e propria diminuzione della vigilanza, tanto è che il soggetto è in grado di compiere perfettamente movimenti orientati e finalizzati nello spazio (stato crepuscolare “orientato” o a coscienza lucida). Il campo della coscienza, inoltre, può nuovamente dilatarsi o allargarsi in concomitanza o in occasione di fattori improvvisi subentranti e allarmanti. Il termine crepuscolo, come è evidente, si riferisce ad un determinato momento della giornata, cioè il passaggio tra la luce e l’ombra. Purtroppo nella lingua italiana il crepuscolo è, univocamente, il tramonto. Nella lingua tedesca il termine Daemmerung è, propriamente, il chiaroscuro, ovvero l’istante della transizione tra la luce e l’ombra e viceversa, cioè dalla luce all’ombra nel caso del tramonto ma dall’ombra alla luce nel caso dell’aurora. Tanto è che, Daemmerung se accompagnato al sostantivo Morgen, che significa mattino, caratterizza l’aurora, ovvero il passaggio dall’ombra alla luce. Se accompagnato al sostantivo Abend esso caratterizza il tramonto, che è, invece, il passaggio inverso dalla luce all’ombra. Più che coscienza crepuscolare, allora, la dizione corretta per indicare lo stato di cui sto discutendo, sarebbe coscienza chiaroscurale. Il termine Daemmer, inoltre, in tedesco, significa anche argine, limite, soglia. Il punto, allora, è proprio questo. Si potrebbe anche chiamare la coscienza crepuscolare come coscienza liminare, ovvero coscienza di soglia, coscienza di confine. Bisogna tenere in mente, in questo momento, la linea dell’ombra, che quella più nitida, che si staglia alla transizione tra la luce e il buio. Penso all’orizzonte, nel caso dell’alba o del tramonto sul mare, ma anche al profilo tagliente di una montagna, nel caso di alba o di tramonto in montagna. Ci troviamo, in altri termini, di fronte al più labile degli stati di coscienza, in cui inizio e fine si toccano. E’ una condizione di intensa acutezza percettiva che, proprio per questo, non può durare a lungo. Mi vengono in mente due espressioni pregnanti, una è di Minkowski : “l’ora che verrà”, l’altra è di Celan: “l’ora che non ha sorelle”. Come è evidente la caratterizzazione di uno stesso momento, il crepuscolo della luce, prende due vie opposte di fuga, una precipita al futuro, quindi attesa messianica della nuova luce o angoscia dell’imminente buio, l’altra si cristallizza sull’ultimo istante, l’ultima ora, l’ora della fine. La condizione crepuscolare, ovvero la linea d’ombra della coscienza, della coscienza, per queste sue caratteristiche critiche, si presta a consentirci la comprensione di alcuni momenti salienti da un punto di vista psicopatologico.
1) Il campo di coscienza dello stato crepuscolare è ristretto. Gli oggetti fissati dallo sguardo e su cui è diretta l’attenzione sono limitati come numero e come caratteristiche. Le cose vengono còlte dalla coscienza nei loro profili fenomenici assolutamente essenziali. E’ la danza delle essenze, delle superfici che si intersecano, delle sagome che si stagliano nitide nella luce residua e che si sovrappongono fino a confondersi. La fissazione intensa su alcuni oggetti, in particolare, piuttosto che di altri, può produrre, sul piano percettivo, vere e proprie illusioni di movimento. Questa illusione di movimento o questa messa in movimento dell’oggetto fissato possono condurre ad una sua progressiva diffrazione, disintegrazione e quindi sparizione dal campo (allucinazione negativa). Questo è il momento delicatissimo in cui un oggetto può trasformarsi in qualcosa di completamente altro, dando luogo, ad esempio, ad allucinazioni dismorfiche o metamorfiche. Lo stato chiaroscurale della coscienza è, dunque, uno stato favorente una visionarietà, illusioni o allucinosi. Dissolvendosi l’oggetto, cioè, si sottrae alla fissazione, lasciando uno sfondo libero che viene popolato da un’altra figura. Sarebbe questa la volta dell’ allucinazione vera e propria. Come, del resto, è noto dai fenomeni psicopatologici produttivi presentati frequentemente dai soggetti affetti da deficit delle vie sensoriali specifiche (allucinazioni dei sordi e dei ciechi, o tattili in soggetti con disturbi della sensibilita) il nostro encefalo tende a produrre in modo compensatorio in luogo di un deficit. Lo stato di coscienza crepuscolare può essere definito deficitario in quanto offre una riduzione del campo ed un’attenuazione del fuoco della coscienza e una conseguente accentuazione del fuoco su alcune cose ristrette con conseguente facilitazione alla produzione allucinatoria e delirante. Lo stato crepuscolare della coscienza è, anche, lo stato farmacologicamente indotto da tutti i trattamenti psicofarmacologici, ovvero lo stato nel quale vengono mantenuti tutti i soggetti con sintomatologia psichiatrica passibile di trattamento. I farmaci psicotropi, BDZ, NL, AD, e litio, tendono, infatti, a riportare la coscienza del soggetto verso la condizione crepuscolare e a fissarlo in modo grossolano a questa condizione. Ovvero tendono a mettere il soggetto in una campana crepuscolare e a lasciarcelo a meno che non subentrino fattori critici particolari.
2) Lo stato crepuscolare, senza la componente di ansia o di angoscia, dovrebbe essere, ancora, lo stato di coscienza del saggio, dell’asceta o, addirittura, dello psicopatologo fenomenologicamente fondato nell’atto della sua intuizione clinica o visione eidetica. Non a caso Husserl parla di adombramenti. Il termine husserliano di Abschattungen si trova ripreso nel Sartre dell’ Immaginaire, e tradotto come profilarsi delle cose. La coscienza umana coglie gli oggetti del mondo esterno in modo particolarmente efficace attraverso i loro profili, ovvero attraverso le loro superfici sporgenti. Ma il termine husserliano è ancora più caustico, perché contiene la radice del termine Schattung, che significa ombra. Il chiaroscuro allora è la condizione di visionarietà di base della coscienza immaginativa, ovvero della coscienza eidetica, ovvero della coscienza vissuta. Lo stato crepuscolare della coscienza, dunque, dà conto della particolare acuità dello sguardo fenomenolgico, capace di tratteggiare le linee essenziali di un paesaggio, proprio come quando questo stesso va sfumando al tramonto o si va configurando all’alba. E’ come la visione che si può avere in un paesaggio notturno dopo che è stato attraversato dalla luce radente di un lungo e subitaneo lampo. La suggestione sta accanto all’illuminazione, l’addensamento dell’ ombra sta accanto alla chiarezza delle superfici contrastate. Quelli che sono chiari, immediatamente, sono i contorni delle cose. Una serie di stati altri di coscienza si risolvono in questo, come, ad esempio, lo stato sognante (dreamy state) di alcune epilessie temporali, o quello stato descritto da tanta letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento, e ripreso, non a caso, da Gaston Bachelard, a proposito della poetica della reverie. Lo stato crepuscolare può quindi essere definito come una condizione di partenza e di passaggio, una sorta di crocevia fondamentale, per tutte le grandi forme della psichiatria clinica: schizofrenia, mania e malinconia, in quanto stato di transizione, di fine e di inizio, di sospensione della luce e di soffusione della luce residua. Stato di transizione tra l’organico e lo psichico, da una parte, tra l’organico e l’inorganico, nel caso dell’abuso di sostanze. Stato di coscienza molto vicino a quello dello psicopatologo fenomenologicamente impostato quando, a fronte di un fenomeno, inizia a praticare una serie di riduzioni o di epochizzazioni che fanno avanzare il livello della conoscenza compenetrativi per sospensioni progressive, per via parentetica, fino alle ossa, anzi fino alla carne e alle ossa del fenomeno che gli si ostende di fronte. Ad un certo punto, quando la restrizione del campo di coscienza raggiunge la sezione più stretta dell’imbuto, allora può verificarsi il fenomeno del rovesciamento dell’imbuto stesso: ovvero il campo ristretto della coscienza torna improvvisamente a dilatarsi, ma si è approdati su un altro tipo di orizzonte conoscitivo. E’, quello di approdo e di apprensione, un orizzonte di senso, dentro il quale è possibile anche una dimensione comunicativa, un discorso di essenze, di sguardi, una comunicazione intima. La criticità estrema e la volatilità dello stato crepuscolare della coscienza ne fa, per forza di cose, uno stato di transito, che apre, a sua volta, il passaggio tre ciò che lo precede e ciò che lo segue. Da qui risalta la descrizione fenomenologica di una serie di stati di esordio della schizofrenia che, propriamente, nello stato crepuscolare della coscienza, potrebbero trovano un momento fondamentale del loro darsi fenomenico, in quanto essi stessi, per definizione, preludendo, si configurano come vera e propria sindrome di passaggio (Durchsgangsyndrome). Mi riferisco, evidentemente, qui, all’esperienza (crepuscolare) della fine del mondo (Weltuntergangserlebnis) e a quella (aurorale) dell’ atmosfera sorgiva del delirio (Wahnstimmung). Descritte magistralmente da Callieri queste due incerte ed deflagranti esperienze psicopatologiche sembrano documentare passo passo gli estremi di questo discorso. Questo spettro esperienziale, inscritto nello stato crepuscolare della coscienza, esita nella coscienza delirante e allucinatoria come mondo altro dal mondo, altro mondo nel mondo, mondo che accade dopo che è finito il mondo. Di fatto, lo stato crepuscolare della coscienza, nel DSM IV è rubricato tra i DDNAS (Dissociative Disorder Not Otherwise Specified, cod. 300.15), mentre l’ Amnesia dissociativa, la fuga dissociativa, il disturbo dissociativo dell’identità, il disturbo di depersonalizzazione, trovano nel capitolo dei disturbi dissociativi un’ampia e dettagliata ricognizione descrittiva. Non è un caso che lo stato crepuscolare, data la sua complessa strutturazione e le sue varianti, sfugga ad un incasellamento preciso e finisca nel calderone dei Disturbi dissociativi non altrimenti specificati, tra i quali figurano, tra gli altri, il disturbi dissociativi tipici dello stato di trance, tra cui quelli descritti dalle osservazioni transculturali : l’ amok e il bebainan (Indonesia), il latah (Malesia), pibloktoq (Artico), l’ ataque de nervios (America Latina) e possessione (India), per non parlare di quelli messi in evidenza dai nostri antropologi come il tarantismo, o i casi di indemoniamento o di fattura tipici ancora delle culture latine rurali. L’ambivalenza dello stato crepuscolare, rispetto, ad esempio, alle potenzialità cognitive insite in esso, si evidenzia da quegli stati di concentrazione assorta come il Satori del buddismo Zen o il Samadhi dello Yoga. Non troppo diversamente si comporta il sistema classificatorio dell’ICD 10, che tra le Sindromi dissociative (da conversione, cod. F 44) rubrica l’ Amnesia dissociativa, la Fuga dissociativa, lo Stupore dissociativo, le Sindromi di trance e di possessione, le Sindromi dissociative motorie, le Convulsioni dissociative, l’ Anestesia e la perdita sensoriale dissociative, le Sindromi dissociative miste, e, tra le Altre sindromi dissociative la Sindrome di Ganser e la Sindrome da personalità multipla.


II. LO “STATUS NASCENDI”: “APOCALISSI” E “APOFANIE”.
L’esperienza psicopatologica e clinica della Wahnstimmung (atmosfera sorgiva del delirio) nel suo carattere di ambiguità tragica e liminare tra follia e norma, è un’esperienza di estremo rilievo sul piano antropologico, perchè consente di toccare con una sola presa il vissuto-della-fine ed il vissuto-dell’inizio : il vissuto-di-fine-del-mondo (Weltuntergangserlebnis) dello schizofrenico, la sua transizione per universi denaturati e privi di significato, la ricostruzione delirante di una nuova e cristallizzata alba (Wahnstimmung). Qui non c’è più tempio, perché Dio rende inutile ogni tempio. Non c’è luce, perché Dio è luce. In questa luce immobile e assente risuonano dunque con particolare accento le ultime parole del testo : il succedersi dell’invocazione Vieni presto, Vieni, seguite dalla promessa Vengo! Non si capisce bene, infatti, chi debba venire ancora se sul monte Sion è ormai calata la città celeste. A meno di non pensare alla trepida attesa degli altri, non toccati dalla visione di Giovanni. Dunque alla confusione, all’ansia umana di chi intravvede soltanto. L’ansia per il realizzarsi di una promessa. Per la fine. E l’arrivo. (Montefoschi, 1999, Corriere della sera, 8-5-1999, pag. 33 “Apocalisse : la resa dei conti tra cielo e terra”). Nell’esordio schizofrenico si celebra fino in fondo la scoperta del nulla e al contempo l’ organizzazione di un vissuto di sopravvivenza, nella forma psicopatologica e umana del delirio. Seguire lo schizofrenico in questa incredibile transizione significa, allora, tentare di tracciare il profilo di un altrove altrimenti irraggiungibile : questo è ciò che intendo qui con la particolare espressione di fenomenologia dell’ autre monde. E’ vero, questo dello status nascendi psicotico è una sorta itinerario impossibile, perché supera un sentiero che ad un tratto si interrompe, quello della logica, eppure esso è stato vissuto tappa per tappa, da tutti coloro che hanno varcato la soglia schizofrenica ; allora esso è, al tempo stesso, qualcosa di immaginario e di reale, come solo l’abbraccio con un’ ombra può essere : un qualcosa che contemporaneamente illusorio ed esaltante. E tuttavia questo viaggio della follia schizofrenca non è un mito, anche perché intere vite si sono giocate così, cristallizzandosi attorno al nocciolo epico e tragico di un avvenimento che ha cambiato per sempre il proprio corso. Questa dell’ autre vie e dell’ autre monde, in fondo, non è neanche una favola. La distanza che separa il paese delle meraviglie di Alice e il paesaggio alienato degli schizofrenici, in effetti, è abissale. Lì la descrizione è anaffettiva e apatica, a tratti noiosa ed intellettualizzata, qui c’è ancora tutto talmente inondato di pathos, che non si riesce a costituire nè un vero soggetto del racconto, nè il vero luogo da dove si racconta.

Leila, giovane schizofrenica che ho seguito per anni, mi ha raccontato questo suo viatico impercorribile. A lei e al suo introvabile autre monde queste riflessioni sono dedicate. La scrittura che segue tenterà di ricalcare le rapide e le cesure che hanno segnato questo percorso. “Mi chiamo Leila. Ho venticinque anni. La mia...la mia esperienza, l’esperienza che ho vissuto io è a dir poco straordinaria, cioè è fuori del luogo, completamente fuori del normale, anzi fuori del naturale, perchè riveste un poco la sfera del sovrasensibile, quella che Kant chiama “noumeno”. Mi sono trovata, all’improvviso, come se io non...non ci fossi, come se mi fossi completamente astratta dalla realtà, e fossi entrata veramente nella sfera celestiale, dove ho visto cose...cose ultraterrene. Sono entrata nel regno dell’oltretomba.Io ero viva ed ho visto soltanto delle ombre davanti a me che mi guardavano, mi fissavano e venivano verso di me. Io ho avuto molta paura di queste ombre, però loro non ne avevano di me, anzi venivano verso di me. Soltanto io ho avuto paura di queste ombre. Mi sembra di aver risorto delle persone, attraverso un braccialetto che io tenevo al braccio, ma che non ho mai portato. Questo braccialetto è comparso all’improvviso sul mio braccio e, mentre me lo passavo da sinistra a destra e da destra a sinistra per risorgere due persone, ho capito che il fenomeno della resurrezione è vero. Il fenomeno della resurrezione può avvenire, deve avvenire in qualche giorno, in qualche luogo, in qualche tempo stabilito, forse nel giorno dell’apocalisse questo dovrà avvenire senz’altro. Me ne sono accorta subito che stavo risorgendo qualche persona che stava per morire, forse mia madre, forse mio padre: sentivo un rantolare di persona che sta veramente per morire. E queste ombre venivano, tutte, verso di me, soprattutto c’era l’ombra di un uomo, di un uomo molto grosso, con un libro in mano, con un libro in mano e che mi cercava a tutti i costi, per cui io ho avuto molta paura, però mi sono resa conto che si trattava soltanto di un amico mio, di un amico, di un ragazzo a cui io ho voluto anche bene, è come se mi cercasse, però io ho avuto molta paura che questa persona si avvicinasse a me, perchè era un’ombra, era soltanto un ombra, non so, erano tutte ombre ed io mi sentivo lì, al buio. Poi, all’improvviso, è accaduto qualcosa ancora di più straordinario, è come se non ci fosse più la luce per lungo tempo.... ho visto dei fantasmi e dopo un po' di tempo è comparsa la luce, come se fossero passati...e fu la luce, e fu il giorno..i passi della bibbia e della genesi. Come se fosse di nuovo la genesi, e c’è stata la luce, ho visto il cielo che era cambiato, era molto, molto, molto più azzurro, più limpido, più sereno, ho visto le nuvole come se si aprissero, e non ho visto le stelle, io che ho l’abitudine di guardare le stelle prima di andare a letto, e non le ho viste le stelle, ho sentito delle voci, erano le voci degli dei che mi chiamavano, e mi hanno detto anche di pentirmi... “Leila..Leila...pentiti...” Però non so di che cosa, forse ho fatto del male a qualche dio, io non lo so, avrò violato qualche sacra divinità che io non lo so, ah..., forse l’ospitalità, che era sacra per gli dei, e quindi l’ospitalità, avrò violato questo..questo fenomeno. Questo è il fenomeno che io ho vissuto di cui veramente sono rimasta impressionata, e da cui sto cercando di riprendermi, perchè, secondo me, veramente è stato un fenomeno, a parte sovranormale, però è stato un fenomeno straordinario”.

Qual è allora il limite del passaggio, o per meglio dire il passaggio proibito tra la mia coscienza immaginativa, come chiama Sartre questa capacità, e gli universi sensoriali di Leila? Che cosa mi fa dire che tutte le volte che ho sognato o fantasticato di fare un viaggio come quello di Leila poi, in realtà, non l’ ho mai fatto, mentre invece che cosa fa asserire a Leila, con una incontrovertibile certezza, di essere stata nel regno dell’oltretomba, viva, tra le ombre dei morti. E’ chiara, tra tutte queste peregrinazioni ricognitive, almeno una cosa : che Leila crede nella verità della propria esperienza e, dunque, premesso questo, specifico subito che anch’io credo alla verità del suo vissuto. Poste queste premesse, quello che, ancora, non si capisce, in questo diario di un viaggio, che, cioè, io non sono riuscito mai a capire, ascoltando Leila e snocciolando il filo delle sue immagini interne, non è tanto dove Leila è stata, ma da dove Leila parla, in altri termini, dove veramente sta, Leila, mentre mi racconta la sua esperienza. La mia coscienza deve trovare una Stimmung con la coscienza di Leila, che è altra dalla mia. Devo produrre dentro la mia coscienza un affinamento e una sintonizzazione su di una modalità che non è ordinaria. Ho bisogno di fissare, per me che mi inoltro, punti di repere. Dentro di me si deve fare prima buio, i contorni delle cose si debbono sfinire, e poi, dopo, si deve fare luce. E le cose debbono perdere il loro significato ordinario e mi debbono apparire in una luce extra-ordinaria.
La sensazione che ho, ascoltando Leila, e riascoltando, dopo, la sua voce sul nastro, o rileggendo il testo della sua descrizione, è che Leila sta parlando di una realtà (e da una realtà) che non è poi tanto lontana e con la quale ella è ancora, in qualche modo, in contatto. Ma è, al tempo stesso, una realtà drammaticamente sfuggente ed inafferrabile. In certi momenti, tra-di-noi, tra me e lei, si avverte proprio la presenza di uno spazio virtuale, nel quale basterebbe solo volere, per entrare. Ma uno spazio altro, un vero altrove e qui (alibi et hic) al tempo stesso, che sa rendersi tanto immediatamente accessibile quanto, poi, drammaticamente impenetrabile. Nessuna concessione, dunque, nel riporto di Leila, alla dimensione simbolica e metaforica delle cose. Tutto era veramente accaduto e poteva ancora, dopo una sospensiva temporale indeterminata, tornare ad accadere, per il semplice fatto che tutto stava, ancora, accadendo. Nulla è mai stato come se. Non c’erano più segni da interpretare. Tutto era chiaro nella sua nudità, e luminoso nella sua oscurità. Il dramma è che l’esperienza vissuta di Leila si propone come un’etereogeneità di elementi, senza tempo, e costituiti più da immagini grezze che da discorsi. Come è possibile convertire o revertire, o semplicemente tradurre due ordini di grandezza così diversi tra di loro, come le forme allucinatorie ed il linguaggio, e senza l’aiuto di una infrastruttura sintattica, nonchè senza un mondo contestuale come frame semantico di riferimento ? Il punto è che il discorso di Leila stralcia fuori ed esula da entrambe le forme narrative così approfonditamente studiate da Paul Ricoeur nella sua opera monumentale “Tempo e racconto” (Temps et recit,1985). Esso, difatti, non è configurabile, alla fine, nè come una narrazione di carattere storiografico, ma neppure come un racconto di finzione. Che cos’è, allora, il testo di Leila, e come si può comunicare il suo vissuto sul piano del linguaggio? La caratteristica emergente dal vissuto comunicato da Leila è, infatti, proprio nell’esplosione del suo universo sensoriale-percettivo. Le immagini si sforzano di diventare verbali, ma non ci riescono. I blocchi di materiale percepito rimangono come pezzi crudi, non proprio risolvibili in concetti. L’impressione è che il racconto di Leila sia ancora intriso di tattilità, di visionarietà, di ascolto. Quando una persona parla per immagini e per sensazioni, non tanto per parole e per concetti, allora è tutto il suo corpo che parla, non solo il suo apparato linguistico-fonatorio. La gestica, la mimica, la motorica, mai teatralizzate, hanno sempre accompagnato il vissuto di Leila. La migliore maniera per consonare con Leila che raccontava, era quella di lasciar partire le mie sensazioni ed impressioni. Per essere toccato da quella irruenza immaginifica dovevo cercare di svincolare da un controllo cosciente i miei registri sensoriali e lasciarli andare ad una sorta di autoeccitabilità, lasciare il flusso di coscienza vagare attraverso stati diversi, caratterizzati anch’essi da una ricchezza immaginifica, evocativa e suggestiva. Non aveva senso ascoltare una sequenza allucinatoria come un docente può ascoltare un riassunto di storia da uno studente, o, peggio, come un medico può osservare un preparato anatomico. Dopo un po' di tempo ho capito che, con Leila, i miei registri sensoriali dovevano essere liberati per funzionare come una pellicola fotografica, come una vera e propria lastra da emulsione. Le cose, all’interno di tale climatica emotiva, perdono il loro significato originario, ma ancora esse non riescono a trovare un loro nuovo significato. Allora tutto diventa vago, incerto, inquietante, sinistro, ma anche, al tempo stesso, preludio di nuove prossime chiarezze. Bisogna avere la forza di mantenere, nella sintonia con queste condizioni umane che rovinano precipitosamente nella clinica, il più a lungo possibile divaricate le due categorie sulle quali si è a lungo soffermato Callieri nei suoi studi fondamentali sulla Wahnstimmung (1962) che sono l’ intenzione di significare ed il compimento di significato. In altri termini, bisogna lasciar galleggiare le cose in una atmosfera di sospensione (la sospensione della verità di Ricoeur, la sospensione del giudizio di Husserl), di perplessità, tollerando l’ansia di veder vagare oggetti privi di nomi (oggetti non identificati) intorno e dentro di sè. In questa condizione climatica di attesa della verità, c’è, però, un momento in cui il vedere fenomenologico si costituisce in modo netto e decisamente distinto dal vedere allucinatorio. Comunque, in entrambi i casi, la sensazione deve essere simile, nel senso che essa corre per un lungo tratto sullo stesso binario: fino al punto in cui, all’improvviso, è come se una limatura di ferro si disponesse lungo le direttrici di un campo magnetico, e così tutto finisce per assumere una sua congruità, che in un caso è una congruità delirante, ma, come vedremo, nell’altro modo, è una congruità umana e storica. E’, questo, di cui parlo, il corpo che è lì, davanti a me, ma esso è ormai lì solo per gli altri, non è più per sè (Sartre) e, in quanto corpo, esso non è più un oggetto psichico (Sartre), ma neppure un corpo vissuto (Leib): la sua ora è ferma sull’evento, sull’inenarrabilità di ciò che è stato. E’ saltato il circolo tra temporalità (Zeitlichkeit), temporalizzazione (Zeitigung), corporeità (Leiblichkeit) e mondanizzazione (Verweltlichung), ma è saltato anche il circolo ricoeuriano tra temporalità e racconto. Leila era davanti a me, apparentemente in salvo, è come se io la vedessi ancora, mentre scrivo, ma i suoi occhi continuavano a fissare, attoniti, il disastro che l’ha travolta. E’, il suo, indimenticabile, uno sguardo impossibile da distogliere e da richiamare nuovamente sulle cose del mondo. C’è un che di artificiale, un che di meccanico in tutto questo, un che di irriducibilmente estraneo (Entfremdung). Siamo divenuti, entrambi, ospiti di una realtà che non ci appartiene. Leila sente di aver tradito gli dei Mani, di aver violato l’ospitalità, forse continuando a sentirsi estranea in ogni realtà ed a far sentire estraneo chiunque voglia essere ospitato nella sua realtà. Questa tematica dell’inospitalità è un turbamento che, in effetti, ci accompagnerà, entrambi, per tutto il viaggio. Ogni volta che vado in una terra straniera mi domando come sarò accolto, ogni volta che torno nella mia terra mi domando, allo stesso modo, come sarò accolto. Allora il punto è che quando si iniziano certi viaggi in verità non si è più di nessun posto. Il fatto è che Leila non si sente più a casa, ed io non mi sento più così familiare (heimlich) con lei, così immediatamente risonante ed empatico, come con una qualsiasi altra ragazza che io posso incontrare in un qualsiasi altro contesto. C’è qualcosa che impedisce all’eco delle nostre parole di ritornare su se stessa, di rimbalzare e di risuonare tra le superfici specchianti delle nostre esperienze interne. C’è, ombra alla nostra trasparenza, una opacità radiografica: è la continua allusione e rimando ad un qualcosa, che, anche quando non viene nominato, è lì, ed è presente. E’ la realtà delirante. Questo strappa il nostro discorso in più punti, lo obbliga a continue curvature, lo rende, in certi momenti, profondamente innaturale. L’intesa comunicativa tra di noi, la Verstaendigung di Binswanger, è drammaticamente saltata. Leila è qui ed è altrove, parla a me ed ancora a qualcun altro, o verso qualcos’ altro, ma è tutta un’alterità che io non riesco a fare mia propria, rispetto alla quale rimango sempre perplesso, in una condizione di disorientamento e di scacco. E’ un mondo che io non vedo. Mi sento escluso, nonostante tutti i miei sforzi. Nonostante, anche, tutti gli sforzi che ella fa per includermi. Forse sono io che resisto. Lo avverto, questo dislivello nella nostra comunicazione, come un brusco cambiamento di stato, quando passo dal colloquio con Leila a quello col primo infermiere che incontro, fuori della stanza, quasi obbedendo alla necessità ed al bisogno di ritrovare un aggancio umano naturale, spontaneo, immediato, senza mantenere il sotto vuoto, o la camera sterile da elementi, che, seppure microscopici, mi possono far perdere, in un attimo solo, il prezioso e difficilmente recuperabile filo rosso del contatto che, dopo tanti falsi tentativi, sono riuscito a trovare, ma solo per riperderlo poi e continuamente. La descrizione nosografica che individua invarianti per una tipizzazione diagnostica finisce, spesso, per essere un’operazione tra cifre che, in genere, dopo un po' che vengono usate con una certa confidenza, naturalezza ed affidabilità, finiscono per perdere ogni contatto con il loro referente clinico iniziale. Quella che, secondo Karl Jaspers, era l’incomprensibilità dell’esperienza delirante (Wahnerlebnis) nella sua natura più intima, qui sembra declinarsi piuttosto come inesprimibilità ed indicibilità. Come si può dire...cosa si può dire ? E, ancora, accanto, l’indicibilità, l’incredulità e l’incredibilità. Ma quali sono, quali debbono o quali possono mai essere i termini di pensabilità, o di ripensabilità, da parte del soggetto che ha vissuto (dopo che ha vissuto) l’incandescenza di una simile esperienza? La memoria di un evento totale è sempre, perciò, una ritrascrizione (Nachtraglichkeit), ovvero un tentativo di riinnesto di quell’evento (mai veramente passato) nella trama della temporalizzazione corrente. Il vissuto coincidente di un evento totalizzante è, infatti, sempre un vissuto senza tempo, è un vissuto liminare e terminale, che non allude più ad altro, che non rimanda più ad un poi, che non apre più su di un altrove. Per chi non ha mai subito uno strappo così violento alla continuità (consequenzialità, come direbbe Binswanger) dell’esperienza del proprio io e del contatto col proprio mondo, è veramente difficile immaginare la mole di lavoro che è costretto a fare chi approda all’altra sponda, dopo il naufragio, lavoro di riintelaiatura e di ricostruzione di una voragine che si è aperta nel tessuto coerente, coeso e continuo della propria esistenza. Leila, in definitiva, è sopravvissuta all’incontro con il terrore. E’ stata irradiata dal tocco salvifico della grazia ed ella stessa, per questo fatto, è divenuta una fonte irradiante grazia, capace di trasformare le ombre buie ed opache dell’aldilà in esseri nuovamente viventi, per giunta pieni di amore. E poi Leila è tornata dal regno dei morti, Leila ha sfidato e vinto la morte, Leila è, oggi, per questo e grazie a questo, ancora viva. Il ritorno su questo nostro mondo (ritorno imprevisto e traumatico almeno quanto al partenza) la obbliga, tuttavia, e non potrebbe essere altrimenti, ad una ristrutturazione delirante del proprio vissuto. Come potrebbe, infatti, Leila rinnegare, adesso, la vividezza percettiva dell’esperienza che ha vissuto? Sarebbe impossibile, significherebbe delegittimare se stessa come soggetto del proprio mondo e centro irradiante di significati. Anche se questa cosa la faranno gli altri, anche persone qualificate, come i medici, quando rubricheranno l’esperienza di Leila come uno stato abnorme della psiche, caratterizzato da gravi turbe dell’ideazione e della percezione, questo, proprio, Leila stessa non potrà mai farlo. Il proprio io non può rinnegare e ritrattare quello che con tanta vividezza ed evidenza ha vissuto, qualsiasi cosa abbia vissuto. Qui non si tratta di un’azione che si possa ritrattare, come, ad esempio, una deposizione o una confessione, un ricordo o un falso riconoscimento. Non dimentichiamo che in alcuni casi anche il suicidio si configura come l’ultimo, perentorio atto con il quale il soggetto si salva dalla propria delegittimazione come individuo. Ma che cosa è accaduto, questo vogliono sapere gli altri, vogliono sapere tutti, vogliono sapere i medici. Tutto è stato, per un tempo senza durata, qui ed ora, e con la fine di questo mondo è stata la fine anche di questo io. Io-coscienza e mondo, nati insieme, tramontano insieme, indissolubili come un vecchio capitano che si inabissa, fedele al suo codice d’onore, con la sua nave, alla morte della quale non può sopravvivere, perchè sarebbe solo una vita biologica, per sempre fuori da ogni matrice di significato. E’, questa, la drammatica esperienza terminale di Weltuntergang (l’esperienza del tramonto o della fine del mondo) sulla quale già nel 1955 si soffermava l’attenzione di Callieri. Ma la perdita del proprio io e del proprio mondo è qui largamente compensata dalla cosmicizzazione e dalla universalizzazione di Io e Mondo insieme. Non c’è nessun dopo, come, in fondo, non c’è nessun prima. Per Leila tutto è, ancora, ora. Quello che è stato, è ancora adesso. Lo stesso sarà ancora domani. Forse con il tempo che passa non ce ne stiamo solo allontanando, ma ci stiamo anche riandando. Tutto il mondo si è sfatto insieme al mio io e gli altri si sono trasfigurati in ombre, ma io sono salva, io sono viva ed io stessa, morendo con i morti, ho salvato, e, risorgendo, ho risorto, rischiando di perdere me stessa, anche gli altri. Bisogna, secondo la parabola evangelica, che il chicco di grano muoia perchè possa nascere la spiga. Bisogna che l’uomo vecchio muoia perchè possa nascere l’uomo nuovo. Il mio altruismo non ha avuto confini. Io mi sono persa, illimitatamente, e riemersa. Adesso io sono immortale. I punti deboli di questo discorso (la frase infinita di tutta la psicopatologia delle psicosi) così radicale e così esistenziale sono solo due, come accennavo prima parlando del trauma della partenza (la fine del mondo) e di quello del ritorno (l’aurora delirante), e sono, appunto, quello iniziale e quello finale. Il punto di distacco è quando si transita dal mondo comune (Gemeinsamwelt) al mondo proprio (Eigenwelt), il punto di attacco è quando si ritorna, poi, dall’autismo del mondo proprio nella compagine più condivisa e sicura del mondo comune: l’atterraggio, come il decollo, non sono mai morbidi e, soprattutto, mai richiesti. Cosa si lascia alla partenza, cosa si ritrova al ritorno? Il punto in cui si perdono (ma fino a che punto esse si avevano prima?) la Vertrautheit (la presunzione trascendentale) husserliana, la naturliche Selbstverstaendlichkeit (l’evidenza naturale) di Blankenburg, la Verstaendigung (l’intesa comunicativa) di Binswanger, ed il punto in cui esse vengono parzialmente e precariamente riacquistate, sono, in genere, sponde fasciate da una terribile malinconia, ma anche da una noia mortale, qualcosa che ha profondamente a che vedere con lo Spleen, la malinconia inglese fin de siécle, o con la Langweiligkeit dei tedeschi, una tonalità di grigio intrisa pure di una lento, struggente desiderio (Sehnsucht): una cappa di ottundimento percettivo-sensoriale progressivo, da cui, prima o poi, pure bisognerà riuscire, sia anche attraverso il rogo del delirio, se proprio può essere solo quella l’uscita. Dopo aver vissuto il Dies irae, l’ora, come dice Celan, che non ha più sorelle, dopo aver vissuto la fine del tempo umano e la fine della storia, e dopo aver assistito alla propria stessa palingenesi, dopo tutto questo, in uscita da tutto questo, ecco invece l’approdo a quella condizione che gli altri chiamano, invece, di guarigione: solitudine, isolamento, squallore di una quotidianità inaccettabile, inettitudine, inebetimento farmacologico, inerzia. I neurolettici continuano, in effetti, sul piano neuromuscolare e neuromotorio, l’azione frenante intrapresa da tutti i meccanismi di difesa inibenti prima dell’esplosione della crisi. Come questi cercavano, infatti, di porre un’azione frenante allo scoppio, attraverso la propria azione coartante sui dinamismi vitali (lo slancio vitale bergsoniano, il contatto vitale di Minkowski), e così i farmaci pervadono il corpo vissuto di una camicia biochimica di contenzione. Tutta la propria vita è, allora, stata, ed è, ancora, lì. Il senso è lì. Il significato è lì. In quella terra tramonto e aurora coincidono, il sole che muore è anche sole che nasce. Com’è nulla e nullificante, invece, al confronto, l’esperienza dei reimposto quotidiano di fronte alla potenza di questa già vissuta fase trematica. Prima che questo accada, nel clima in cui questo accade, l’atmosfera o l’intonazione dell’animo al delirio (Wahnstimmung) è come un’ esperienza ricca e satura di intenzioni di significato (Callieri, 1962). Tanti, troppi abbozzi di significato, fino a che tutto può significare tutto, in una vera e propria sospensione del mondo (Di Petta, 1999). Ogni nuovo evento, così, è pronto a significare. E’ una transizione altamente instabile. Non può durare molto. Finalmente, poi, tutto riacquista senso, le cose che per tanto tempo erano state oscure si chiariscono, è la fase apofanica. (Conrad). E così dopo e contemporaneamente, come nel caso di Leila, all’atmosfera della fine, si inscrive l’inizio. Tutto accade nella simultaneità. Si sopravvive al passaggio attraverso il terrore perchè contemporaneamente si esperisce la luce della grazia e della redenzione, perchè, finalmente, nell’apofania del nuovo mondo e del nuovo io, si capisce tutto. Alla fine tutto è meglio della noia, anche il terrore. E’ pur sempre, infatti, il vortice di quello stesso terrore, anche una straordinaria ed irripetibile “vertigine di libertà” (Kierkegaard).

VI. IL CASO ELENA DI G. ENRICO MORSELLI.
E’, questa tra il dottor Morselli e la sua paziente Elena, una storia clinica che accade nello strano periodo di tregua tra le due Guerre Mondiali, in un Italia che, reduce dall’esperienza unitaria e risorgimentale si avvia inesorabilmente, ancora molto intrisa di provincialismo sul piano culturale e scientifico, ad un periodo che la condurrà all’isolamento dall’evoluzione della cultura europea in un momento cruciale per la quantità e la qualità degli stimoli in atto. Perché ho scelto, in definitiva, proprio il caso Elena ? Il primo motivo è stato sicuramente il desiderio di ricordare la figura e l’opera di Giovanni Enrico Morselli, clinico ed uomo di cultura che ha transitato silenzioso ed inosservato, per il breve firmamento della psichiatria clinica, contemporaneamente a figure che hanno avuto ben altro destino, come Jaspers in Germania, Minkowski e De Clerambault in Francia, considerando il breve spazio che questa splendida stagione della clinica, che è stata la psichiatria classica, ha avuto, prima di finire schiacciata dalla pesante eredità del paradigma neurologico alle spalle, e dalla potente ed incalzante fioritura di quello psicoanalitico da un’altra parte. La signorina Elena, di anni venticinque, pianista, diplomata al conservatorio di Milano, dotata di una straordinaria ed esasperata sensibilità, intrisa, certamente, di echi tardoromantici e crepuscolari, si ricovera nel maggio del 1925 presso la Clinica delle Malattie Nervose e Mentali del Prof. Besta, a Milano, proveniente dalla casa di cura “Villa Quiete” di Monza. Giovanni Enrico Morselli, laureatosi a Pavia nel 1924, in quell’anno è allievo e assistente del Prof. Besta, neurologo di chiara fama. Oggi diremmo che Morselli è, quando incontra Elena, appena uno specializzando del primo anno di corso. Questo dà ragione del suo entusiasmo, ma lascia interdetti per la sua cultura clinica. Elena è, verosimilmente, la prima paziente psicotica che egli prende in carico, come si dice oggi, ed è una paziente che segnerà tutto il suo percorso successivo. Il caso Elena viene pubblicato sulla Rivista Sperimentale di Freniatria, vol. 53, fasc.II, pp. 209-322, nel 1930, sottoforma di lungo articolo, con il titolo “Sulla dissociazione mentale”. Elena era, allora, morta da due anni, nel 1928, per il subentrare di una patologia infettiva, indipendentemente dalla propria vicenda psicopatologica. Morselli trascorre i due anni dopo la morte di Elena alla preparazione di questo complesso ed evocativo lavora, quasi curandosi con la scrittura della perdita di colei che era diventata, per lui, un’interlocutrice straordinaria, un’amica e forse di più. E’ chiaro ora che, all’interno di questa tessitura, sono rintraciabili diversi percorsi. Uno, il primo, è senz’altro il percorso clinico-nosografico, rappresentato dall’asse anamnesi-semiotica-diagnosi-terapia, che è quello destinato ad infrangersi, almeno nella sua direttrice più scopertamente nosografica. Siamo, naturalmente, qui, in completa assenza di farmaci ad azione allucinolitica e deliriolitica. Ma il punto non è questo. Il punto è che il discorso di Morselli parte proprio da dove quello della psichiatria organicista tace. In fondo, tra i due, è Elena, come aveva fatto Anna O. con Sigmund Freud, che detta le condizioni della relazione : parliamo la lingua che parlo io, qualunque essa sia, se proprio vogliamo parlare, altrimenti parliamo il linguaggio catatonico e manierato del mio corpo illeggibile. Elena si propone certa di ottenere uno scarto, laddove Morselli, in assenza di parametri, rimane presso l’incontro, costituendo un valido esempio di abbozzo di terapia fenomenologica. Un altro, rispetto a quello neurologico organicista, è il discorso psicopatologico-clinico, che è destinato, invece, nelle pagine di Morselli, ad evolversi verso un’area di fenomenologia e di ermeneutica ; un altro ancora, l’ultimo, è il discorso della relazione personale, cioè del rapporto inclassificabile tra Elena ed Enrico, che lambisce, ovviamente, la dinamica psicoanalitica tra transfert e controtransfert, ma solo per divenire, in realtà, la carne ed ossa di un incontro, forte, coinvolgente, completamente scoperto sul piano della relazione umana, che continuerà ad oltranza nell’interiorità, anche dopo la morte di Elena, avvenuta nel 1928, tra le pieghe umbratili della vita di Morselli, e culminante, forse, nel 1933, con l’esperienza mescalinica. Il paradigma clinico-nosografico è, come dicevo, il primo modulo del caso Elena, ed è sicuramente quello precocemente destinato a dissolversi. Morselli, come medico di fronte al caso Elena, è in possesso innanzitutto della semeiotica neurologica classica, già accuratamente vagliata sulla paziente dal prof. Besta. Come psicopatologo, invece, Morselli possiede le categorie kraepeliniane che bene individuano la Praecox dal campo sterminato delle fenomeniche dell’alienazione e, come psichiatra aggiornato, di quelle bleuleriane che sfrangiano la Praecox nel gruppo delle schizofrenie, forse la prima concettualizzazione ante litteram della nozione moderna di spettro schizoide o schizotipico. La semiotica neurologica, qui, è presto messa in scacco. La paziente presenta, certo, delle alterazioni posturali e di movimento che si manifestano essere di tipo catatonico o che configurano dei veri e propri manierismi. Viene ipotizzata, pertanto, dal prof. Besta, una sindrome radicolare, ma, insomma, il paradigma neuropatologico è tagliato presto fuori dal discorso, tanto è che il prof. Besta smette di interessarsi alla paziente mentre invece, approfittando di questa lacuna, Morselli si approssima e chiede al proprio primario l’affidamento del caso. E’ estremamente interessante, in fondo, questo passaggio di consegna, dove l’interesse della più genuina psichiatria clinica si costituisce proprio su quella terra incognita da dove la neurologia si ritira, dove la neurologia non riesce a costruire teoremi semiotici semplici, cioè fondati sulla corrispondenza tra segno e lesione. Analogo processo accade, in un altro ambito, la gemmazione psicoanalitica dal terreno del funzionale neurologico, cioè quello delle nevrosi. Dunque, lasciata alle spalle la negatività neurologica, e per quanto egli stesso riconosca che, durante le fasi critiche, siano soddisfatti tutti i criteri (almeno quelli bleuleriani) per la diagnosi di schizofrenia, Morselli, giovane psichiatra ma già colto ed estremamente coscienzioso, non riesce, per quanto si sforzi, ad afferrare fino in fondo la vera malattia di Elena. Ciò che lo lascia interdetto sono le fasi intercritica, improntate ad una estrema lucidità e ad un’integrazione ineccepibile della personalità. Morselli, alla fine, non solo non riesce più a fare una diagnosi, diagnosi che sembrava, invece, più che certa all’ingresso, ma lascia tutto il discorso abbastanza aperto, interrogativo ed allusivo : non è, a partire da un certo punto in poi, più tanto la diagnosi, quello che conta, quanto piuttosto lo snodarsi della sua relazione con Elena e la rilevanza psicopatologia ed umana degli eventi che si sono levati dalla relazione con la sua esperienza. La diagnosi, del resto, è impossibile, perché, appena si approfondisce la conoscenza tra il medico e la paziente, il medico si accorge che mancano gli elementi per poter dire che Elena è scivolata in un’area difettuale protratta nel tempo. L’area del Defekt era, in fondo, il disturbo nucleare, il Grundstoerung della concettualizzazione kraepeliniana, e, in fondo, essa permaneva nella concettualizazione bleuleriana : la sindrome deficitaria della schizofrenia, o sindrome negativa, si articolava, in Bleuler, nelle cosiddette quattro A : ambivalenza, autismo, allentamento dei nessi associativi, anaffettività. Tutti questi sono elementi dissolutivi. Rispetto alla visione kraepeliniana, tuttavia, quella bleuleriana mantiene una possibilità, quella dei sintomi cosiddetti secondari : i sintomi secondari sono quelli dati, invece, dalla reazione dell’individuo alla malattia, e, come tali, essi sono personali ed incostanti. L’interesse di Morselli è catturato, probabilmente, proprio da questo. Ma egli supera anche la semplice considerazione dei sintomi secondari, ad un certo punto nella tenebrale visione della schizofrenia egli scopre aree vitali, dense di significato, che lavorano attivamente e creativamente nonostante la schizofrenia o grazie alla schizofrenia, o, comuque, intatte dalla schizofrenia. Da un lato, infatti, proprio da Elena vengono i segni netti del costituirsi di un’esperienza forte di significato, che attinge decisamente in un’ autre vie ed in un autre monde ; da un’altra parte essa manifesta la sua presenza, la presenza di un sé, o di molti sé, anche nelle più gravi destrutturazioni delle sue crisi psicotiche. Alla fine in Morselli la preoccupazione per ciò che è primario e per ciò che è secondario, per ciò che è endogeno e per ciò che è esogeno, per ciò che è processuale e per ciò che è sviluppo, per ciò che è isterico e per ciò che è schizofrenico, sfuma, e ciò che permane è solo lo slancio, ripeto, conoscitivo e terapeutico, del dottor Morselli verso l’ammalata Elena, il suo, a tratti disperato tentativo di afferrare i brandelli di quest’ autre monde, di quest’ autre vie, di cui, in fondo, Elena continuamente gli parla, nella speranza di poter afferrare questa donna, la sua pesenza prima della sua inesorabile dissolvenza. Inutile dire che gli slanci di Elena, le mille figure del dolore che ella assume ed esprime, il carattere vivido ed estremamente partecipato della sua esperienza allucinatorio-delirante, le notti in cui l’infermiera di turno sveglia sgomenta questo giovane medico di guardia ed egli si trova di fronte alla scena in cui Elena, come un fantasma, ricurva sul pianoforte, suona delicatamente ed disperatamente le Polacche di Chopin ed il Chiaro di luna di Beethoven, sono quadri che, a dire il vero, anche da soli, smontano ogni presunta anaffettività e difettualità delle sindromi schizofreniche. Il teorema della dissociazione è sicuramente, passando ora al piano psicopatologico clinico, la vera sonda con cui procede Morselli. L’impianto della sintomatologia di Elena si presta, del resto, molto bene a questa interpretazione. Elena durante le crisi psicotiche parla in francese, correntemente, convinta di starsi esprimendo in italiano e di non conoscere una sola parola di francese. Qui il riferimento principale è sicuramente Janet (1909,1912), ma anche, in fondo, l’elaborazione freudiana degli stati secondi, delle pazienti Dora, Anna O. negli Hysteriestudien. Ma Morselli coglie, forse per primo in Europa, il nodo della problematicità del termine dissociazione, che tanta parte ha e tanta confusione genera nella psicopatologia di tutto il Primo Novecento. Certo è che, anche nella pratica clinica, quadri del genere diventano di difficilmente visibili, più aumentano gli spazi di relazione e di socializzazione del paziente. In modo più specifico, riducendo quindi il campo che appare essere così vasto, l’interesse di Morselli si è focalizza su di un aspetto nucleare, come l’esperienza dissociativa, che informa di sè uno spettro di rilevanti condizioni psicopatologiche, e che sembra anche ricorrere, come una sorta di leitmotiv, in tanta parte della produzione letteraria, soprattutto del Novecento. La dissociazione dell’Io, dunque, o la discontinuità della coscienza sembrano essere proprio i comuni denominatori di certe esperienze interne leggibili a partire da organizzatori concettuali psicopatologici o inscrivibili al registro dell’arte. Morselli apre e chiude sulla dissociazione, non risolvendo il quesito, ma lasciandolo piuttosto problematico : il crocevia tra episodi francamente schizofrenici, sintomi di conversione, alterazioni dello stato di coscienza, depersonalizzazione, derealizzazione. L’accentuazione posta da questo lavoro sul concetto di esperienza vissuta come vero e proprio stato coscienziale riduce i termini della questione : non si dà più il conflitto o la scissione tra le parti e dentro l’entità unitaria della coscienza sintetica. Il terreno del confronto è dato dal singolo vissuto, con una sua forma, un suo odore, un suo colore, un suo mondo una sua vita, che possono essere diversi da un altro vissuto che suito dopo insorge, ma non per questo svincolati dall’identità di quel soggetto che sta esperendo. La fenomenologia fluidifica il rigor mortis della patologia. La psicopatologia torna ad essere una psicologia del patologico. Io sono il mio vissuto di questo momento. Ma io sarò anche il mio vissuto tra un momento. Io ero il mio vissuto di un momento fa. La fluidità dell’esperienza, la corrente continua dei vissuti consente di scavalcare il problema della congruità e dell’incongruità, della coesione e della coerenza. Della sintesi e della disgregazione. Col mio vissuto di ora, qui io mi confronto con il tuo vissuto di ora, qui. Il resto è un problema che ora, qui, noi due non ci riguarda più di tanto. Il terzo livello di questo discorso, forse il più interessante di tutti, è quello della vicenda personale di Morselli e di Elena. Certo. Non si può parlare, qui, certo, di psicoterapia vera e propria, o di psicoanalisi. Certamente Morselli conosce e cita molto dell’impianto freudiano, ma la gravità del caso e la violenza e l’intensità, nonché la caoticità del contatto fanno saltare ogni tipo di setting. Ad un certo punto emergerebbe anche il ricordo confuso di un trauma, un tentativo di violenza che il padre avrebbe fatto su Elena, di cui la paziente ricorda, con orrore, la lingua del padre nella sua bocca. C’è anche il desiderio che il padre muoia. Morselli sottolinea la dinamica conflittuale e si rivela consapevole di quanto Elena può star proiettando su di lui, ma esamina questo materiale con un certo distacco, quasi fosse perplesso della sua veridicità, o, comunque, troppo preso dalla spirale psicotica di Elena per poter utilizzare uno strumentario di cui, oltre a non essere competente, sono altre le sedi ed i modi di utilizzazione. Però è anche vero che Morselli, dove Besta ha scaricato al paziente, non si tira indietro. Accetta, innanzitutto, il piano interlocutorio della paziente conversando con lei in francese, accorre al suo capezzale durante le crisi acute, le impedisce più volte il suicidio riaccompagnandola in camera con dolcezza, accetta di conversare con lei durante la notte. Alla dimissione, nel 1928, quando Elena appare sufficientemente reintegrata, continua a vedersi con lei sul piano amicale. Dopo che Elena è morta, ne narra la storia. E’ difficile poter formalizzare cosa è stato questo incontro e cosa è stata questa relazione. Certamente si avverte la preponderanza di una componente estetica, lirica e artistica notevole. Elena legge e commenta Mallarmè e Baudelaire, D’Annunzio e Proust. Agli occhi di Morselli essa si presenta non solo, come dice Ferro, come un diva di Klimt, ma anche come una delicata e tragica figura di donna, ricolma di sensibilità e di inespressa ed invissuta sensualità, che si avvia lentamente a svanire, che Morselli fa di tutto per sottrarre alla malattia, ma che non può sottrarre al suo destino. E’ difficile dare il polso di questa storia : confusioni mentali e dissociazione, slanci e regessioni, ricordi e rimozioni, scambio di poeti e suonate di pianoforte : c’è tutto, anche la morte, come epilogo destinale di una sensibilità troppo grande per poter accettare dei compromessi con l’esistenza. E poi la ricerca successiva che Morselli fa di Elena quando si chiude in casa nel giungo del 1932 e prende la mescalina : vede la Salomè di Stuck danzare e le mani di Chopin correre sul pianoforte : Elena, la visionaria allucinatissima, in quel momento forse è ancora con lui.


VII. RIMANERE PRESSO L’INCONTRO
Se la fenomenologia husserliana, al termine di un procedimento logico-riduttivo rigorosissimo, arriva alla coscienza quale ultimo dato oltre il quale non è possibile regredire, la psicopatologia di derivazione fenomenologica ha il compito, oggi, a mio avviso, di ripartire dalla coscienza come imprescindibile dimensione di ogni ricognizione clinica e quindi, conseguentemente, di ogni intervento terapeutico. L’importanza di concettualizzare lo stato crepuscolare come stato di transizione, come finestra di osservazione partecipativa e come cross-over, carrefour, crocevia e snodo cruciale di- ad- per- e da- altri stati psicopatologici è una presa di posizione (Einstellung) fenomenologica dettata da alcune considerazioni fondamentali. Il sintomo psicopatologico, qualunque esso sia, anche il più grave, non è, dunque, un mero epifenomeno di una condizione patologica criptica o idiomatica o, peggio, un mero target di psicofarmaci vecchi e nuovi, ma sarebbe elevabile alla piena dignità fenomenologica di stato di coscienza, ovvero dotato di una carica intenzionale che ingaggia, di per sé, il mondo come oggetto vissuto. Rispetto a queste considerazioni forse può tornare utile, per chi ha ancora voglia e tempo da dedicare all’arte e alla conoscenza clinica e psicopatologica, l’idea di una baseline, o di una Grundlinie alla quale continuamente ritornare, dalla quale partire, da tenere presente come snodo a cui fare riferimento nei momenti più bui. E’ classico, per chi ha esperienza di passeggiate in montagna, di escursioni nei boschi, ma anche per chi cammina per la prima volta in una città che non conosce, quando realizza che si è perduto, tornare all’ultimo incrocio nel quale aveva ancora chiaro il senso di quello che stava facendo, di dove stava andando, di dove si trovava. La concettualizzazione di quella che, metaforicamente ho chiamato linea d’ombra della coscienza, consente al clinico calato nella trincea dell’incontro di risettare il quadro quando è confuso e di riprenderne le fila. Ma questa operazione consente anche, sull’onda di quanto risulta dagli studi di pensatori come Edmund Husserl e Henri Bergson, ma anche di clinici come Minkowski, di ricordare la fluidità degli stati mentali, ovvero il coagularsi in stati o stadi, in fasi del flusso di coscienza ma anche il contrario, ovvero il suo scoagularsi, e quindi la necessità di concepire un punto di fusione e un punto di solidificazione. Dalla linea d’ombra dello stato crepuscolare possono passare esperienze che vanno dai disturbi organici, come l’epilessia ai disturbi isterici, dai disturbi schizofrenici ai disturbi dell’umore. La cogenza di un’impostazione di questo tipo, a mio avviso, è massima oggi, dal momento che, grazie alla diffusione delle cosiddette nuove droghe, da una parte, e alla modificazione della patomorfosi psichiatrica a causa del trattamento psicofarmacologico precoce e cronico, da un’altra parte, il clinico viene spesso a trovarsi di fronte a situazione spurie, di difficile e sempre incerto inquadramento. Sono questi i casi in cui il clinico è costretto, per uscire dall’impaccio e fronteggiare la situazione, ad affinare il proprio intuito e a farsi, per suo conto, esploratore dell’ignoto. La definizione dello stato crepuscolare come stato di passaggio torna utile in quanto è una nozione che chiama in causa la coscienza, dà adito a qualunque altro tipo di sintomatologia, confina con il mondo dell’organico. Nei casi clinici presentati si è data una netta prevalenza alle possibilità e alle modalità di stabilire una vicinanza con il soggetto che sta vivendo un’ esperienza liminare e, spesso, terminale, anziché alla formalizzazione contemplativa di una struttura dell’esperienza vissuta. Questo non toglie alla visionarietà della fenomenologia la sua capacità, pressoché unica, di dare una forma di carne e di ossa ad esperienze che, altrimenti, rimarrebbero consegnate all’impalpabilità e alla volatilità delle cose inafferrabili. Questa capacità di stabilire una vicinanza, da parte del clinico psicopatologicamente e fenomenologicamente formato, capacità che io qui chiamo, semplicemente, rimanere presso l’incontro, sfonda la linea di contenimento di una fenomenologia propedeutica per aprire il campo ad uan fenomenologia terapeutica. E’ una terrai nessuno. E’ una strada tutta da fare. E’ chiaro che i criteri di valutazione e le procedure di indagine portate avanti in questo lavoro sono totalmente curvate al modo di essere e di darsi della psicopatologia fenomenologicamente impostata. Da qui ne scaturisce la difficoltà di questi concetti, intuizioni, idee, visioni a trovare una forma di validazione o di riconoscimento all’interno di altri sistemi di riferimento o di altri schemi di di approccio. La peculiarità della fenomenologia è il contatto visivo con il fenomeno, l’ ingaggio corto tra il soggetto vivente e il fenomeno vivente, all’orizzonte di senso del mondo-della-vita, all’interno del quale aree carnali e semantiche come quelle dell’esperienza vissuta, della sintomatologia psicopatologica, della coscienza, trovano un loro riscontro immediato e non necessitano neppure di eccessiva produzione di dati a conferma o a disconferma della propria esistenza. Su quanto di questo peculiare modo di procedere o, per meglio dire, modo-di-essere-con il fenomeno eveniente possa tornare ancora utile oggi, soprattutto al clinico in formazione, è cosa che, senza ombra di dubbio, deciderà il destino della psicopatologia fenomenologica : storia o frontiera operativa. Da qui lo sforzo di mostrare come un apparato conoscitivo che è senz’altro frutto dell’età moderna (la fenomenologia è figlia del Novecento), ma che reca in sé tutta la classicità della tradizione culturale occidentale (Continentale) riesca a muoversi con velocità e discreta precisione nel cogliere sfumature, profili, passaggi che spesso sono proprio quelli che paralizzano più sofisticati e raffinati procedimenti diagnostici, incentrati su algoritmi algebrici di sintomi o, come preferirei dire, di frammenti di mondi vissuti che, staccati da quei mondi, poco o nulla, a mio avviso, hanno più da dire.


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* Neuropsichiatra, Dirigente Medico U.O. Ser.T. Dsb. 65 ASL NA 3

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