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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psicopatologia

L'io e i suoi affanni

di Alfredo Civita


Relazione letta al convegno Crisi e Cronicità, Reggio Emilia, Sabato 2 dicembre 2000



1. Premessa

L'argomento centrale del mio intervento è il concetto di Io. L'intervento è diviso in tre parti.
Nella prima parte presenterò una teoria psicologica relativa alla natura dell'Io e alla sua posizione all'interno dell'apparato psichico. E' una vecchia teoria freudiana che ha ormai quasi un secolo di vita e che ciononostante mi sembra ancora molto utile.
Nella seconda parte presenterò un esempio clinico - una crisi psicotica - che cercherò di commentare impiegando i concetti della teoria di Freud.
Nella terza parte, sulla base degli argomenti esposti, svilupperò alcune rapide considerazioni di ordine filosofico.


2. Il modello strutturale dell'apparato psichico

Il titolo del mio intervento - L'io e i suoi affanni - allude a una celebre opera di Freud: L'io e l'Es (1922) (1). In questo breve e densissimo scritto Freud dipinge l'Io come "una povera cosa, soggetta a un triplice servaggio, e che quindi pena sotto le minacce di un triplice pericolo: il pericolo che incombe dal mondo esterno, dalla libido dell'Es, dal rigore del Super-io" (OSF, 9, p. 517).
Più oltre aggiunge che a ciascuno dei tre pericoli che incombono sull'Io corrisponde una specifica forma di angoscia. L'angoscia è qui intesa come l'espressione dell'arretrare di fronte al pericolo. L'Io, dunque, sperimenta l'angoscia quando, non essendo in grado di portare a termine le sue molteplici e ardue incombenze, si ritrae dal pericolo. Ciò accade se non riesce a svolgere la sua opera di mediatore in rapporto alle pressioni pulsionali dell'Es; se non riesce a far fronte agli eventi e alle richieste del mondo esterno; se si lascia schiacciare dalla severità e dall'oppressione colpevolizzante del Super-io.
L'Io, scrive Freud, è "la vera e propria sede dell'angoscia" (OSF, 9, p. 518). L'angoscia non è però un sentimento indifferenziato. Ognuna delle situazioni sopra indicate genera un'angoscia specifica: angoscia nevrotica se l'Io si arrende all'Es, angoscia reale se si arrende al mondo esterno, angoscia morale se la resa riguarda il Super-io.
Sviluppando liberamente questo ordine di idee, potremmo ipotizzare che, da un punto di vista fenomenico, l'angoscia reale e quella morale corrispondono rispettivamente all'angoscia persecutoria e all'angoscia depressiva descritte da Melanie Klein.
In un'opera del 1923, intitolata Nevrosi e psicosi, Freud fornisce una rappresentazione schematica, ma assai efficace delle manifestazioni patologiche dei conflitti nei quali l'Io s'imbatte allorché cede dinanzi a uno dei pericoli che lo minacciano: "la nevrosi di traslazione [isteria, nevrosi ossessiva] corrisponde al conflitto tra l'Io e l'Es, la nevrosi narcisistica [malinconia] a quello tra l'Io e il Super-io, la psicosi a quella tra l'Io e il mondo esterno" (OSF, 9, p. 614).


3. Il concetto di Io

Anche chi non sia freudiano fino in fondo, dovrà comunque riconoscere che il modello strutturale dell'apparato psichico è ancora degno di interesse e di studio. In particolare in esso è implicito, a mio parere, un concetto di Io alquanto convincente. Proviamo a riformulare le tesi di Freud evitando la terminologia psicoanalitica.
L'Io è una formazione psichica organizzata e coerente che presenta le seguenti principali caratteristiche. Attraverso gli organi sensoriali si trova a diretto contatto con il mondo esterno e con il corpo, del quale controlla la motilità volontaria. A eccezione di alcune attività, l'Io è cosciente sia delle sensazioni che riceve dal mondo esterno o dall'organismo, sia delle iniziative motorie e cognitive che pone in essere di propria iniziativa, sia di gran parte delle emozioni che si sviluppano nell'apparato psichico (una di queste emozioni, per esempio, è proprio l'angoscia). L'Io possiede infine un'imponente attrezzatura cognitiva: memoria, attenzione, pensiero, immaginazione, pianificazione di condotte finalistiche.
Sulla base di queste capacità e funzioni, l'Io tenta di assolvere ai suoi molteplici compiti che possono essere schematizzati come segue.
L'Io deve controllare i desideri e i timori che ci abitano, ma che l'Io non può riconoscere interamente come propri. Non li può riconoscere, perché sono incompatibili con le regole che lo strutturano e che organizzano il suo normale funzionamento.
L'Io deve essere forte a sufficienza per sopportare il senso di colpa e di svilimento che lo invade quando, per debolezza o per tracotanza, ha compiuto qualcosa che in seguito vive come indegno, riprovevole, imperdonabile, meritevole di punizione. A tutti capita di desiderare il male o addirittura la morte di qualcuno; a tutti capita di tradire o di recare sofferenza a una persona che amiamo e che ci ama; ognuno talvolta è avido, ingiusto, fraudolento e così via. In casi del genere il compito dell'Io è duplice: vivere l'inevitabile senso di colpa che questi fenomeni suscitano, ma non soccombervi.
Ancora, l'Io deve essere capace di tollerare le ansie, le sofferenze, le frustrazioni, gli innumerevoli affanni che la gestione del mondo esterno porta con sé nei vari comparti dell'esistenza: gli affetti, lo studio, il lavoro, i rapporti sociali, le malattie proprie e delle persone care.
Usando una terminologia più concreta, possiamo tentare di approfondire il discorso nel modo seguente. E' l'Io - e se no chi altri? - che la mattina deve alzarsi dal soffice letto e andare a scuola o al lavoro, cercando di fare ciò che ha da fare nel migliore dei modi. E' l'Io che a volte si stanca fino allo spossamento, e al quale, negli innumerevoli intrecci dell'esistenza, tocca di provare rabbia, scoramento, tristezza, odio e quant'altro. Ed è sempre l'Io che, malgrado tutto, ha il compito di resistere.
Ma le pene dell'Io non finiscono qui. Giacché è all'Io che accade di sperimentare il dolore e la malattia. Infine, è l'Io che invecchia e va consapevolmente incontro alla morte; laddove l'Es e il Super-io del trascorrere del tempo e dell'avvicinarsi della fine non hanno alcuna cognizione.
La missione dell'Io sembra dunque quella di soffrire senza annientarsi. Ma a ben pensarci questo non è del tutto esatto. L'Io deve anche poter essere sereno, se non addirittura felice. E non solo: deve divertirsi e vivere il godimento sessuale. In gergo si dice che a tal fine è spesso necessaria "una regressione al servizio dell'Io". Come dire, per accedere al godimento bisogna che l'Io attinga alle sue parti infantili, alle fantasie nascoste - senza però esagerare. Tra i compiti dell'Io c'è dunque perfino quello di saper sperimentare la serenità, la gioia e un maturo piacere sessuale.


4. Un esempio clinico

Descriverò ora brevemente, a titolo esemplificativo, una storia clinica sfociata in una grave crisi psicotica. La presentazione di questo esempio è finalizzata alla seguente domanda: chi entra in crisi nella crisi? Anticipo la mia risposta: all'Io e soltanto all'Io appartiene la possibilità di entrare in crisi e, nel peggiore dei casi, di impazzire.
Ferdinando ha oggi 29 anni, è figlio unico e vive con i genitori. Lo seguo privatamente da cinque anni. Nei primi tre anni di terapia, il paziente, che ha un diploma di maturità classica, non studia, non lavora, non ha amici, né tanto meno una fidanzata, ed esce di casa solo per venire alle sedute. Il mondo esterno gli fa orrore. Mentre il mondo interno - simbolizzato dalla sua casa - lo rassicura, permettendogli anche di vivere le gioie e le pene di un perfetto rapporto fusionale con la madre. Il padre sembra assente.
Il paziente lamenta gravi sintomi ossessivi concentrati sul corpo e in particolare sulla pelle. Trascorre molte ore davanti allo specchio per accertarsi che la pelle non presenti imperfezioni. Nei periodi di crisi le preoccupazioni ossessive evolvono in autentiche idee e percezioni deliranti. Ferdinando è disperatamente convinto di essere un mostro che nessuno vorrà amare o avere come amico (2). Sia pure tra molte prevedibili difficoltà, la terapia inizia e si sviluppa in modo soddisfacente. Ferdinando s'impegna profondamente, dimostrando peraltro di possedere una capacità di insight veramente notevole. I sintomi ossessivi si attenuano abbastanza presto, mentre più lentamente e laboriosamente comincia a svilupparsi il desiderio di rompere il legame con la madre e rendersi autonomo. Nasce il bisogno di uscire, di avere degli amici, una fidanzata, di trovarsi un lavoro e magari una casa propria. Il caldo bozzolo della seduzione narcisistica - per dirla con Racamier (1992) - si sta schiudendo, Ferdinando inizia a esplorare il mondo esterno.
La svolta decisiva si verifica pochi mesi or sono. Ferdinando s'innamora perdutamente - troppo perdutamente, senza dubbio - di una ragazza, Elena, con la quale si fidanza. La sua vita cambia completamente, al punto che nel giro di poche settimane si trova un lavoro per quanto precario. Le prospettive sembrano le più rosee. Ma c'è una difficoltà: Elena presenta dei gravi disturbi psichici, probabilmente anche un certo ritardo mentale; quando fanno conoscenza, essa è da tempo ricoverata in una struttura psichiatrica.
Che cosa passa per la mente di Ferdinando? Gli passa per la mente che Elena non è realmente ammalata, ma è la vittima innocente di una famiglia sgangherata, e in particolare di una madre incredibilmente subdola e maligna. Forse in parte ha ragione, ma il progetto che gli viene in mente è foriero di sventure. Fidando nella forza dell'amore e di un'indiscutibile intelligenza, Ferdinando si mette in testa di istruire e quindi di guarire Elena dalla sua irreale malattia. La sua idea, davvero onnipotente, è di salvare Elena da se stessa e soprattutto dalla madre. Il progetto, naturalmente, va incontro a mille complicazioni e alla fine crolla del tutto. Si scatena a questo punto la crisi psicotica (3). Come altre volte, ma mai in maniera così violenta e drammatica, Ferdinando perde il controllo, comincia a fare a pezzi la casa, si avventa contro i genitori, armato di un vetro di bottiglia. Il padre reagisce e lo picchia con estrema violenza. Viene chiamata la polizia, l'ambulanza. Seguono una visita al pronto soccorso, per curare le ammaccature provocate dal padre, e poi il ricovero in un reparto di psichiatria.
Che cosa è entrato in crisi nella personalità di Ferdinando? Come ho anticipato, la mia opinione è che in questo, come in ogni altro caso, la possibilità della crisi appartiene unicamente alla compagine psichica che chiamiamo Io. Il parlare di una crisi dell'Es o del Super-io è logicamente ed evidentemente privo di senso.
Impiegando i concetti introdotti in precedenza, possiamo ipotizzare che l'Io, ancora così fragile e confuso, di Ferdinando abbia ceduto e si sia ritirato di fronte a una specifica minaccia proveniente dalla realtà. La realtà in questione è la grave malattia di Elena che egli s'illudeva magicamente di guarire. La minaccia è la prospettiva di dover gestire realisticamente una situazione tanto difficile: dovrebbe infatti essere in grado di amare e progettare un futuro con una ragazza gravemente disturbata e invischiata in un inestricabile groviglio familiare. Di fronte a una simile prospettiva, l'Io di Ferdinando si arrende e si rifugia nell'universo della psicosi: Elena è una povera demente, lui è un mostro, i genitori, che lo hanno messo al mondo e sono quindi la causa della sua mostruosità, non hanno mai capito e tanto meno capiscono adesso la sua sconfinata disperazione. Per fortuna un briciolo di ragione - una briciola di Io, potremmo dire - è ancora presente e lo mette a riparo da esiti più funesti. E' infatti Ferdinando stesso che chiede e insiste di essere ricoverato. Pur non avendo mai sperimentato un ricovero, egli intuisce che il reparto ospedaliero rappresenta al momento l'unico possibile contenitore della sua angoscia (4).


4. Qualche spunto filosofico

Confrontiamo le due seguenti proposizioni.

A: "Il ponteggio è crollato sotto il peso della neve".

B: "L'Io è crollato sotto il peso della realtà".

La domanda da cui possiamo partire è questa: A e B sono ambedue delle proposizioni descrittive, ossia proposizioni che rappresentano in modo oggettivo uno stato di cose?
Senza andare troppo per il sottile, giacché su questo punto alcuni filosofi non sarebbero d'accordo, possiamo tuttavia affermare con buona sicurezza che A è a pieno titolo una proposizione descrittiva. Una semplice e precisa dimostrazione di questa affermazione è che A può essere vera o falsa. Per esempio, può accadere che i periti accertino, al di là di ogni dubbio, che il crollo del ponteggio è stato provocato da un cedimento del terreno che era troppo friabile per sorreggerlo. Se questo è il caso, allora "A è falsa". Se invece i periti stabiliscono che il ponteggio era stato installato a regola d'arte, ma è crollato a causa di un'eccezionale nevicata, ne consegue che "A è vera" (5).
Consideriamo ora B: "L'Io è crollato sotto il peso della realtà". In che senso questa proposizione può essere giudicata vera oppure falsa? In base a quali criteri può essere operata una simile valutazione?
Naturalmente i criteri che qui si richiedono devono essere obiettivi. In estrema sintesi, ciò significa che la comunità degli esperti ne condivide la validità. Per esempio, la determinazione del grado di friabilità di un terreno viene compiuta con metodi la cui affidabilità è riconosciuta dall'intera comunità degli esperti. Qualunque valutazione puramente soggettiva - che prescinda dal funzionamento del criterio - non avrebbe alcuna voce in capitolo.
Torniamo alla nostra domanda: esistono per la proposizione B dei criteri di questo genere? La risposta è ovviamente negativa. Gli unici criteri che possono essere qui utilizzati sono di natura clinica e sono quindi irrimediabilmente relativistici (6). Per rendersene conto basta pensare a come verrebbe descritta la crisi del mio paziente da un cognitivista, da uno psichiatra di indirizzo biologico, da un aderente al modello sistemico e così via.
Ma se B non è descrittiva, che tipo di proposizione è? Come funziona, a cosa serve? Lo spunto per una risposta lo troviamo in uno dei più grandi filosofi del nostro tempo, Ludwig Wittgenstein. Nelle sue Ricerche filosofiche (1953), Wittgenstein ha introdotto il concetto di vedere come (7).
Egli parte da una figura ambigua, ideata dallo psicologo Jastrow, che può essere vista come una testa di lepre oppure come una testa d'anatra. Ciascun modo di vedere è incompatibile con l'altro, anche se, spostando opportunamente lo sguardo, si può passare dall'uno all'altro.
Che una persona veda la figura come lepre o come anatra, dipende - come hanno dimostrato gli psicologi della Gestalt - da un complesso di fattori che per semplicità possiamo riferire al concetto di orientamento visivo. Se l'orientamento muta in una determinata maniera, muta anche la percezione: non più lepre ma anatra, o viceversa.
La figura di Jastrow è intrinsecamente ambigua. Nessuno dei due modi di vedere è arbitrario, ma nessuno dei due è più vero o più corretto dell'altro. Le figure ambigue funzionano così. La ragione e il torto, il vero e il falso, non sono applicabili.
Per capire più a fondo il senso di questo discorso, consideriamo quest'altra situazione. C'è una forchetta sul tavolo, e uno se ne esce con questa affermazione: "Io questa cosa la vedo come una forchetta".
E' chiaro che in questo caso il parlare di un vedere come è del tutto improprio. Vedere come implica la possibilità di vedere in un altro modo. Ma una forchetta è una forchetta, e non è possibile, attraverso un riorientamento visivo, vederla in un altro modo, per esempio come un cucchiaio o una pentola. La stragrande maggioranza degli oggetti che popolano il nostro universo visivo sono come la forchetta. Non sono ambigui, e noi non li vediamo come, ma li vediamo, semplicemente.
Possiamo tentare adesso di applicare questo ordine di idee al nostro problema, prendendo le mosse dalla seguente ipotesi. Molti, anzi moltissimi aspetti della vita umana sono ambigui, in un senso diverso e tuttavia analogo alle figure ambigue studiate dagli psicologi. Una forchetta è una forchetta, e anche un pensiero è un pensiero: ma in quanti diversi modi può essere visto e descritto un pensiero, o anche un sentimento o un'azione - per esempio l'azione di aggredire i genitori?
Certo anche una forchetta può essere descritta in modi diversi. Un'elegante forchetta d'argento verrebbe descritta in termini completamente diversi da un gourmet e da un orafo. Tuttavia, per quanto molto diverse, le due descrizioni resterebbero compatibili, e potrebbero essere sovrapposte, l'una arricchendo l'altra. Pensate invece a come verrebbe descritto un pensiero da uno psicoanalista e da un cognitivista. La compatibilità è qui da escludere (8). O si accetta una descrizione o si accetta l'altra, esattamente come nel vedere come in rapporto a figure ambigue.
Se poi prendiamo in esame l'Io, le differenze tra i modi di descriverlo diventano sconcertanti. Che cos'è l'Io: un'entità sostanziale, una struttura psichica, una funzione, un mero oggetto teorico, un flatus vocis?
Possiamo a questo punto tornare al nostro quesito. A cosa serve e come funziona la proposizione B: "L'Io è crollato sotto il peso della realtà"?
La risposta è ormai a portata di mano. B esprime un vedere come. Essa non fornisce la descrizione oggettiva di uno stato di cose, ma ci dà la rappresentazione di una realtà umana, intrinsecamente ambigua, a partire da uno specifico orientamento, quello psicoanalitico, che include non solo convinzioni teoriche ma anche una peculiare visione del mondo e della natura umana (9).


Bibliografia

Civita A., Saggio sul cervello e la mente, Guerini, Milano 1993.

Civita A., Introduzione alla storia e all'epistemologia della psichiatria, Guerini, Milano 1996.

Freud S., L'io e l'Es (1922), OSF, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino.

Freud, S., Nevrosi e psicosi (1923), OSF, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino.

Racamier, P.C., (1992), Il genio delle origini. Psicoanalisi e psicosi, a cura di C.M. Xella, Cortina, Milano 1993.

Wittgenstein L., (1953), Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino 1974.

Wittgenstein L., (1980), Osservazioni sulla filosofia della psicologia, a cura di R. De Monticelli, Adelphi, Milano 1990.


NOTE

(1 ) Do qui per presupposta la conoscenza di questo scritto di Freud.

(2) Tra le cose che pensa, l'Io pensa e valuta anche a se stesso. Si fa una rappresentazione di se stesso. Nella psicoanalisi postfreudiana questa rappresentazione è stata chiamata il Sé. Quando, nei momenti critici, Ferdinando è convinto di essere un mostro, il suo Sé subisce evidentemente un drastico e terrificante processo degenerativo.

(3) La crisi ha luogo alla fine delle vacanze di Natale. Il giorno successivo il paziente sarebbe dovuto venire in seduta da me. Com'è naturale, questa è una circostanza di grande rilevanza in rapporto al transfert. Ma per approfondire la questione occorrerebbe troppo tempo e devo quindi lasciarla da parte.

(4) Questa non è una semplice congettura. Ferdinando è stato dimesso e la terapia è ripresa. Che farsi ricoverare significasse proteggersi, è un punto che è subito venuto in luce con precisione.

(5) Per semplicità limitiamo il discorso alla verità o falsità di una proposizione. Ma l'argomento potrebbe essere sviluppato prendendo in considerazione i giudizi probabilistici. I periti potrebbero per esempio giungere alla conclusione che A ha un valore di probabilità del 70%.

(6) Nel senso che sono relativi a un determinato modello teorico e sono validi solo al suo interno.

(7) Il tema del vedere come è trattato ampiamente da Wittgenstein anche nelle sue Osservazioni sulla filosofia della psicologia (1980).

(8) Il punto che rende incompatibili le due descrizioni riguarda naturalmente il rapporto tra il pensiero, in quanto processo intellettivo, e la vita emotiva.

(9) Abbiamo sviluppato più ampiamente questo tema in Civita 1993 e 1996.



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