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Egodistonia sessuale e problematiche terapeutiche

Tonino Cantelmi
Presidente Associazione Italiana Psichiatri e Psicologi Cattolici



Il 23 dicembre 2007 sul quotidiano Liberazione viene pubblicato un articolo dal titolo "Gli ho detto: «Sono gay». Mi hanno risposto: «La sua è una malattia leggera, possiamo curarla...»". Inizia così un processo mediatico, nel quale le informazioni presenti nell'articolo, palesemente diffamatorie e contraddittorie, vengono ulteriormente deformate ed amplificate da un tam tam mediatico, incredibilmente acritico, che innesca una clamorosa "caccia agli untori" del terzo millennio. In questa deriva ideologica, "liquida" e priva di riferimenti a fatti e ragionamenti, spiccano, come vedremo, le dichiarazioni di alcuni rappresentanti dell'Ordine degli Psicologi. L'analisi del fatto, tuttavia, ci consente di riflettere su alcune questioni piuttosto controverse e fra loro intrecciate: il trattamento della cosiddetta "sessualità egodistonica", la neutralità del terapeuta, il rispetto dei codici valoriali dei pazienti.


Il fatto

Il 23 dicembre 2007 viene pubblicato, sul quotidiano Liberazione, l'articolo già citato, che peraltro era sottotitolato così: "Il racconto di un cronista che ha frequentato per mesi un corso organizzato da un gruppo ultracattolico" e ancora "Diario di sei mesi in terapia...". A partire da questo articolo si sviluppano una serie di polemiche senza un reale fondamento. Infatti dall'articolo stesso si evince che il cronista non si è sottoposto ad alcuna terapia, né ha partecipato a fantomatici corsi. L'articolo inoltre inizia dal racconto inventato che il giornalista fa ad un sacerdote, "Gli dico che sono sposato, che ho un bambina e butto lì un paio di esperienze omosessuali legate alla mia adolescenza e la preoccupazione che quelle esperienze possano tornare a galla e rovinare il mio matrimonio", e ancora gli racconta "del rapporto con mia madre rispetto alla quale tiro fuori un bel conflitto. [...] del ruolo marginale di mio padre, dei rapporti sessuali con mia moglie, le relazioni interpersonali e così via.". "Gli racconto di un mio compagno di liceo [...] e di come quell'amicizia, col tempo e in modo del tutto inaspettato, si fosse trasformata in relazione sessuale. [...] A quel punto tiro fuori una relazione fugace [...] dopo il matrimonio. [...] mi invento un «senso di sporcizia morale» che vivo e mi porto dentro tuttora". In seguito a questo racconto il sacerdote invita il giornalista, fintosi in crisi esistenziale ed alla ricerca di aiuto, a pregare e poi gli consiglia di rivolgersi ad uno psichiatra per valutare i problemi psicologici riferiti. Difficile ritenere inappropriato il comportamento del sacerdote. Ovviamente il tam tam mediatico traduce questo incontro come un "colloquio selettivo". Così il finto paziente giunge nel mio studio e mi definisce "il guru italiano dei guaritori di gay" o "il guru italiano della terapia riparativa". Il racconto è sempre lo stesso. Viene quindi inviato da una psicologa per una valutazione psicodiagnostica (al finto paziente vengono somministrati test piuttosto comuni quali il MMPI-II ed il Rorscharch). Nel corso di questi colloqui il racconto è più o meno lo stesso: "[...] racconto ... del mio rapporto conflittuale con mia madre, delle assenze di mio padre e aggiungo che ogni tanto, da piccolo, venivo scambiato per bambina". Mentre compila i test il giornalista si sforza di dare di sé un'immagine "omosessuale", scegliendo in modo accurato le risposte, come se le persone omosessuali dessero risposte diverse ai test che valutano la personalità e la salute mentale dei pazienti. In fondo è convinto che si trattino di test atti a valutare l'omosessualità. Il tam tam mediatico traduce tutto questo come "il modo per definire il grado di omosessualità". Infatti riguardo il test MMPI-2 il giornalista afferma: "Forse chi sceglie di fare il fioraio, secondo loro, ha una predisposizione a diventare un po' checca" e poi, riguardo le tavole di Rorscharch "[...] mi lancio sforzandomi di vedere peni, vagine, ani e così via. Individuo anche un paio di feti appesi per il cordone ombelicale. Dò il peggio di me, cercando di convincere la dottoressa che la mia sessualità è particolarmente deviata, talmente corrotta e omosessuale da meritare le sue cure".
Mentre compila il test MMPI-II vede una giovane signora ed un adolescente nella sala d'attesa. Dice: "Sono madre e figlio. [...] Non posso saperlo, ma potrebbe benissimo trattarsi di un ragazzino forzato dalla madre per arginare, almeno finché è in tempo, la «propria devianza omosessuale»". Ovviamente si tratta di voluta deformazione della realtà: nessun paziente viene sottoposto a terapie di questo tipo, ma basta questa osservazione perché si lanci la notizia che sottoporrei minorenni a "terapie forzate". Nel caso specifico chiarirò che si trattava di un adolescente con problematiche ossessive caratterizzate da una ampia compulsività e da una imponente ragnatela di rituali che gli rendono la vita impossibile.
Tornato da me dopo i test, dai quali emerge ovviamente un profilo specifico a causa delle risposte forzate e dei racconti inventati, gli viene quindi consigliata una "terapia individuale", che però eseguirà per un solo colloquio, "il giovane psicologo mi fissa un nuovo appuntamento. Io lo saluto e sparisco. Non metterò mai più piede in quello studio". E quale terapia gli avrei consigliato? Nonostante le pressanti richieste di terapia riparativa da parte del finto paziente, gli ho consigliato una psicoterapia cognitiva. Infatti è da tempo che sostengo che il concetto di riparativo, benché di lunga tradizione psicoanalitica, abbia una valenza ideologica pari a quello di "terapia affermativa" e che in realtà sia necessario parlare di accoglienza del dolore, di corretta decodifica della domanda e di psicoterapia, senza alcun pre-giudizio.
Dall'analisi del contenuto dell'articolo, qui riportato, non è possibile trovare traccia che confermi quanto affermato nei titoli dell'articolo stesso. Il giornalista non ha mai seguito un percorso terapeutico di sei mesi: ha svolto solo un incontro di conoscenza con me, una valutazione psicodiagnostica e successivamente è stato inviato da uno psicoterapeuta cognitivo, con il quale ha eseguito un solo colloquio. Un totale di quattro incontri. Il tam tam mediatico, compresi alcuni autorevoli rappresentanti dell'Ordine degli Psicologi, lungi dal decodificare correttamente il titolo, lo hanno accolto integralmente: ecco, si è finto gay (davvero?), gli è stata diagnosticata l'omosessualità (sono proprio così ingenuo?) ed ha fatto sei mesi di terapia riparativa ultracattolica ed è stato costretto a recitare rosari e preghiere.
Eppure in nessuno di questi quattro incontri è possibile trovare traccia di una terapia ultracattolica, né tanto meno il giornalista ha partecipato o visto alcun corso per guarire dall'omosessualità, né nel report dei test c'è un qualche accenno all'omosessualità, né tantomeno nel mio studio si recitano rosari. Sarebbe interessante capire come una sgangherata inchiesta abbia generato una così potente deformazione della realtà..
Al contrario al finto paziente è stato offerto un percorso rispettoso e scientificamente valido, basato su un colloquio di accoglienza, una valutazione psicodiagnostica, un incontro di restituzione della psicodiagnosi ed un invio ragionato per una psicoterapia individuale di tipo cognitivo.
Nonostante un'attenta lettura avrebbe permesso di rendersi conto dell'infondatezza dei titoli e delle altre ipotesi sparse ad arte nell'articolo da un giornalista in malafede, sicuro di fare lo scoop della sua vita (ed oggi sicuro di dover rispondere civilmente e penalmente ad un Tribunale), il processo mediatico ha comunque avuto inizio, giungendo subito alla mia condanna.
Vorrei inoltre sottolineare come in realtà il racconto fornito dal finto paziente e, questo sì, da lui riportato nel testo della sua presunta inchiesta, non identifichi chiaramente un orientamento omosessuale (non basta infatti aver avuto due rapporti sessuali con altri uomini per potersi identificare tale). Se a questi due rapporti associamo il vissuto emotivo e la storia passata che descrive, è lecito ipotizzare che quei comportamenti possano essere dovuti ad altre cause, e non obbligatoriamente all'orientamento sessuale. Inoltre dalle documentazioni relative ai test, in nessun punto si affronta il tema dell'omosessualità, ma l'esame diagnostico evidenziò alcuni aspetti narcisistico-istrionici. In altri termini in nessun modo risulta che io abbia effettuato una impropria diagnosi di omosessualità e abbia proposto una terapia riparativa. Anche se il giornalista dichiara questo, è anche vero che leggendo lo stesso articolo uno psicologo di media cultura si renderebbe conto che le interpretazioni del giornalista/finto paziente, sulla base degli stessi fatti da lui riportata, è del tutto impropria. Se posso capire che il tam tam mediatico abbia fatto una lettura superficiale, risulta difficile comprendere come mai autorevoli rappresentanti dell'Ordine degli Psicologi, come vedremo fra poco, non siano riusciti ad effettuare una decodifica delle opinioni (tante) del giornalista contraddette dai fatti (pochi) che lo stesso riporta nella fatale inchiesta.


Il rogo mediatico

Dopo la pubblicazione dell'articolo su Liberazione i commenti, le osservazioni, i giudizi e le condanne si sono susseguiti sui giornali e, in particolar modo, su blog, siti e forum in Rete. Il tutto in modo palesemente acritico. Nessuno ha voluto verificare se l'inchiesta di Liberazione, per la verità sgangherata oltre che nel contenuto, anche nella sintassi, potesse essere minimamente credibile. Tutto questo è avvenuto nonostante già nell'articolo si evincessero palesi contraddizioni, e nonostante le varie smentite e le varie precisazioni (Cantelmi, 2007a, 2007b, 2008a, 2008b). Nessuno ha valutato l'attendibilità del giornalista, denunciato il mese prima proprio per un comportamento simile(1), e nessuno ha considerato che alcun paziente si sia mai lamentato o abbia denunciato quanto ha affermato il giornalista/finto-paziente. Nessuna di queste considerazioni ha fatto sì che le affermazioni e le ipotesi presenti nell'articolo fossero adeguatamente verificate prima di essere sostenute, amplificate e commentate, anche da valenti professionisti (penso per esempio ad un clamoroso editoriale di uno psichiatra abile, colto ed intelligente come il dott. Valeriani sull'ottima rivista "L'Altro").
Ma ormai la miccia è stata infiammata, il fuoco si è acceso ed il rogo ha iniziato a bruciare. Si è così cominciato a parlare di "colloqui e terapie inquietanti", di "nido di vipere", di "pentolaccia maleodorant finalmente scoperchiatae". C'è chi si è chiesto come ha fatto il giornalista a "resistere per sei mesi" oppure "chi ha pagato per questi sei mesi" e chi ha invocato per me pene e condanne(2).
Aurelio Mancuso (2007), Presidente Nazionale Arcigay, afferma che "dal racconto si evince che in questi studi di psicologi cattolici reazionari sono presenti molti adolescenti minorenni, portati dai propri genitori, il che significa che queste persone sono in qualche modo forzate a "curarsi" da una patologia inesistente". Si tratta di considerazioni gravissime, non supportate da alcun fatto, ma solo da una considerazione diffamatoria di un giornalista e tuttavia ripresa, amplificata e rilanciata come autentica.
Mancuso chiede inoltre se i costi delle terapie "siano in qualsiasi modo riconosciuti e/o sostenuti finanziariamente dalla sanità pubblica o attraverso fondi derivanti dall'8 per mille" e chiede "l'immediato intervento dell'Ordine Nazionale degli Psicologi e del Ministro alla Salute Livia Turco, affinché queste pericolose pratiche di condizionamento sulle persone cessino immediatamente". E' incredibile il livello di irrealtà: lo stesso giornalista aveva spiegato di essersi rivolto ad uno studio privato privo di alcun finanziamento. Ho pubblicamente invitato Mancuso a visitare il mio studio e a verificare de visu le sue dichiarazioni. Ha pubblicamente risposto che al di là dei fatti è nel dibattito pubblico che si stabilisce la verità.
Vengono intraprese petizioni da inviare all'Ordine degli Psicologi e l'On Grillini presenta un'interrogazione parlamentare al Ministro della Sanità Livia Turco (Grillini, 2008). Ricevo intimidazioni, minacce, sfide, insulti più o meno anonimi.
Nella Newsletter di un'associazione di psicologi, Altrapsicologia.it, si ripete la modalità acritica con la quale la sgangherata inchiesta viene riportata. Si legge "per 6 mesi ha finto di essere gay per potersi sottoporre al percorso terapeutico del Prof. Cantelmi, guru e Presidente dell'Istituto di Terapia Cognitivo Interpersonale, fondatore dell'Associazione italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici e docente di psicologia all'Università Gregoriana, per "guarire" dalla sua (presunta e inventata) omosessualità. Il percorso parte con un colloquio "selettivo" di un prete, prevede la somministrazione dell'MMPI e del Rorscharch e si sofferma sulla quantità e la modalità dei rapporti sessuali consumati. [...] Dopo una serie di colloqui il percorso di guarigione prevede un "corso di gruppo" di orientamento ultra cattolico, sgranare rosari, partecipare a gruppi psicoterapeutici, studio della Bibbia e dei testi di Josè Maria Escrivà (fondatore dell'Opus Dei), il tutto sullo stesso piano. Attraverso questa miscellanea di pratiche il gruppo promette non senza fatica di arrivare alla sospirata "guarigione" (Altrapsicologia, 2008). In questo caso l'autore aggiunge ulteriori affermazioni, piuttosto confuse, non fatte neanche dal giornalista fintosi paziente. E' come se sulla base dei titoli di Liberazione e di una fugace lettura dell'inchiesta, ignorando volutamente ogni mia precisazione, l'estensore della nota di Altrapsicologia avesse lasciato andare la sua mente a libere interpretazioni ricche di suggestivi collegamenti.
Sempre nella stessa Newsletter si può leggere "Non è casuale che in una forma pervertita, questa si,
di psicoterapia al di là e in spregio ad ogni deontologia, il gruppo di Cantelmi usi, senza soluzione di continuità, il Rorschach e il rosario, il colloquio clinico e la "penitenza" tipica delle pratiche di espiazione religiosa. Il professionista dell'aiuto qui non usa infatti i saperi e le tecniche per la risoluzione dei problemi psicologici dei suoi pazienti, non è il paziente al centro della questione, ma la cura della propria ansia e il rafforzamento dell'ideologia. E' infatti aprioristica la convinzione che l'omosessualità sia peccato e patologia e che come tale vada "espiata" oltre che "curata". Qui invece tutto è volutamente confusivo e confondente, in modo da trasformare l'aiuto terapeutico in una gravissima forma di manipolazione del pensiero nel tentativo di adeguarlo al proprio". Qui, colui che commenta la presunta inchiesta di Liberazione aggiunge ancora di sua iniziativa ulteriori invenzioni: non ho mai mescolato Rorscharch e rosari e nessun paziente potrà riferire che nel mio studio abbia ricevuto benedizioni o abbia pregato. Vengo cioè accusato di mescolare psicoterapia e pratiche religiose senza che ve ne sia alcuna prova né nella realtà né nell'articolo fasullo di Liberazione. Peraltro L'Associazione Italiana Psichiatri e Psicologi Cattolici ha sempre condannato ogni sincretismo e soprattutto ogni confusione tra dimensioni spirituali e dimensioni psicologiche (Cantelmi et al., 2004). Infatti, come ampiamente specificato in ogni documento ufficiale, non ritengo che esista una psicologia o una psichiatria cattolica: la scienza è tale senza alcuna etichetta. L'AIPPC ha il compito di promuovere un dibattito fra discipline differenti, quali l'antropologia,la filosofia, la psicologia, la teologia, nella convinzione che questo dibattito arricchisca le singole discipline. Ma questo sembra troppo complesso per l'estensore della nota di Altrapsicologia. Ad onor del vero, la redazione di Altrapsicologia, dopo aver ricevuto le mie proteste, dà successivamente ampio spazio a quanto da me dichiarato.
Professionisti e non solo hanno iniziato ad appellarsi al codice deontologico degli psicologi (in particolare all' art. 43, ma anche agli articoli 34 e 55) e ai manuali diagnostici, in particolare al DSM (manuale diagnostico ufficiale dell'American Psychiatric Association), affermando che già dal 1974 è stata cancellata la diagnosi di Omosessualità e successivamente, nel 1987 (cioè nel DSM-III-R), anche la diagnosi di Omosessualità Egodistonica. Nel primo caso, quello del codice deontologico, la denuncia ed il processo pubblico sono stati effettuati senza una conoscenza diretta dei fatti ed una conferma degli stessi (e nonostante le varie smentite e precisazioni). Per quanto riguarda la questione diagnostica sembra che in molti non abbiano tenuto in considerazione l'evidenza che l'orientamento sessuale egodistonico è tuttora presente sia nell'ultima versione del DSM, il DSM-IV-TR, che nell'ICD-10 versione 2007 (manuale diagnostico ufficiale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità). In quest'ultimo manuale, inoltre, viene specificato che una persona può cercare sostegno al fine di cambiare il proprio orientamento sessuale. Si tratta di una questione complessa che affronterò nel prossimo paragrafo, ma il livello della discussione ha mostrato, come vedremo, una mancanza in alcuni commentatori di conoscenze tecniche preoccupante.
Per quanto attiene al codice deontologico degli psicologi ritengo che, per esempio, nei riguardi degli psicologi "accusati" (i presunti partecipanti alla rete "clandestina" di terapeuti di gay), non siano stati rispettati gli articoli 33 e 36 che, rispettivamente, recitano: "I rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza. Lo psicologo appoggia e sostiene i Colleghi che, nell'ambito della propria attività, quale che sia la natura del loro rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano compromessa la loro autonomia ed il rispetto delle norme deontologiche"; e inoltre "Lo psicologo si astiene dal dare pubblicamente su colleghi giudizi negativi relativi alla loro formazione, alla loro competenza ed ai risultati conseguiti a seguito di interventi professionali, o comunque giudizi lesivi del loro decoro e della loro reputazione professionale". Non mi sembra inoltre che, nei confronti dell'articolo di Liberazione dal quale è nata tutta la polemica, siano state utilizzate le abilità che il codice deontologico prevede all'articolo 7: "Nelle proprie attività professionali [...] lo psicologo valuta attentamente, anche in relazione al contesto, il grado di validità e di attendibilità di informazioni, dati e fonti su cui basa le conclusioni raggiunte; espone, all'occorrenza, le ipotesi interpretative alternative, ed esplicita i limiti dei risultati. Lo psicologo, su casi specifici, esprime valutazioni e giudizi professionali solo se fondati sulla conoscenza professionale diretta ovvero su una documentazione adeguata ed attendibile".
Tra gli altri hanno fatto delle dichiarazioni in merito anche rappresentanti dell'Ordine Nazionale degli Psicologi e dell'Ordine degli Psicologi del Lazio, che, secondo alcuni osservatori, hanno essi stessi violato gli articoli del codice deontologico appena citati.


La posizione dell'Ordine degli Psicologi

In merito alla questione sollevata dall'articolo di Liberazione, il Presidente dell'Ordine Nazionale degli Psicologi, in un documento (a titolo personale? elaborato da una commissione? approvato da chi?) dell'8 gennaio 2008, afferma: "Nell'esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto [...] all'autodeterminazione [...] di chi si avvale delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall'imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, [...] sesso di appartenenza, orientamento sessuale" e conclude "E' evidente quindi che lo psicologo non può prestarsi ad alcuna "terapia riparativa" dell'orientamento sessuale di una persona" (Palma, 2008). Per la verità si tratta di affermazioni generiche e piuttosto condivisibili, come ho pubblicamente affermato, però facilmente strumentalizzabili dato il contesto. Infatti Liberazione titola il giorno seguente: "L'Ordine degli Psicologi condanna Cantelmi". Non mi sono accorto di essere stato processato e condannato (in contumacia?). Ovviamente il Presidente dell'Ordine degli psicologi non c'entra con i titoli strumentali e falsi di Liberazione, però non se la è sentita di smentire Liberazione e di precisare che la sua dichiarazione, benché di buon senso, non era una sentenza nei miei confronti., mostrando così sollecitudini a velocità variabile.
Lo psicoanalista Claudio Risé, sull'Avvenire del 15 gennaio 2008, afferma: <<come si concilia il "diritto all'autodeterminazione e all'autonomia del paziente" col rifiuto di terapie che accolgano il bisogno che egli esprima di modificare il proprio orientamento sessuale? Se una persona credente, con tendenze omosessuali, si rivolge ad un terapeuta perché queste gli causano disagio, lo psicologo può derogare al rispetto di "opinioni e credenze"? In quel caso non rispettando, cioè, la sua fede religiosa, perché ha un orientamento omosessuale>>. Tale domanda, ad oggi, non ha ottenuto ancora nessuna risposta, lasciando aperto il problema del rispetto dei valori religiosi del paziente, del quale mi occuperò in seguito.
Anche l'Ordine Degli Psicologi del Lazio, prima attraverso le dichiarazioni del suo Presidente, Marialori Zaccaria, e poi in una Newsletter inviata ai suoi iscritti, ha preso posizione in merito.
Sulle pagine di Liberazione del 27 dicembre 2007 la dott.ssa Zaccaria afferma "Leggendo l'inchiesta di Liberazione emerge uno spaccato che va contro il codice deontologico della nostra professione. [...] Le terapie riparative non esistono. E' come se un eterosessuale seguisse corsi terapeutici per diventare omosessuale. L'articolo 4 del nostro codice disciplinare parla chiaro: lo psicologo deve rispettare il diritto del paziente astenendosi dall'imporre il proprio codice di valori. Insomma, non deve esserci alcuna discriminazione in base alla religione, l'etnia, l'estrazione sociale, lo stato socio-economico, il sesso, l'orientamento sessuale e la disabilità. [...] Accerteremo senz'altro eventuali responsabilità. [...] Voglio però ribadire che la "terapia riparativa" dell'omosessualità non esiste. [...] Chi dice il contrario dice una falsità scientifica e noi interverremo con una segnalazione alla commissione deontologica". Dichiarazioni rilasciate senza aver avuto il minimo dubbio sulla attendibilità della pseudo-inchiesta e soprattutto senza avere neanche la cortesia di chiedermi anche informalmente delucidazioni.
Nella Newsletter dell'11 gennaio 2008 dell'Ordine degli Psicologi del Lazio è invece possibile leggere: "L'Ordine degli Psicologi del Lazio, in data 9 gennaio 2008 ha chiesto al CNOP l'inserimento di un punto all'ordine del giorno per sottoscrivere un documento che prenda una posizione netta e decisa disconoscendo qualunque trattamento mirato a modificare l'orientamento sessuale del paziente. [...] "; viene quindi fatto riferimento all'intervista apparsa su Liberazione precedentemente citata per poi affermare "Il sentimento di profondo sgomento è nato dal constatare che oggi nel nostro Paese non solo vi sia chi promuove la guarigione dall'omosessualità, ma che sia ancora aperto un dibattito che avrebbe dovuto essere superato da tempo. [...] Sentiamo che è questo il momento giusto per muovere azioni precise affinché principi così fondanti della libertà personale e della convivenza civile siano difesi dall'intera comunità scientifica italiana sull'esempio di quanto già avvenuto negli Stati Uniti. Le associazioni degli psichiatri e degli psicologi americani infatti hanno sentito il bisogno di produrre un documento (Position statement on therapies focused on attempts to change sexual orientation-Reparative or conversion therapies) per disconoscere qualunque trattamento che induca il paziente a modificare l'orientamento sessuale". Come sarà facile dimostrare nel paragrafo successivo,la Zaccaria appare perlomeno non informata correttamente proprio sul documento che cita (e che riporterò ampiamente successivamente), ma al di là di questo le sue affermazioni sembrano non tener conto minimamente la realtà dei fatti e soprattutto le già pubbliche precisazioni da me fatte e ormai riportate correttamente da tutti gli organi di informazione.
Infatti entrambe queste dichiarazioni sono state fatte senza tenere in considerazione né le mia smentita apparsa persino su Liberazione, né le mie precisazioni apparse sia vari quotidiani e diffuse da numerose agenzie, nonché da catene spontanee in tutta la Rete. Dopo le mie rimostranze, la Zaccaria, questa volta con estrema correttezza, in data 15 gennaio, invia una Newsletter straordinaria nella quale afferma "Ad integrazione della precedente @Newsletter (n. 2 del 11 gennaio 2008) riteniamo doveroso riportare il punto di vista del Dott. Cantelmi, così come espresso dallo stesso nel suo articolo pubblicato sul quotidiano "Avvenire" il 10 gennaio 2008, e precisiamo che i fatti esplicitati dai media restano ovviamente tutti da acclarare", fornendo quindi il link dell'Associazione Italiana Psichiatri e Psicologi Cattolici dove poter trovare le varie dichiarazione da me rilasciate. Ne apprezzo il coraggio e la correttezza, ma mi chiedo: perché tanta fretta iniziale e soprattutto tanta superficialità?
Ritengo che un Ordine Professionale non avrebbe dovuto assumere una posizione così forte minacciando indagini e provvedimenti, senza che nessun fatto fosse stato ancora verificato, senza aver prima preso in considerazione le varie smentite, senza aver adeguatamente letto l'inchiesta in questione nella quale, come visto, già si evincevano evidenti contraddizioni, macchinazioni e falsità.
Ritengo altresì che un Ordine Professionale avrebbe dovuto porre più attenzione a chiamare in causa il rispetto di un articolo del codice deontologico, il quarto, a tutela dei diritti di una categoria di persone, quando proprio il rispetto di tale articolo, in particolare in riferimento all'autodeterminazione del paziente e al rispetto dei suoi valori religiosi, contraddice proprio quanto l'Ordine vuole sostenere, come avrò modo di dimostrare nel dettaglio fra poco.
Credo che un Ordine Professionale, nel rispetto degli articoli 336 e 367, avrebbe dovuto tutelare maggiormente gli psicologi accusati, non minacciando o attuando indagini esclusivamente a partire da quanto scritto da un giornalista su un quotidiano. Avrebbero dovuto mantenere lo stesso rispetto anche tutti quegli altri psicologi che, nei vari forum, hanno espresso accuse e condanne. Inoltre, mentre alcuni giornalisti hanno segnalato che l'inchiesta di Liberazione è stata condotta con modalità deontologicamente censurabili, i rappresentati dell'Ordine degli psicologici non hanno minimamente preso in considerazione la qualità dell'inchiesta stessa, assunta come una verità inconfutabile.
In merito al documento citato nella Newsletter dell'Ordine degli Psicologi del Lazio (Position statement on therapies focused on attempts to change sexual orientation-Reparative or conversion therapies) sarebbe stato opportuno fare alcune precisazioni. Il documento è stato prodotto solo dall'American Psychiatric Association, e in esso si può leggere "[...] the American Psychiatric Association opposes any psychiatric treatment [...] which is based upon the assumption that homosexuality per se is a mental disorder or based upon the a priori assumption that a patient should change his/her sexual homosexual orientation", e inoltre "Although there is little scientific data about the patients who have undergone these treatments, it is still possible to evaluate the theories, which rationalize the conduct of "reparative" and conversion therapies". Nello stesso documento sono inoltre presenti le seguenti tre raccomandazioni: a) "APA affirms its 1973 position that homosexuality per se is not a diagnosable mental disorder", b) "As a general principle, a therapist should not determine the goal of treatment either coercively or through subtle influence". c) "The "reparative" therapy literature uses theories that make it difficult to formulate scientific selection criteria for their treatment modality. [...] APA encourages and supports research in the NIMH and the academic research community to further determines "reparative" therapy's risks versus its benefits" (American Psychiatric Association, 2000).
In tale documento non è presente un disconoscimento in assoluto dei trattamenti volti a modificare l'orientamento sessuale del paziente, ma solo di quelli che partono dagli assunti che l'omosessualità sia per se un problema e che il paziente, a priori, debba modificare il proprio orientamento omosessuale. Viene inoltre incoraggiata e sostenuta la ricerca da parte del National Institute of Mental Healh e della comunità di ricerca accademica al fine di determinare rischi e benefici della terapia riparativa.
Dall'articolo pubblicato da Liberazione, trascurando tutta l'involuzione mediatica ed ideologica, sono comunque emersi tre temi di dibattito che vanno adeguatamente ricondotti all'interno di un dialogo squisitamente scientifico: la neutralità del terapeuta (e quindi il rapporto tra i valori del terapeuta e quelli del paziente), il rispetto dei valori religiosi del paziente, l'orientamento sessuale egodistonico ed il suo trattamento. Ritengo opportuno iniziare da quest'ultimo punto, il più controverso e soggetto a derive ideologiche, come dimostrato per esempio dalla superficialità di alcune dichiarazioni di pur autorevoli psicologi.


L'orientamento sessuale egodistonico

L'omosessualità è stata introdotta come categoria diagnostica fin dalla prima edizione del 1952 del DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali ad opera dell'America Psychiatric Association. E' stata mantenuta come tale anche nella seconda edizione del 1968. In un documento approvato definitivamente nel dicembre del 1973 è stata proposta ed accettata la seguente modifica al DSM: "A proposal About Homosexuality and the APA Nomenclature: Homosexuality as One Form of Sexual Behavior and Sexual Orientation Disturbance as a Psychiatric Disorder". Nell'edizione del 1974 del DSM-II l'omosessualità viene cancellata dai disturbi mentali ed è possibile trovarla esclusivamente come disturbo dell'orientamento sessuale relativamente al quale, sempre nello stesso documento, si può leggere: "This diagnostic category is distinguished from homosexuality, which by itself does not constitute a psychiatric disorder." E ancora: "These individuals have a psychiatric condition by the criterion of subjective distress, whether or not they seek professional help. [...] This is for individuals whose sexual interests are directed primarily toward people of the same sex and who are either bothered by, in conflict with, or wish to change their sexual orientation". (American Psychiatric Association, 1973)
Le commissioni incaricate di redigere la versione successiva del DSM, in un lavoro che durò dal 1976 al 1978 e si concretizzò, nel 1980, nella pubblicazione del DSM-III, elaborarono la diagnosi di Omosessualità Egodistonica, così definita: (a) a persistent lack of heterosexual arousal, which the patient experienced as interfering with initiation or maintenance of wanted heterosexual relationships, e (b) persistent distress from a sustained pattern of unwanted homosexual arousal.
Nella revisione alla terza versione pubblicata nel 1987 (DSM-III-R) fu eliminata anche la categoria di Omosessualità Egodistonica. Questo per più di un motivo: la diagnosi veniva usata raramente in ambito clinico ed erano presenti pochi articoli scientifici che utilizzavano tale concetto; esisteva già, tra i Disturbi Sessuali NAS, un disturbo descritto come "Persistente e intenso disagio riguardo all'orientamento sessuale" e mantenere una diagnosi separata per l'omosessualità veniva considerata una forma di stigmatizzazione, infine perché quasi tutte le persone omosessuali passano attraverso una fase nella quale vivono il loro orientamento sessuale in modo egodistonico.
Nelle versioni successive del DSM (American Psychiatric Association, DSM-IV, 1994; American Psychiatric Association, DSM-IV-TR, 2000) è stata mantenuta, tra i Disturbi Sessuali NAS, la diagnosi che prevede un persistente ed intenso disagio collegato al proprio orientamento sessuale.
Nella versione del 2007 dell'ICD (International Classification of Deseases), la classificazione ufficiale dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, le patologie correlate all'orientamento sessuale sono incluse nella categoria "Disorders of adult personality and behaviour" nella sottocategoria "Psychological and behavioural disorders associated with sexual development and orientation", all'interno della quale possiamo trovare, dopo la seguente nota "Sexual orientation by itself is not to be regarded as a disorder", quanto segue:
* F66.0 Sexual maturation disorder: The patient suffers from uncertainty about his or her gender identity or sexual orientation, which causes anxiety or depression. Most commonly this occurs in adolescents who are not certain whether they are homosexual, heterosexual or bisexual in orientation, or in individuals who, after a period of apparently stable sexual orientation (often within a longstanding relationship), find that their sexual orientation is changing.
* F66.1: Egodystonic sexual orientation: The gender identity or sexual preference (heterosexual, homosexual, bisexual, or prepubertal) is not in doubt, but the individual wishes it were different because of associated psychological and behavioural disorders, and may seek treatment in order to change it.
* F66.2: Sexual relationship disorder: The gender identity or sexual orientation (heterosexual, homosexual, or bisexual) is responsible for difficulties in forming or maintaining a relationship with a sexual partner. (World Health Organization, 2007)

Vediamo quindi come vengono considerate varie forme di disagio collegate al proprio orientamento sessuale, incluso l'orientamento sessuale egodistonico. In particolare è da notare la specificazione che viene fatta relativamente a quest'ultimo, laddove si precisa che l'individuo può desiderare che il proprio orientamento sessuale sia differente a causa di disturbi psicologici o comportamentali associati e per questo può chiedere un trattamento al fine di cambiarlo.
In entrambi i manuali diagnostici ufficiali più utilizzati, l'orientamento sessuale egodistonico viene quindi considerato una disturbo mentale e, sebbene ci sia molto timore e riluttanza nei confronti delle terapie di cambiamento dell'orientamento sessuale, non è stata presa nessuna decisione ufficiale da parte degli Ordini professionali al fine di vietare questo tipo di intervento.
Come visto precedentemente l'American Psychiatric Association, in una risoluzione del 2000 che amplia, ma non disconferma, una prima risoluzione del 1998, afferma: "[...] the American Psychiatric Association opposes any psychiatric treatment [...] which is based upon the assumption that homosexuality per se is a mental disorder or based upon the a priori assumption that a patient should change his/her sexual homosexual orientation", condannando quindi solo le terapie che considerano l'omosessualità una patologia per se e che, a priori, ritengono il cambiamento di orientamento sessuale il tipo di terapia da intraprendere.
L'American Psychological Association, in una risoluzione del 1997 dice: "The Council of Representatives of the American Psychological Association (APA) has passed a resolution affirming four basic principles with regard to treatments to alter sexual orientation, so-called conversion or reparative therapies. These principles are: a) Homosexuality is not a mental disorder and the APA opposes all portrayals of lesbian, gay and bisexual people as mentally ill and in need of treatment due to their sexual orientation; b) Psychologists do not knowingly participate in or condone discriminatory practices with lesbian, gay and bisexual clients; c) Psychologists respect the rights of individuals, including lesbian, gay and bisexual clients to privacy, confidentiality, selfdetermination and autonomy; d) Psychologists obtain appropriate informed consent to therapy in their work with lesbian, gay and bisexual clients." In nessuno di questi principi si legge una condanna, ma l'espressione di una cautela relativa al timore che vi possa essere una discriminazione o un'imposizione da parte del terapeuta nei confronti del paziente.
L'American Counseling Association, in un documento del 22 maggio 2006 (Ethical issues related to conversion or reparative therapy), fornisce delle linee guida per tutti i counsellor che decidono di intraprendere con il loro paziente un percorso di cambiamento dell'orientamento sessuale.
Da questi documenti ufficiali è possibile notare come le maggiori associazioni americane di psichiatri, psicologi e counsellor non hanno vietato le terapie di cambiamento dell'orientamento sessuale, qualora egodistonico, ma hanno espresso dei timori e delle perplessità, ponendo dei chiari confini per chi decide di intraprenderle al fine di vedere rispettati i diritti ed i valori dei pazienti. La condanna è esclusivamente rivolta a tutte quelle terapie che considerano l'omosessualità una patologia in sé, e che considerano la "terapia riparativa" a priori come il tipo di trattamento da intraprendere.
A tal proposito Cummings e O'Donohue (2005) ricordano che nel 2002 ci furono dei tentativi senza esito, da parte del Council of Representatives, di vietare, perché non etiche, le terapie per cambiare l'orientamento sessuale. In tale occasione, in una serie di lettere ai vari componenti dell'American Psychological Association, l'ex presidente Robert Perloff fece riferimento alla volontà di molti psicologi di calpestare i diritti al trattamento dei pazienti negli interessi della correttezza politica. Sottolineò che rendere quel tipo di trattamento non etico avrebbe deprivato un paziente della scelta del trattamento. Come afferma Spitzer (2003) la capacità di fare questa scelta dovrebbe essere considerate fondamentale per l'autonomia e l'autodeterminazione del paziente.
In modo ancora più specifico Haldeman (2002) afferma che, tenendo conto della distinzione tra identità religiosa ed orientamento sessuale, gli psicologi non hanno il diritto di interferire con il diritto dell'individuo di intraprendere il trattamento scelto. Questo in quanto le organizzazioni di salute mentale hanno adottato delle regole riguardanti le terapie di cambiamento dell'orientamento sessuale affermando il diritto dei pazienti LGB a trattamenti adeguati e rifiutando trattamenti basati sulla premessa che l'omosessualità sia un disturbo mentale trattabile. Ad ogni modo tali organizzazioni non hanno vietato completamente la pratica di tali terapie per quegli individui per i quali le proprie preoccupazioni religiose o spirituali possono assumere un valore prioritario rispetto all'orientamento sessuale.
Tale approccio è possibile notarlo anche all'interno delle riviste scientifiche dove il tema del cambiamento di orientamento sessuale non viene aprioristicamente condannato ma, come suggerito dall'America Psychiatric Association, viene apertamente dibattuto in un clima di confronto (Haldeman, 1994; Cruiz, 1999; Shidlo e Schroeder, 2002; Haldeman, 2002; Throckmorton, 2002; Yarhouse e Throckmorton, 2002; Fortier e Julien, 2003; Ford e Hendrick, 2003; Jones e Botsko, 2003; Lasser e Gottlieb, 2004).
In aggiunta alle indicazioni degli Ordini professionali prima menzionate, anche alcuni specialisti hanno elaborato delle indicazioni deontologiche per chi decide di intraprendere questo tipo di terapia. (Throckmorton, 1998, 2002; Yarhouse 1998a, 1998b; Shidlo & Schroeder, 2000).
Ci auguriamo che anche in Italia sia possibile fare ricerca riguardo il tema della maturazione dell'orientamento sessuale, dell'orientamento sessuale egodistonico e della sua terapia. Questo anche tenendo conto che non è stato ancora definito, in maniera chiara ed univoca, quali siano i fattori alla base dello sviluppo dell'orientamento sessuale (D'Augelli, 1996; American Academy of Pediatrics, 2004; American Psychological Association, 2008; Association of Gay and Lesbian Psychiatrist, 2008; Molecular Genetic Study of Sexual Orientation, 2008; Patterson, 2008). Questo non potrà avvenire finché, come afferma Risè (2008), l'ascolto e l'accoglienza del dolore umano saranno vittima dell'ideologia che pretende di distinguere tra sofferenze "giuste", ascoltabili, e sbagliate, inaccettabili.
Come affermano Liotti e Tombolini (2006), "sarebbe [...] paradossale se la storicamente assai faticosa e dolorosa conquista del diritto di vedere riconosciuto [...] senza conflitti il proprio orientamento omosessuale dovesse essere pagata da alcune vittime di violenze sessuali e di storie drammatiche di attaccamento nell'infanzia (non importa quanto poco numerose) a un prezzo inaccettabile: vedere misconosciuta da terapeuti superficiali la propria ricerca di autenticità ed egosintonia nell'ipotesi di un cambiamento di uno stile di vita sessuale fino a quel momento imposto dalla natura e dalle conseguenze di traumi relazionali".
In considerazione di tutto ciò appare davvero superficiale la posizione espressa da alcuni rappresentanti dell'Ordini degli Psicologi: non è possibile liquidare la questione con dichiarazioni rilasciate sulla pressione di alcuni gruppi sociali, senza una adeguata riflessione scientifica.


Valori e psicoterapia: l'utopia della neutralità

Secondo Renik (1996), il concetto di neutralità è pieno di buone intenzioni ma non riesce comunque a svolgere il compito per il quale è stato formulato: esso non ci fornisce un obiettivo utile sul quale basarci mentre svolgiamo il nostro lavoro di analisi clinica.
Questa visione è sostenuta dall'epistemologia contemporanea che ha mutato la nozione di realtà e di osservatore, e che ha finito con il rendere sempre più insostenibile qualsiasi ricerca della validità della conoscenza indipendentemente da soggetto conoscente. La realtà non è più considerata unica ed oggettivamente data una volta per tutte, ma viene vista alla stregua di una rete di processi multidirezionali interconnessi tra loro ed articolati in livelli multipli di interazione simultaneamente presenti ma irriducibili l'uno all'altro.
Come afferma Guidano (1996) in questa dinamica l'osservatore, anzi, la sua osservazione introduce un ordine in questa rete di processi interconnessi, grazie al quale le possibili ambiguità inerenti alle interazioni multiple e simultanee che continuamente hanno luogo acquistano invece, ai suoi occhi, caratteristiche di univocità e necessarietà. In altre parole, lungi dall'essere esterna e quindi "neutra", ogni osservazione è autoreferenziale, riflette sempre se stessa, e cioè l'ordine percettivo su cui si basa, piuttosto che le qualità intrinseche dell'oggetto percepito. Inoltre, dato che è impossibile distinguere il nostro ordinamento del mondo dal nostro essere nel mondo, la conoscenza individuale è inseparabile dall'esperienza personale. Viene allora a cadere la possibilità di un punto di vista esterno ed imparziale, grazie al quale diventa possibile analizzare la conoscenza a prescindere dal soggetto conoscente.
I terapeuti non rimangono liberi dai loro valori anche quando intendono farlo (Houts & Graham, 1986; Kelly, 1990). Negli anni una crescente letteratura sul ruolo dei valori in psicoterapia ha confermato che la terapia non è un'esperienza priva del coinvolgimento valoriale (ad es. Kelly e Strupp, 1992; Beutler & Bergan, 1991; Bergin, 1991, 1980; Kelly, 1990; Jensen & Bergin, 1988; Daines, 1988; Beutler, Crago, & Arizmendi, 1986; London, 1986; Tjeltveit, 1986; London, 1986; Houts & Graham, 1986; Arizmendi, Beutler, Shanfield, Crago, e Hagaman, 1985; Lovinger, 1984; Beutler, Arizmendi, Crago, Shanfield, & Hagaman, 1983; Strupp, 1980; Weisskopf-Joelson, 1980; Strupp & Hadley, 1977; Lowe, 1976). Il vero problema non è quindi come essere neutri, quanto piuttosto come utilizzare i valori a vantaggio della terapia senza abusare del potere terapeutico e della vulnerabilità del paziente e purtroppo, in merito a questo, la ricerca è molto scarsa. Inoltre, come afferma Bergin (1991), i terapeuti non sono addestrati a concettualizzare la terapia in termini valoriali e ad utilizzare i valori nel percorso terapeutico.
Strupp (1980) ha affermato che è inevitabile che il cliente divenga consapevole dei valori del terapeuta, non importa quanto questi cerchi di essere neutrale durante gli incontri. In più, sostiene che avere un terapeuta completamente neutrale può danneggiare alcuni clienti che hanno bisogno di una relazione con un essere umano 'reale', piuttosto che un tecnico impersonale. Secondo Rappoport (s.a.) nello sforzo di agire professionalmente, diveniamo enigmatici, frustranti, difensivi e, a volte, traumatizzanti.
Un ampio numero di studi empirici forniscono prove che i clienti vengono sicuramente influenzati dai valori del terapeuta. Uno studio di Houts & Graham (1986) sembra confermare che i valori giocano un ruolo importante nel processo, nell'esito e anche nell'assessment della terapia. In altri studi la convergenza tra i valori del terapeuta e quelli del cliente è stata associata al miglioramento del cliente (Arizmendi, Beutler, Shanfield, Crago, & Hagaman, 1985; Beutler, Arizmendi, Crago, Shanfield, & Hagaman, 1983; Beutler, 1979, 1981; Beutler, Pollack, & Jobe, 1978; Hlasny & McCarrey, 1980; Richards & Davison, 1989). In una review Kelly (1990) concluse che è possibile affermare che la convergenza dei valori del terapeuta e del cliente avviene nel corso della terapia, ed è collegata ad un'iniziale differenza nei valori tra di loro (Beutler, Arizmendi, Crago, Shanfield, & Hagaman, 1983); ed inoltre che la convergenza dei valori è collegata alla valutazione del terapeuta dei miglioramenti del cliente (Beutler, 1979; Kelly, 1990; Rosenthal, 1955; Tjeltviet, 1986) o al modo in cui il cliente misura i propri miglioramenti (Beutler et al, 1983).
Contrariamente i valori del terapeuta non sembrano cambiare (Rosenthal, 1955; Tjeltveit, 1986), suggerendo che il termine "convergenza valoriale" sia inappropriato, quando sono solo i valori del paziente a modificarsi (Tjeltveit, 1986).
Quello che appare importante è che i terapeuti non sembrano avere un controllo cosciente di questo processo di conversione. In più, anche quando sono consapevoli della natura valoriale della terapia, tipicamente non sembrano concettualizzare il loro lavoro in termini di valori (Williams, 2004). Come affermano Williams e Levitt (2007), queste scoperte farebbero sì che il timore di Meehl (1959), che la ricerca potesse dimostrare che tutti i terapeuti sono dei cripto-missionari, sia divenuto la nostra realtà. Nonostante questo c'è poca ricerca su come i terapeuti negoziano i conflitti di valori ed il ruolo dei valori in terapia.
Ritengo che la posizione migliore per il terapeuta, consapevole che la terapia non possa essere un'impresa priva del coinvolgimento valoriale, sia quella di (a) divenire consapevole dei propri valori e del modo in cui questi possono influenzare il processo terapeutico ed i soggetti coinvolti, (b) essere esplicito riguardo i proprio valori; (c) saper concettualizzare la psicoterapia in termini valoriali o essere consapevole dei valori che soggiacciono al processo terapeutico. Purtroppo non esiste una formazione specifica che aiuti gli psicoterapeuti in questa impresa.
In molti hanno sostenuto che i terapeuti debbano essere in grado di esaminare i propri valori (Bergin, 1980,1985; Beutler, 1979; Herr & Niles, 1988; Strupp, 1980; Tjeltveit, 1989; Walker, Ulissi, & Thurber, 1980; Weisskopf-Joelson, 1980). Tenendo conto dell'influenza dei valori nella psicoterapia Vachgn e Agresti (1992), a prescindere dall'approccio utilizzato nel dialogare con i valori in psicoterapia, le abilità di base richieste sono quella di tradurre ogni aspetto della terapia nei valori impliciti che gli soggiacciono. Houts & Graham (1986) sostengono che i training di formazione psicologica debbano considerare di includere una sensibilizzazione alla componente valoriale che renda gli studenti in grado di riconoscere i propri valori e di divenire più sensibili a quelli dei loro pazienti.
Un ampio numero di scrittori ha sostenuto la posizione che i terapeuti dovrebbero essere espliciti con il paziente circa i propri valori, prima e durante la terapia (Renik, 2001; Bergin, 1991, 1985, 1980; Coyne & Widiger, 1978; Hare-Mustin, Marecek, Kaplan, & Liss-Levinson, 1979; Humphries, 1982; Lewis, Davis, & Lesmeister, 1983; Weisskopf-Joelson, 1980). Bergin (1991) sostiene che più il terapeuta è onesto circa i propri valori, più probabilmente il paziente sarà in grado di mettere in atto risposte nei confronti delle scelte valoriali che sono sottostanno agli obiettivi e alle procedure del trattamento. Secondo tale Autore la strategia di essere vago o obbiettivo non funziona perché (a) spesso prendere una posizione valoriale in quel silenzio può esser visto come un consenso per certe azioni; (b) le proprie inclinazioni vengono comunque comunicate in momenti critici essenzialmente involontariamente (Murray, 1956; Truax, 1966); (c) il paziente può sentirsi biasimato, messo in pericolo o autorizzato; (d) le resistenze del paziente possono non essere dovute a motivi interni al paziente, bensì una risposta alla personalità dell'analista (Bader, 1995).
Infine, come sostiene Doherty (1997), credo sia importante includere il "discorso morale nella pratica psicoterapeutica" e "sviluppare nei terapeuti le virtù e le capacità necessarie per divenire per i loro clienti dei consulenti che abbiano un riferimento morale, in un mondo troppo dispersivo e moralmente opaco". Afferma inoltre che "[...] influenziamo inevitabilmente il comportamento e i pensiero morale dei nostri pazienti; [...] Il punto cruciale è come essere rispettosi dell'altro e responsabili della nostra influenza sui pazienti. [...] I terapeuti hanno il privilegio di stare con le persone in momenti di particolare intensità personale e morale delle loro vite. In precedenza potevamo credere ingenuamente di [...] poter mantenere le mani pulite dalle scorie morali delle decisioni dei pazienti e ancora di poter sfuggire all'infinito la responsabilità di definirci moralmente nei nostri ruoli professionali verso i nostri pazienti, i nostri colleghi e la collettività. Ormai non possiamo più nasconderci dietro il velo da incantatore dell'obiettività e della neutralità morale".


Valori religiosi e psicoterapia

Come affermano Houts e Graham (1985), negli ultimi anni la popolazione ha mostrato un rinnovato coinvolgimento nei tradizionali valori religiosi (Religion in America, 1981). Questo processo sembra stia avvenendo anche in psicologia. Sebbene la psicologia abbia le sue radici storiche nella filosofia e nella religione (James, 1890, 1902), nel corso del XX secolo si è concentrata sullo studio della mente, poi del comportamento, e in seguito ai substrati neuronali del comportamento. Dopo aver perso prima il suo spirito e poi la sua mente, la psicologia è gradualmente tornata allo studio della cognizione e, più recentemente, sta dimostrando segni di rinnovato interesse per la spiritualità e la religione. (Delaney, Miller e Bisonò, 2007; Miller & Delaney, 2005; Richards & Bergin, 2005).
Molti studi hanno dimostrato inoltre correlazioni positive tra il coinvolgimento in una religione e la salute mentale (Gartner, Larson, & Allen, 1991; Hackney & Sanders, 2003; Koenig & Larson, 2001; Koenig, McCullough, & Larson, 2001; Larson et al., 1992; Payne, Bergin, Bielema, & Jenkins, 1991; Seybold & Hill, 2001). Coloro che frequentano regolarmente attività religiose hanno una riduzione della mortalità del 25%, anche dopo adeguati aggiustamenti relativi a variabili demografiche, socioeconomiche, relative allo stato di salute e ad altri fattori di rischio (Powell, Shahabi, & Thoresen, 2003). L'aspettativa di vita di coloro che frequentano funzioni religiose almeno una volta a settimana è di sette anni maggiore di coloro che non le frequentano (Hummer, Rogers, Nam, & Ellison, 1999). Allo stesso modo Gartner (1996) riferisce, tra gli studenti del college, una relazione negativa tra religiosità e suicidio, e tra frequentazione della chiesa e divorzio.
L'introduzione nel DSM-IV dei problemi spirituali e religiosi, tra le "Altre condizioni che possono essere oggetto di attenzione clinica", come "esperienze di disagio che riguardano perdita o messa in discussione della fede, problemi associati alla conversione ad una nuova fede, o messa in discussione di valori spirituali che non devono necessariamente essere connessi ad una chiesa o ad un'istituzione religiosa organizzata" è un riconoscimento importante in questa direzione, che va però messo in relazione in relazione ai due terzi degli psicologi clinici che riferiscono carenza di competenze personali per aiutare I clienti con questo tipo di problemi. (Shafranske & Malony, 1990).
Varie ricerche hanno trovato che, relativamente alla popolazione, gli psicoterapeuti americani sono molto meno religiosi in merito ad affiliazione, frequenza, credo e valori (Beit-Hallahmi, 1977; Bergin, 1980; Bergin & Jensen, 1990; Ragan, Malony, & Beit-Hallahmi, 1980). Simili diversità tra i professionisti della salute mentale ed i pazienti in merito alla religione sono state riscontrate in Australia (Kahn & Cross, 1983) e nel Regno Unito (Neeleman & King, 1993; Smiley, 2001).
Relativamente agli altri professionisti della salute mentale, gli psicologi hanno dimostrato di essere con minore probabilità sostenitori di una particolare religione (Roper Center, 1991), di essere meno probabilmente credenti in un dio trascendente, di avere livelli più bassi di partecipazione ad attività religiose, e di manifestare meno conoscenza della tradizione giudeo-cristiana (Ragan et al., 1980) Così la propria prospettiva riguardo la religione, e le proprie carenze ad essa relative, posso influire negativamente sui risultati della terapia (Hillowe, 1985; Propst et al., 1992; Shafranske & Malony, 1990; Worthington, 1988).
In una ricerca recente Delaney, Miller e Bisonò (2007) hanno trovato che gli psicologi americani, relativamente alla popolazione generale, in una percentuale doppia affermano di non sostenere nessuna religione, in una percentuale tripla descrivono la religione come non importante nella loro vita, e in una percentuale cinque volte maggiore negano di credere in Dio. Con minore probabilità pregano, sono membri di congregazioni religiose e vanno in chiesa. Sembra essere un'esperienza relativamente frequente aver perso la fede in Dio ed essersi disaffezionati ad una religione istituzionale. Degli psicologi del campione che avevano creduto in Dio il 27% aveva rinunciato alla propria fede. Questa perdita di fede non è comune nella popolazione normale, nella quale avviene nel 4% delle persone. Solo gli psicologi che professano le religioni protestante o cattolica sembrano somigliare di più alle convinzioni e alla pratica religiosa della popolazione degli Stati Uniti.
Queste ricerche confermano un gap più o meno consistente tra gli psicoterapeuti e la popolazione in quanto a religiosità e a partecipazione ad attività religiose. Tale divario rischia di danneggiare l'abilità di relazionarsi con i clienti religiosi e di trattarli, e ha portato alla preoccupazione che alcuni pazienti possano essere riluttanti a incontrare professionisti della salute mentale a causa del timore di come questi potrebbero rispondere ai loro valori e alle loro convinzioni religiose, o che li possano vedere come intrinsecamente patologici (Bergin, 1991; Worthington & Scott, 1983; cf. Shafranske & Malony, 1990). Questo potrebbe portare tali pazienti a chiedere aiuto e ad affidarsi a servizi di tipo religioso (Bergin, 1991; Veroff, Kulka, & Douvan, 1981).
Ciò può essere particolarmente vero quando la discussione è incentrata su problematiche di natura sessuale in quanto le ricerche, già a prescindere dagli orientamenti religiosi del terapeuta e del paziente, hanno indicato che la sessualità è una delle aree principali di disaccordo, in quanto i valori dei terapeuti sono tipicamente più liberali di quelli dei clienti (es. Khan & Cross, 1983; Roman, Charles, & Karasu, 1978). Questo è quindi particolarmente vero quando abbiamo di fronte un cliente religioso.
Inoltre i valori religiosi del terapeuta sembrano influire sul tipo di ipotesi che fa riguardo i problemi del paziente, in modo diverso se i valori sono o no congruenti. (Houts & Graham, 1986)
Sebbene vari autori (Kelly e Strupp, 1992; Tjeltveit, 1986; Serlin, 2004) evidenzino che la similarità paziente-terapeuta riguardo i valori religiosi possa funzionare coma una variabile di collegamento, non è sempre così. Ad esempio Propst et al. (1992) trovarono che i pazienti religiosi lavoravano meglio con psicoterapeuti non religiosi che però erano stati addestrati a fornire una psicoterapia ad orientamento religioso. Rimane comunque il fatto che il tema della religiosità deve essere affrontato nei percorsi di formazione (Delaney, Miller e Bisonò, 2007, DiClemente & Delaney, 2005; Miller, 1999). Questo bisogno è stato sottolineato dalle precedenti ricerche sugli psicologi clinici che indicano come l'83% riferisca che le problematiche religiose o spirituali venivano presentate raramente o mai nella loro formazione. (Shafranske & Malony, 1990). Ad esempio dovrebbero essere affrontati i vantaggi e gli svantaggi dello svelamento dei valori dello psicoterapeuta (ad esempio attraverso il consenso informato) (Tjeltveit, 1986). Secondo Serlin (2004) dovrebbero essere trasmesse una familiarità con le differenze tra spiritualità e religione, la capacità di distinguere tra esperienze religiose e spirituali sane e patologiche, e una consapevolezza di come possono essere sia un problema che una dimensione d'aiuto in psicoterapia. Tenendo conto del rapporto tra fede e salute mentale è inoltre importante valutare la storia religiosa o spirituale dei propri clienti, la forza spirituale, i meccanismi di coping del cliente così come le relazioni utili che può instaurare nella sua comunità spirituale o religiosa. (Serlin ,2004; Miller, 1999; Gorsuch & Miller, 1999; Hill & Hood, 1999)
I dati e le riflessioni fin qui delineati mettono in evidenza il rischio che molti pazienti non vengano trattati in una struttura valorialmente congeniale perché molti clinici non capiscono o non simpatizzano con il contenuto culturale della visione religiosa del mondo, ma negano la sua importanza e obbligano i pazienti in valori e strutture concettuali alieni (Bergin, 1983, 1991; Lovinger, 1984). La comprensione ed il sostegno psicologici delle diversità culturali sono stati esemplari per il rispetto della razza, del genere e dell'etnia, ma la tolleranza e l'empatia non hanno ancora raggiunto adeguatamente il paziente religioso. (Bergin, 1991)


Considerazioni conclusive

In conclusione mi sembra che il codice deontologico dell'Ordine degli Psicologi prevede che i terapeuti rispettino la dimensione valoriale di ciascun paziente. E invece c'è una curiosa discriminazione: mi sembra, alla luce delle tante segnalazioni che ricevo, che psicologi e psicoterapeuti non rispettino il codice valoriale di pazienti credenti. Mi sembra un problema grande: una persona omosessuale credente, che sente di non potersi identificare con il modello gay, che ha gravi e profondi conflitti e che chiede aiuto deve per forza essere curato perché assuma la condizione di gay (terapia affermativa) o può essere aiutato a verificare attraverso una psicoterapia la sua situazione in ogni aspetto?
Ma al di là dell'omosessualità la discriminazione dei credenti che chiedono aiuto allo psicoterapeuta è tale quando lo psicoterapeuta non riconosce l'importanza per il paziente della dimensione religiosa e dei valori a essa connessa. D'altro canto solo un ingenuo può pensare che lo psicoterapeuta sia neutro: come abbiamo visto vari studi dimostrano che i valori dello psicoterapeuta irrompono nelle terapie. E allora? E allora la posizione più etica è proprio quella degli psicologi e degli psicoterapeuti che esplicitano i riferimenti antropologici e le premesse del loro agire. La posizione di dubbia eticità è invece proprio quella di coloro che si nascondono dietro una ambigua quanto irrealistica dichiarazione di neutralità. In recenti lavori che ho pubblicato ho dato rilievo ad alcuni dati. Un dato in particolare mi sembra impressionante: la maggior parte dei pazienti credenti non si sente capita e accettata dagli psicoterapeuti e percepisce una sostanziale discriminazione per quanto attiene la dimensione religiosa (Cantelmi 2004).
Ritengo pertanto che sia giunta l'ora di denunciare la vera discriminazione: l'impossibilità per molti credenti di ricevere aiuto da psicoterapeuti rispettosi dei valori religiosi proclamati dal paziente. Forse è su questo che occorrerebbe aprire un dibattito sereno.


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Note:

1 )"Il Coisp presenta denuncia-querela presso la Procura di Roma contro il giornalista Davide Varì, del quotidiano "Liberazione", per aver manipolato dichiarazioni del Coisp e pertanto diffamato lo stesso sindacato e la Polizia a mezzo stampa. [...] Il Co.I.S.P., in data 17 novembre, veniva citato in un articolo apparso sul quotidiano "Liberazione" del Partito della Rifondazione Comunista, ove, a pagina 6, venivano riportati alcuni contenuti del comunicato, opportunamente modificati al fine di farne strumento contro la Polizia di Stato. [...] Le parole testuali del Co.I.S.P. sono state palesemente manipolate dal giornalista al punto da fare affermare a questo Sindacato una cosa ben diversa da ciò che era nelle sue intenzioni e che aveva scritto, addirittura il giornalista si inventa da parte del Co.I.S.P. una chiara accusa nei confronti dell'Amministrazione della P.S. inserendo ad arte quel "Avete consegnato" di cui non v'è traccia nel comunicato di questo Sindacato" (COISP, 2007).
2) Tutte affermazioni verificabili cercando su Internet.
3 )"Nell'esercizio della professione, lo psicologo rispetta la dignità, il diritto alla riservatezza, all'autodeterminazione ed all'autonomia di coloro che si avvalgono delle sue prestazioni; ne rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall'imporre il suo sistema di valori; non opera discriminazioni in base a religione, etnìa, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità. Lo psicologo utilizza metodi e tecniche salvaguardando tali principi, e rifiuta la sua collaborazione ad iniziative lesive degli stessi."
4) "Lo psicologo è consapevole della responsabilità sociale derivante dal fatto che, nell'esercizio professionale, può intervenire significativamente nella vita degli altri; pertanto deve prestare particolare attenzione ai fattori personali, sociali, organizzativi, finanziari e politici, al fine di evitare l'uso non appropriato della sua influenza, e non utilizza indebitamente la fiducia e le eventuali situazioni di dipendenza dei committenti e degli utenti destinatari della sua prestazione professionale."
5 )"Lo psicologo è tenuto a mantenere un livello adeguato di preparazione professionale e ad aggiornarsi nella propria disciplina specificatamente nel settore in cui opera. Riconosce i limiti della propria competenza ed usa, pertanto, solo strumenti teorico-pratici per i quali ha acquisito adeguata competenza e, ove necessario, formale autorizzazione. Lo psicologo impiega metodologie delle quali è in grado di indicare le fonti ed i riferimenti scientifici, e non suscita, nelle attese del cliente e/o utente, aspettative infondate".
6) I rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza. Lo psicologo appoggia e sostiene i Colleghi che, nell'ambito della propria attività, quale che sia la natura del loro rapporto di lavoro e la loro posizione gerarchica, vedano compromessa la loro autonomia ed il rispetto delle norme deontologiche.
7) Lo psicologo si astiene dal dare pubblicamente su colleghi giudizi negativi relativi alla loro formazione, alla loro competenza ed ai risultati conseguiti a seguito di interventi professionali, o comunque giudizi lesivi del loro decoro e della loro reputazione professionale.


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