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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Medicina di Base e Psichiatria

La ferita del guerriero ovvero dove si nasconde la medicina

di Giancarlo Stoccoro*




Il chirurgo ferito maneggia l’acciaio
Che indaga la parte malata;
Sotto le mani insanguinate sentiamo
L’arte tagliente e pietosa di chi guarisce
E scioglie l’enigma del diagramma della febbre.

La nostra unica salute è la malattia
Se obbediamo all’infermiera morente
La cui cura costante non è di piacere
Ma di ricordarci la maledizione nostra e d’Adamo,
E che per guarire la nostra malattia deve peggiorare.

Tutta la terra è il nostro ospedale
Finanziato da un milionario in rovina,
Dove, se va bene, moriremo
Dell’assoluta cura paterna
Che non ci lascerà mai, ma non ci permette di arrivare
in nessun luogo.

T. S. Eliot


Come ben suggeriscono gli autori del libro Dall’altra parte, titolo anche del nostro convegno, la tanto auspicata umanizzazione della medicina attuale non può prescindere dal riconoscimento della soggettività non solo di chi viene curato ma anche di chi cura. Se il medico-tecnico si accosta solo alla malattia, il medico-persona può incontrare finalmente la persona sofferente.
Che siano dei medici ammalati a gettare per primi la maschera e a farsi promotori di una radicale riforma sanitaria che restituisca finalmente un volto e un’anima alla cura, in un universo “devalorizzato” da una visione scientifica e positivistica, non può certo sorprendere. <<Non vanno colpevolizzati>> i colleghi per l’irresistibile <<fascinazione per il grande potere che la loro scienza gli dona>> piuttosto <<invitati a incontrare se stessi e a perdonarsi>> vedendo <<la malattia in sé, attraverso sé, come una cosa che li riguarda>> come recita l’introduzione al bel libro di Bartoccioni, Bonadonna e Sartori. Del resto, se Il medico nell’età della tecnica veste sempre più i panni del guerriero senza macchia e senza paura, se cioè la medicina è sempre più difensiva e armata di protocolli e procedure, forte è la collusione della fabbrica della salute con la delega di una società che mira a realizzare fitness, benessere e negazione del comune destino. Concepita “solo per guarire”, la Evidence Based Medicine (EBM) è impegnata in un estenuante “corpo a corpo” dove “il rigore e l’inoppugnabilità del sapere scientifico” da strumento sono diventati scopo primario.
Si costituisce in tal modo un’alleanza, del tutto inconsapevole, tra amministratori (delle strutture sanitarie, ospedaliere e d’insegnamento) e medici altamente qualificati (iperistruiti, iperequipaggiati) che <<tutti insieme non hanno nient’altro in comune fuorché delle inconsce posizioni difensive nei riguardi di qualunque relazione che perturbi le loro certezze>> (Sapir, la formazione psicologica del medico).
In uno scenario del genere dove lo stato di medico e quello di paziente sono assolutamente distinti per non dire antitetici, i “medici ammalati” ci ricordano che non solo esiste continuità ma che questa è una condizione imprescindibile per un’adeguata relazione di cura.
Come è ormai ben documentato nelle sempre più frequenti ricerche sul burn out, sindrome che affligge gli operatori sanitari come una vera pestilenza, il mancato sviluppo e mantenimento di una buona relazione interpersonale, fruttuosa per il malato e l’autostima di chi lo aiuta, ha conseguenze negative per entrambi. A fronte della ricerca di un’acquisizione di un’identità tecnica forte ma al contempo ipersettoriale e parcellare, sono cresciuti infatti di pari passo il disagio e lo stress lavorativo che lasciano il singolo operatore sempre più infelice e solo, distante sia dai sentimenti e dai bisogni profondi di chi pretende di aiutare sia dai propri. La distanza che ci separa dagli altri è la distanza che ci separa da noi stessi.
Non sempre e non in tutte le culture c’è stato e c’è questo divario. Potremmo riprendere i termini della questione in questo modo: O il male fa il malato, ma non fa il medico; oppure esso fa e l’uno e l’altro. (Michel Sapir, La formazione psicologica del medico)


Il mito di Chirone e di Asclepio

Incominciai interessandomi dell’artista, di letteratura, della magia delle parole. Il linguaggio medico non mi piaceva: è sterile. Mi immersi nella mitologia, archeologia, teatro, pittura, scultura, storia: solo l’arte, infatti, è in grado di ridare vita al fenomeno scientifico. (O. Rank)

Vorrei qui riprendere brevemente i due miti principali della medicina, aggiornamento tanto inattuale quanto puntuale per il quesito sollevato e per il più dibattuto problema dell’identità dei curanti.
Chirone fu l’inventore della medicina e maestro di Asclepio. Egli era il più giusto e il più saggio dei Centauri (selvaggi abitanti dei boschi, ai cui corpi di cavallo con quattro zampe erano attaccati tronchi umani) e, in quanto tale, era detto anche “dalla doppia natura”. In lui si compenetravano infatti la natura animale, il soma, l’energia istintuale e quella umana, la psiche, lo spirito. Da questa compenetrazione nacque il potere terapeutico. Delle sofferenze e della bontà di Chirone si parla nella storia del titano Prometeo. Questi spense all’uomo la vista della morte e poi lo fece partecipe del fuoco dopo averlo rubato a Zeus. Come interpreta Platone, il fuoco rappresenta il sapere tecnico, ma questo sarebbe servito a ben poco se all’uomo non fosse stato offerto in dono anche l’oblio dell’ora della morte. Il non conoscere in anticipo la data della propria morte conferì infatti agli uomini l’illusione di essere immortali e, nonostante la propria imperfezione, la possibilità di avvicinarsi agli dei. Per questo Zeus, il re degli dei, si adirò e fece incatenare Prometeo sul Caucaso, dove un avvoltoio gli divorava il fegato che gli rinasceva sempre, così che il supplizio avrebbe dovuto essere eterno. Prometeo per poter essere liberato dovette scegliere come erede delle sue sofferenze un immortale che, soffrendo in sua vece, andasse negli Inferi. La scelta cadde su Chirone che, ferito per errore al ginocchio da una freccia velenosa di Eracle, languiva in una caverna e non poteva né guarire, perché il veleno dell’idra (serpente con più teste che ricrescevano quando venivano tagliate) era troppo forte, né morire, perché immortale.
La narrazione mitologica sottolinea il paradosso di un guaritore, ferito a sua volta, che non può guarire se stesso e ben sintetizza tutte le grandezze e i limiti di qualsiasi attività terapeutica.
Anche il mito di Asclepio ci può fornire molti spunti di riflessione.
Il dio della medicina e della salute nacque sulla pira della madre morente (Coronide tradì l’amato Apollo con un mortale e il dio, accecato dall’ira, la ferì mortalmente): una nascita miracolosa, che ricorda il motivo archetipico della nascita prodigiosa dell’eroe, segnata da una totale separazione dall’ambiente materno.
Egli soffrì dunque l’assenza di una figura materna protettiva e accogliente che segnò profondamente il suo sviluppo psicologico ma non lo lasciò prigioniero di un atteggiamento vittimistico e rivendicativo. Maestro dell’arte medica non è quindi chi è sano bensì chi è portatore consapevole della propria ferita.
Ancora, il mito di Asclepio ci racconta che l’eroe, esaltato dai grandi successi terapeutici raggiunti, tentò di risuscitare i morti. Per questo fu ucciso da Zeus e poi resuscitato e assunto tra gli dei dell’Olimpo. Oltre al tema della morte e rinascita, profondamente intrecciato all’idea di malattia e di guarigione, questo aspetto del mito ci ricorda che la malattia e la morte fanno parte dell’eredità dell’uomo e che il confronto con una guarigione impossibile e la morte come estremo limite è un passaggio ineludibile anche nel cammino terapeutico. E proprio in questo sta il paradosso della medicina moderna che, con la tecnica e i suoi progressi, offre una crescente illusione di immortalità. Al contempo essa mette sempre più in crisi l’identità della figura del medico di fronte al malato terminale ed enfatizza il problema etico dell’accanimento terapeutico, dell’aborto e dell’eutanasia.
Tornando al mito di Asclepio, questi viene spesso rappresentato con una compagna accanto, quasi a indicare il suo bisogno di sostegno e protezione.
Come il suo maestro Chirone, anch’egli riunisce in sé diverse polarità tra cui: divina e terrena, solare e lunare, infantile e adulta. Ne deriva la necessità di superare ogni unilateralità paralizzante per ritrovare il contatto con le polarità insite nell’archetipo del guaritore.

Ogni essere umano, se volesse o potesse davvero essere sincero, dovrebbe riconoscere in sé l’esistenza, per un verso o per l’altro e ovviamente in misura diversa, di almeno un aspetto di invalidità. Ciò non equivale esattamente al detto “Ognuno porti la sua croce”, benché vi somigli.
Si potrebbe affermare piuttosto che ognuno, più che portare una croce, si appoggia a una gruccia, ovvero ognuno ha il suo mezzo, modo o sostegno per aiutarsi a camminare.

(introduzione al saggio Al di sopra del malato e della malattia di Adolf Guggenbuehl- Craig)

Che in ogni attività terapeutica siano in gioco gli aspetti più segreti della personale biografia è ben noto alla psicoanalisi, per esercitare la quale è necessario che il candidato si sottoponga preliminarmente a un’analisi individuale. Gli sarà così possibile scoprire, tra l’altro non senza un certo sconcerto, che il suo desiderio di aiutare gli altri si basa sostanzialmente sul bisogno di curare se stesso, di combattere o controllare i propri bisogni distruttivi, i propri sentimenti di colpa, al limite vincere la propria morte, assumendosi la responsabilità di guarire gli altri.
Diventa forse così più facile comprendere la totale autoreferenzialità o, al più, il “paternalismo benevolo” esercitati in “scienza e coscienza” dall’autorità medica che “non deve rendere conto a nessuno” e che, come recita la poesia di Eliot citata in exergo, non lascerà mai il paziente, sottomesso e “infantilizzato”, ma nemmeno consentirà a quest’ultimo di arrivare da qualche parte. Resta qui di grande pregnanza e monito l’immagine del guaritore archetipo ripresa da Jung.

…Qui, accanto all’aspetto demiurgico del sapere e dell’arte, emerge il dolore contenuto nella comune matrice umana, corporea e mortale, che unisce, al di là dei ruoli, medico e paziente. Per poter curare, il medico non deve mai pensarsi separato dal suo aspetto di paziente. La repressione di questo polo della coppia porterebbe il medico a una soglia pericolosa caratterizzata dalla convinzione di non avere nulla a che fare con la malattia. Analogamente, quando una persona si ammala, è importante che venga alla luce la figura del paziente/medico, cioè il fattore di guarigione interno al paziente, la cui azione curativa è uguale a quella del medico che compare sulla scena esterna. Un medico “senza ferita” non può attivare il fattore di guarigione nel paziente e la situazione che si crea è tristemente nota: “da un lato sta il medico sano e forte, dall’altro il paziente, malato e debole”. (introduzione al saggio Dove si nasconde la salute di Gadamer)

La figura del medico non coincide più, oggi, con quella magica e misteriosa del guaritore: egli è un uomo di scienza che ha voltato le spalle all’arte e al mito.
Con La nascita della clinica
nella prima metà del XIX secolo, individuata da Foucault nell’emergenza del metodo anatomo-clinico, l’uomo inizia a essere visto come una macchina biochimica complessa nella quale <<nessun’altra forza è attiva, se non le semplici forze fisico-chimiche>>.
Se il medico nella tradizione ippocratica era un indovino che si avvicinava al corpo da lontano e lo osservava come una trama, ora si allontana dal visibile e penetra nella profondità del corpo. Cambia l’angolazione. Questo mutamento, come fa notare Foucault, non è solo una riduzione della distanza tra lo sguardo del medico e il corpo malato, è una trasformazione totale sul piano del sapere. La medicina moderna non cerca più le relazioni tra i vari sintomi, non ne prende semplicemente atto, mira al punto della lesione. Da questo spostamento dello sguardo verso la profondità del corpo malato, dal fatto che nel decifrare la malattia si debba astrarre dai processi vitali dell’individuo, deriva la rimozione del soggetto che tanta importanza aveva nella medicina greca. Se prima non interessava tanto sapere che tipo di malattia avesse un uomo bensì che tipo di uomo avesse quella malattia, ora la medicina moderna cerca la verità nell’intelligibilità e nell’oggettività.
Questo atteggiamento da solo rende quasi impossibile l’instaurarsi di una relazione medico-paziente veramente autentica, come auspicato dai medici ammalati.
Del resto, se un tempo era facile il contagio tra chi cura e chi viene curato ed erano numerosi, per esempio, i tisiologi colpiti a loro volta dalla tubercolosi, oggi i medici curano i diversi apparati senza essere loro stessi colpiti dalle malattie che combattono.
Non è certo necessario né auspicabile che tutti gli oncologi si ammalino di cancro perché si renda finalmente possibile una complicità vera, attraverso l’identificazione tra medico e malato. La vera sfida attuale è quella di riuscire a coniugare la conoscenza scientifica e la tecnica, che vengono ben insegnate e apprese, con l’ethos umanitario troppo spesso affidato all’eventuale istintiva predisposizione personale del curante e che può tendere a offuscarsi nel prosieguo degli studi e della professione.

Oggi vi sono modi di concepire la biologia veramente grandiosi. La tendenza generale sembra però andare in senso contrario. In tutto il mondo vengono educate persone che sanno moltissimo, che hanno acquisito particolare destrezza ma la cui autonomia di giudizio, la cui capacità di indagare e di sondare i propri malati è minima. (Karl Jaspers, Il medico nell’età della tecnica)

Il continuo contatto con la malattia e la morte, l’ingaggio in relazioni così asimmetriche e cariche di aspettative come quelle di cura portano inevitabilmente a sviluppare massicce difese che, lungi dal preservarci dall’angoscia inevitabile insita nella nostra attività, finiscono per diventare sempre meno funzionali. Per approfondire il tema è tuttora di riferimento la lettura del saggio I sistemi sociali come difesa dall’ansia in cui la socioanalista Isabel Menzies riporta lo studio sulle tecniche difensive usate in un grande ospedale inglese e di come al fallimento dell’elaborazione di queste tecniche si correli strettamente anche quello nel raggiungimento degli obiettivi di lavoro perché l’inefficienza è un’inevitabile conseguenza del sistema difensivo prescelto.
Altri studiosi mettono in rilievo la stretta corrispondenza tra modello di difesa e forma di attività esercitata. Basti qui brevemente ricordare il confronto tra medici specialisti e ospedalieri (figure paterne onnipotenti e onniscienti) in cui <<prevale l’isolamento mediante il tecnicismo e il ricorso al cieco rituale di diagnosi e ricettazione>> e il cui <<atteggiamento distaccato o direttivo viene sentito come maggiormente rassicurante>> quando ci si sente minacciati da una grave malattia o in stato di pericolo e i medici di famiglia (madri comprensive, “madri gabinetto”) in cui <<è più frequente il rischio dell’oblatività, diretta a soddisfare ogni desiderio del paziente per propiziarselo e disarmarne l’ingordigia>>. Anche da questi soli brevi esempi è ben intuibile come la soggettività rimossa torni prepotentemente nella pratica clinica.
Solo a partire da questa consapevolezza è possibile provare a tracciare una terza via oltre a quelle individuate da Soren Kierkegaard: una via è soffrire, l’altra è diventare professore di ciò che un altro soffre. Lo stesso filosofo esistenzialista avvertiva del resto che imparare a conoscere l’angoscia è un’avventura che ogni uomo deve affrontare se non vuole perdersi sia per non averla mai provata sia per esservisi sommerso.
Non si tratta però di far diventare psicologo il medico o l’operatore impegnato in una relazione di aiuto ma di far sì che questi si renda consapevole di quanto egli stesso agisca come medicina e di come il suo modo di elaborare e sentire la relazione con il malato influisca sul comportamento professionale, sulle decisioni diagnostico-terapeutiche e sulle risposte del paziente e del suo ambiente, come ricordava Michael Balint.

Dal mio punto di vista di medico sottolineo che questa formazione di un nuovo individuo, medico-malato, è l’asse attorno al quale ruota il trattamento. G. Groddeck, 1933

Quando un medico prescrive un farmaco, prescrive se stesso. M. Balint, 1957

Ai miei pazienti che hanno pagato per insegnarmi. D. W.Winnicott, 1974

Obbiettivo primario diventa allora quello di riuscire a proteggersi senza sfuggire al contatto con la sofferenza e il dolore, entrare in contatto con le nostre emozioni senza negarle o esserne travolti, considerarle una risorsa e non solo un problema, immedesimarsi empaticamente nel vissuto dell’altro non solo per riconoscerlo come soggetto ma per essere riconosciuti a nostra volta come tali, scoprire che la relazione pur essendo asimmetrica è mutua e che spesso è il paziente stesso a sostenerci nel nostro difficile compito.
Torna qui di grande rilevanza l’opera pionieristica di Balint, medico e psicoanalista ungherese, che, per sensibilizzare i colleghi alle componenti interpersonali della terapia, arrivò a proporre fin dalla fine degli anni quaranta del secolo scorso, il lavoro in piccolo gruppo eterocentrato sulla discussione di casi clinici. I gruppi Balint rimangono a tutt’oggi, come ben documentato in numerose ricerche e in vari settori, <<l’unico strumento veramente incisivo e al tempo stesso di facile attuazione per la formazione psicologica>> di tutti gli operatori impegnati in relazioni d’aiuto. Non è qui possibile soffermarsi oltre su tale metodica che abbiamo avuto modo di sperimentare anche in questo ospedale. Basti ricordare che Balint, insieme ai medici di famiglia arruolati nei suoi gruppi di formazione, arrivò a spostare l’attenzione su fattori fino ad allora misconosciuti della relazione medico-paziente e al centro del nostro attuale dibattito: l’individuazione del medico come farmaco, il riconoscimento dell’influenza mutua nel processo di cura, la collusione dell’anonimità (cioè la tanto deprecabile situazione per la quale nessun medico viene ritenuto responsabile del destino dei pazienti difficili), la cosiddetta, un po’ ironicamente, funzione apostolica del medico (secondo la quale <<ogni medico possiede un’idea vaga ma quasi irremovibile del comportamento che un paziente deve adottare in caso di malattia. (…) questa idea (…) possiede un potere immenso, capace di influenzare (…) praticamente ogni particolare del lavoro del medico con i suoi pazienti. Tutto avviene come se ogni medico possedesse la conoscenza rivelata di ciò che i pazienti hanno diritto o no di sperare e di ciò che devono sopportare, ed inoltre avesse il sacro dovere di convertire alla sua fede tutti i pazienti ignoranti e increduli>>). Proprio questa funzione veniva considerata da Balint quella più problematica e al contempo più difficile da abbandonare per riuscire a proporre un nuovo modello di rapporto medico-paziente, non più paternalistico ma di partnership, cioè di alleanza e comprensione reciproca.
Molte questioni rimangono aperte. La prima e la più importante per me resta quella di riuscire a investire in un percorso formativo che sia adeguato ai processi inconsci, che non li tradisca e che non cerchi rifugio in ragionamenti consci, involontariamente difensivi, limitati e riduttivi. Una metodica di lavoro come quella dei gruppi Balint non accetta scorciatoie (Balint diceva: <<più ce n’è, meglio è>>), richiede un ingaggio volontario e non può essere sponsorizzato da case farmaceutiche o solo reso più appetibile da un adeguato numero di crediti formativi. Esso accompagna l’evoluzione professionale (consentendo quella famosa modificazione seppur parziale della propria personalità che tanto peso ha avuto nella scelta della nostra professione!) non tanto per apprendere nuove nozioni ma per sostenere la nostra inevitabile ignoranza e incompletezza.
La relazione tra dimensione conscia e inconscia della mente è infatti quella che maggiormente ci impegna nel nostro comune percorso di esseri umani e noi abbiamo bisogno di attivare uno spazio di riflessione che consenta l’esperienza del pensiero come trasformazione e di restituire l’ombra alle parole (come direbbe il poeta Paul Celan) per riscoprire la parte più profonda e inquieta che ci abita ma che sola ci fa sentire vivi e non stranieri a se (noi) stessi e ai nostri pazienti.
Vorrei così concludere con le parole dello scopritore del Social Dreaming che abbiamo avuto modo di sperimentare nei mesi scorsi in Cinema e Sogno, metodo innovativo che, sulle orme dei Gruppi Balint e senza tradirli, rappresenta uno straordinario strumento rigeneratore di quei pharmakoi viventi che sono tutti gli operatori d’aiuto. Gordon Lawrence sottolinea la necessità di una <<politica della rivelazione>> in contrasto con la <<politica della salvazione>>. Si tratterebbe cioè di modificare la relazione abituale tra chi salva e chi viene salvato, tra chi ha un problema e l’esperto in grado di risolverlo, perchè <<sia chi salva che chi implora ha bisogno di un approccio collaborativo ad un nuovo modo di comprendere ciò di cui si ha bisogno.>>

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.

Ah, l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!

Non domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Eugenio Montale, Non chiederci la parola


Bibliografia

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Giancarlo Stòccoro
, psichiatra- psicoterapeuta, dirigente medico Az. Ospedaliera di Melegnano. Relazione presentata all’incontro: Dall’altra parte , Aula Magna, Ospedale “Predabissi”, Vizzolo Predabissi, 10 novembre 2007.
g.stoccoro@tele2.it

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