PM --> HOME PAGE --> NOVITÁ --> SEZIONI ED AREE
--> MdB e PSICHIATRIA


PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Medicina di Base e Psichiatria



Il medico di medicina generale e la gestione dei conflitti

di Giovanni Cataldi e Francesco Benincasa




Giovanni Cataldi (1954), si è laureato in Medicina e Chirurgia a Padova e specializzato in Pneumotisiologia. E' medico di medicina generale a Montalto delle Marche dal 1982. Componente del direttivo nazionale del Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale, fa parte del Royal College of General Practitoners ed e' membro della British Medical Association. Si occupa di filosofia teoretica ed epistemologia.


Francesco Benincasa (1953) si è laureato in Medicina e Chirurgia a Torino. E' specialista in Neuropsichiatria Infantile e psicoterapeuta.
Medico di medicina generale a Torino dal 1982, è socio fondatore del Centro Studi e Ricerche in Medicina Generale (CSeRMeG) e si interessa dei processi psicodinamici della Medicina Generale.
E' collaboratore della rivista "Occhio Clinico". Ha pubblicato nel 1998 con Sergio Bernabè e Guido Danti per UTET il volume "Il giudizio clinico in Medicina Generale".



(Articolo pubblicato sul n. 23 della rivista L'Arco di Giano, pp. 95-114)



Sommario

Gli autori, riconosciuto il carattere problematico del conflitto, dapprima ne tratteggiano gli elementi deteriori; successivamente ne prendono in considerazione le opportunità di crescita relazionale. Se si offre attenzione al paziente come soggetto e si è in grado di modulare - anche emozionalmente - le proprie risposte, è possibile per il medico generale contenere la distruttività dei conflitti. Si può apprendere dall'esperienza e riuscire a innalzare il livello dell'azione terapeutica.


Parole chiave

Medicina generale; conflitto; relazione medico-paziente; negoziazione.



Introduzione

Il conflitto è la situazione sociale in cui due persone si oppongono in maniera evidente; in alcuni casi si tratta semplicemente di antagonismo tra una persona e un'altra, mentre in altri il comportamento di dissenso viene mantenuto da entrambi gli interlocutori nel caso l'uno abbia espresso un atteggiamento di resistenza nei confronti dell'altro. Il conflitto costituisce un elemento di crisi nel rapporto tra due individui, per uscire dal quale è necessario uno sforzo di reciproco attivo adattamento (Bonino, 1994). Il contrasto in ambito sanitario si realizza quando le richieste del paziente risultano inaccettabili. L'ipotesi che proponiamo è che sia possibile apprendere dall'esperienza del conflitto, imparando a mediare le proprie posizioni o presentando in modo accettabile i propri rifiuti al paziente e che la limitazione dei conflitti aumenti l'efficienza delle attività cliniche. Il contrasto è un'opportunità preziosa per conoscere il paziente e le proprie reazioni emotive. Indagare sui conflitti vuol dire occuparsi di esperienze emotive sgradevoli, che conducono frequentemente a reazioni automatiche di difesa: irrigidimento totale (no, mai!), oppure cedimento immediato (sì, subito!).
Spesso ciò che disturba il medico più che il contenuto delle richieste (a volte francamente assurdo) è il modo in cui l'assistito le porge. Il problema consiste nella risonanza affettiva negativa che tali fatti inducono nel medico. Chi non si sente frustrato, offeso, umiliato dalla situazione, non avverte contrarietà. Né la soluzione può consistere in un apprendistato transazionale che consentirebbe di disporre di un nutrito repertorio di repliche preconfezionate. Le radici del contrasto arrivano nel profondo, quindi è necessario scavare nel sottosuolo della relazione.
Il medico generale opera attraverso relazioni: se tali canali s'interrompono, non potrà più arrivare nessun messaggio. Attraverso l'analisi dei contrasti è possibile individuare gli aspetti disfunzionali dell'interazione e pensare di correggerli. Ci si mette nella prospettiva che il problema del conflitto non si possa affrontare con la forza di un braccio di ferro, ma che si tratti di un gioco d'intelligenza che richiede un accorto uso della ragione: intelligere nel senso di capire, rendersi conto, comprendere. Questo articolo intende proporre ai medici una maggior consapevolezza nella relazione (riflessività), scambi più adattativi (flessibilità) e una costante visione generale dei problemi (continuità), al fine di ridurre il numero di conflitti e soprattutto di conseguire una più alta qualità dell'assistenza.


1. Motivi di conflitto

Il conflitto sembra il prodotto del fallimento relazionale: insuccesso da parte del medico a capire i bisogni e le aspettative dei pazienti, fallimento nel riconoscere i loro aspetti simbolici o fenomenologici (Anstett, 1980). Avviene una dissonanza nella percezione del potere, per cui il cliente ritiene che il curante possieda un potere in grado di manovrare le sue decisioni, mentre da parte sua il clinico si dichiara relativamente privo di potere (Somersett et al., 1999). Gli assistiti sono diventati più assertivi nella relazione, rifiutano la consuetudine che li vuole passivi. Si va verso una diagnosi sempre più "fai da te" o negoziata. Il sorgere del consumismo nel campo della salute ha incoraggiato un rapporto più conflittuale e contrattuale con il medico. Questi, durante la sua formazione, è stato abituato a relazionarsi agli altri in modo impersonale e tecnico, come colui che si occupa del cattivo funzionamento di un organo, ignorando la sua fallibilità di essere umano che interagisce con un suo simile (Hughes).
Spesso ci si trova in difficoltà con le persone che evocano sensazioni spiacevoli o che sono vittime di severi bisogni di dipendenza non soddisfatti. I pazienti meno amati sono quelli che non sono in grado di assumersi alcun tipo di responsabilità nella gestione della propria salute e non riescono ad adattarsi in modo attivo ai cambiamenti causati dalla malattia.
Alla base del contrasto c'è spesso un'opposizione di concetti e di convinzioni sulla salute: è frequente che non vi sia accordo tra i soggetti della relazione clinica a proposito della presenza o assenza di uno stato di malattia. La comunicazione di una soggettiva percezione di infermità da parte del paziente non sempre è accolta o compresa dal medico (Bernabé et al., 1998). Ne consegue un conflitto concettuale alla base di ogni altro contrasto. A ciò si aggiunge una diffusa ignoranza riguardo ciò che può essere ottenuto dal Ssn per mantenere un rapporto legalmente corretto e scientificamente fondato con l'istituzione.
Una fiducia traballante nei confronti del dottore è un'altra evidente causa di contrasto, mentre il medico che ritiene inattendibile o falsa la richiesta del paziente prova nei suoi confronti una tale diffidenza da impedirgli una comunicazione efficace. Gli atteggiamenti aggressivi e pretenziosi urtano la suscettibilità del curante, che di solito assume un atteggiamento rigido di rifiuto o di passività totale di fronte a qualunque richiesta. La contrarietà emerge nel momento in cui il principio guida del clinico viene messo in discussione o scavalcato, anche quando il curante tenta di far comprendere all'altro le proprie posizioni e il motivo per cui la richiesta viene respinta.
La diversità nell'inquadrare il problema induce a discordanze su quali siano i limiti o le possibilità della professione e della scienza medica, perché le aspettative del pubblico sono spesso irrealistiche e illusorie. In particolare, il concetto di efficacia non risulta chiaro neanche per i medici: le aspettative che il paziente ha nei confronti della medicina vanno quasi sempre al di là delle reali potenzialità della disciplina non solo per l'ignoranza sulla materia, ma soprattutto per il processo psicologico attraverso cui si attribuisce potere a ciò che non si conosce (magia, occulto, religione ecc.).
Il contrasto si sviluppa anche sul concetto di processi: non vi è consenso su come meglio arrivare ai risultati ottenibili: è il distress riguardo l'efficienza della cura. Il concetto di efficienza è estraneo alla mentalità del paziente, che è molto interessato alla rapidità e alla qualità dell'assistenza che riceve. Di solito identifica "fare tutto e subito" come il miglior livello di efficienza possibile ("Mi deve scrivere tutti gli esami". "Voglio fare la TAC"). Di fronte all'urgenza reale o supposta, il tempo la fa da padrone e la divergenza di messaggi fornita da parte dei mass media contribuisce in maniera determinante a condizionare la domanda del paziente.


2. I vincoli etici, burocratici, legali

Il timore di poter essere citato in giudizio o di ricevere reclami da parte dei pazienti genera una medicina difensiva, che si esprime attraverso una maggiore richiesta di esami, visite specialistiche, follow up superflui. Il paziente spesso pensa che il medico non sia vincolato da regole e che possa concedere favori, se vuole. Ad esempio, la maggior parte delle persone ignora totalmente la valenza legale dell'attività certificativa, affermando spesso che "è solo un pezzo di carta". Non esiste cultura su quali siano le regole a cui il dottore è sottoposto, sia da un punto di vista amministrativo-burocratico, sia da un punto di vista legale.
Il paziente vuole partecipare attivamente alla gestione della sua salute e pensa di farlo correttamente attraverso le istruzioni dei mass media; è compito del clinico trovare il modo di infrangere il muro delle sue convinzioni attraverso il rapporto personale, unica arma in suo possesso per opporsi a quelle credenze. Da parte sua, il paziente non può fare altro che affidarsi, più in base alle caratteristiche personali e umane del medico che a competenze professionali che egli non è in grado di valutare; la fiducia sembra quindi basata più sull'affinità tra i reciproci concetti di salute che sulla valutazione delle capacità tecnico-disciplinari (Cromarty, 1996).
Se non si rassegna a essere o a diventare un ripetitore, il clinico ha bisogno di farsi vedere competente. Questa difficile missione rende il generalista più suscettibile al conflitto e alla contrarietà, soprattutto nelle occasioni in cui gli si rifiuta gratitudine o addirittura gli viene negata la competenza attraverso una dimostrazione di sfiducia. Ostacoli nascono anche quando il paziente si accorge che è necessario pagare prezzi che egli non intende accettare. Non ci riferiamo al banale esborso di moneta ma, più fondamentalmente, alle spese da sostenere per raggiungere un presunto bene sanitario: quante risorse si è disposti a impegnare in un particolare progetto di salute. Il quanto può essere definito anche in termini di quanto dolore, quanto sacrificio, quanta difficoltà ci vuole per superare la malattia: niente di ciò che il curante propone è completamente gratuito in termini emotivi o di sofferenza fisica, anche se attualmente è comune credere di poter vivere e vincere senza pagare costi.
Il medico è la principale figura che impone costi in una società in cui si suppone che ogni conquista possa essere raggiunta gratuitamente, senza dolore e senza frustrazione. La cultura giovanilistica dell'efficienza, la rimozione della vecchiaia e del passare del tempo, la promessa dell'immortalità, sostenuta da pseudo scienze miopi, alimentano la pretesa che la malattia non sia uno stato che si svolge nel tempo e che coinvolge l'intera storia fisica ed emotiva dell'individuo. Questi concetti ingannevoli sono alla base della pretesa di guarire subito, di non ammalare e perfino di non morire.
Il fatto che l'incontro professionale venga a tenersi nell'ambito del Ssn pone delle condizioni di scambio che sono indipendenti dagli interlocutori fisicamente presenti. La medicina generale ha i suoi accordi collettivi nazionale e regionale, le leggi finanziarie, i vari provvedimenti del ministero della sanità, le circolari, i regolamenti, le direttive. Possiamo immaginare il Ssn come una cittadella sanitaria all'interno delle cui mura si è protetti ma limitati.
Il rapporto con il paziente assistito dal Ssn appare contemporaneamente come un vincolo e come una libertà: ci si sente più motivati, più protetti, più in diritto di discutere proprio perché si è rappresentanti della collettività dei malati. Si deve tenere conto delle risorse disponibili, stabilendo quale impegno di mezzi quel malessere meriti. In presenza di una richiesta incongrua, il camice bianco può negare serenamente l'esecuzione di un esame troppo costoso per la collettività a fronte di un malessere minore. Se il cittadino malato vuole la fisioterapia per una condizione morbosa che secondo le norme non ne può apprezzabilmente beneficiare; se desidera un farmaco non razionale per il suo malanno; se pretende che il medico curante sia sempre reperibile, il conflitto, pur manifestandosi a livello interpersonale, in effetti ha origine altrove.
Il dissenso intorno a scelte politiche andrebbe espresso in sede politica e non nello studio del medico. In quei casi la disputa ha sede sovra-personale; il malato dovrebbe porre allo stato le richieste che sta avanzando al medico. Il medico di medicina generale che accetta di assumersi impegni al riguardo si mette in una posizione insostenibile, costringendosi alla resa o al contrasto. Il medico di medicina generale è preso tra due poteri ugualmente forti e dispotici: Arlecchino servo di due padroni. Spesso non è sufficiente spiegare al malato che le sue rivendicazioni sono fuori-legge e che comunque dovrebbe andare a rimostrare da qualche altra parte: lui se ne va e cambia medico.
I pazienti che si comportano scorrettamente sono numericamente pochi, ma estremamente impegnativi sotto il profilo emotivo, burocratico e legale. Il medico di medicina generale si sente minacciato e deve a tutti i costi sottrarsi dalla sensazione spiacevole di un rapporto confidenziale che si instauri con il paziente, senza una precisa condivisione di regole. Si crede con faciloneria che le regole possano essere inventate, modificate o rifiutate in questo rapporto di fiducia amichevole per tradizione, all'interno del quale i medici per primi pensano che qualunque fatto possa avvenire senza altri vincoli oltre quelli stabiliti dal codice etico degli ordini professionali (Bernabé et al., 1998).


3. Gli affetti mobilitati nel conflitto

Il conflitto genera contrarietà e la contrarietà è talmente fulminea nel corso dell'attività che spesso non si riesce a percepirne i motivi: ci si trova in un diverso stato d'animo da un momento all'altro. Basta qualcosa di impercettibile, una frase, una richiesta, il commento di un collega riportato dal paziente e l'umore cambia. In condizioni del genere è indispensabile imparare a osservarsi mentre si lavora e a percepire consapevolmente la contrarietà che si prova. Si tratta di uno dei sentimenti più comuni del medico ambulatoriale ed è quindi impossibile non soffermarvisi.
Molto del disappunto dipende da un conflitto interno che riguarda la contraddizione tra ciò che si sa e si dovrebbe applicare e ciò che si finisce per fare, al fine di evitare un conflitto perenne e insostenibile. Ci sono giornate in cui si riesce a seguire le regole costi quel che costi, mentre altre volte si è più superficiali, coscienti di esserlo e senza riuscire a vincere il disappunto legato al fatto di conoscere la regola e di trasgredirla per sfinimento. L'insistenza del paziente o la sua incomprensione genera la risposta automatica al contrasto, con un'accettazione passiva della richiesta carica di rabbia o con una negazione carica di odio e vendetta. Una difesa di questo genere, che entra in azione coattivamente, se non è vitale ha molta probabilità di esser nevrotica
Il medico si sente frustrato quando si sente scavalcato dal collega specialista od ospedaliero e il paziente gli dimostra di fidarsi più dell'altro che di lui; è offeso perché si vede privato del lavoro svolto nel tempo con quel soggetto: tutto gli sembra buttato via, sprecato. Il rapporto che sembrava solido si dimostra malfermo e a nulla sono valsi impegno, ascolto, pazienza. L'elemento tempo è essenziale nel fare la differenza: si contrappone una lunga consuetudine e una paziente costruzione all'immediato trionfo di un antagonista rapido e vorace. Se non si riesce a riflettere sui propri atteggiamenti protettivi o possessivi, non è possibile trattare l'altro come un soggetto libero e autonomo al quale proporre scelte che non possono in alcun modo essere imposte.
Il disagio esiste solo in rapporto a un ideale di armonia in cui tutto scorre senza intoppi fino a un esito positivo e tranquillo. Gli affetti mobilitati sono del paziente e sono del medico: un rapporto bipersonale in cui le correnti si incontrano e si scontrano, generando un contrasto a volte non conciliabile. La situazione finisce per avere sul medico effetti profondi anche se inapparenti: il risentimento cova, la vendetta è alle porte.
Potrebbe sembrare che il conflitto renda dinamico e vivace l'incontro clinico, favorendo un dialettico rapporto tra i protagonisti; in realtà esso genera irritazione. Le reazioni di rabbia possono agire da tentativo per ristabilire un senso di autonomia di fronte a situazioni molto frustranti: la sensazione di aggressività violenta legata alla rabbia fa sentire più potente e quindi in grado di reagire con l'attacco all'offesa subita. Un'affermazione violenta della volontà ha lo scopo di ristabilire una condizione di equilibrio narcisistico con un primitivo meccanismo di attacco-fuga (Kernberg, 1993).
Contrarietà e irritazione potrebbero essere utilizzati come segnali: qualcosa è entrato nel proprio campo e ne ha sconvolto il tran-tran; è possibile decidere di risistemare tutto come se niente fosse per impedire a chiunque di calpestare l'orto o si può analizzare motivi e caratteristiche dell'invasore, provando a mettersi nei suoi panni. Gli utenti vogliono sapere come il medico prende le decisioni: forse più che la cultura i pazienti colgono del medico la capacità di decidere, il metodo che egli usa, la capacità di dubitare o di avere certezze. Se si pensa ad alta voce mentre si prescrivono farmaci o esami, il paziente segue dubbi e problemi, accetta meglio la proposta.
Se si chiede tempo, se ci si ferma a pensare e lo si dichiara, il qui e ora diventa un luogo in cui la riflessione del medico limita o esclude il conflitto, in cui la contrarietà si stempera nella certezza che il medico non è automatico, che egli sta prendendo un provvedimento che non ha mai preso prima, che decide per quel paziente in quel momento come se fosse la prima volta che prende una decisione. Se si rende conto di questo processo, il paziente riduce il suo potenziale aggressivo, conscio che il dottore non è un automa che fa scelte uguali per tutti: sta prendendo una decisione su misura per quella singola persona in quel preciso momento per uno specifico malessere che gli è stato posto di fronte.
Costituiscono elementi di disturbo non solo i conflitti con i pazienti, ma anche la necessità di adeguarsi alle richieste più incongrue da parte dei colleghi specialisti o delle istituzioni ospedaliere, senza riuscire a opporvisi. In questo caso il rapporto di fiducia con il paziente assume peso e realtà; quando è possibile far pesare il proprio punto di vista e convincere il paziente, si ottiene gratificazione; quando invece il paziente si mostra dubbioso o francamente incredulo a proposito delle opinioni del curante, prende piede un'atmosfera di diffidenza. Il dottore è invece gratificato e in armonia quando il paziente non si oppone, ha proposte ragionevoli o ha un modo di proporsi civile, non aggressivo o arrogante.
I medici non sono sempre consapevoli dei loro sentimenti nei confronti dei pazienti, anche se la loro conoscenza può diventare un indicatore importante quando è difficile comprendere appieno quello che sta succedendo nella relazione. La comprensione degli affetti del paziente da parte del medico è lo strumento percettivo fondamentale per capire e orientare il conflitto (Modell, 1992). Finché non diventa consapevole di ciò che sta accadendo, il curante rischia di agire compulsivamente, secondo il ruolo che gli è stato assegnato, restando in una posizione passiva finché non riconosce coscientemente ciò che accade (Gabbard, 1985). La situazione di conflitto costringe a mettere in rilievo la relazione nel qui e ora; la violenza degli affetti mobilitati deve ricevere in tempi brevi un'analisi, e se possibile una spiegazione, che favorisca il passaggio da una situazione di contrasto insanabile a una in cui il conflitto diventi gestibile con vantaggio per entrambi i protagonisti.
In caso di conflitto è necessario saper creare un'atmosfera favorevole a una sua successiva trasformazione. Lo scontro deve essere elaborato attraverso la capacità di parlare di ciò che è successo, permettendo a ognuno dei personaggi di rivedere la propria e l'altrui posizione. Il medico deve saper mettere in parola le emozioni che l'esperienza della relazione gli fa germinare. E' fondamentale essere ben consci della propria soggettività quando si cerca di analizzare i sentimenti provati verso il paziente, altrimenti si rischia di confondere i propri pensieri con un universale principio (la "verità"), che non viene messo in discussione.
Si deve conservare la capacità di provare amore e odio per i pazienti e al tempo stesso si deve riuscire a mantenersi disciplinati (Gaburri-Ferro 1988). Se si vogliono rendere tollerabili gli stati d'animo del paziente prima a se stessi e poi a lui, è impossibile non farsene influenzare. Bisogna rendere se stessi oggetto di continua osservazione per potersi mantenere relativamente oggettivi nei confronti dell'altro: quando gli assistiti diventano i migliori amici o i peggiori nemici, quasi sempre vuol dire che il curante sta attraversando un periodo di stanchezza e che, non avendo altre gratificazioni al di fuori della professione, investe sui pazienti in modo eccessivo il suo amore o il suo odio.
La situazione personale del medico di base non è una invariante, ma qualcosa che continuamente deve essere riassestata, rimaneggiata, sempre che egli non si barrichi dietro le teorie per evitare il contatto con il proprio paziente (Ferro 1992). Tutte le persone sono soggette a reazioni emotive in risposta all'espressione di un'emozione: l'analisi della responsività emozionale è un'importante risposta affettiva che si determina nel medico in seguito a un particolare comportamento del paziente. Può essere corretto, sano e giustificabile sentire di non riuscire a sopportare un paziente; ciò che conta è accorgersene ed essere capaci di non fargliela pagare, nell'attesa che la relazione possa evolvere al meglio. Una simile evoluzione può avvenire creando un contatto con lo stato affettivo in cui si trova il paziente e riuscendo a metterlo in parole.
Tra medico e paziente è necessario che si instaurino nei pensieri e nei sentimenti reciprocità e confronto; nonostante possano sembrare emozioni antitetiche, i sentimenti si accendono quando i due versanti vengono sostenuti a oltranza. Il medico che reagisce passionalmente e improvvisamente al paziente dovrebbe allontanarsi dall'emozione, riflettervi e muoversi in un'attività paradossale di identificazione e disidentificazione con l'altro, di uguaglianza e diversità da lui, di unanimità e dissenso, di simpatia e antipatia, come avviene negli atteggiamenti empirici per prova ed errore (Rayner 1995).


4. Il conflitto mette in discussione il ruolo

Nel conflitto sembrerebbe che sia il medico che il malato cerchino di ostacolarsi l'un l'altro. Il malato sente che il sanitario contesta le sue intenzioni; il medico si confronta con qualcuno che insidia il suo ruolo. Il paziente sa in anticipo che cosa vuole: di solito fa una richiesta in base a un'idea di malanno e di rimedio predefinita; chiede a un esecutore di tradurre in atto ciò che egli ha già stabilito. Ciò mette in discussione il ruolo e il potere del curante. Ipotizziamo che la contrarietà sia suscitata nel medico dalla spiacevole sensazione di insidia del ruolo: quale sarebbe la parte del medico generale? Si possono discutere innumerevoli versioni di tale testo.

- Il ruolo insegnato

Altrove ci si interroga sul pericolo che la clinica, da fronti opposti, sta portando alla medicina generale. Un trasferimento indiscriminato di compiti dall'ospedale al territorio comporterebbe, dall'esterno, un carico di lavoro e di responsabilità insostenibili, mentre una ridefinizione troppo ristretta dei servizi principali da fornire svuoterebbe progressivamente dall'interno la professione del generalista. Il medico generale, scegliendo di associarsi, corre il rischio di distanziare il paziente perché ne delega ad altri parte dell'assistenza. Questa situazione, mentre da un lato offre forti opportunità di segno positivo (basti pensare alla maggiore accessibilità, a più numerose prestazioni, alle occasioni per qualificare i servizi), dall'altro pone inequivocabilmente l'accento sull'importanza degli aspetti impersonali dell'attività terapeutica. Alla stessa conclusione conduce il bisogno di vedere aumentate le capacità tecniche d'intervento prontamente disponibili, chiunque ne sia il portatore.
Il ragionamento che considera centrale il lavoro specifico sulla malattia e marginale la relazione individuale col malato si fonda sull'assunto di un sapere forte, che sarebbe semplicemente da applicare. Secondo questo punto di vista, dovrebbero essere i mezzi a guarire, non gli uomini. La relazione fiduciaria perde valore e viene sostituita da rapporti frammentati a carattere strumentale, regolati di volta in volta secondo le esigenze di trattamento.
Ci si deve chiedere con serietà se l'anonimato di funzionari clinici efficienti, oltre la promessa di maggiori risultati, accrescerà anche la soddisfazione dei malati, riducendo il numero e l'intensità dei contrasti. Purtroppo sembrerebbe di no: diversi articoli della letteratura dimostrano che nella medicina generale quel che più conta sono le "cure personali" (Baker, Streetfield, 1995; Carol et al., 1998; Baker, 1996).

- Il ruolo assegnato

La funzione del medico di medicina generale, sempre più estromesso per formazione e per pratica dall'operatività clinica, sta divenendo quella di uno scomodo moderatore tra consumatori spicciativi e voraci - i malati - e un dispensatore direttivo e riduttore - il Ssn-. In un mondo clinico in mano alle specializzazioni, la medicina generale, ritenuta secondaria sul fronte diagnostico e terziaria su quello terapeutico, è destinata a lottare per la sopravvivenza. In ciò si avvale di fattori di sostegno: contesto, continuità, relazione, che ne costituiscono caratteristiche peculiari, utili a lottare contro una marginalità sempre più minacciosa.
La ragione che giustifica l'esistenza attuale della medicina generale è altrove: nella sua funzione di amministrazione sanitaria. Essa è l'agenzia territoriale di controllo della domanda di cure pubbliche; non le si chiede più di guarire, ma di gestire. E il medico di medicina generale, pur di campare, si converte in manager. La via dei protocolli (termine non a caso di natura burocratica) rappresenta il tratto finale di una lunga agonia professionale che rischia di condurre il medico generale alla completa insignificanza clinica.
A questo punto emergono due prospettive:
1. ci si getta sulle linee-guida e i protocolli - per ora morbidi - fingendo un'attività clinica pur svolgendone in pratica una meramente ausiliaria: si lotta per il territorio che garantirebbe un ruolo puntando sulla "utilità", forma economica implicita;
2. si critica a fondo l'agire clinico tradizionale, dichiarandosi dalla parte della soggettività del malato e non della malattia.
La prima opzione, emergente ormai dovunque, potrebbe permettere alla medicina generale di esistere ancora per qualche tempo. I propositi scientifici e le specificità allegate sarebbero presi per buoni, perché funzionali ai servigi di contenimento della spesa, che rappresenterebbe comunque l'end point forte a cui sempre si dovrebbe far riferimento, mentre le ragioni economiche forzerebbero, a ogni congiuntura, quelle sanitarie. La medicina generale, costituzionalmente debole in clinica in quanto a contatto con persone in piedi e capaci di contrattare le decisioni, corre il pericolo di essere via via costretta ad accettare incombenze sempre più di semplice "certificazione di accesso" ai veri trattamenti razionalmente collocati all'interno degli ospedali/poliambulatori (la solita specialistica) od opportunamente appaltati a équipe dedicate (la nuova specialistica). Il medico generalista come "cinghia di trasmissione": dal volere economico al bisogno sociale, con conseguente estinzione di ogni ruolo clinico.
La seconda scelta, davvero epocale, comporterebbe una marginalizzazione della clinica (intesa qui nella sua accezione di pratica che tende a oggettivizzare il malato) in medicina generale. L'accento andrebbe spostato dalla "medicina" all'aggettivo "generale" che la caratterizza, per portare finalmente in primo piano la condizione complessiva del malato.
Ci sono situazioni di conflitto o di contrasto di cui il paziente nemmeno si accorge e che il curante nono esprime, pur vivendole a livello viscerale e cognitivo. Rimane un risentimento sordo nei confronti del paziente o dell'istituzione da lui rappresentata al momento della visita (l'ospedale, lo specialista), senza che il clinico si lanci in disquisizioni contro il governo, il ministro, l'Asl e ogni altro genere di apparato. La fonte del conflitto è rappresentata dal paziente non solo e non sempre per le sue personali pretese, ma anche per ciò che riferisce informalmente da parte di altri.
Nel passare dal medico di base all'ospedale o allo specialista, il paziente sperimenta di solito due modalità di rapporto: una che si presume più familiare e aperta alla contrattazione, l'altra più direttiva e ingiuntiva, che non lascia spazio al negoziato. Egli sente che gli ordini vengono imposti da chi è più estraneo e identifica questo soggetto come il più forte anche da un punto di vista scientifico; nessuno si sente in grado di discutere con gli estranei medici d'ospedale che intrattengono una relazione molto limitata nel tempo. L'unica sede idonea alla discussione è lo studio del curante, nella speranza che lì ci sia lo spazio per la disubbidienza o per la contrattazione, soprattutto se il medico stesso è a sua volta disposto a mettere in dubbio gli ordini degli altri.
A questo punto, con inclemenza è di rigore chiedersi perché i pazienti concedono una fiducia vigilata, perché attribuiscono una responsabilità limitata, per quale motivo tanta gente possiede dei generalisti una concezione copistica. C'è da chiedersi in quale genere di scena si deve giocare quel ruolo minore che è stato assegnato, su quale palco si sia convocati per questa piccola parte. Le parti delineate richiedono minima personalità, si tratta di ruoli esecutivi. In questa prospettiva, il generalista di domani sarà sempre più semplice ripetitore o imitatore. Per tale motivo anche la relazione, di per sé espressiva, soggettiva, personale, si va irrigidendo in rapporto impersonale, oggettivo, formale. Il clinico cosciente dei limiti della sua conoscenza, della necessità biologica dell'invecchiamento e della malattia si scontrerà con forza di fronte alla pretesa della felicità e della salute come stati perenni e inconsapevoli del vivere.


5. Il conflitto, scontro di culture sulla salute

Perché si possa parlare di conflitto, deve aversi una risonanza affettiva negativa degli eventi: qualcuno si sente frustrato, svilito, disprezzato (anche se, di per sé,) il conflitto può nascere anche tra due persone ad armi pari che si pongono in una posizione antitetica). Certamente l'ostilità in medicina di base scaturisce spesso dal presupposto che tra i due contendenti uno possieda sapere e potere e l'altro no, o meglio che ci si trova in un conflitto di saperi e di poteri. Uno (quello del medico) è forse più efficace dell'altro, ma i due saperi (anche le concezioni folk del paziente) hanno inizialmente pari dignità di fronte alla necessità di prendere una decisione. Il problema sorge quando il paziente vuole convincere il generalista della verità che lui sostiene ed il medico vuole fare altrettanto per consolidare il suo potere e riconfermare il suo sapere.

Esistono essenzialmente cinque definizioni che indicano la salute nel suo contenuto positivo:
1. salute come stato ideale
2. salute come fitness fisica e mentale
3. salute come bene di consumo
4. salute come forza o abilità personale o pubblica
5. salute come sviluppo delle potenzialità personali (Ingrosso, 1994)

E' sufficiente che medico e paziente possiedano un differente riferimento per ciò che riguarda la definizione di salute perché si crei un elemento di conflitto, soprattutto nel caso che ciascuno dei due ritenga di non poter mettere in discussione o rendere flessibile la propria convinzione. Soltanto un paziente attivo è in grado di creare una relazione valida con il proprio medico. Dovrebbe esistere un tecnico che possieda un ideale modo di svolgere la professione, selezioni informazioni per validare le sue scelte e ponga reciproci accettabili confini (Gore, 1998): è più facile che la relazione funzioni se entrambi i protagonisti si mostrano aperti reciprocamente ad accettare le idee dell'altro.
La rappresentazione della salute non è solamente un fatto sociale o culturale, ma ha anche implicazioni più primitive e profonde connesse con i concetti di causalità, di attribuzione causale (Kelley, 1990), di pensiero magico, superstizione. E' anche possibile identificare una contrarietà che deriva dallo scontro con il paziente e una contrarietà che deriva dal contrasto con l'immagine ideale che il medico possiede di sé e della professione che dovrebbe svolgere. Il conflitto con l'ideale è tanto forte quanto quello con il cliente; si è contrariati per non aderire alle regole tanto quanto lo si è quando il paziente fa richiesta incongrue che non aderiscono alle regole o che impediscono al medico di aderirvi.
Le richieste irragionevoli scardinano una logica (la logica clinica) e costringono a un adattamento rapido al problema che deve essere risolto rispettando i dati scientifici, soddisfacendo il cliente e l'amor proprio del medico.
Né il paziente né il medico devono fare la parte dello sprovveduto: è indispensabile mantenere un atteggiamento scientifico, prendere in considerazione i desideri del cliente e riuscire a fargli digerire il fatto che non lo si può accontentare sempre, salvandogli contemporaneamente la faccia.
Gli si deve quindi trasmettere la necessità della frustrazione che gli si procura; il conflitto è esperienza di dis-senso, di vedute differenti in ordine a un problema da affrontare.
E' letteralmente "vitale" spiegare ai malati che cosa la medicina sia in grado di dar loro: non si può andare avanti fraintendendosi. Quando si è in studio si fa i clinici (salvo eccezioni). Non si potrebbe giustificare altrimenti, il fatto di dare certi suggerimenti, ad es. riguardo al fumo o al percorso migliore per un malato terminale. Doveri scaturiscono da valori e nel momento in cui si svolge la funzione di medico i valori di riferimento sono quelli della clinica. Il malato per definizione - dato che ha scelto di rivolgersi al clinico - riconosce implicitamente gli stessi suoi principi. Il suo sforzo può essere, eventualmente, quello di rendergli il tutto esplicito. Si può ridurre il conflitto di cultura facendo cogliere al paziente la realtà della sua malattia e permettendogli contemporaneamente di organizzarsi mentalmente per affrontarla; questo accade solo se il curante per primo è disposto ad accogliere la realtà dell'infermità che gli è stata presentata.
Al momento della diagnosi è utile comunicare al paziente che il suo malessere è stato identificato o che, pur non essendo stato oggettivato attraverso esami di laboratorio, è legittimo e riconoscibile per il solo fatto che egli ne parla, lo percepisce e lo propone sotto forma di problema. Un ulteriore passo avanti consiste nella capacità di mantenere il legame: c'è il rischio che il processo diagnostico divenga la circostanza in cui il medico, oggettivando la malattia, allontana il paziente-persona e organizza il proprio spazio di indagine e interesse esclusivamente intorno alla malattia.
Il momento della diagnosi è il momento in cui il paziente deve tacere: giacere e tacere in attesa del responso, del verdetto che renda finalmente le sue confuse geremiadi una malattia con nome e cognome. Non si dimentichi che per molto tempo la diagnosi è stata per il medico la palestra nella quale eccellere e il campo in cui esercitare capacità e potere. Il più delle volte in medicina generale la comunicazione diagnostica è confusa perché non è frequente giungere a diagnosi codificate nei frequentissimi casi di malesseri non inquadrabili. La comunicazione della diagnosi deve quindi basarsi in gran parte sull'accoglimento della sensazione soggettiva del paziente, che necessita di correzioni "scientifiche", ma che deve costituire la base per qualunque successiva elaborazione da parte del clinico.


6. Strategie e risoluzioni

Saldi confini, buona comunicazione, cura del paziente e saggezza vengono proposti come elementi chiave per affrontare il paziente e risolvere i problemi che con lui si creano (Adams, Murray, 1998). In letteratura numerosi articoli suggeriscono soluzioni e ricette. Per alcuni il listening doctor è utile a mantenere il rapporto, lo scambio di informazioni e la ricerca di decisioni (Langewitz, Keller, 1997); per altri un approccio biopsicosociale accanto a quello biomedico potrebbe assicurare una migliore comunicazione medico-paziente, specialmente a livello delle cure primarie (Vojnovic et al., 1997); altri ancora raccomandano di mantenere l'autostima professionale, la continuità medico-paziente, di minimizzare la medicalizzazione limitando l'uso di test e procedure, l'ospedalizzazione e la richiesta di visite specialistiche (Schwenk, Romano, 1992).
Per altri autori risulta fondamentale prestare attenzione al contesto in cui il problema si sviluppa ed alla organizzazione della relazione in cui le difficoltà sono esperite (Deys et al., 1989).
Per sperare in una composizione bisogna, innanzi tutto, far incontrare i due protagonisti del conflitto. Per questo convegno è necessario darsi dei riferimenti non equivoci: connotarsi adeguatamente, convenire in uno stesso luogo, concordare l'uso di una medesima lingua; stabilire cioè le condizioni generali entro le quali operare. Diciamo subito che un medico, nell'accezione forte del termine, può entrare in sintonia esclusivamente con un malato, nel senso di un portatore di malattia (host for illness or disease).
Quasi sempre è possibile formulare un progetto per ogni paziente. Nessun altro se non il medico di medicina generale può tentare un atteggiamento strategico che vince sul lungo termine.
Il conflitto è inevitabile solo a patto di diventare esecutori piatti degli ordini di tutti. E' salutare solo se e quando sia possibile apprendere qualcosa da un'esperienza che non si riveli troppo distruttiva. Troppi contrasti rovinano tutto; ma una dose di conflitto vivifica l'atmosfera e stimola il pensiero, purché il gioco corretto non sia svolto tra attori scorretti. In questo caso, se il gioco si squilibra troppo, può divenire pericoloso in numerose maniere: "Honesty is the best policy". Altri tre requisiti sono la riflessività, la flessibilità e la continuità. Sono tre caratteristiche indispensabili per comprendere ciò che sta accadendo (analisi), per disporsi ragionevolmente alla situazione senza irrigidirsi su posizioni preconcette (adattamento), e per mantenere nel tempo una relazione che si sviluppi sull'esperienza (crescita).

Per giungere a un accordo e spegnere il conflitto si possono utilizzare diverse strategie:
- una composizione delle parti che s'informano a vicenda (combattere la disinformazione);
- dimostrare l'infondatezza (scientifica, giuridica, economica) di una delle posizioni sostenute;
- cedere alle minacce della controparte;
- dimenticarsi di dover essere rispettati (rispetto reciproco come baseline del rapporto);
- esser autoritari/direttivi;
- utilizzare espedienti retorici a fin di bene;
- esser disponibili a perdere questa mano, nella prospettiva di potersi aggiudicare la partita;
- riconoscere la propria insufficienza negoziale e piegarsi, ripromettersi di imparare per l'avvenire;
- immettere nuove risorse nell'interazione (ad es. tempo, materiali educativi, tecnologia);
- far leva sul rapporto fiduciario (condivisione di valori);
- porre la controparte di fronte alle proprie incompatibilità;
- esplicitare i rispettivi interessi e stendere un contratto (putting the hidden agenda on the table).

Trasformare lo scontro in incontro rende pensabili le ragioni dell'altro: ci si mette nei suoi panni e si torna nei propri difendendo le proprie ragioni, non per principio ma sulla base della situazione contingente. Una guerra per posizioni è destinata a una carneficina. Chi si sente aggredito mantiene un atteggiamento di difesa secondo un primitivo meccanismo attacco-fuga, mentre la disponibilità implica l'abbassamento reciproco della guardia.
La relazione medico generalista-malato deve avvenire in un ambito trasparente, garantito autorevolmente dalla volontà sociale, in modo che le interazioni personali legate all'incontro terapeutico siano libere di svolgersi secondo necessità, al riparo da disegni estranei. Di fronte al problema delle persone che pretendono molto e offrono poco, è necessario presentare un rifiuto in maniera ammissibile per il malato. E' un'operazione retorica, che tuttavia merita il nostro rispetto. Qui non si tratta di vendere una pozione come fosse miracolosa; al contrario, si tratta di non fare acquistare intrugli inutili come fossero salvifici!
In medicina mediare una posizione non è sempre possibile; talora negoziare vorrebbe dire compiere un errore scientifico o giuridico, oppure un errore professionalmente inaccettabile (Male facere nihil est nisi a disciplina deviare: è una definizione di sant'Agostino).
La negoziazione di cui si sta parlando va proprio nella direzione opposta a quel tutto o nulla di cui abbiamo già discusso come risposta automatica (e nevrotica) alla richiesta del paziente. Si intende qui quella mediazione correlata alla possibilità di fare accettare contenuti scientificamente e giuridicamente corretti senza rompere il rapporto con il paziente. E' un errore inaccettabile prescrivere tutti gli esami o un antibiotico a chi ha la gola che brucia o il ricostituente a chi lo chiede a viva voce? Qual è il limite evidence based oltre il quale una scelta strategica per ricomporre un conflitto deve essere considerata accettabile? Quali strumenti evidence based sono in possesso della comunità dei medici per stabilire questi end points? I compromessi servono a intrattenere una relazione, inviare al paziente una accogliente immagine buona, dirgli la disponibilità a prendersi cura di lui anche in modi diversi dalla prescrizione di farmaci o esami. E' evidente che sul piano giuridico-legale non si possono fare concessioni di alcun genere.
In medicina generale ciò che conta è la relazione, che viene prima dei contenuti (Mc Whinney, 1961). E' tuttavia indispensabile dare uno spazio non retorico al parere del paziente-soggetto, che sia in grado di collaborare consapevolmente attraverso la sua narrazione soggettiva al processo diagnostico, terapeutico e prognostico. Il mantenimento della relazione può essere un motivo di mediazione o di accettazione passiva delle richieste del cliente: tutto le dev'essere finalizzato; si lavora soprattutto perché questo legame sia saldo. Il cammino si conquista a tappe progressive: nelle giornate positive si propone che il raffreddore si curi con i fazzoletti, che il mal di schiena passi con l'aspirina; ma le convinzioni del paziente riguardo la sua salute determinano il genere di richiesta da porre al medico, quindi l'indomani si dovrà lottare contro la richiesta di una Tac per un banale mal di schiena o di un antibiotico per il raffreddore.
Quando in medicina si concede all'empatia, alla variazione del punto di vista e all'ascolto della soggettività della persona, non rischiamo di porci automaticamente fuori dalla clinica intesa come territorio e metodo in cui il paziente storicamente e pregiudizialmente deve porsi al servizio dell'osservazione medica come puro oggetto? Si sta parlando di compiti professionali ai margini della naturalità dell'agire clinico: è auspicabile che si sappia apprendere a usare sia quegli strumenti che non sono né istintivi né spontanei, sia a riconoscere le procedure automatiche di pattern recognition che rivestono un ruolo fondamentale in ognuna delle decisioni della clinica ambulatoriale (Bernabè, Benincasa, Danti 1998). Un talento che parte dall'attitudine a sentire e osservare dentro di sé prima che negli altri e cresce attraverso capacità che vanno coltivate.


7. Conclusioni

Quello che è stato definito scontro di culture può diventare elemento di comunicazione, se medico e paziente utilizzano i reciproci alfabeti per capirsi invece che per fraintendersi. Il clinico deve accogliere perfino le espressioni verbali dell'assistito come segni da utilizzare nella diagnosi e nella terapia. Il paziente fa un uso cognitivo delle metafore per comprendere la sua stessa malattia e permettere al clinico di saperne di più; egli cerca di darsi e dare una spiegazione del proprio stato di malessere cercando analogie e metafore con altre malattie, di cui lui stesso o i suoi conoscenti hanno avuto una precedente esperienza diretta.
Le occasioni di conflitto potrebbero essere ridotte se si riuscisse a organizzare un piano con il paziente, creare un campo con lui (nel senso elettromagnetico di Maxwell) all'interno del quale scambi, elaborazioni, contrattazioni tra i due protagonisti possano avvenire secondo correnti reciproche di richieste e offerte. Nel contrasto, annullarsi, annullare o disimpegnarsi significa aver fallito nella relazione, e quindi nel lavoro del medico. Non è necessario sempre il lieto fine, ma è essenziale puntare verso la stabilità.
Non si prosegue perché si è ceduto o si è fatto cedere. Bisogna arrivare, anche in più incontri, a con-vincere: solo in questo modo si potrà ancora contare su un legame affidabile, superare il conflitto, rinnovare la fiducia. Nel contrasto, comunque, la tenuta del medico generale è messa alla prova e non esistono scorciatoie, vie elusive, facili trovate. Chi crede in una risposta efficientistica ai contrasti dovrà accorgersi che i criteri dei pazienti per valutare la soddisfazione nelle consultazioni dipendono più dalle social skills che dalle medical expertise (Branthwaite, 1996). L'enfasi posta sui risultati biomedici da parte dei professionisti della salute e degli economisti sanitari deve esser mitigata attraverso le considerazione di ciò che i pazienti definiscono come effetti desiderabili (Neubergerer, 1998). All'interno del mondo medico la logica cogente è quella clinica che, come sulla terra la legge di gravità, condiziona l'agire del medico. I malati vogliono diagnosi e una volta che il paziente si è rivolto alla medicina, il medico ha ricevuto un suo preciso incarico che dovrà portare a compimento secondo scienza, ma senza aderire a quella cultura della guarigione e della cura a ogni costo.
Solo i generalisti possono essere in grado di ascoltare le richieste della persona-soggetto-uomo, mettendo in campo una sensibilità che permetta loro di cogliere il senso della sua impazienza segreta, causa di rovina e chiave di liberazione. Offrendo attenzione a tutto l'uomo e non solo ai suoi sintomi il contrasto potrà forse essere affrontato come un elemento di crescita della relazione piuttosto che come un ostacolo distruttivo..
Queste ultime affermazioni danno speranza alla professione del medico generalista di poter dare e dire ancora qualcosa che le altre figure della medicina non possono più ricuperare. Il dottore è a contatto con il paziente senza troppe barriere non solo per motivi politici o burocratici, ma per motivi essenziali e viscerali. Si sta su un piano unico, mai praticato da altri: si sta sul piano del sudore, delle lacrime, del sangue, della biologia, degli affetti, della storia. Si delinea una figura diversa, apparentemente di basso profilo professionale, ma che in realtà deve possedere alta levatura etica e profonde capacità disciplinari.
Deposta l'esclusiva funzione strumentale del medico, si accetta quella maieutica dell'interprete, del negoziatore, dell'assistente. Non si guadagna più sul malato che ci si affida perché s'è dichiarato incompetente per la propria sofferenza, ma si scommette sulla sua autonomia e lo si supporta nella sua prova come individuo soggetto di diritto, a cui la competenza del clinico può essere d'aiuto nell'accrescere la coscienza di sé e la capacità di affrontare attivamente le difficoltà che riguardano la propria salute. Questa è l'assoluta importanza del medico generale: una grandezza che reclama competenza (Macnaughton, 1998), compostezza (Mc Cormick, 1994), compassione (Taylor,1997).


Bibliografia

0 Bonino (a cura di): Dizionario di psicologia dello sviluppo, Einaudi, Torino, 1994.
1. 0 Anstett R: The difficult patient and the physician -patient relationship J Fam Pract 1980 Aug;11(2):281-6
2. 0 Somerset M, Faulkner A., Shaw A, Dunn L, Sharp D.J.: Obstacles on the path to a primary care led National Health service:complexities of outpatient care, Soc Sci Med 1999 Jan;48(2):213-25
3. 0 J. Hughes: Organization and information at the bed side:The experience of the medical division of labor by University Hospital's inpatients http//www.changesurfer.com/hlth/HuDiss.html
4. 0 Bernabè S.,Benincasa F,.Danti G.: Il giudizio clinico in medicina generale, UTET, Milano, 1998.
5. 0 Cromarty I. What do patients think about during their consultations? A qualitative study. Br J Gen Pract 1996; 46: 525-8
6. 0 Kernberg O.: Aggressività, disturbi della personalità e perversioni, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1993.
7. 0 Modell A.: Psicoanalisi in un nuovo contesto, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992.
8. 0 Gabbard GO. The role of compulsiveness in the normal physician. JAMA 1985; 254: 2926-9
9. 0 Gaburri E, Ferro A.: Gli sviluppi Kleiniani e Bion in Semi A.A.: "Trattato di psicoanalisi", Raffaello Cortina Editore, Milano,1988.
10. 0 Ferro A.: La tecnica nella psicoanalisi infantile, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992.
11. 0 Rayner E.: Gli indipendenti nella psicoanalisi britannica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995.
12. 0 Baker R, Streatfield J. What type of general practice do patients prefer? Exploration of practice characteristics influencing patient satisfaction. Br J Gen Pract 1995; 45: 654-9
13. 0 Carrol L, Sullivan FM, Colledge M. Good health care: patient and professional perspectives. Br J Gen Pract 1998; 48: 1507-8
14. 0 Baker R. Characteristics of practices, general practitioners and patients related to levels of patients' satisfaction with consultations. Br J Gen Pract 1996; 46: 601-5
15. 0 Ingrosso M. (a cura di): La costruzione sociale della salute: teorie e immagini sociali in "La salute come costruzione sociale" , Angeli, Milano, 1994)
16. 0 Gore J. et al.: Developing, validating and consolidating the doctor-patient relationship: the patient's views of a dynamic process.
Br J Gen Pract 1998; 48: 1391-4
17. 0 Kelley H.: The process of causal attribution. American Psycologist, 28,107, 1973, citato in: Gergen KJ. et al. "Psicologia sociale". Il Mulino, Bologna, 1990
18. 0 Adams J, Murray R 3rd The general approach to the difficult patient Emerg Med Clin North Am 1998 Nov;16(4):689-700,v
19. 0 Langewitz W, Keller R Difficult physician-patient relations:characteristics and possible solutions. Schweiz Rundsch Med Prax 1997 Sep 3;86(36):1383-6
20. 0 Vojnovic M, Martinov-Cvejin M, Grujic Biosocial aspects of physician-patient communication in general medicine. V Med Pregl 1997 Sep-Oct;50(9-10):395-8
21. 0 Schwenk TL, Romano SE : Managing the difficult physician-patient relationship Am Fam Physician 1992 Nov;46(5):1503-9
22. 0 Deys C, Dowling E, Golding V Clinical psychology: a consultative approach in general practice. J R Coll Gen Pract 1989 Aug;39(325):342-4
23. 0 Chambers R, Wall D, Campbell I Stresses, coping mechanisms and job satisfaction in general practitioner registrars Br J Gen Pract 1996 Jun;46(407):343-8
24. 0 Chambers R, Campbell I Anxiety and depression in general practitioners: associations with type of practice, fundholding, gender and other personal characteristics. Fam Pract 1996 Apr;13(2):170-3
25. 0 Chambers R, Belcher J Predicting mental health problems in general practitioners. Occup Med (Oxf) 1994 Sep;44(4):212-6
26. 0 Macnaughton J. Core values: doctor or everyman? BMJ 1996; 313: 120-1
27. 0 Levison W, Roter DL, Mullooly JP, Dull VT, Frankel RM. Physician-patient communication. The relationship with malpractice claims among primary care physicians and surgeons. JAMA. 1997; 277:553-9.
28. 0 Ely JW, Dawson JD, Young PR, et al. Malpractice claims against family physicians. Are the best doctors sued more? J Fam Pract. 1999 Jan; 48: 23-30.
29. 0 McWhinney IR. The importance of being different. Br J Gen Pract 1996; 46: 433-6.
30. 0 Branthwaite A. The image of the patient in their relationship with general practitioners. Br J Gen Pract 1996; 46: 504-5.
31. 0 Neuberger J. Patients' priorities. BMJ 1998; 317: 260-2.
32. 0 Macnaughton J. Medicine and the arts: let's not forget the medicine. Br J Gen Pract 1998; 48: 952-3
33. 0 McCormick J. The place of judgement in medicine. Br J Gen Pract 1994; 44: 50-1
34. 0 Taylor MB. Compassion: its neglect and importance. Br J Gen Pract 1997; 47: 521-3


PM --> HOME PAGE --> NOVITÁ --> SEZIONI ED AREE
--> MdB e PSICHIATRIA