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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA

Area: Psichiatria e psicologia dell'emergenza

Appunti dalla costa abruzzese, la situazione dopo il terremoto

Ambra Cusin



Venerdì 17 aprile

Mentre mi preparo a partire per l'Abruzzo sento di sperimentare al fondo un'emozione di curiosità narcisistica. Una parte di me fa emergere aspetti voyeuristici che vorrebbero vedere le città distrutte, verificare con i propri occhi le immagini della TV. Mi sento contagiata dall'aspetto mass-mediatico che tenta di parassitarmi con la mentalità dell'immagine e dell'apparenza, non della realtà vera e vissuta. Cerco di esserne consapevole e mi impegno a non fare fotografie, ma a fotografare piuttosto, con la mia mente, le emozioni.

Penso che aiutare gli altri sia un bisogno che va analizzato e al quale sia necessario dare un significato. So che questa mia breve visita ha, sebbene in modo molto limitato, uno scopo anche oblativo, e quindi non posso negare tutti i significati che si attribuiscono all'oblatività e alla generosità, vorrei lasciarli sullo sfondo per privilegiare invece l'ascolto senza desideri, così da essere il più libera possibile di sentire.
Dobbiamo essere attenti alla nostra pulsione scoptofilica perché non abbia il sopravvento impedendo la visione, accecando con l'imponente presenza di sé stessi, l'altro che ci sta di fronte.
Questo breve diario mi aiuterà in un continuo dialogo con me stessa.

C'è un altro sentimento che mi accompagna ovvero quello di impotenza che fa parte, a mio parere della strumentazione dello psicologo. Noi interveniamo in primis con il nostro apparato mentale, anche in situazioni catastrofiche come questa. I nostri interventi non sono imponenti come le immagini di chi estrae dalle macerie, o dai medici che operano con urgenza salvando vite umane, o delle scavatrici che smuovono i detriti, ma neanche dei tanti generosi volontari che preparano la pastasciutta o consegnano carta igienica, acqua e pannolini.

I nostri interventi sono fatti nel silenzio, nella riservatezza (ma trovo giusta la maglietta con la scritta che ci distingue), nell'umiltà, senza prosopopea, con sguardi che comprendono, con mani che danno calore. Noi veniamo e siamo utili soprattutto dopo, quando i riflettori si spengono, quando del terremoto non parlerà più nessuno, quando l'anestesia passerà e il dolore mentale si esprimerà in tutta la sua potenza. Quello che noi chiamiamo PTSD e che ci sforziamo giustamente di prevenire è forse, mi chiedo, la manifestazione di un'umanità che non può e non vuole far finta di niente?
Io mi chiedo cosa posso fare?
Non ho effetti speciali a cui ricorrere, solo l'ascolto, il mio essere un umano nulla di fronte alla vastità di questa devastazione causata dall'uomo, ricordiamolo, non dal terremoto... porto con me solo la disponibilità a contenere e dare senso al dolore incontenibile di chi non ha più né certezze né sicurezze.

Come psicologa mi sento priva di tutto, e questa forse è la mia ricchezza perché questo mi permette di poter essere vicina a queste persone. Un collega abruzzese, sapendo del mio arrivo, mi ha chiesto di portare dei protocolli per rilevare il disagio. Quali protocolli? Non ci sono e non ci possono essere mi dico, andrò a mani vuote. Forse qualche americano ha inventato dei questionari per la PTSD... ma per me non esiste nulla di tutto ciò perché le persone, l'umanità non può essere costretta in un misero protocollo. Certo posso rilevare i segni del disagio (insonnia, incubi, reazioni d'ansia, ecc.) ma da soli non dicono niente delle persone e del loro dolore.
Ogni storia è profondamente e intimamente diversa. Non voglio usare protocolli proprio per garantire la ricchezza di questa diversità. Che è forse l'unica ricchezza che queste persone ormai possiedono.

Mi dico, mentre sto pensando a questo viaggio, che come uomini abbiamo bisogno di progettare -organizzare interventi ed è giusto per certi versi, ma dobbiamo stare attenti che la progettazione non serva al fondo a proteggerci (progettare e proteggere hanno molte lettere in comune...) dalla dolorosa percezione della fragilità umana che un evento come il terremoto ci sbatte addosso. Il rischio di un eccesso di progettazione (per esempio di utilizzo di protocolli per la rilevazione della PTSD) è di obliterare la nostra attenzione nei confronti di quel emergere profondo del disagio limitandosi a rilevare solo dati codificabili. Quello di cui le persone hanno bisogno è di sentire che c'è un ascolto competente. Ciò non toglie che sia importante fare dei rilevamenti e utilizzare dei protocolli e dei test, ma ci tengo a sottolineare come si debba saper tenere alta la sensibilità personale.

E poi ancora mi chiedo quale impatto avranno queste emozioni sul mio apparato mentale che devo proteggere perché è ciò che mi aiuta nel lavoro con i miei pazienti. Se mi riempio di orrore, come questo poi interagisce con il lavoro clinico, come faccio a digerirlo in così breve tempo? Quanto il contagio di questo dolore, questa distruttività, ineluttabilità può invadere, occupare il mio inconscio e solidarizzare con i miei aspetti distruttivi?


18 aprile 2009

Ci stiamo recando in macchina a Vasto Marina, una località sulla costa nel sud dell'Abruzzo, siamo in quattro e chiacchieriamo tra noi, quando dopo Pescara cominciamo ad accorgerci che incontriamo sempre più spesso macchine della Protezione Civile o della Croce Rossa. Sono banalità, ma quando te ne accorgi sei costretto a pensare e a rinunciare ai discorsi superficiali e forse difensivi che fai in viaggio.

Nei pressi del paese di Vasto, non trovando l'albergo come si fa abitualmente decidiamo di chiedere informazioni a qualche passante. Il paese è vuoto, del resto è una località turistica... si riempirà a giugno... "ecco lì ci sono quattro persone all'angolo, fermiamoci a chiedere!"
E' un attimo, li vedo e mi accorgo che non sono abitanti del paese, vedo dai loro abiti che sono sfollati, sono riconoscibilissimi perché la mia memoria immediatamente recupera la "gestalt" di altri rifugiati che avevano invaso la mia città, Trieste, tanti anni fa durante la guerra in ex Jugoslavia, sono identici: indossano tute consumate, con tessuti dal colore triste che qualcuno ha eliminato dal guardaroba e donato alla Caritas, i loro volti sono inespressivi.
Cerco di dire ai miei compagni che sono terremotati, che è inutile chiedere qualcosa, ma non mi escono le parole, ho un vuoto di memoria e non mi viene la parola "terremotati"... il tempo sfugge e uno di noi ha già abbassato il finestrino per chiedere informazioni...

"Non lo sappiamo, noi non siamo di qui... siamo dell'Aquila..." In questa frase c'è tutto: siamo dell'Aquila cioè di una città che i giornali definiscono "fantasma" e loro sono dei sopravvissuti, loro c'erano quella notte...
Io sento dei brividi, l'averlo intuito e non essere riuscita a dirlo in tempo, così da evitare una sorta di umiliazione a queste persone che quasi si giustificano, mi fa male. E' solo l'inizio mi dico, devo prepararmi.

All'entrata nell'albergo sono di nuovo gli abiti di queste persone a colpirmi, non sono le tute di ginnastica firmate e armonizzate con maglietta e scarpe, ma sono tute o troppo grandi o troppo piccole, dai colori improbabili, un po' stinti, fatte con tessuti dozzinali.
Alcuni giocano a carte sotto un enorme televisore al plasma che sembra stridere con questa triste miseria. E' dissonante in questo contesto.
Poi ci danno una camera al sesto piano... ci si guarda... saliamo con l'ascensore?
Facciamo tutti finta di non aver pensato di provare paura, neghiamo la realtà interna, forse è l'unico modo per sopravvivere, mi dico.
Mio marito mi dice "Che vuoi farci, non puoi star lì a pensarci tutto il tempo..." Penso che forse ha ragione. Ma io voglio pensarci.

Poi incontro un soccorritore che come viene a sapere che sono psicologo mi rapisce letteralmente e mi chiede un tempo "per svuotarsi".
Non posso riportare il colloquio in questa sede perché c'è un'intimità che sento di dover proteggere, ma credo sia importante mettere alcune note utili ai colleghi:

- segnalo che i soccorritori possono preferire persone non conosciute con cui parlare più liberamente rispetto ai colleghi psy che collaborano con la CRI e la Protezione Civile del loro contingente
- Dopo qualche giorno di intervento emerge una tonalità depressiva che viene evitata impegnandosi in altre attività così da mantenere difensivamente un tono dell'umore maniacale ed eccitato.
- Manifestano sorpresa nei confronti di una inattesa "impreparazione" a questo tipo di evento nonostante anni di esperienza
- Sperimentano sentimenti di vergogna nei confronti di piccoli privilegi, nonostante una collocazione di emergenza anche per i soccorritori, che differenziano degli sfollati
- Il poter parlare ed esprimersi permette da subito segnali di miglioramento: sonno tranquillo dopo notti di insonnia e incubi, maggiore serenità nei rapporti con i familiari e soprattutto accettazione dell'umore triste.

Ci sarebbe molto da dire su questo incontro, ma sento di doverlo tenere riservato.

Resto colpita da qualche persona a cui sfugge un
"Conosce l'Aquila? E' una città bellissima... era bellissima, mi scusi ! ..." Mi scusi... di cosa? Quasi che il terremoto sia colpa sua... Cosa significa questo, quanto questi eventi si intrecciano con fantasie inconsce personali di distruttività ?

Alcuni ci dicono di come vedere la Tv non riesce a spiegare cosa si viva quando si prova l'esperienza del terremoto. Una frase certamente scontata, ma non per chi la esprime!
Mi colpisce una signora che mi racconta di avere addosso gli stessi pantaloni da 15 gg. e io mi chiedo perché non li cambi, vestiti ce ne sono quanti si vuole, in una sala dell'albergo è allestito una sorta di mercatino dell'usato (in questo caso del "donato"), ma penso che forse questo capo d'abbigliamento è divenuto una sorta di pelle che nessuno le può togliere. Il terremoto è avvenuto di notte e molte persone sono uscite in pigiama sulle strade. A chi è stato tolto tutto, il primo vestito con cui si è stati coperti e protetti può acquistare significati a noi misteriosi, ma da non sottovalutare.

Attorno a noi persone che girano con borse di plastica piene di roba. La gestalt dello sfollato...
E ragazzi dallo sguardo imbambolato, senza sorriso, che girano a vuoto, senza niente da fare. Mi dico, menomale che lunedì inizia la scuola. I nostri amici abruzzesi apprezzano il materiale di cancelleria e scolastico che abbiamo portato..
In ascensore una ragazzina mi dice "non funziona bene, siamo rimasti bloccati"... sì, penso sono proprio rimasti bloccati, come gli orologi che in seguito ad un sisma segnano sempre la stessa ora...


Domenica 19 aprile 2009

La notte passa tranquilla ma al mattino mi dicono che ci sono state scosse, io non le ho sentite nonostante il sesto piano. Una signora appena mi vede mi dice che le ha sentite tutte.
Durante la Santa Messa che si tiene presso l'albergo, a cui scegliamo di partecipare, si decide di raccogliere offerte per le persone che alloggiano in quel albergo. Mi accorgo che alcune signore davanti a me tirano fuori delle monetine, pochi centesimi, e provo una stretta al cuore. Penso che quei pochi centesimi valgono molto di più delle nostre misere offerte di 20 -50 euro. Mi rendo conto che non hanno capito che si sta raccogliendo soldi per donarli a loro. Capisco che non possono capire, che agiscono automaticamente, danno un'offerta perché si fa così. Loro in questo momento non possono pensare.

Penso che non esista nessuna tecnica, nessuna preparazione possibile: non si può essere preparati a tutto ciò. Come psicologi ci si può solo allenare ad accogliere l'ignoto. Se delle tecniche ci sono come è giusto che sia, devono essere un'aggiunta ad un'umanità di fondo che alimenta e rende il nostro intervento da psicologi unico e irripetibile. Dobbiamo lasciarci attraversare e percorrere dal dolore, non respingerlo, ma utilizzare noi stessi per trasformarlo e restituirlo in una sorta di reverie, bonificato e accettabile così da poter restituire una speranza nella possibilità di ricostruire non solo case più sicure ed antisismiche, ma personalità "antisismiche" pronte ad affrontare i terremoti che inevitabilmente la vita ci riserva.


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