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PSYCHOMEDIA
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Identità di Genere



L'omofobia istituzionalizzata: il caso della psicoterapia

di Margherita Graglia (aledone@tin.it)



 
Premessa

 Per la maggior parte del XX secolo l'orientamento omosessuale è stato classificato e trattato come una malattia.
Nel 1973 l'American Psychiatric Association rimuove l'omosessualità dalla nosografia del DSM. La risoluzione della commissione dell'APA, composta da tredici membri, viene però posta a referendum da Socarides e Bieber: il 55% vota a favore della risoluzione, il 38% contro e il 7% si astiene. L'omosessualità dunque non è più ritenuta una patologia: "l'omosessualità, in sé, non implica una compromissione del giudizio, della stabilità, dell'affidabilità o delle capacità sociali e professionali" (Conger,1975, p. 633).
La storia tuttavia continua e nel 1974 il DSM III prevede una nuova categoria: "l'omosessualità egodistonica", rimossa poi nel 1987.
Negli anni successivi il modello affermativo non ha soppiantato interamente il modello patologico. Nonostante i numerosi inviti da parte delle maggiori organizzazioni internazionali di psichiatri e psicologi, tra cui l'American Psychological Association nel 1991, a rimuovere ogni fonte di stigma per i clienti gay e lesbiche, il legame tra omosessualità e patologia non è ancora stato spezzato.

 
1. Il modello patologico: la terapia di conversione

 Un esempio paradigmatico della teoria dell'identità tra omosessualità e nevrosi è rappresentato da un caso clinico dello psicoanalista Ovesey (1965). Un uomo affetto da un'inibizione lavorativa si rivolge al sopracitato terapeuta. Questi, durante il primo colloquio, scopre che il paziente è omosessuale, ipso facto, la sua omosessualità diventa un sintomo e in ultima analisi il vertice da cui esplorare i sintomi:
"Mentre il paziente raccontava la sua storia e riferiva i suoi disturbi, l'analista gli chiese perché non annoverasse anche l'omosessualità fra i sintomi a cui voleva trovare rimedio. A questa domanda, apparve perplesso; non gli era mai passato per la mente che l'omosessualità fosse un sintomo nevrotico, né che si andasse dallo psichiatra per farsene curare" ( Ovesey, 1965; edizione italiana 1970, p. 227).
Ovesey non è certamente l'unico a sostenere che l'omosessualità sia una condizione reversibile; dello stesso avviso sono infatti altri psicoanalisti, tra cui Socarides (1968). L'autore argomenta che il trattamento dell'omosessualità è tanto più promettente quanto più siano soddisfatti alcuni requisiti: il paziente non deve ritenere la propria condizione geneticamente determinata, deve manifestare un senso di colpa e deve intraprendere volontariamente il trattamento. Per il successo terapeutico è necessario che lo psicoanalista dimostri al paziente il significato della sua paura di castrazione e di dipendenza orale, del disgusto che prova verso il sesso femminile, della paura della propria aggressività e infine "l'irrazionalità" del suo comportamento.
La categorizzazione degli omosessuali come gruppo omogeneo di persone, distinto dagli eterosessuali, è una prima caratterizzazione dello stigma (Goffmann, 1963); in questo senso le concezioni di Bergler (1956) sono esemplificative:
L'omosessualità/lesbismo viene precisata dall'autore come nevrosi, passibile di essere collocata:
"in una specifica categoria psichiatrica. .... Tale uniformità e monotonia non può essere stabilita tra gli eterosessuali nei quali si incontra un'infinita varietà di quadri clinici, che vanno dalla normalità a centinaia di tipi di nevrosi. Il 'marchio di fabbrica' specifico, completamente uniforme e invariabilmente presente nell'omosessuale maschile, è composto di dieci fattori inconsci" (Bergler, 1956; edizione italiana, 1970, p. 11).
Bergler auspica addirittura l'apertura negli ospedali di ambulatori psichiatrici specializzati nella cura degli omosessuali e si dichiara convinto che un trattamento psicoanalitico di due-tre anni, tre volte a settimana, possa condurre alla "guarigione".

 
1.2 Altre tecniche di conversione

 Il trattamento dell'omosessualità non appartiene ovviamente soltanto alla scuola psicoanalitica. Oltre alle tecniche psicoanalitiche sono stati impiegati molti altri mezzi: l'elettro-shock, l'uso di droghe, il trattamento ormonale, la terapia elettro-convulsiva e persino la lobotomia (l'ultimo caso conosciuto in USA, come annota Falco [1991], risale solo al 1951).
Hatterer (1970) nel suo "dehomosexualization process" propone al terapeuta di servirsi anche dei valori religiosi per propagandare la famiglia classica.
La varietà delle tecniche utilizzate ai fini del riorientamento è ben espressa negli interventi al primo Congresso Internazionale di Sessuologia tenutosi nel 1972 a Sanremo. C'è chi suggerisce la terapia avversivante (Feldman, 1973), chi propugna il condizionamento (Olivari, 1973), chi l'ipnoterapia (Gonzaga, 1973), chi il training autogeno (Piscicelli, 1973), chi il trattamento psicoanalitico (Eck, 1973), chi la psicoterapia di gruppo (Ancona, 1973) e infine, chi la terapia medica (Teodori, 1973).
La storia della terapia di conversione annovera però ancora episodi recenti.

 
1.3 La terapia riparativa continua

Nicolosi (1991) ritiene che i professionisti della salute mentale, sostenendo il movimento dei gay, abbiano completamente dimenticato gli "omosessuali non-gay", coloro i quali non riescono a conciliare il loro orientamento sessuale con il loro sistema di valori. E' il vecchio concetto di egodistonia rispolverato. Nicolosi, che vanta 500 casi di gay trattati, ritiene che la terapia riparativa possa venire in soccorso agli omosessuali. Fondatore insieme a Socarides del National Association of Research and Therapy of Homosexuality (NARTH), ribadisce che l'omosessualità è un disordine dello sviluppo che si associa spesso a sintomi psichiatrici, ed è una condizione trattabile.
Anche in Italia il riorientamento, sebbene in forma meno esplicita, è ancora praticato da alcuni psicoterapeuti che ritengono l'omosessualità una perversione o un disturbo evolutivo (Graglia, 2000).

 
1.4 La terapia direttivo-suggestiva come insieme di norme morali e religiose

 Mitchell (1981), passando in rassegna la letteratura psicoanalitica, critica l'approccio da lui denominato direttivo-suggestivo, che ha prevalso nel trattamento psicoanalitico dell'omosessualità.
La neutralità del terapeuta, atteggiamento di solito tanto magnificato, viene dichiarata dannosa dagli autori sopracitati: incoraggerebbe, come già fecero i genitori, le tendenze omosessuali. Il terapeuta può e deve indurre il cliente a rinunciare ai comportamenti omosessuali spiegando i vantaggi dell'eterosessualità.
Cruciale per Socarides (1968) è il transfert del paziente che vive l'analista come buon padre, e la chiarificazione al paziente delle deficienze genitoriali. Socarides si lamenta dell'attaccamento simbiotico tra il figlio e la madre per poi riproporlo come sottomissione del paziente al terapeuta, non risolvendo così il problema di separazione-individuazione.
In questi approcci, nota Mitchell, manca la preoccupazione per la qualità delle relazioni oggettuali, ma si assume come criterio di salute l'eterosessualità senza chiedersi come sono strutturate dal paziente queste relazioni eterosessuali, utilizzando il transfert per alterare il comportamento piuttosto che interpretarlo.
I sogni dei pazienti che si presterebbero ad essere interpretati come metafore sessuali della sottomissione al terapeuta vengono negletti da questo punto di vista. La "pseudo-eterosessualità" raggiunta dal paziente rappresenta la sostituzione della sottomissione alla madre ora terapeuta. Il terapeuta-madre infatti ordina: "be active, be assertive, be heterosexual" (Mitchell, 1981, p. 72). Il paziente invero non muta orientamento sessuale, ma ritorna supino alla madre. Come denuncia Mitchell, l'analisi si riduce ad essere un "set of ethical and religious norms".
Il sogno di un paziente e la successiva interpretazione ben esemplificano quanto detto: il paziente, dopo aver ceduto alle pressioni del terapeuta di giacere con una prostituta, porta in seduta un sogno. Nella dimensione onirica il paziente, diventato una volpe, viene penetrato analmente da una delle altre volpi, dopodiché tutte le altre volpi si trasformano in uomini. L'interpretazione riportata dall'analista descrive questo sogno come il passaggio dall'eterosessualità, provata con la prostituta, ad una riparazione magica attraverso un contatto omosessuale. Ovesay (1965), il terapeuta, non intravede la possibilità che il sogno rilevi la pressione che il terapeuta esercita sul paziente nella direzione dell'eterosessualità.
La centratura di questi terapeuti è sul tranfert, il controtransfert è assolutamente negletto.
Drescher (1996) rileva un atteggiamento particolare di alcuni psicoterapeuti circa l'omosessualità: il riserbo, forma di intellettualizzazione molto diffusa tra gli psicoanalisti.
"La ritrosia psicoanalitica è un atteggiamento di insincerità che si può trovare in alcuni analisti quando discutono dei loro sentimenti sull'omosessualità. Essa deriva dal conflitto tra l'odio inconscio che questi analisti eterosessuali sentono verso i gay e le rappresentazioni psichiche di se stessi come individui tolleranti che curano" (p. 16).
Di simili atteggiamenti fa menzione anche Moor (1989) quando descrive il comportamento degli psicoanalisti gay dell'Associazione Psicoanalitica Internazionale:
"Alcuni di questi analisti in condizione di involontaria segretezza praticano la psicoanalisi in una specie di zona crepuscolare: i loro colleghi del luogo sanno, gli analisti sanno che essi sanno, e i loro colleghi sanno che gli analisti sanno che essi sanno: ma ognuno di loro, camminando sulle uova, evita di far uscire il problema allo scoperto" (p. 62).
E' interessante ricordare che l'American Psychoanalytic Association (APA) solo nel 1992 acconsente ai gay e alle lesbiche dichiarati/e di essere psicoanalsti/e.
La terapia di conversione provoca disistima e disagio psichico. Alcuni terapeuti tuttavia difendono la loro terapia di conversione come una libera scelta da parte del cliente che è un gay infelice e scontento della propria condizione; invero in una società che discrimina e in cui mancano modelli identificativi, non sorprende che un gay, con omofobia internalizzata, voglia diventare come gli altri, per farsi accettare o semplicemente per avere una vita più facile. Haldeman (1994, p.226) infatti auspica che "l'attenzione dei professionisti riguardi cosa cambia il pregiudizio e non cosa cambia l'orientamento omosessuale".
In realtà non c'è nessun dato empirico che mostri la validità della terapia di conversione, viziata spesso da errori metodologici. Il follow-up ad esempio, fatto con self-report, espone al rischio della desiderabilità sociale questi soggetti già vulnerabili. In aggiunta, i programmi di conversione si rilevano fallimentari sul lungo periodo.
L'etica impone due considerazioni: primo, è insensato curare una condizione che non è considerata essere una malattia; secondo, proporre una cura significa giustificare e rinforzare il pregiudizio.
 

2.1 La psicoterapia affermativa

 Se nell'accezione freudiana l'omosessualità è l'esito di un'interruzione dello sviluppo, per alcuni psiconalisti, viceversa, può essere il risultato naturale del complesso di Edipo (Chodorow, 1995, Isay, 1989).
La psicoterapia affermativa non si configura come sistema di terapia indipendente, ma "afferma" l'orientamento omosessuale come disposizione erotica e affettiva, sottolineando l'impatto dello stigma nel produrre il disagio emotivo dei gay e delle lesbiche.
Maylon (1982, p. 69) ben sintetizza il significato della psicoterapia affermativa:
"La terapia affermativa per i gay usa i metodi terapici tradizionali, ma procede da una prospettiva non tradizionale. Questo approccio riguarda l'omofobia, opposta all'omosessualità, come la maggiore variabile patologica nello sviluppo di certe condizioni sintomatiche nei gay"
L'omofobia viene a far parte dell'Io, influenzando l'autostima e le relazioni oggettuali, e del Super Io, contribuendo alla formazione del senso di colpa e del comportamento autopunitivo. Poiché questo processo precede la formazione dell'identità sessuale, il processo di autoconsapevolezza nell'adolescente gay/lesbica è particolarmente problematico. I pari, così importanti nell'adolescenza per consolidare l'autostima, in questa situazione si schierano dalla parte delle aspettative sociali, così al/lla ragazzo/a gay non resta che assumere un falso sé, fino a che l'accettazione dei propri desideri si esprimerà in seguito nel coming out.
L'approccio affermativo considera l'oppressione che influenza lo sviluppo e l'adattamento della personalità.
L'omofobia interiorizzata ha quindi principalmente due effetti negativi: l'arresto del processo evolutivo e la contaminazione del concetto di sé. La risoluzione dei conflitti omofobici può essere facilitata nel setting clinico con l'accompagnamento di un/una cliente nell'acquisizione di un'identità gay/lesbica positiva, nel fornire abilità di coping per fronteggiare l'indesiderabilità sociale e nell'assecondare l'esplorazione di sé. Incoraggiare la scoperta di sé non significa tuttavia mettere sistematicamente in discussione l'orientamento del/lla cliente o nel cogliere in certi fenomeni il segno di un'eterosessualità emergente. Tipico è il caso, come evidenzia una ricerca italiana (Graglia, 2000), di chi vede il desiderio di maternità in una lesbica come una sorta di ossimoro, di contraddizione in termini.
Il pensiero di Schellenbaum (1991), psicoterapeuta junghiano, può esssere chiarificatore:
"L'accettazione della propria omosessualità è una prestazione dell'Io in quanto, grazie ad essa, [ i gay maschi] hanno potuto realizzarsi una prima delimitazione nei confronti del femminile divorante e un rafforzamento dell'identità maschile. Ciò che è stato raggiunto non deve in nessun caso essere messo in discussione dall'analisi delle difese nei confronti dell'eterosessualità.[...] Una lesbica chiese: - Che accade se scopro cosa si nasconde dietro le mie difese nei confronti del maschio? Sarebbe spaventoso se perdessi la capacità di amare una donna - In questi casi l'analista deve dichiarare da che parte sta. Se non sa sostenere quanto è stato raggiunto dall'omosessuale attraverso la propria accettazione, sarebbe meglio che lasciasse perdere il lavoro terapeutico con gli omosessuali." (1991; edizione italiana, 1993, p. 250-251).



 
Omofobia istituzionalizzata: le questioni gay e lesbiche, queste sconosciute!

 La svalutazione dell'omosessualità è un fenomeno diffuso e pervasivo; è necessaria quindi la consapevolezza che in una società impregnata di eterosessismo (per i liberals dove non c'è ostilità, non c'è eterosessismo) è probabile che il gruppo dominante si ritenga migliore e che i gay abbiano imparato a colludere in qualche maniera con questa assunzione (Brown, 1996). Nessuno può considerarsi affrancato dal pregiudizio, ma piuttosto aver raggiunto livelli più alti di consapevolezza. Per esprimere questo concetto Haldeman (1994) ha coniato il termine "omofobia istituzionalizzata": "gli atteggiamenti omofobici sono stati istituzionalizzati in quasi ogni aspetto della nostra struttura sociale".
Considerare che un adolescente non può essere gay perché sta attraversando solo una fase di passaggio; interpretare le disfunzioni sessuali come l'evidenza dell'essenza patologica dell'orientamento gay e lesbico; ritenere che chi appare eterosessuale (esempio chi è sposato) non può essere altrimenti; considerare gravemente disturbato un paziente perché teme il giudizio sociale, perché è "irrazionale nella nostra epoca moderna quando l'omosessualità è ben accettata" (Brown, 1996, p. 47), sono solo alcune assunzioni eterosessiste.
Young (1995) compie una rassegna delle concezioni eterosessiste che predominano in alcuni psicoterapeuti circa le lesbiche: ritenere che in terapia non ci sono lesbiche oppure, quando ci sono, ritenere che siano solo clienti e non terapeuti; asserire che non portano problemi differenti dalle eterossessuali, oppure che sono clienti ideali perché specialmente problematiche, o ancora che costituiscono una problematica irrilevante per gli studi psicoterapici.
"Ricerche recenti dimostrano che la maggior parte dei counsellor e degli psicologi: a) non conoscono le tematiche lesbiche, b) non vogliono conoscerle, c) pensano di conoscere tutto quello che c'è da sapere; d) trattano le lesbiche come le altre clienti; e) non chiedono mai che cosa significa essere lesbica (sottolineatura mia); f) non conoscono nulla sulla cultura lesbica, sui servizi di supporto della comunità lesbica [...]; g) lavorano spesso con clienti lesbiche" (p.29).
Sono molti gli psicoterapeuti che dichiarano di non aver bisogno di informazioni sui gay e le lesbiche perché non li hanno come clienti; secondo Brown invece (1996) è un bias eterosessista considerare le persone a priori eterosessuali. L'autrice ha individuato dei "liberal heterosexist biases" particolarmente diffusi e radicati, come ad esempio considerare non necessaria l'autodefinizione o l'uso di determinate etichette come gay o lesbica, o ancora dimostrarsi contrariato di fronte a manifestazioni pubbliche di affetto tra persone dello stesso sesso. Biases confermati da una ricerca italiana su 30 psicoterapeuti (Graglia, 2000).
Le buone intenzioni non sono sufficienti; il terapeuta ben intenzionato può esprimere bias eterosessisti, come la stessa Brown riporta in una storia: un esempio di eterosessismo nella pratica terapeutica. Una donna che si presenta a seguito di una depressione; ha una lunga relazione lesbica, ma è priva di una rete di conoscenze lesbiche poiché la coppia non è dichiarata pubblicamente per evitare di mettere a repentaglio il lavoro di una delle due partner. Il terapeuta è convinto che la paziente non sia lesbica e che la sua relazione non sia una vera relazione amorosa perché priva di coinvolgimento sessuale, nonostante le ricerche abbiano stabilito che la diminuzione del desiderio sessuale nelle coppie lesbiche costituisca la norma.
All'opposto, Brown riporta il caso di una paziente cresciuta in una famiglia molto religiosa che si reca in terapia per una mancanza di desiderio nei confronti del marito e che viene curata inutilmente da tre diversi terapeuti. L'esempio è interessante nel dimostrare la collusione tra errore eterosessista del terapeuta, che ignora completamente la possibilità che la paziente sia lesbica, e l'omofobia interiorizzata della paziente stessa che non racconta una felice esperienza lesbica nell'adolescenza per paura della reazione del terapeuta. E' probabile quindi che cercasse l'aiuto psicoterapico nel tentativo di coinvolgersi eterosessualmente per eliminare i suoi desideri omoerotici.
Se è semplice evitare un terapeuta che ha espresso apertamente i propri pregiudizi non andando in terapia con lui, più insidioso è chi non assume un atteggiamento così facilmente definibile.

 
Le pratiche terapeutiche inadeguate

 La Commissione sulla Questione Gay o Lesbica dell'American Psychological Association (1990), dopo una ricerca in cui rileva che il 99% degli psicoterapeuti ha avuto almeno 1 gay/lesbica in terapia e il 38% più di 20 individui nella propria carriera, ha raccolto i temi che più spesso intercorrono in una pratica inadeguata, "biased" o semplicemente incompetente.

 
Nella fase di assessment un terapeuta può:

1) considerare l'omosessualità come intrinsecamente patologica
2) attribuire il disagio del paziente al suo orientamento sessuale senza alcuna evidenza
3) non riconoscere che la sofferenza del paziente possa essere determinata dall'omofobia internalizzata dello stesso
4) assumere automaticamente un cliente come eterosessuale o disconoscere la sua identità gay o lesbica.
 

Nella fase di intervento:

 5) l'intervento dello psicoterapeuta si focalizza sull'orientamento omosessuale quando non è rilevante
6) scoraggia l'assunzione di un orientamento omosessuale da parte del cliente
7) esprime pensieri che umiliano l'orientamento omosessuale così come le esperienze gay e lesbiche
8) reagisce brutalmente al transfert positivo del paziente
9) non comprende la natura e le modalità di sviluppo dell'identità gay e lesbica, ritenendo possibile l'identità gay solo in età adulta, interpretandola solo in chiave sessuale o unicamente come fase passeggera
10) sottovaluta l'effetto dell'omofobia interiorizzata del cliente sullo sviluppo della sua identità
11) sottostima le possibili conseguenze dello svelamento del proprio orientamento omosessuale alle altre persone

 
Nell'ambito della relazione:

 12) sottostima l'importanza delle relazioni intime in gay e lesbiche, evitando per esempio di sostenerle o incoraggiando la dissoluzione delle relazioni affettive solo perché omosessuali
13) non è sensibile alla natura o alla differenza delle relazioni gay o lesbiche e usa un modello eterosessuale di riferimento

 
Nell'ambito familiare:

 14) presume che il cliente sia un genitore inadeguato o inesperto solo sulla base del suo orientamento omosessuale
15) sottostima gli effetti del pregiudizio e della discriminazione sui genitori gay e lesbiche e sui loro figli
16) ignora le tematiche gay e lesbiche o conta sul fatto che sia il cliente ad informare il terapeuta relativamente a queste

 
L'orientamento sessuale del terapeuta

L'orientamento sessuale del terapeuta è stata una variabile spesso negletta, dato il preconcetto che un terapeuta sia a priori eterosessuale.
Può essere rilevante la condivisione dello stesso orientamento sessuale da parte del terapeuta e del cliente: il terapeuta può infatti rappresentare un modello positivo e può essere importante per un paziente che si è sempre sentito diverso dagli altri potersi riconoscere. Uno studio suggerisce infatti che i terapeuti dichiarati come omosessuali vengono giudicati più favorevolmente ( Atkinson, Brady e Casas, 1981). Se il terapeuta è apertamente gay facilita il processo terapeutico con il cliente omosessuale, evitando alcuni contrattempi: "Many gay male and lesbian clients with uninformed therapist report that they spend a great deal of time and money educating their therapists regarding gay consciousness, life-styles, and community issues." (Rochlin, 1982 , p. 27).
Isay (1989), rappresentante di spicco dell'approccio affermativo, sostiene che minimizzare i biases della psicoterapia con gay e lesbiche non sia affatto semplice; per questo consiglia ai gay di privilegiare i terapeuti omosessuali:
"Consiglio ai gay che intendono iniziare una psicoterapia, se desiderano chiarire e dipanare la loro omofobia interiorizzata e altri aspetti del loro sviluppo infantile che possono contribuire a un basso livello di autostima, di cercare un terapeuta che li consideri capaci di relazioni gratificanti e amorose in quanto omosessuali. A guidare il lavoro terapeutico con un paziente gay deve essere la convinzione dell'analista che l'omosessualità sia un fatto normale e naturale. Mi sembra che tale atteggiamento possa essere sostenuto in modo convincente solo da un terapeuta che condivida la prospettiva teorica che l'omosessualità sia un normale punto finale dello sviluppo di alcuni uomini.
Oggi i terapeuti più orientati a vedere le cose in questo modo sono omosessuali, sebbene nulla garantisca che un terapeuta gay non possa essere egli stesso ostacolato dai suoi conflitti precoci e dall'interiorizzazione dell'omofobia" (1989; edizione italiana, 1996, p. 115-116).
Ricerche più recenti suggeriscono tuttavia che l'orientamento sessuale del terapeuta non influisca sulla percezione dei terapeuti come più esperti, fidati e attraenti da parte dei gay e delle lesbiche, a meno che i problemi portati non abbiano una natura sessuale (Moran, 1992).
Non è tanto importante l'orientamento sessuale del terapeuta quanto la sua disponibilità al rispetto: rispetto per l'orientamento sessuale del cliente, considerato naturale come quello eterosessuale e rispetto per gli stili di vita e la cultura gay/lesbica. Il terapeuta inoltre, non deve temere il contatto fisico con il cliente (stretta di mano ecc) con cui veicola l'accettazione del corpo dell'altro.
Diventa quindi essenziale confrontarsi con il proprio omoerotismo; non è sufficiente un'elaborazione intellettuale, non è sufficiente la consapevolezza che esistono pratiche terapiche discriminatorie, ma è necessario un lavoro emotivo. Quali sono le nostre emoziono difronte ad un/a cliente gay/lesbica? Quali sono i sentimenti, gli stereotipi che interferiscono con la conoscenza del/lla cliente?
Sappiamo che non è possibile che uno psicoterapeuta possa affrontare tutti i tipi di clienti e sta quindi alla correttezza di ognuno inviare ad altri professionisti quei clienti che non si sente di prendere in carico: "therapist who are unable to accept homosexuality as a positive and potentially creative way of being should recognize this fact and not treat gays, because their fear, anxiety, and ambivalence will inevitably be conveyed to their clients" (Woodman e Lenna, 1980, p. 14).
 

Considerazioni conclusive

 Il tema dell'omosessualità resta largamente ignorato all'università e nei corsi di specializzazione post lauream; l'invisibilità circa i gay e lesbiche regna dunque sovrana. Sensibilizzare i futuri terapeuti sulle tematiche gay e lesbiche significa anzitutto contrastare i processi di pensiero stereotipati e in ultima analisi prevenire le pratiche discriminatorie.



 

APPENDICE

 Di seguito alcune domande che il terapeuta può porsi:

 Il terapeuta pensa che l'omosessualità sia una patologia o una varietà naturale dell'espressione erotica e affettiva?
Se ritiene l'omosessualità una malattia, nelle sue innumerevoli accezioni, espone i suoi clienti gay/lesbiche ad un aumento del disagio emotivo

 Qual è il livello di familiarità con l'esperienza gay e lesbica? Cosa conosce delle seguenti tematiche?
- Gli effetti dello stigma
- Le fasi della formazione dell'identità gay e lesbica
- La cultura e gli stili di vita dei gay e delle lesbiche
- Le relazioni di coppia e le famiglie dei gay e delle lesbiche
L'ignoranza limita l'empatia.

 Quanto è disposto il terapeuta a esaminare le prorie reazioni ed emozioni di fronte ai clienti gay/lesbiche?
Un controtransfert particolarmente positivo può infatti spaventare il terapeuta eterosessuale.

 
SITI SULL'ORIENTAMENTO SESSUALE:

 www.apa.org/divisions/44
www.apa.org/pubinfo/orient.html
www.apa.org/pi/prent/.html
http://psychology.ucdavis.edu/rainbow/index.html (sito molto ricco di informazioni e di link, a cura dello psicologo Herek)
www.pinkpractice.co.uk/
http://members.aol.com/aglpnet/homepage.html
www.narth.com/index.html (il sito ufficiale dei sostenitori della terapia di conversione)

 
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 Margherita Graglia, 2000, per Psychomedia Telematic Review. Tutti i diritti sono riservati. Ogni utilizzo dell'articolo o di parti di esso deve essere autorizzato dall'autore e dall'editor della rivista, e dovrà citare la fonte originale.

 


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