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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: CICLO VITALE
Area: Exitus e Lutto

L'accompagnamento del morente: da scacco a opportunità (1)

di Giancarlo Stoccoro


Giancarlo Stòccoro, psichiatra- psicoterapeuta, dirigente medico Az. Ospedaliera di Melegnano
Relazione presentata all'incontro: Cultura ed esperienze del sollievo
Aula Magna, Ospedale "Predabissi", Vizzolo Predabissi, 23 giugno 2007
g.stoccoro@tele2.it


Senza usare la testa, il cuore e l'anima non si può aiutare nessuno. Questo mi hanno insegnato i così detti pazienti inguaribili o schizofrenici. Nel mio lavoro con i pazienti, fossero schizofrenici cronici, bambini gravemente ritardati o moribondi, ho capito che ognuno ha uno scopo: non solo può imparare ed essere aiutato, ma può, in effetti, diventare insegnante...Ma gli insegnanti migliori sono i moribondi
Elisabeth Kubler- Ross

Agli ammalati e ai morenti va dato tutto quanto ci è possibile, poiché loro sono noi e noi siamo loro, e ciò che gli doniamo è donato a noi stessi
Sandro Bartoccioni, Gianni Bonadonna e Francesco Sartori

"Ti porterò soprattutto il silenzio e la pazienza.
Percorreremo assieme le vie che portano all'essenza. TI salverò da ogni malinconia,
perché sei un essere speciale ed io avrò cura di te".
Queste parole della canzone di Battiato La cura evocano una relazione salvifica, onnipotente, ideale, un magico incontro tra esseri speciali, ben presente nell'immaginario collettivo.
L'attualità è quella di una medicina con una forte identità tecnica, dove prevalgono l'obiettività e l'oggettivazione, e la formazione iperspecialistica e parcellare mira a un aggiornamento costante dei protocolli e delle procedure, con criteri sempre più standardizzati. Essa sembra difensivamente colludere con la delega di una società che si propone di realizzare fitness, benessere e negazione del comune destino. Concepita "solo per guarire", la medicina è impegnata in un estenuante "corpo a corpo" piuttosto che in un "incontro tra esseri speciali".
Varie e complesse sono le questioni in gioco, come già ricordava negli anni venti del secolo scorso Viktor von Weizsäcker, medico psicosomatista e filosofo:
«Il fatto che la medicina odierna non possegga una propria dottrina sull'uomo malato è sorprendente ma innegabile. Essa evidenzia manifestazioni dell'essere malati, differenze tra cause, conseguenze, rimedi delle malattie, ma non individua l'uomo malato. (...) Certamente, il medico al letto del paziente parla con lui e di lui. Ma poi passa dalla sfera della scienza a quella della prassi (salendo o scendendo?), e lì di nuovo tutto è completamente diverso. Proprio questo passaggio è interessante e anche di più: per il discepolo dell'arte, per il medico, è il luogo delle tensioni, degli stati d'emergenza, dei problemi di formazione, è l'origine di una catena specifica di movimenti di vita e di pensiero».
Vengono qui ben indicati, a mio parere, gli aspetti fondamentali del problema di "come" intendere e realizzare la formazione del medico e anche quello delle sue finalità e delle direzioni da prendere.
Oggi più che mai resta in primo piano la necessità di recuperare il paziente come "persona" e al contempo proteggersi (in qualità di operatori d'aiuto) senza sfuggire al contatto con la sofferenza e il dolore.
A chiunque abbia avuto esperienza di ricovero è evidente come l'ingresso in ambiente ospedaliero segni una netta linea di demarcazione dove la dimensione dell'ospedalità che accoglie il corpo malato (nel senso di corpo fisico, Körper) pare escludere quella dell'ospitalità (necessaria al Leib, cioè al proprio corpo vivente). Illustre testimonianza al riguardo è quella portata recentemente da tre grandi medici che sono passati "dall'altra parte" (titolo anche del loro saggio edito dalla BUR). Ciò che essi deplorano innanzitutto è la disumanizzazione, la distanza abissale tra chi cura e chi le cure è costretto a riceverle. Nel decalogo da loro stilato essi auspicano ""una rivoluzione in medicina": la riforma dei medici ammalati", gli unici a conoscere "entrambi gli aspetti più qualificanti" della Sanità, "quello scientifico e tecnico e quello della sofferenza umana".
Solo così potrebbe finalmente essere tracciata una terza via, oltre alle due ricordate da Soren Kierkegaard secondo il quale "una via è soffrire, l'altra è diventare professore di ciò che un altro soffre".
Lo stesso filosofo esistenzialista avverte del resto che "imparare a conoscere l'angoscia è un'avventura che ogni uomo deve affrontare se non vuole perdersi sia per non averla mai provata sia per esservisi sommerso".
L'"educazione all'essere pazienti" è una questione cruciale perché il precetto freudiano secondo il quale "il territorio esterno è interno" è qui assolutamente pertinente: la negazione della comune umanità comporta la disumanizzazione anche di chi effettua tale negazione.
Ben conosciuta e sempre di più frequente riscontro è al riguardo la sindrome del burn out che testimonia come la scienza oggettiva, con la sua operazione di distanziamento e di misconoscimento dei sentimenti e dei bisogni profondi della persona malata, non salvaguarda neppure il curante dall'angoscia insita inevitabilmente nella sua attività, al contrario lo lascia sempre più infelice e solo. Per approfondire il tema è tuttora di riferimento la lettura del saggio I sistemi sociali come difesa dall'ansia in cui Isabel Menzies ( socioanalista del Tavistock Institute of Human Relations) riporta lo studio, condotto alla fine degli anni sessanta in un grande ospedale inglese, sulle tecniche difensive usate dal personale infermieristico per controllare e modificare le esperienze di ansia, senso di colpa, dubbio e incertezza: scissione nel rapporto infermiere-paziente, spersonalizzazione, categorizzazione e negazione del significato dell'individuo, distacco e negazione di sentimenti, tentativo di eliminare le decisioni tramite l'esecuzione rituale dei compiti, riduzione del peso della responsabilità nel prendere le decisioni per mezzo di verifiche e controverifiche. Tali meccanismi di difesa psichici primitivi facilitano l'evasione dall'ansia ma sono ben poco efficaci per una sua effettiva modificazione o riduzione, anzi determinano l'insorgenza di ansie secondarie, come ben documentato dalla Menzies. Al fallimento dell'elaborazione delle ansie si correla strettamente anche quello nel raggiungimento degli obiettivi di lavoro perché "l'inefficienza è un'inevitabile conseguenza del sistema difensivo prescelto".

La capacità di immedesimazione o identificazione ma anche di una successiva adeguata disidentificazione (processo bifasico di Balint), la possibilità di riconoscere o meno l'altro sofferente in noi stessi, sono sicuramente il punto di svolta da cui può dipendere lo sviluppo e il mantenimento di una "buona relazione interpersonale" fruttuosa per la salute del malato e per l'autostima di chi lo aiuta (tenendo presente due bisogni cardine: una comunicazione reciproca e al contempo una protezione contro un'intimità troppo grande).
Eppure proprio l'acquisizione di una maggiore sensibilità e consapevolezza psicologica, che possono aiutare il medico e gli operatori d'aiuto in generale a non cadere nelle trappole del riduttivismo e della direttività, sembra trovare ben poco spazio a fronte di un sapere scientifico e tecnologico che richiede sempre maggiore impegno e studio.
La disponibilità a una partecipazione empatica ai vissuti del paziente è quasi sempre legata casualmente alla personalità e alla predisposizione individuale del medico e del singolo operatore e può tendere paradossalmente a offuscarsi nel prosieguo degli studi e della professione.
Quanto sia difficile la coniugazione tra la "conoscenza scientifica" e l'"abilità tecnica" da un lato, che possono essere ben insegnate e apprese, e l'"ethos umanitario" dall'altro, che mette in gioco la soggettività e la partecipazione affettiva nella relazione di cura, è noto da tempo ed è oggetto di attenta disamina in un prezioso libercolo di Karl Jaspers dal titolo emblematico Il medico nell'età della tecnica. In esso vi si legge: "Oggi vi sono modi di concepire la biologia veramente grandiosi. La tendenza generale sembra però andare in senso contrario. In tutto il mondo vengono educate persone che sanno moltissimo, che hanno acquisito particolare destrezza ma la cui autonomia di giudizio, la cui capacità di indagare e di sondare i propri malati è minima".
E' necessario sottolineare al riguardo che le motivazioni psicologiche di tutti coloro che esercitano professioni assistenziali, che lavorano "per aiutare l'umanità" incontrando continuamente sul proprio cammino sofferenza e morte, sono per lo più inconsce, altamente ambigue e legate a bisogni difensivi rispetto a componenti depressive, ipocondriache o sadiche o ancora fortemente narcisistiche. é possibile scoprire, non senza un certo sconcerto, che il nostro desiderio di aiutare i pazienti si basa sostanzialmente sul bisogno di curare noi stessi, nel senso di «contrastare o dominare i propri bisogni distruttivi, i propri sentimenti di colpa, al limite vincere la propria morte, assumendosi la responsabilità di guarire gli altri», come ci ricordava il professor Dario De Martis nelle sue lezioni all'università.
Diventa forse così più facile comprendere quanto sia irresistibile ma altrettanto pericolosa la fascinazione per il grande potere che la scienza dona al medico. L'immagine junghiana del guaritore archetipo con due polarità è di grande pregnanza e monito: il potere subentra quando ci si identifica con la polarità mana, ovvero con l'archetipo della superiorità in cui ci si sente superiori al paziente e ci si dimentica della polarità della propria ferita interiore, della propria fallibilità e impotenza di fronte a ciò che sovrasta. Una tale identificazione (che per Jung è comunque un passaggio quasi obbligato nella storia di ogni professionista della salute), se troppo rigida è la scissione tra le due polarità, impedisce di vedere la malattia in sé, attraverso sé, (come ricorda Paolo Barnard nell'introduzione al libro "Dall'altra parte") come una cosa che riguarda anche noi.
Altrettanto pericolosa può essere una massiccia ed esclusiva identificazione con l'altra polarità che può portare ad assumere su di sé gli stessi sintomi portati dal paziente.
La persona malata, ancor più se moribonda e per la quale "non c'è più niente da fare" (nel senso che il sapere medico non è più in grado di contrastare l'ineluttabilità della morte) ci rimanda un'immagine degradata e svilita di noi stessi che diventa inaccettabile. Per questo lo statuto di paziente è incompatibile con quello di soggetto: "Il primo riflesso di chi prende cura è quello di infantilizzarlo, trattandolo come un bambino ribelle". "I medici", poi, "lo riducono a stato di organo, un organo che si tenta di strappare a diverse forme di disordine. Preso nell'ingranaggio dei diversi esami di laboratorio, delle TAC e delle radiografie, il paziente diventa colui di cui i medici parlano tra loro, l'oggetto di un puro monologo del medico consultato che non si intrattiene più altro che con la medicina" (Maud Mannoni). Stretto nella sua angoscia, nessuno parla più con lui e subentra il silenzio di chi ha imparato presto a "non fare domande per non ricevere bugie". Lo sguardo sulle persone che sempre più frettolosamente si alternano al suo capezzale misura la distanza che ormai lo separa dal mondo.
Vengono qui sicuramente in mente a tutti molti risvolti sui quali non è però possibile soffermarsi ulteriormente.
A mio parere la questione principale è che il sapere medico lascia fuori troppe cose e il pensare alla morte come a una sconfitta, e negarla proprio nei luoghi (come questo) in cui essa più frequentemente sopraggiunge, sembra mettere in scacco la relazione di cura nella sua essenza: "restare presenti e in contatto con questa esperienza, senza scappare, " con "la possibilità di incontrare noi stessi e l'altro ad anima aperta" (Frank Ostaseski).
Non esistono formule magiche per essere più preparati a svolgere tale compito, tanto meno si tratta di far diventare psicologo il medico o l'operatore impegnato in una relazione d'aiuto (anche le professioni psicologiche sono tutt'altro che immuni da questo riduzionismo oggettivante), ma di far sì che questi si renda consapevole di quanto egli stesso agisca come "medicina" e di come il suo modo di elaborare e sentire la relazione con il malato influisca sul comportamento professionale, sulle decisioni diagnostico-terapeutiche e sulle risposte del paziente e del suo ambiente, come ricordava Michael Balint. Oltre al lavoro dello psicoanalista ungherese famoso per i suoi gruppi, sui quali ci soffermeremo brevemente dopo, anche per essere riusciti a portarli da qualche anno all'interno del nostro ospedale, vorrei ricordare il percorso di Georg Groddeck. Lo psicoanalista selvaggio, pioniere della medicina psicosomatica e noto soprattutto per il suo Libro dell'ES (scritto in forma di lettere a un'amica nel lontano 1923), fu forse il primo a riconoscere la mutualità nella relazione di cura e come "questa formazione di un nuovo individuo, medico-malato, è l'asse attorno al quale ruota il trattamento". Personaggio scomodo, eccentrico e singolare, per la sua posizione antiscientifica, l'asistematicità ed estrosità dei suoi scritti, e i suoi metodi di approccio al malato e alla malattia così fortemente legati alla sua figura fu ben presto "relegato al ruolo inoffensivo del poeta e del veggente" e fu a lungo dimenticato. Eppure egli ci lascia ancora una grande lezione: nel suo dialogo ininterrotto con i pazienti, (spesso casi senza speranza che approdavano nella sua piccola clinica al limitare della Foresta Nera, dopo aver sperimentato tutti i trattamenti allora possibili), nel suo procedere con loro a stretto "contatto" (ricordo nel suo lavoro l'importanza del massaggio, del "tocco come cura", mostrandosi in questo vero precursore dell'attuale approccio aptonomico di Veldman utilizzato sempre più negli hospice), nell'accettazione dell'altro per quello che è e nel conseguente sapersi declinare secondo i suoi bisogni ora come "padre" ora come "madre" o "fratello" o "sorella" ci offre una strada per trasformare l'accompagnamento in una grande opportunità di reinventare noi stessi attraverso il dramma dell'altro.
Ricordo ancora solo come Groddeck ai pazienti candidati alla morte non diceva di stare sdraiati a letto per farli continuare a languire per giorni, bensì di uscire e passeggiare fino all'ultimo secondo, troppo rispettoso della vita consentiva loro di entrare da vivi nella morte (vedi in proposito i lavori di Marie de Hennezel).
Michael Balint, che riconobbe in Groddeck un maestro, dedicò gran parte del suo lavoro a sensibilizzare i colleghi medici (ma anche gli assistenti sociali e gli psicologi) alle componenti interpersonali della terapia e a rendersi conto che il farmaco di gran lunga più usato in medicina è il medico stesso. Egli pose l'attenzione su fattori della relazione medico-paziente fino ad allora misconosciuti tra i quali in particolare mi preme ricordare la cosiddetta, un po' ironicamente, "funzione apostolica" del medico secondo la quale "ogni medico possiede un'idea vaga ma quasi irremovibile del comportamento che un paziente deve adottare in caso di malattia. (...) quest'idea (...) possiede un potere immenso, capace di influenzare (...) praticamente ogni particolare del lavoro del medico con i suoi pazienti. Tutto avviene come se ogni medico possedesse la conoscenza rivelata di ciò che i pazienti hanno diritto o no di sperare e di ciò che devono sopportare, ed inoltre avesse il sacro dovere di convertire alla sua fede tutti i pazienti ignoranti e increduli".
Proprio questa funzione veniva considerata da Balint quella più problematica e al contempo più difficile da abbandonare per riuscire a diventare più sensibili ai bisogni dei pazienti e più attenti a ciò che essi cercano di comunicare.
Egli si rese ben presto conto della scarsa utilità di lezioni teoriche o di incontri di supervisione in cui si creava inevitabilmente quella condizione pur sempre rassicurante ma scarsamente proficua di maestro-allievo. Ciò che lo interessava soprattutto e che ci interessa tuttora è infatti la relazione tra dimensione conscia e inconscia della mente, relazione che maggiormente ci impegna non solo nel nostro lavoro ma nel comune percorso di esseri umani. Era necessario trovare una metodica adeguata ai processi inconsci, che non li tradisse, e che non cercasse rifugio in ragionamenti consci, involontariamente difensivi, limitati e riduttivi.
Egli arrivò così a proporre il lavoro in piccolo gruppo eterocentrato (sulla discussione di casi clinici portati a turno dagli 8-10 partecipanti) in un'atmosfera di libero scambio in cui ognuno potesse presentare i propri problemi con la speranza di riuscire a chiarirli attraverso l'esperienza degli altri. Apparentemente semplice e di facile attuazione, resa negli anni più duttile e rivolta a un'utenza più vasta, rimane a tutt'oggi uno degli strumenti formativi più efficaci. Certo si tratta di un percorso formativo che non accetta scorciatoie ma che accompagna l'evoluzione professionale (consentendo quella "famosa modificazione seppur parziale della propria personalità" che tanto peso ha avuto nella scelta della nostra professione!) non tanto per apprendere nuove nozioni ma per sostenere la nostra inevitabile ignoranza e incompletezza.
Mi piace ricordare il progetto formativo in corso nel nostro ospedale per gli operatori dell'oncologia e della dialisi "tra cinema e sogno: esplorazioni nei luoghi dell'immaginario sulla malattia e la cura" che associa la visione di un film a tema con il Social Dreaming. Metodo innovativo, introdotto negli anni scorsi nei Corsi di Psico-Oncologia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, sulle orme dei gruppi Balint e senza tradirli rappresenta uno straordinario strumento rigeneratore di quei farmaci viventi che sono tutti gli operatori sanitari ingaggiati in relazioni d'aiuto.
Siamo ancora debitori di Freud che parlava dell'opportunità di accecarsi artificialmente per essere disponibili alla scoperta di ciò che è già là ma non è mai arrivato alla nostra comprensione. Potremmo qui pensare agli aforismi di Elias Canetti del "cieco come viaggiatore" o di come questi, "donando a un altro i suoi occhi", gli permetta di vedere.
Pur tuttavia, fuori dalla stanza d'analisi, dove sono stati così a lungo gelosamente custoditi, i sogni possono tornare a pieno titolo nel mondo a interessarsi alla natura dei nostri collegamenti con tutti gli altri.
La coesistenza di una molteplicità di significati all'interno della matrice del sogno, piena delle ombre delle varie biografie (G. Lawrence), può far sperimentare momenti di straniamento o di scollegamento ma è sempre possibile ritrovare connessioni con la verità di base di essere tutti membri di una sola specie. Gordon Lawrence, lo "scopritore " del Social Dreaming, sottolinea al riguardo la necessità di una politica della rivelazione in contrasto con la politica della salvazione, modificando la relazione abituale tra chi salva e chi viene salvato, tra chi ha un problema e l'esperto in grado di risolverlo...perchè "sia chi salva sia chi implora hanno bisogno di un approccio collaborativo ad un nuovo modo di comprendere ciò di cui si ha bisogno".
Concludo questo mio intervento con l'auspicio che si riesca a trovare ovunque, nel nostro rapporto con gli altri (siano malati o non), un luogo anche piccolo che ci consenta di pazientare di fronte all'indicibile, di dare credito di senso a ciò che sembra non averne, di essere ascoltatori silenziosi e presenti nello stesso tempo allo smarrimento quando nessuna parola sembra essere adeguata, di resistere alla tentazione di passare a lucide argomentazioni, argute interpretazioni che nel momento in cui svelano subito interrompono la strada (la via regia dei sogni e delle libere associazioni), inchiodando le parole al loro ultimo metro e rendendo vana l'occasione di un'esperienza profonda...
...perché, parafrasando Kafka, di fronte alle sofferenze del mondo noi possiamo tirarci indietro, sì, questo è qualcosa che siamo liberi di fare e che si accorda con la nostra natura, ma precisamente questo tirarsi indietro è l'unica sofferenza che forse potremmo evitare.

Resistere alla tentazione di arrotondarsi, di farsi perla per una collana, ma venire a patti con ogni ciottolo del cammino.
Partire.
E. Jàbes

Di fronte alle sofferenze del mondo tu puoi tirarti indietro,
sì, questo è qualcosa che sei libero di fare e che si accorda
con la tua natura, ma precisamente questo tirarsi indietro
è l'unica sofferenza che forse potresti evitare
Franz Kafka

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Stòccoro G., "I Gruppi Balint: Storia e attualità", Psicoterapia e Scienze Umane, Franco Angeli ed., vol. XXXIX,N.3, 2005, 371-388

Stòccoro G., "Alla maniera dei Gruppi Balint. Una terza via?" , Psichiatria Oggi, anno XVIII, n.1, giugno 2005, p. 29-33, anche su web in Psychomedia telematic revuewww.psychomedia.it/pm/grpther/grppt/stoccoro1.htm - e Pol.it. www.pol-it.org/ital/docustoria.htm

Giancarlo Stòccoro, psichiatra- psicoterapeuta, dirigente medico Az. Ospedaliera di Melegnano. Relazione presentata allŐincontro: Cultura ed esperienze del sollievo , Aula Magna, Ospedale "Predabissi", Vizzolo Predabissi, 23 giugno 2007. g.stoccoro@tele2.it


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