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PSYCHOMEDIA
Telematic Review
Sezione: CICLO VITALE
Area: Exitus e Lutto



Due visioni simboliche del lutto

di Annateresa Fabris



Gli ultimi trent’anni del XX secolo sono stati contrassegnati da profondi cambiamenti nella società. Le condizioni di produzione dei beni e dei servizi, prima caratterizzate da una struttura gerarchica e verticale, hanno ceduto il passo a una concezione orizzontale in rete e ad una gestione per flussi. Il potere politico cambiando natura, ha dichiarato la sua impotenza rispetto ai mercati ed ha trasformato la democrazia in un procedimento estetico radicato nei media. Confrontata con la crisi del soggetto, che il crescente individualismo non riesce a celare, la società ha incominciato a sollecitare sociologi, ”militanti associativi” e artisti alla produzione di un “vincolo sociale”, non esente dal pericolo di trasformarsi in nuova merce (MOULÈNE, 2007: 10-11).

Claire Moulène (2007: 12-13), che ha elaborato questo quadro, formula una serie di domande sul ruolo dell’artista in questa nuova congiuntura. L’artista deve continuare ad operare nel museo per modificarlo dall’interno o entrarci con la forza? Deve ignorarlo per investire in nuovi spazi e conquistare nuovi pubblici? Deve ricorrere ostensivamente all’illegalità per appropriarsi di una nuova legittimità? Deve agire nello scarto fra realtà, fantasia e critica sociale creato dalle nuove tecnologie dell’informazione? Deve elaborare un progetto utopico alternativo al liberalismo attuale? Deve incrociare le braccia, accettare una visione apocalittica del futuro ed ammonire al raccoglimento individuale? Deve denunciare, con esempi concreti, le conseguenze regressive d’una mercificazione sistematica di tutti gli aspetti della vita?

Non si tratta di domande retoriche poiché quel che è in gioco è la legittimità della funzione dell’arte nella società odierna. Nel rinunciare al ruolo di “precursore del futuro”, ereditato dall’ideologia avanguardista, l’artista del fine secolo XX si è trasformato in qualcuno che segue la società, senza pretendere di fornire risposte ai suoi conflitti. L’artista contemporaneo, come scrive Moulène (2007: 19), è “ quello che segue le tracce della società, quello che l’accompagna, la disseca o la decifra, e offre di passaggio alternative spesso critiche che permettono di pensare il reale in un altro modo”.

L’analisi dell’autrice francese parte dal tacito presupposto della crisi dell’autonomia dell’arte che era alla base dell’azione di alcuni movimenti di avanguardia dell’inizio del XX secolo. In disaccordo con il loro atteggiamento puramente formalista, l’artista contemporaneo si riavvicina a quelle tendenze moderne che auspicavano l’integrazione dell’arte con la vita, quantunque abbia rinunciato ad ogni orientamento utopico. In questo contesto, situazioni banali, che appartengono alla sfera del vissuto, raggiungono una nuova dimensione e diventano supporti d’azioni che intendono colpire lo spettatore “in quanto cittadino ed essere politico”, per usare le parole di Paul Ardenne (MOULÈNE, 2007: 29).

Per rispondere a questa concezione dell’arte, un settore significativo della produzione contemporanea si è incentrato sulla problematica della testimonianza, avendo come asse portante un interrogarsi sulla memoria e sulla costruzione della storia. Un’intervista rilasciata da Rodolfo Walsh nel 1970, in cui difendeva “un nuovo tipo di arte più documentaristica, che si attenga piuttosto a quello che può essere mostrato”, si rivela estremamente utile per discutere questa problematica, nella misura in cui aiuta a capire meglio la visione attuale del ruolo dell’artista. Senza lasciarsi trascinare da una visione normativa del rapporto fra arte e politica, lo scrittore esprime il desiderio che una nuova generazione sia in grado d’accettare

più facilmente l’idea che la testimonianza e la denuncia sono categorie artistiche almeno equivalenti e meritorie dello stesso lavoro e sforzo dedicati alla fantasia, e che nel futuro i termini possano addirittura essere invertiti: che quello che realmente venga ad essere apprezzato come arte sia l’elaborazione della testimonianza o del documento che, come si sa, ammette un alto grado di perfezione. Queste forme, cioè, aprono evidentemente immense possibilità artistiche nel montaggio, nella strutturazione, nella selezione, nel lavoro d’investigazione (PIGLIA, 2010: 238-240).

Il riferimento a categorie come “montaggio”, “strutturazione”, “selezione” e “investigazione” dimostra che Walsh sta mobilitando una nozione complessa di documento e testimonianza. Lungi dal credere ingenuamente allo statuto del documento come “epifania del reale” (BAQUÉ, 2006: 199), lo scrittore afferma senza tergiversare che esso è frutto di una costruzione, di un’elaborazione; che è a partire da esse che un fatto della storia acquista un senso proprio. Lo aveva dimostrato in due opere di letteratura documentaria – Operación masacre [Operazione massacro, 1957] e Quién mató a Rosendo [Chi ha ucciso Rosendo, 1969]1 – in cui sono ricostruiti la fucilazione clandestina di dodici uomini, da parte della polizia della provincia di Buenos Aires, il 10 giugno 1956, dopo un tentativo di colpo di stato iniziato il giorno precedente, e l’assassinio del segretario-aggiunto dell’Unione Operai Metallurgici in una pasticceria del quartiere Avellaneda il 13 maggio 1966, durante una lite tra due gruppi avversari di sindacalisti. Nei due casi, Walsh, che aveva iniziato la carriera come scrittore di racconti polizieschi, si trasforma in investigatore e narra la storia di un’indagine e i suoi risultati per intermedio di strumenti romanzati. Con l’aiuto della testimonianza dei sopravvissuti al massacro del 1956 e di una prova decisiva – l’orario della trasmissione ufficiale del proclama della Legge Marziale –, è in grado di dimostrare non soltanto che la fucilazione era stato un atto illegale, ma anche che la maggioranza delle vittime dell’episodio non era al corrente della sollevazione del generale Valle. Nel secondo caso, grazie ai testimoni che si trovavano nella pasticceria al momento della rissa, alla verifica del calibro delle armi utilizzate e all’esame degli atti del processo, arriva alla conclusione che l’assassino di García era stato il suo capo Augusto Timoteo Vandor, al quale stava facendo ombra, dato che il gruppo rivale era disarmato.

Il concetto di documento come costruzione è anche alla base di operazioni come “Buena Memoria” [Buona Memoria] e ”Ausencias” [Assenze], realizzate rispettivamente nel 1996 e tra il 2001 e il 2006 dai fotografi argentini Marcelo Brodsky e Gustavo Germano. Avendo come sfondo i risultati della “guerra sporca” in cui l’Argentina si è vista coinvolta tra il 1976 e il 1983, i due fotografi confrontano lo spettatore con la problematica di una memoria traumatica che non teme di assumere un aspetto personale per rendere ancora più contundente la necessità di non far cadere nel dimenticatoio la repressione instaurata dalla Giunta Militare nella sua battaglia contro un supposto “nemico interno”. Brodsky, il cui fratello Fernando Rubén era stato sequestrato il 14 agosto 1979, riconosce che il suo lavoro prende lo spunto dalla necessità di risolvere il suo rapporto con il proprio paese, la propria identità, la propria storia, l’esilio, la memoria e i segni lasciati dalla dittatura. Nonostante sia consapevole che un’opera d’arte non ha il potere di determinare la prigione di un assassino, ritiene che la battaglia per la giustizia possa essere combattuta anche facendo appello all’

opinione pubblica, ai media, con gli opinionisti di ogni paese in cui sia stata iniziata una causa contro i “desaparecedores” e gli assassini. E così la mia opera, insieme ad altre proposte artistiche [...], si converte in uno strumento per narrare quello che è accaduto da un punto più soggettivo, potendo giungere ad un pubblico più ampio e contribuire affinché le iniziative per la giustizia abbiano un sostegno sociale e politico maggiore (GUAGNINI, 2001: 119, 124-125).

Germano, a sua volta, afferma che non intendeva “fare un progetto autobiografico”, ma ammette che l’aver “vissuto l’esperienza di perdere qualcuno della mia famiglia” in conseguenza dei crimini commessi dalla dittatura è stato il legame tra lui ed i parenti dei desaparecidos della provincia di Entre Ríos, accomunati da una “fraternità condivisa” (IGLESIAS; WALTHER, 2008).

Al contrario delle analisi che individuano nel ritratto fotografico “non [...] il ricordo di un istante ma il ricordo di una forma” (COSTA, 1997: 46), Brodsky e Germano s’appellano decisamente ad un’idea temporale dell’immagine tecnica. Il primo mette in risalto la “capacità esatta” della fotografia di “congelare un punto nel tempo” (BRODSKY, 2010: 13). Il secondo pone il progetto “Ausencias” sotto l’egida della riflessione di John Berger (2007: 12), il quale afferma che il “vero contenuto di una fotografia è invisibile perché non deriva da un rapporto con la forma, bensì con il tempo”.

Realizzato a Buenos Aires, Madrid, Robledo de Chavela (Spagna) e New York, il progetto “Buena Memoria” ha origine nel ritratto della classe di Brodsky nel Collegio Nazionale di Buenos Aires, fatto nel 1967. Desiderando sapere che cosa fosse accaduto al gruppo di adolescenti della fine degli anni ’60, il fotografo indice una riunione e propone di fare una foto di ognuno dei presenti; inoltre compie alcuni viaggi per completare la registrazione di chi non era potuto comparire all’appuntamento. La foto del gruppo viene ingrandita e riceve degli interventi che forniscono informazioni sulla parabola di ognun modello. Oltre alle annotazioni in vari colori sul destino degli adolescenti, Brodsky mette in evidenza alcuni visi con dei cerchi. In tre di essi s’iscrive il segno della morte. Se Pablo era morto di un male incurabile, Claudio Tisminetzky era caduto in uno scontro con l’esercito nel dicembre del 1975 e Martín Bercovich – il miglior amico del fotografo – era stato sequestrato il 13 maggio 1976. Il confronto fra passato e presente è completato da informazioni sulla vita attuale d’ogni compagno che aveva accettato di partecipare al progetto. Il fatto che la maggior parte viva una vita “normale” accentua in maniera sottile l’esilio di Alvaro, Eduardo, Erik ed Ana, la morte di Claudio e la sparizione di Martín.

Nel momento in cui recupera la parabola della vita dei suoi vecchi compagni, Brodsky propone una riflessione sul passaggio del tempo non soltanto in termini individuali. Quello che emerge in “Buena Memoria” è innanzitutto il ritratto collettivo di un’epoca con i suoi sogni e le sue speranze. L’atto di dare un volto ai desaparecidos, di annotare il loro nome completo, di presentarli in situazioni quotidiane concrete – Claudio nell’accampamento, Martín mentre fotografa – produce due significati complementari. Nel ricordarne le storie, Brodsky dimostra che essi sono stati esseri dotati di vita propria, la cui morte non è stata una conseguenza necessaria delle loro scelte. La presenza dei loro corpi nel ritratto di gruppo e nelle foto evocative è un modo di contrastare l’astrazione dei numeri (FEINMANN, s.d.), di dare un significato preciso ad ogni esistenza, impedendo che la loro sparizione cada nella fossa comune di quella “localizzazione senza ordinamento” (AGAMBEN, 2005: 197) messa in pratica dalla dittatura militare con il suo spazio permanente d’eccezione.

Per la sua dimensione affettiva, la “Buena Memoria” di Brodsky si contrappone alla “mala memoria” [cattiva memoria] lasciata dalla “guerra sporca” con i suoi 2.300 morti ufficialmente riconosciuti e i suoi 30.000 desaparecidos2. Il progetto di Germano, a sua volta, reca dentro di sé la discussione del trascorrere del tempo e il suo rapporto con la perdita. Come lo stesso fotografo dichiara nell’intervista concessa nel 2008 a Lucía Iglesias e Casey Walther:

Quello che sto cercando d’esprimere tramite il mio lavoro è che, oltre alle sparizioni forzate accadute in Argentina, c’è anche il tempo che è passato. Voglio riflettere sul doppio effetto che il tempo ha causato. Da un lato, il tempo che i sopravvissuti sono riusciti a vivere in assenza dei loro cari scomparsi. Dall’altro lato, c’è il tempo perduto dalle persone che sono sparite e non hanno avuto la possibilità di godere la vita. Mentre stavo creando il concetto di questa mostra, ho pensato che sarebbe stato interessante catturare l’invecchiamento dei sopravvissuti. Ed è stato questo concetto fondamentale e umano che il terrorismo di Stato ha distrutto3.

Germano si dedica al progetto “Ausencias” dopo essersi reso conto che non avrebbe avuto occasione di vedere il processo d’invecchiamento del fratello Eduardo, sequestrato nel 1976. Al contrario del lavoro solitario di Brodsky, il fotografo conta sull’aiuto della moglie Vanina de Monte, dell’amica Marta Nin, del fratello Guillermo, presidente dell’Associazione Familiari e Amici dei Desaparecidos di e in Entre Ríos, di altre due organizzazioni di diritti umani: Registro Unico della Verità di Entre Ríos e Figli e Figlie per l’Identità e la Giustizia contro l’Oblio e il Silenzio – Paraná. Concepito nel 2001, il progetto è regolato da una precisa metodologia di lavoro. Dopo un rilevamento iconografico in archivi, fatto dal Registro Unico della Verità di Entre Ríos, Germano stabilisce un corpus a partire dal quale sceglie i casi e le immagini su cui operare. In seguito, viene stabilito un contatto con i familiari dei desaparecidos, i quali svolgono un ruolo determinante nella proposta. Tocca a loro ripetere il momento in cui la foto scelta è stata scattata, in un arco di tempo compreso tra il 1968 e il 1976, rifacendone la posa sullo stesso luogo dell’immagine del passato (Van Dembroucke, 2010).

Con i dittici ottenuti dal confronto tra passato e presente Germano intende mostrare il vuoto creato nelle fotografie del 2006 dall’assenza del desaparecido. Apparentemente semplice, il progetto ha una densità concettuale che sarà compresa appieno se si analizzano le due strategie coinvolte nell’operazione: l’uso di un documento, di una testimonianza e la ricreazione visuale di un’immagine impossibile da replicarsi, in virtù della frattura generata dalla sparizione di uno o più elementi del referente anteriore. Alla ricerca di una memoria viva, il fotografo fa dell’immagine una forma di negazione dell’oblio, benché consapevole che la realtà degli anni ’60 e ‘70 non può più essere recuperata.

Quest’impossibilità non risiede soltanto nei vuoti lasciati dalle assenze. Essa s’iscrive anche nel decorso del tempo e nella consapevolezza che alcuni familiari hanno del proprio ruolo nell’interno del progetto, il quale non si limita semplicemente a mimare un atteggiamento del passato. In alcuni casi, come in quello del rifacimento della fotografia dei fratelli Omar Darío e Mario Alfredo Amestoy (1975), il trascorrere del tempo è visibile nella difficoltà di costui di affrontare con baldanza l’atto di scendere un pendio. In altri, i parenti dei desaparecidos modificano la prima posa per guardare direttamente la macchina fotografica. Questo è particolarmente evidente in due dittici messi in risalto da Celina Van Dembroucke: la foto del matrimonio di Luisa Inés Rodríguez e Raúl María Caire (1973) e la ricreazione del 2006, inscenata soltanto dalla sposa e dal prete che aveva celebrato le nozze; la ripresa casuale di Clara Atelman de Fink e del figlio Claudio Marcelo Fink (1974) e il suo rifacimento trentadue anni più tardi soltanto con la presenza della donna. Nei due casi, i sopravissuti guardano la camera in modo frontale per coinvolgere lo spettatore in un indagare su una storia che ha smesso d’essere individuale per assumere una dimensione collettiva. In questo modo è possibile affermare che Germano s’avvicina all’atteggiamento di Brodsky, che spiega la sua opera a partire da alcune domande:

Quale vuoto ha lasciato la sparizione in ognuno di noi, in ogni gruppo, nella società? Cosa abbiamo perduto per sempre e cosa possiamo recuperare? Fino a che punto è possibile costruire una società basata sulla menzogna e sull’oblio? (GUAGNINI, 2001: 121).

L’immagine più struggente della serie di Germano è senza dubbio quella della spiaggia vuota fotografata nel 2006. I protagonisti della fotografia del 1975, Letícia Margarita Oliva e Orlando Rene Mendez, ripresi sulla spiaggia fluviale La Tortuga Alegre (Concordia), assurgono a simbolo massimo di uno stato di eccezione trasformatosi in regola. La spiaggia della provincia di Entre Ríos rimanda all’idea di “campo come nómos del moderno”, proposta da Giorgio Agamben (2005: 185-186). Se il campo è la struttura in cui lo stato di eccezione “è realizzato normalmente”, la domanda da porsi non è “come è stato possibile commettere delitti così atroci con degli esseri umani”. Si deve invece “indagare attentamente quali procedimenti giuridici e quali dispositivi politici hanno permesso che esseri umani fossero così totalmente privati dei loro diritti e delle loro prerogative, fino al punto che commettere contro di loro qualsiasi atto non più si vedesse come delitto”. Privata della presenza umana, la spiaggia fotografata da Germano si configura come un luogo di memoria viva, che mostra senza nessun dispositivo retorico il significato profondo dell’idea di campo nella struttura della dittatura militare: la “materializzazione dello stato di eccezione” e la “conseguente creazione di uno spazio in cui la nuda vita e la norma entrano in una soglia di indistinzione” (AGAMBEN, 2005: 195)4.

Lo dimostra la lettera aperta di Walsh (2010: 247-249) alla Giunta Militare, datata 24 marzo 1977, che può essere inserita nelle considerazioni di Agamben (2005:158) circa al ruolo del sovrano, investito del potere di decidere “sul valore o sul disvalore della vita in quanto tale”. Il testo dello scrittore evidenzia che la Giunta Militare, nel denudare il “nemico interno” dagli attributi della vita qualificata – il patrimonio simbolico che distingue il cittadino nell’ambito della pólis e delle sue tradizioni – e nel ridurlo alla dimensione della vita nuda, cioè biologica nella sua accezione animale, aveva trasformato il soggetto in un essere destituito di valore e, quindi, passibile d’eliminazione:

Riempite le prigioni comuni, voi avete creato nelle principali guarnigioni del paese virtuali campi di concentramento dove non entra alcun giudice, avvocato, giornalista o osservatore internazionale. Il segreto militare delle procedure, invocato come necessità dell’indagine, trasforma la maggioranza delle detenzioni in sequestri che permettono la tortura senza limite e la fucilazione senza processo.

Più di 7 mila ricorsi di habeas corpus sono stati respinti l’anno scorso. In migliaia di altri casi di sparizione, il ricorso non è stato neanche presentato perché si conosceva già in anticipo la sua inutilità o perché non si trovava un avvocato che osasse presentarlo dopo che i cinquanta o sessanta che lo avevano fatto, sono stati a loro volta sequestrati.

Così voi avete abolito i limiti della tortura nel tempo. Siccome l’arrestato non esiste, non c’è la possibilità di presentarlo al giudice in dieci giorni, come stabilisce una legge che è stata rispettata anche nei momenti più repressivi delle dittature anteriori.

La mancanza di limiti nel tempo è stata completata dalla mancanza di limiti nei metodi, in una regressione ad epoche in cui la tortura era praticata direttamente sulle articolazioni e sulle viscere delle vittime, adesso con risorse chirurgiche e farmacologiche di cui non disponevano gli antichi torturatori. Il cavalletto, l’argano, lo scorticamento in vita, la sega degli inquisitori medievali riappaiono nelle deposizioni, insieme al pungolo, al “sottomarino” e alla fiamma ossidrica, aggiornamenti contemporanei.

Mediante successive concessioni al presupposto che la meta di sterminare la guerriglia giustifica tutti i mezzi che si utilizzano, voi siete arrivati alla tortura assoluta, atemporale, metafisica, nella misura in cui la finalità originale di ottenere informazioni si perde nelle menti turbate che l’infliggono, per cedere all’impulso di annientare la sostanza umana fino a spezzarla e farle perdere la dignità, che il boia ha perso, che voi stessi avete perso.

Operazioni che intendono confrontare l’Argentina con questa pagina nera della propria storia, “Buena Memoria” e “Ausencias” s’avvalgono consapevolmente degli stereotipi che sono alla base del ritratto di gruppo e dell’album fotografico. Il rituale sociale inerente al ritratto di gruppo (TRACHTENBERG, 1995: 18, 20), che gli permette d’offrirsi come un insieme dotato di un senso di continuità, è risaltato da Brodsky nel momento in cui interviene nella fotografia del 1967 con annotazioni e segni, che la rimuovono da un tempo congelato per proiettarla nel futuro. Questa operazione è potenziata dagli scatti del 1996 nei quali gli ex adolescenti interagiscono, in modi diversi, con il ritratto scolastico, sottolineando un dato fondatore del genere: la creazione di un contesto identificatore per l’individuo, nel cui interno l’autorappresentazione è condizionata dalla presenza degli altri. Il fatto che i vecchi compagni di Brodsky posino con l’immagine del passato non fa altro che rinforzare l’idea che l’identità esibita dal gruppo è ben più ampia di quella del singolo soggetto. L’equilibrio esistente fra collettivo e individuale fa del ritratto di gruppo “l’immagine di rapporti pubblici e significativi” per ogni partecipante.

L’album fotografico, da cui sono state ritirate le immagini dell’amico morto e dei desaparecidos Martín e Fernando, il che accentua l’aspetto tragico di “Buena Memoria”, è anche il punto di partenza di “Ausencias” per la sua natura di oggetto-archivio. Espressione della memoria privata della famiglia, che in esso immortala i grandi momenti della vita in comune per riaffermare il sentimento della propria unità, l’album è concepito come un documento per la posterità. La sua costruzione non mira al presente, bensì a una memoria pensata in termini di futuro, poiché corrisponde al desiderio di sopravvivere alla morte come specie, come cognome, come classe e come immagine. (SILVA, 1997: 72, 76; SILVA, 1998: 35, 49).

È proprio dell’album fotografico rendere possibile l’esperienza del passaggio del tempo, confrontare l’individuo e la famiglia con la costruzione della propria immagine nel passato e con l’inesorabile processo dell’invecchiamento, il che ne fa, al contempo, “memoria” e “rovina”. Se è questa la funzione fondamentale dell’album, è nell’impossibilità di stabilire un confronto fra il “presente continuo” creato dalla memoria e la consapevolezza del passaggio del tempo (SILVA, 1998: 38, 49) che s’inseriscono “Buena Memoria”, in parte, e “Ausencias”, integralmente. Brodsky (2010: 68) esprime con chiarezza quest’impossibilità nella presentazione di una fotografia del fratello, quando scrive: “Il suo movimento, oggi già inesistente, lo rende diffuso alla lente”. I dittici di Germano, nello stesso modo, evidenziano che il tempo passato non può essere recuperato ritualmente, ma soltanto per mezzo del trauma. I vuoti presenti nelle ricreazioni del 2006 portano i segni di storie violentemente troncate, della disgregazione dolorosa del tessuto familiare, che diventa ancor più pungente nella fotografia del matrimonio poiché accentua la fine improvvisa di un nuovo album familiare, al quale non è stata concessa la possibilità di organizzarsi nel tempo.

L’idea barthesiana della fotografia come “certificato di presenza” (BARTHES, 1980: 87) sembra guidare le operazioni di Brodsky e Germano. È per questo motivo che le persone fotografate hanno un nome proprio; così esse si configurano in quanto individui dotati di una storia di vita che si materializza davanti allo spettatore come un flash di memoria. Per la loro scelta concettuale, “Buena Memoria” e “Ausencias” occupano un posto particolare nell’ambito di quella tendenza contemporanea interessata ad indagare le potenzialità della testimonianza e del documento. Sebbene la dimensione dello stereotipo sia volontariamente presente nel recupero di una pratica fotografica comune, destituita da ogni velleità artistica, Brodsky e Germano non lavorano con delle categorie, bensì con delle biografie. Ai due fotografi interessa attestare che un certo individuo era presente nel momento della ripresa e non mobilitare categorie sociali come infanzia, adolescenza, gioventù, riti collettivi e familiari (AMOSSY, 1991: 80-81, 90; ENTLER, 2006: 43). Pose convenzionali, inquadrature poco ricercate, modelli compositivi semplici fanno parte sia delle immagini che hanno dato origine alle due operazioni sia delle ricostruzioni contemporanee; l’importante è rimandare tutte le fotografie ad uno spazio collettivo da dove sia possibile interrogare la società sui suoi rapporti con il passato e la memoria. Affinché queste strategie funzionino appieno, è fondamentale che nessuna immagine si sovrapponga alle altre. Quello che conta invece è il rapporto che si stabilisce tra di esse in quanto matrici di un discorso che parte dall’individuale per colpire la società nel suo insieme.

Eredi delle pratiche postconcettuali e postperformance, Brodsky e Germano possono essere iscritti nell’ambito della “memory art”. Come spiega Andreas Huyssen (2001: 9-10), si tratta di una

pratica artistica che s’avvicina alla prolungata e complessa tradizione dell’art of memory, delle tecniche per ricordare, con il loro miscuglio di testo e immagine, di retorica e di scritti. Una specie di arte mnemonica pubblica, che non s’incentra sulla mera configurazione spaziale, ma che iscrive fortemente nell’opera una dimensione di memoria localizzabile e persino corporale. Si tratta di una pratica artistica che cancella i limiti tra installazione, fotografia, monumento e memoriale. Il suo luogo può essere il museo, la galleria o lo spazio pubblico. Il suo ricettore è il singolo spettatore, ma questi è convocato non solo come individuo, ma anche come membro d’una comunità che affronta il lavoro della commemorazione5.

Il riferimento di Huyssen alle pratiche postconcettuali e postperformance richiede un approfondimento che aiuterà a comprendere meglio la portata della “memory art”. Brodsky e Germano adottano un atteggiamento postconcettuale quando si valgono delle immagini presenti nell’album fotografico, scelte proprio per la loro natura di prodotti amatoriali. Concepite per un circolo ristretto, queste foto si strutturano a partire dall’espressione piuttosto che dalla tecnica e dall’estetica. Nell’interno di questo dispositivo, in cui i rapporti e i sentimenti prevalgono sulla qualità dell’immagine, la posa acquista un nuovo significato. Invece di separare gli individui dalla loro cornice di vita e dalle loro attività quotidiane e di rimandarli ad un’astrazione, funziona come una pausa e una sospensione (ROUILLÉ, 2005: 242, 244). Se l’interesse per la fotografia amatoriale e la sua replica successiva permettono d’inserire “Buena Memoria” e “Ausencias” nell’ambito d’un postconcettualismo non riduzionista, la problematica della posa, soprattutto nel caso di Germano, consente un’associazione con l’idea di performance come azione partecipativa del corpo, trasformato in un “veicolo del ‘dire’” (KONESKI, 2009: 259), in qualcosa che induce allo straniamento in virtù della presentificazione di un’assenza nelle ricreazioni del 2006. Fatta di azioni che “si mostrano”, della “restaurazione di comportamenti”, la performance come attività che estrapola il campo artistico è un elemento fondamentale della struttura di “Ausencias”, poiché rende chiaro che la ripetizione della posa genera una zona di attrito con il trascorrere del tempo e con i cambiamenti da esso portati ai sopravvissuti.

L’elaborazione che presiede “Buena Memoria” e “Ausencias” permette di proporre un parallelo con la pratica del documentario cinematografico impegnato, considerato da Dominique Baqué (2006: 219-223) una delle poche forme valide d’arte politica nella contemporaneità. Avendo come punto di riferimento il lavoro di cineasti quali Fernando Solanas (La hora de los hornos, 1968), Raymond Depardon (Reporters, 1981), Claude Lanzmann (Shoah, 1985), Jean-Luc Comolli e Michel Samson (Marseille de père en fils, 1989), Christophe de Ponfilly (Massoud l’Afghan, 1998), Eyal Sivan e Rony Brauman (Un spécialiste, 1999), Marie Dumora (Avec ou sans toi, 2001), Jocelyne Lemaire-Darnaud (Paroles de Bibs, 2001), Patrick Rotman (L’ennemi intime, 2002), l’autrice segnala una categoria fondamentale per far sì che questo tipo di documentario non si confonda con il reportage: la durata della sua esecuzione, “solidale con un’etica del rigore e della responsabilità”. Secondo questa concezione di documentario,

il tempo passato a vivere con, a vivere in, ad ascoltare e parlare, leggere e documentarsi vale come garanzia, se no di una verità [...], perlomeno, di una serietà di ricerca che non potrebbe essere rivendicata dal giornalista inviato in fretta a Sarajevo per cogliere sul fatto dolore e pianto e non per comprendere l’infinita complessità di un conflitto politico, etnico e religioso6.

L’idea d’una temporalità dilatata non si applica soltanto al lavoro intrapreso dai due fotografi. Si applica anche allo spettatore che s’imbatte in “Buena Memoria” e “Ausencias”. Non è possibile fare una visita affrettata alle due mostre. Ci si deve immergere a lungo, stabilire un confronto tra passato e presente, cercare nelle immagini i segni di una ferita profonda che nessun discorso retorico potrà mai cicatrizzare. Fidandosi della dimensione affettiva, determinata dalla presenza/assenza di corpi e di visi di individui veri, Brodsky e Germano confrontano lo spettatore con una rilettura del “punctum” barthesiano. Se il “punctum” è un particolare fornito per caso che punge lo sguardo (BARTHES, 1980: 43) i due fotografi invece ne creano uno apposta. Gli interventi di “Buena Memoria” e i vuoti di “Ausencias” mirano a colpire lo spettatore con un’intenzione affettiva tramite un particolare che ferisce lo sguardo con la sua insistenza o con la sua incongruenza.

Incentrate su una concezione della fotografia come indice, come rappresentazione per contiguità fisica del segno con il suo referente, che consente all’immagine di affermarsi come qualità di “un reale” (DUBOIS, 1998: 45), le operazioni di Brodsky e Germano non sono rette da un discorso politico vago e generico. La porosità delle frontiere tra il fotografico e il politico, che è alla base dei due progetti, permette di porli sotto il segno di un atteggiamento etico, evidente nella riattivazione di un’estetica documentale e nella proposta di un nuovo rapporto con lo spettatore, concepito come un soggetto e non come un semplice consumatore (POIVERT, 2002: 36, 162). L’individuazione dei protagonisti d’ogni immagine è un dato fondamentale in questa strategia poiché connette il politico al vissuto, l’individuale al collettivo, stabilisce una continuità indissolubile fra passato e presente e conferisce alla storia una dimensione umana che mette in forse la validità delle grandi ricostruzioni. Come ricorda Michel Poivert (2002: 72), privilegiare la nozione di memoria significa “dire che l’uomo è nella storia prima ancora di preoccuparsi di farla”.

Indubbiamente è questa la percezione che “Buena Memoria” e “Ausencias” intendono attivare nello spettatore. Grazie ad una “memoria che si esprime per immagini” (POIVERT, 2002: 64), i due fotografi costruiscono un senso traumatico per la storia recente del proprio paese, coinvolgendo direttamente lo spettatore in un’attività critica, fondata su un’evocazione affettiva. La testimonianza e il documento acquistano una funzione precisa in questo contesto: far sì che i desaparecidos ritornino ad affermare la loro presenza per ricordare che la Storia dell’Argentina dovrà essere costruita anche a partire dalle tante storie che la “guerra sporca” ha distrutto, nel sopprimere ogni distinzione tra legalità e illegalità e nell’abrogare i diritti umani.

“Buena Memoria” e “Ausencias” possono anche essere analizzate alla luce dell’idea del “dolore dei vinti” proposta da Joel Birman (2009: 116-126). Impossibilitati a seppellire i loro morti, i parenti dei desaparecidos non riescono a realizzare appieno il lavoro del lutto, cadendo in una “condizione melancolica, in cui il soggetto aderisce all’oggetto come se esso fosse l’unica cosa effettivamente rimastagli”. Se, come ricorda l’autore, è necessario che i sopravissuti riescano ad onorare i loro morti e le loro tradizioni distrutte ed umiliate, “in modo che le perdite possano trasformarsi in simbolo”, è possibile intravvedere nelle due proposte un cammino per un’elaborazione effettiva del lutto in termini personali e sociali. Nell’opporre resistenza ai disegni dei vincitori temporanei della “guerra sporca” tramite atti di memoria, le proposte di Brodsky e Germano, col nominare i desaparecidos, acquistano un ulteriore significato. In questo senso, la scelta d’uno strumento come la fotografia è fondamentale, se si ricordano le considerazioni di Walter Benjamin (1974: 61-62) sulla singolarità del ritratto fotografico. Quando analizza i ritratti eseguiti da David Octavius Hill, il filosofo vi individua una qualità che esige il nome del modello, per cui non possono essere veduti soltanto come arte. Agamben (2005: 28), nel riproporre questa riflessione l’associa all’idea che

il soggetto ripreso nella foto esige da noi qualcosa. Il concetto di esigenza mi sta particolarmente a cuore e non bisogna confonderlo con una necessità fattuale. Anche se la persona fotografata fosse oggi completamente dimenticata, anche se il suo nome fosse cancellato per sempre dalla memoria degli uomini, ebbene malgrado questo – anzi, precisamente per questo – quella persona, quel volto esigono il loro nome, esigono di non essere dimenticate.

Se le fotografie sono testimonianze di tutti i “nomi perduti”, se ogni viso umano ha una storia da raccontare (AGAMBEN, 2005: 28-29), i progetti di Brodsky e Germano sono una chiara evidenza di come la memoria sia un modo efficace di rendere attuale quello che si è perduto e di restituire, grazie all’immagine, il valore di molte esistenze negato e umiliato dal potere politico.


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Traduzione dal portoghese di Mariarosaria Fabris e Mario Giampà

 


Note:


1Walsh è autore di una terza opera di letteratura documentaria, El caso Satanovsky [L’affare Satanovsky, 1973], in cui viene ricostruito l’assassinio dell’avvocato Marcos Satanovsky da parte dei membri di “Revolución Libertadora” durante il conflitto per le azioni del giornale La Razón (1958).

2I numeri forniti da Walsh, nel marzo 1977, sono molto più incisivi poiché comprendono soltanto un anno di repressione. Come egli registra nella “Lettera aperta di uno scrittore alla Giunta Militare”, datata 24 marzo: “Quindicimila desaparecidos, 10 mila prigionieri, 4 mila morti, decine di migliaia d’esiliati sono i numeri netti di questo terrore”. Lo scrittore denuncia anche il ritrovamento sulle coste uruguaiane, tra marzo e ottobre del 1976, di venticinque corpi mutilati, “una piccola parte forse del carico dei torturati a morte nella Scuola di Meccanica dell’Armata, buttati nel Río de la Plata da navi di questa Forza”. Sono inoltre ricordati il “cimitero lacustre”, scoperto nell’agosto del 1976 da un subacqueo nel lago San Roque (Córdoba), la cui denuncia non era stata accettata dalla polizia, né divulgata dalla stampa, e i casi di prigionieri lanciati in mare ”dagli aerei della 1ª Brigata Aerea”. o foi aceita pewor no lago San Roque (C da Prata por navios dessa força"s nas costas uruguaias (WALSH, 2010: 247, 251-252). L’informazione sui “voli della morte” è stata recentemente avallata dalla divulgazione di centotrenta fotografie inedite delle vittime martoriate. Probabilmente le foto sono state scattate dall’ex marinaio e fotografo della Marina uruguaiana, Daniel Rey Piuma, che le avrebbe consegnate ai rappresentanti della Commissione Interamericana di Diritti Umani in Brasile, negli anni ’80. Oltre alle fotografie la Commissione ha spedito al governo argentino mappe e rapporti ufficiali della guardia costiera e dei servizi d’intelligenza dell’Uruguay, stesi negli anni ’70, concernenti i corpi ritrovati sulle spiagge del paese, fra Colonia (Río de La Plata) e La Paloma (oceano Atlantico). Cfr. PALACIOS (2011).

3Secondo Daniel Frontalini e María Cristina Caiati, il “terrorismo di Stato” consiste nell’“esercizio criminale del potere supremo dello Stato, senza essere sottomesso a nessun controllo, mediante un sistema organizzato e ristabilito nelle sue strutture per la conquista dei suoi obiettivi”. (BRODSKY, 2010: 13).

4Brodsky innesca un meccanismo uguale con le fotografie del Río de la Plata nella serie “Parque de la Memoria”[Parco della Memoria], messe a confronto con immagini dell’album di famiglia, in cui l’acqua non ha un senso di minaccia. La presenza del fiume è così spiegata dall’artista: “Il Río de la Plata è la nostra identità [...]. Nelle sue torbide acque migliaia di argentini sono stati scaraventati verso la morte. Ma il fiume è sempre lì e la sua presenza ci invita a non dimenticare. Il Parco sta dove deve stare: sulla riva del fiume, trasformando ogni passaggio per i suoi muri in un esercizio di riflessione e di cura. Se ripercorriamo i loro nomi anno per anno, potremo raccontare e dire ai nostri figli cosa è stata la distruzione sistematica d’una generazione che voleva cambiare il nostro paese e che ha pagato con la propria vita questo impegno” (BRODSKY, 2010: 88).

5Se nel caso di Brodsky la problematica della memoria s’impone sin dal titolo dell’opera, in quella di Germano si deve sottolineare la determinazione di proporre una revisione della storia della repressione in Entre Ríos, “dove suppostamente ‘niente è accaduto’. Io vengo da questa provincia e mi son reso conto che sarebbe stato importante documentare casi di sparizioni che non erano noti e che avevano colpito persone comuni di villaggi lontani, in modo da mostrare che la tragedia aveva sconvolto anche questa regione” (IGLESIAS; WALTHER, 2008).

6Il “reportage dialogico” realizzato da Nick Waplington, Luc Choquer, Olivier Pasquier, Patrick Bard, Patrick Zackmann segue gli stessi postulati del documentario impegnato: richiede una certa durata affinché si stabilisca un dialogo prolungato e profondo con il modello. Partner effettivo, il modello dimostra di non essere un oggetto, il che fa del reportage dialogico l’espressione di situazioni umane che sono al di là dell’ordine del visibile. In questo senso, questo tipo di reportage rompe con i modelli stabiliti da figure quali Henri Cartier-Bresson e Sebastião Salgado, “spettattori del mondo che consideravano come uno scenario e a cui si sono avvicinati in conformità alle leggi della macchina fotografica, cioè privilegiando lo sguardo, la distanza, la sospensione, la lontananza, il distacco” (ROUILLÉ, 2005: 236-240).


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