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PSYCHOMEDIA
GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Terza Età



Invecchiamento e lavoro

Daniele Toffoletto



 

Introduzione

Fra alcuni anni il pagamento delle pensioni in Europa sarà un problema serio, ma per l'Italia drammatico. In Italia con il rapido invecchiamento della popolazione il costo delle pensioni di vecchiaia diventerà enorme. Nonostante siano state eliminate le pensioni baby e si sia alzata l'età pensionabile ancora pochi lavorano fino a 65 anni. Negli Stati Uniti e in Giappone non fa meraviglia lavorare anche dopo i 65 anni, in Giappone un terzo degli ultra sessantacinquenni è ancora al lavoro.

Oltre al problema economico si presenta anche il problema della sostituzione del personale. Già ora, in alcune regioni italiane, manca personale qualificato che prenda il posto di chi va in pensione. Nei prossimi decenni i 'baby-boom', i nati negli anni cinquanta e sessanta, invecchieranno e raggiungeranno l'età della pensione. I nati negli anni settanta e ottanta, periodo di forte calo della natalità, non saranno in grado di sostituire tutti i posti di lavoro lasciati liberi. Ci sarà quindi la necessità di tenere il più a lungo possibile al lavoro i 'baby-boom', probabilmente anche oltre i sessantacinque anni.

Ragioni nuove e impellenti per avviare un intervento che tenga conto dell'età e dell'invecchiamento del personale nell'organizzazione del lavoro. Cosa può offrire la psicogerontolgia a questo proposito?
 

Problemi o pregiudizi?

Dagli studi psicogerontologici è emerso che molte concezioni sull'invecchiamento sono frutto di pregiudizi. Anche la psicologia non ne è immune. Per esempio Thorndike, pubblicava nel 1931 'Human Learning', uno studio diventato classico sull'intelligenza dell'adulto, dove sosteneva che l'abilità ad apprendere rimane stabile fino a 35 anni, dopodiché diminuisce dell'uno per cento all'anno. La diminuzione veniva attribuita all'età. Recenti ricerche gerontologiche hanno dimostrato che pur essendoci tra gli anziani persone che avevano livelli medi più bassi dei giovani, c'erano anche fra di loro persone che avevano gli stessi alti livelli di intelligenza dei giovani (Jolles et al., 1995). Le cause della diminuzione dell'intelligenza non potevano quindi essere attribuite all'età, veniva avvanzata l'ipotesi che le cause fossero da attribuire alle condizioni di salute (Rowe e Kahn, 1987; Houx, 1991). E' risaputo che un anziano ha o ha avuto più spesso di un giovane delle malattie che possono influenzare le prestazioni cerebrali, questo ha permesso la facile associazione tra invecchiamento e diminuzione dell'intelligenza.

Molti studi sull'invecchiamento risentono del 'deficit model', cioè pongono l'accento sul venir meno di determinate capacità. Secondo Lehr (1980) questo è dovuto a l fatto che si  è associato l'invecchiamento con la malattia fisica e psichica e con tutti i problemi psico-sociali che questo comporta. Il decadimento, la diminuzione delle forze, l'aumento delle patologie sono diventati sinonimi di anziano, condizionando così il giudizio che si da su di una persona anziana e in generale sull' invecchiamento. Un ruolo nel favorire questo concetto l' hanno svolto anche le metodologie utilizzate per misurare i cambiamenti. In molte ricerche i confronti venivano sempre fatti tra diverse classi di età (cross-cohort) e mai seguendo lo sviluppo di un gruppo di persone (studi longitudinali).  Per cui, per esempio nei confronti sull' intelligenza non venivano prese in giusta considerazione i diversi livelli di struzione tra le classi di età.
Le prime critiche al 'deficit model' erano già comparse nel 1922. Secondo Stanley Hall le differenze tra giovani e anziani non erano di tipo quantitativo, ma qualitativo. L'invecchiamento quindi non andava studiato in termini di più o meno, ma secondo il tipo di cambiamento che interviene nel 'sentire, pensare e volere'.

E' stata soprattutto la psicogerontolgia degli anni ottanta e novanta a riportare l'interesse degli studi sui processi non patologici dell'invecchiamento. Il concetto di sviluppo è ritornato al centro dell'attenzione. Si è cominciato a parlare di psicologia del ciclo di vita (Baltes, 1987; Birren e Schaie, 1996). Secondo questi nuovi studi lo sviluppo non si limita solo ai primi periodi della vita, ma comprende tutto il periodo di vita (Breeusma, 1993). Lo sviluppo di ogni individuo si articola all'interno di due sottosistemi: accrescimento e senescenza (Schroots, 1994). Questi avvengono contemporaneamente, senza soluzione di continuità. Un uomo può essere in crescita per un determinato processo e in senescenza per un altro (Cesa-Bianchi, 1987).
Nel quadro del ciclo di vita non si può parlare né di un punto finale uniforme, in quanto le diversità tra individui sono molto grandi, né di precise determinanti dello sviluppo perché le condizioni storiche e culturali sono così diverse e mutanti, per cui è impossibile determinare stadi di sviluppo assoluti. Lo sviluppo è talmente diverso da individuo e individuo che la ricerca di questa individualità diventa centrale.
La psicologia del ciclo di vita oltre che agli aspetti cognitivi dello sviluppo presta particolare attenzione anche alla socializzazione, alla personalità e alle emozioni. Le abilità sociali e emotive possono essere meglio analizzate con il parametro della qualità che non con quello della quantità. Di nuovo è il concetto di qualità più che di quantità ad essere importante.

Sintetizzando si può dire che tre punti caratterizzano la psicologia del ciclo di vita:
1) lo sviluppo viene descritto attraverso un modello ramificato o multilineare e non attraverso un modello unilineare e unidirezionale;
2) l'individuo è la norma dello sviluppo e del susseguirsi degli stadi e non la popolazione;
3) i parametri di qualità sono più importanti di quelli di quantità.

Vanno quindi abbandonati o per lo meno relativizzati analisi, giudizi e interventi che siano basati sui soli principi di quantità. Per comprendere bene la personalità dell'anziano è importante fare riferimento ai principi di qualità e allo sviluppo individuale e multilineare della persona. Sono questi principi che dovrebbero indirizzare gli interventi rivolti all'anziano.
 

Lavoro

Le ricerche finora condotte non permettono di avere un quadro obiettivo dell'effetto delle condizioni di lavoro sull'invecchiamento. A causa di una forte selezione del personale nelle aziende è rimasto solo chi ha saputo od è riuscito ad adattarsi alla cultura aziendale vigente. Diventa quindi difficile individuare gli effetti negativi che questa cultura ha nel lungo periodo sul personale, dal momento che la maggior parte dei lavoratori anziani è stata estromessa. Indagini mirate (Centrale Commissie Oudere Werknemers, 1974) hanno tuttavia evidenziato alcuni fattori. Ad esempio nelle aziende dove veniva richiesto un notevole sforzo fisico c'erano molti lavoratori che ricevevano una invalidità e in quelle con rapide trasformazioni la percentuale di lavoratori anziani era bassa. Lavori pesanti e rapide ristrutturazioni del lavoro portano alla diminuzione del personale anziano. In queste aziende la validità del personale è finalizzata al suo massimo rendimento immediato e il personale non più redditizio viene espulso. Gli espulsi trovano compensazione nell' assistenza dello Stato sociale.

Non solo rigide scelte economiche hanno fatto sì che la presenza del personale sopra i 55 anni sia molto bassa nelle aziende, ma anche gli stereotipi negativi che si hanno sui lavoratori anziani hanno giocato un ruolo. Secondo una ricerca di Copperman e Keast (1983) l'idea che i managers americani hanno del mercato del lavoro è che sia composto da uomini tra i 25 e i 45 anni, i quali lavoravano a tempo pieno e a contratto fisso. In pratica questa categoria rappresenta solo il 40 per cento della popolazione lavorativa. Che gli anziani vengano ingiustamente discriminati a causa di falsi stereotipi è stato ben evidenziato da una serie di ricerche (Harris, 1981; Kerkhoff et al., 1987; Gelderblom et al., 1992; Boerlijst et al. 1993). Secondo Kerkhoff (1991) c'è un rapporto ciclico tra immagine negativa degli anziani e la realtà. Una volta nata l'idea negativa sui lavoratori anziani, questa viene interiorizzata dai lavoratori anziani, i quali agiscono poi secondo queste aspettative, rinforzando l'idea negativa che si ha di loro e così si chiude il cerchio. Fino a che l'ambiente circostante non interviene per cambiare questa immagine il ciclo prosegue. L'immagine col tempo si cristallizza e diventa parte di un sistema.

Nella seconda metà degli anni ottanta si è cercato in America sia a livello governativo che a livello privato di contrapporsi a questa tendenza. Nel 1985 appare il rapporto 'Abolishing Mandatory Retirement' (Pepper, 1985), dove si sconsiglia il pensionamento precoce e si danno una serie di indicazioni su come prevenirlo. Nasce anche una specie di ufficio di collocamento, sovvenzionato dai datori di lavoro, per avviare al lavoro persone disoccupate sopra i 55 anni. L'iniziativa partita da Chicago, dove in un anno ha avviato al lavoro alcune migliaia di disoccupati sopra i 55 anni, si è estesa con enorme successo in tutta l'America, favorendo così la rottura di tutta una serie di stereotipi sui lavoratori anziani.

Negli anni novanta è diventato chiaro anche in Europa che continuare a scaricare i costi della razionalizzazione produttiva sul prepensionamento e sull'assistenza sociale è impossibile. I costi delle pensioni di invalidità e di (pre)pensionamento stanno diventando esorbitanti e la nuova manodopera scarseggia. Inoltre una sempre più ampia categoria di persone non accetta più di andare presto in pensione e di rimanere inattiva.
Nuove politiche del personale devono essere introdotte. Diversi autori (Etzioni, 1988; Doyle, 1989; Ruysseveldt et al., 1989) rivendicano la necessità del cambiamento soprattutto a livello di concezioni sociali dominanti.

Anche le teorie dell'invecchiamento sono frutto del proprio tempo. Nel 1961 Cumming e Henry lanciavano la loro teoria del 'disengagement'. Secondo questa teoria con l'avanzare degli anni gli individui prendono sempre più le distanze dalla vita lavorativa e sociale. Gli anziani hanno sempre meno interesse per quello che succede loro attorno e si chiudono in se stessi. E' il distaccarsi (disengagement) dalle cose, in preparazione della morte. Anche la società attraverso norme, leggi e convenzioni spinge gli anziani a staccarsi dalla vita attiva a favore dei giovani. Nonostante questa teoria non fosse stata da tutti accettata, è solo verso la metà degli anni settanta che appare una teoria completamente opposta 'activity theorie' (Lemon et al, 1972; Neugarten et al., 1973). Secondo questa teoria maggiore è l'attività, maggiore è il piacere di vivere. E' la mancanza di opportunità che crea indifferenza ed esclusione. In un ambiente favorevole l'anziano mantiene i suoi interessi e attività. Stimolati da questa teoria iniziano negli anni ottanta i primi esperimenti nel creare ambienti arricchenti (Owen et al.,1981; Longino e Kart, 1982), grazie ai quali gli anziani possano rimanere a lungo indipendenti e mantenere la loro vitalità. La teoria trova la sua applicazione soprattutto nei centri per anziani, case di riposo o organizzazioni rivolte all'assistenza agli anziani, ma non nell'ambiente di lavoro, dove ancora domina la teoria del 'disengagement' (Andries, 1992).

Uno dei primi a proporre delle soluzioni strutturate e non incidentali (Copperman et al., 1983; Root et al, 1983; McKenzie, 1988) che tengano conto della 'activity theorie' nell'ambiente del lavoro è Kerkhoff (1993). Le sue proposte tendono a mantenere attiva la vitalità del personale, a stimolare una delle proprietà che è più tipica dell'uomo: l'inesauribile capacità di trovare in modo aperto e creativo nuove soluzioni per nuovi problemi. Un buon appoggio viene anche dalla nuova visione elaborata dalla psicologia del ciclo di vita.
L'intervento di Kerkhoff  non è esclusivamente per il personale anziano, ma si rivolge a tutte le categorie di età presenti nell'azienda. Lo scopo è favorire e mantenere l'equilibrio, durante tutta la carriera lavorativa, tra funzione e compiti di ciascun lavoratore con la sua individuale capacità di carico del lavoro.
Ogni fase di età ha le sue specifiche proprietà per un ulteriore sviluppo e ulteriore formazione. A queste proprietà deve essere prestata la dovuta attenzione in modo da mantenere costantemente attivo e motivato il personale. Bisogna fuggire il rischio che gli interventi si rivolgano solo ai problemi dei lavoratori anziani e siano troppo concentrati sul regolare la fine della carriera lavorativa (Kerkhoff , 1993). Interventi di questo genere sono dei palliativi, che lasciano intatto il problema di fondo (Kruidenier, 1991).

Kerkhoff  ha proposto tre tipi di intervento: uno pro-attivo, uno preventivo e uno correttivo.
L'intervento pro-attivo si rivolge alla categoria dei giovani (tra i 18 e i 30 anni) e prevede interventi strategici che  promuovano e salvaguardino lo sviluppo individuale.
L'intervento preventivo è indirizzato alla categoria di mezza età (tra i 30 e i 50 anni) e presuppone interventi tattici di prevenzione sociale.
L'intervento correttivo è progettato per la categoria degli anziani/senior (tra i 50 e i 65 anni), presuppone la presa di coscienza dei problemi e la loro diretta soluzione.

Kerkhoff prevede tre fasi per la realizzazione dell'intervento correttivo. La prima fase è l'informazione su tutte le categorie e su tutti i livelli dell'azienda. L'analisi dei dati del personale aziendale è uno strumento molto utile per cambiare l'immagine che si ha del lavoratore anziano. Basilare è la raccolta dati sulla divisione per età e per anzianità di lavoro in azienda e per categoria e reparto, sull'entità e ragioni dell'abbandono aziendale e infine su opinioni e aspettative della direzione, dei quadri intermedi e delle maestranze riguardo i lavoratori anziani.
La seconda fase consiste nella costituzione di una commissione che prepari e segua l'intervento per i lavoratori anziani. E' consigliabile una ricerca su opinioni, aspettative e condizioni dei lavoratori anziani attraverso incontri individuali dato il numero limitato e la grande differenza individuale tra i lavoratori anziani.
Nella terza fase viene tracciato un tragitto individuale. Attraverso l'inventario delle capacità, motivazioni e interessi del lavoratore anziano si ricerca come questi si possano adattare alle strutture e possibilità dell'azienda. Se le possibilità sono limitate si possono cercare nuove forme di contratto (part-time, de-mozione, parziale prepensionamento, ecc.)
Questi sono interventi riparativi, il cui successo non sempre è garantito; soprattutto per chi è attualmente sopra i 55 anni i risultati possono essere scarsi e limitati. Il grosso lavoro deve essere rivolto alla prevenzione.

L'intervento preventivo (per i lavoratori tra i 30 e 50 anni, in particolare modo per i lavoratori tra i 40 e i 50 anni) richiede una soluzione strutturale del problema. Parte dal definire quali lavori, funzioni e compiti possano essere limitativi per una ben riuscita carriera lavorativa durante tutto il ciclo di vita. Cerca poi di favorire un cambiamento di mentalità su cosa e come si pensa dei lavoratori anziani all'interno dell'azienda. Si sviluppa infine creando condizioni strutturali dove ogni individuo possa continuare a svilupparsi ottimamente.
Sostanzialmente possiamo dire che l' intervento preventivo non è molto diverso da un intervento socialmente sensibile (Burrell et al., 1984; Favretto, 1994),  quello di cui non tengono conto però quest'ultimi interventi è il concetto che le diverse fasi di vita comportano anche diversi qualificazioni, ambizioni e interessi. Alcuni esempi possono illustrare quanto sia importante inserire anche la componente età in questi interventi.

Un primo esempio riguarda la vitalità e l'efficienza intellittiva. Base importante per mantenere la vitalità è un ambiente stimolante, che offra prospettive. La comune idea che la creatività diminuisca con l'avanzare dell'età non trova conferma nelle ricerche. Si è constatato infatti che la creatività nelle prestazioni non è legata all'età, ma alla precedente carriera. Il tipo di funzioni che uno ha svolto nel passato possono predire meglio dell'età le sue future prestazioni (van Assen et al., 1992). Da questo deriva che una programmazione della carriera lavorativa basata sulla pianificazione dei cambiamenti di funzione - anche e soprattutto dopo i 40 anni - puo offrire ai lavoratori una nuova sfida e nuove possibilità di apprendimento, per cui rimaranno più a lungo efficienti per se stessi e per l'azienda (van Assen, 1998). Lo stesso vale per l'efficenza intellettiva che può continuare a progredire con l'età, diventando più lenta ma anche più riflessiva, più ristretta ma non necessariamente meno creativa. L'apprendimento si può conservare, utilizzando meno la memorizzazione e più l'azione (Cesa-Bianchi, 1987). Con un adeguato addestramento che tenga conto di queste caratteristiche le capacità di apprendimento rimangono intatte. Il fatto che lavoratori anziani siano meno interessati all'aggiornamento può dipendere dalle scarse possibilità avute dal passato (Doering et al., 1983), ma anche dalla loro bassa istruzione. Una nuova generazione (coorte) di lavoratori anziani si sta presentando, più istruita e con una mentalità diversa, per cui l'immagine del lavoratore anziano dovrà essere rivista.
Un altro esempio concerne le condizioni fisiche. Con l'età diminuiscono le capacità soprattutto fisiche, ma intervengono i meccanismi di compensazione, di vicarianza operanti nel sistema nervoso e nel comportamento. Per esempio la velocità di reazione diminuisce, ma rimane relativamente stabile nelle attività conservate per periodi prolungati (Salthouse, 1984, 1987).  Alla riduzione della rapidità senso-motore può corrispondere talora il miglioramento della precisione e dell'accuratezza. Si ritiene che i lavoratori anziani siano più spesso malati dei giovani. Le statistiche confermano che le assenze per malattia crescono linearmente con l'aumentare dell'età, ma una attenta analisi dei dati rivela che gli anziani sono meno spesso, ma più a lungo malati (Kruidenier, 1991) e che chi lavora da più di dieci anni nella stessa funzione ha la stessa quantità di assenze per malattia di chi ha più di 55 anni. L'aumento delle assenze per malattia è legato più agli anni in cui uno lavora nello stesso posto  che non all'età (Reuling, 1989; de Zwart, 1993). Un altro dato a favore degli anziani è che gli incidenti sul lavoro diminuiscono con l'età (Ziekemeyer, 1993).

Un elemento importante dell'intervento preventivo è una seria programmazione delle carriera lavorativa che va coordinata con il funzionario del personale. Colloqui periodici per discutere e eventualmente rivedere la propria carriera lavorativa o il piano di addestramento sono di fondamentale importanza soprattutto per i lavoratori tra i 40 e i 50, 'the midlife'. Ma questo richiede funzionari del personale consapevoli della dinamica e problematica legata a questa età e esperti nel seguire individualmente il personale.
Un intervento preventivo non è facile da realizzare, oltre a cambiamenti di mentalità e strutturali richiede anche investimenti finanziari. Ma è una condizione indispensabile per mantenere la vitalità del personale fino alla pensione.

L'intervento pro-attivo si rifà a strategie di lungo termine. Si basa sui principi fondamentali a cui fa riferimento l'organizzazione del lavoro. Le attuali scelte di superselettività nel lavoro stanno creando enorme emarginazione e alti costi sociali. In Olanda, ad esempio pur essendo il tasso di disoccupazione molto basso, il rapporto tra popolazione potenzialmente attiva e popolazione lavorativa è quasi di 1:1, sono soprattutto gli anziani e i più deboli che vengono esclusi. 'Gli attuali  modelli manageriali sono accompagnati da una perdita di talenti umani mai vista. Le attuali strategie aziendali possono essere viste come una forma di sfruttamento rapace che può mantenersi solo a costo di un enorme negligenza del capitale umano' (Kerkhoff p.104, 1993).
Una revisione o ridiscussione delle attuali strategie si fa sempre più necessaria, ma non rientra nell'ordine di questo articolo approfondire questo punto. Importante è tener presente che gli interventi per il personale sono nel lungo termine strettamente connesse alle strategie di organizzazione del lavoro.

Nell'ambito di questo articolo possiamo constatare che purtroppo manca ancora una cultura che inserisca nella tecnologia e nell'organizzazione del lavoro il principio dell'età del personale (Dresens, 1993; Kruidenier, 1993). Questa mancanza è presente anche nei sindacati: nei contratti di lavoro si parla al massimo di qualche giorno libero in più, di agevolazioni nei turni o di prepensionamento per i lavoratori anziani. Non c'è ancora una strategia basata su un profondo cambiamento dei rapporti di lavoro che crei le condizioni perché una persona possa lavorare fino a sessantacinque anni.
Di adattamento delle funzioni alle effettive capacità individuali di un lavoratore si parla poco o niente. Per il personale anziano non si tratta solo di rendere il lavoro più leggero, ma di creare anche una situazione nella quale uno possa partecipare al processo di lavoro con piacere e sentendosi valutato.
Da parte del management e della direzione del personale si presta attenzione soprattutto alla fase iniziale del rapporto di lavoro (selezione e coiching), mentre poca cura è data alla mobilità e a tenere vivo l'interesse dei lavoratori per il costante aggiornamento (Boerlijst et al. 1993). Quando un dipendente è attorno ai 40 anni si presume che abbia trovato il suo posto nell'azienda e si vede la sua posizione come posizione finale. Il lavoratore si rende conto che l'azienda non investe più su di lui e si adegua alla situazione entrando nel circolo vizioso del disingaggiamento.

Pochissimi sono gli esempi di aziende dove si sia messa in pratica una ben strutturata politica del personale che tenga conto dell'età (Loontechnische Dienst, 1991). Il Centro Geragogico di Groningen ha individuato una decina di aziende che in Olanda hanno attuato interventi di tipo preventivo, cioè per il personale tra i 30 e 50 anni. Dalla ricerca che è stata condotta su queste aziende (Van der Kloet et al., 1994) emerge che cinque sono i tipi di strumenti utilizzati  per realizzare l'intervento preventivo:
- colloquii di valutazione,
- educazione, formazione e addestramento,
- adattamento dei compiti, cambiamento del ruolo, rotazione delle mansioni, ampliamento del ruolo,
- miglioramento delle condizioni di lavoro,
- pensionamento flessibile.
Sono programmi che normalmente anche in altre situazioni vengono utilizzati dalle aziende, per esempio per ridurre lo stress nelle organizzazioni (Favretto, 1994), ma nei casi sopracitati la loro validità è legata al fatto che sono relazionati al fattore età. Questo è anche il loro aspetto innovativo, che nasce dalla presa di coscienza all'interno delle aziende della necessità di tener conto dello sviluppo individuale nell'organizzazione del lavoro, in modo che tutti i lavoratori possano lavorare motivati fino alla pensione.

Le politiche del personale che tengano conto dell'età sono principalmente interventi su misura rivolti all'individuo. Le capacità con l'età non sempre diminuisco e se diminuiscono possono venir compensate. Tante volte vengono attribuite all'età caratteristiche che sono invece proprie di altre componenti. Forti pregiudizi sull'invecchiamento dominano ancora nell'ambiente del lavoro. Essere consapevoli di queste dinamiche permette di organizzare meglio il lavoro e di creare quelle condizioni che rendano più produttivo e soddisfacente il lavoro sia per chi lavora che per l'azienda.
 

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