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PSYCHOMEDIA
GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Terza Età


Problematica psicosociale dei pazienti Alzheimer*

Rose-Marie Dröes**

(Traduzione di Daniele Toffoletto)

*   Capitolo terzo del libro: In Beweging. De Tijdstroom, Utrecht, 1991.
** Copyright di Rose-Marie Dröes.

1. Introduzione

La malattia d'Alzheimer si caratterizza per i disturbi cognitivi e i cambiamenti di personalità e, inoltre, si manifesta con disturbi del funzionamento psichico e del comportamento; quest'ultimi sono considerati essere la conseguenza del reciproco rapporto tra fattori organici, psicologici e sociali. Tutti questi disturbi hanno delle conseguenze sul funzionamento della vita quotidiana.

Una delle conseguenze riguarda l'interazione tra il paziente e il suo ambiente circostante, che viene in tal modo influenzata da mettere in rischio l'equilibrio esistente (Sipsma, 1973, 1988). Per mantenere un equilibrio il paziente dovrà cercare un modo per adattarsi ai cambiamenti; questo adattamento non è, però, sempre facile. Tipico della malattia d'Alzheimer è il progressivo deterioramento cognitivo; questo comporta che il più importante strumento che si usa per l'adattamento, il processo cognitivo, venga sempre più intaccato. In altre parole, mentre da una parte il processo demenziale impone al paziente la necessità di un adattamento, dall'altra diventano sempre più limitate le sue possibilità di riuscire ad adattarsi. La possibilità di  raggiungere un buon adattamento diminuisce e il paziente diventerà sempre più dipendente, necessitando di accompagnamento e di un sostegno ambientale. L'accettazione della dipendenza varia da un paziente all'altro. L'insieme dei problemi psichici e comportamentali, legati al processo di adattamento ai disturbi e ai limiti funzionali, che la malattia comporta, va sintetizzato nella definizione di problematica psicosociale dei malati d' Alzheimer.

A tutt'oggi non è stata fatta nessuna ricerca sistematica, che indaghi su come un paziente con la malattia d' Alzheimer affronti e viva la sua malattia e il ricovero. Descrizioni a riguardo, in letteratura, fanno riferimento per lo più alle esperienze cliniche e alle interpretazioni di osservazioni del comportamento. Queste interpretazioni sono, in parte, determinate dalla prospettiva teorica usata e pertanto si riscontrano nei diversi autori notevoli differenze nell'elenco delle difficoltà presentate dal paziente. Non esiste ancora un quadro teorico generale sull'adattamento alle conseguenze della malattia d'Alzheimer.
Nella prima parte di questo capitolo ho sviluppato, sulla base dello studio dei processi di adattamento in condizioni normali e difficili, una teoria sull'adattamento dei pazienti con Alzheimer alla loro malattia e al loro ricovero. La teoria generale interazionale di Lazarus e Folkman (1984) sull'adattamento e il coping offre  pochi  riferimenti, che consentano di concettualizzare i processi psicologici di adattamento nella demenza senile; è necessario, pertanto, utilizzare anche un modello di adattamento specifico per le malattie gravi e precisamente il modello di crisi di Moos e Tsu (1977).

Nella teoria scientifica così strutturata - che va vista come un ipotetico quadro di riferimento - si parte dal presupposto che i pazienti con la malattia d'Alzheimer, ricoverati in casa di riposo, vivano una situazione di 'stress', dovuta al rapportarsi con la malattia e con le mutate condizioni di vita, questo stress può portare ad una rottura dell'equilibrio (crisi). Per mantenere o ristabilire l'equilibrio ciascun paziente dovrà eseguire alcuni compiti adattivi (vedi tabella 1), presi da Moos e Tsu (1977), che si ritiene vengano di solito utilizzati in casi di malattia grave o di crisi. Ciascuno di questi compiti può dar adito a problemi di adattamento. Partendo da questa teoria, la problematica psicosociale dei pazienti con la malattia d'Alzheimer può anche essere descritta come la difficoltà che si presente di fronte a questi compiti adattivi generali.

Nella seconda parte di questo capitolo si è tentato, come prima verifica di questa teoria, di scoprire se ciascun compito adattivo generale può essere ritenuto idoneo anche per pazienti affetti dall'Alzheimer. Prima, però, viene verificato se le strategie di coping e le manifestazioni comportamentali nella demenza senile e nell'istituzionalizzazione, descritte in letteratura, possano venire interpretate come strategie nel trattare con i singoli compiti adattivi. Le strategie di coping a cui viene fatto riferimento sono basate su principi psicodinamici e di psicologia sociale. Successivamente si tenta una spiegazione dei disturbi del funzionamento psichico e del comportamento, in termini di: comportamento di coping, comportamento che puo essere considerato come sintomo che accompagna le strategie di coping usate o comportamento che indica il fallimento del processo di coping (crisi). E' auspicabile che ulteriori ricerche possano provare se questa suddivisione si rivelerà utilizzabile nella diagnostica psicosociale.
 

2. Sull'adattamento e la crisi

Il concetto di adattamento  in psicologia indica come l'individuo si adegui alla vita e riesca a sopravvivere in un ambiente materiale e sociale in continuo cambiamento (Lazarus, 1976). Termini che in questo contesto incontriamo regolarmente sono 'equilibrio', 'adattamento' e 'crisi' (Sipsma, 1973, 1988; Linn, 1979; Van der Wulp, 1986). Sotto la voce adattamento incontriamo spesso in letteratura due concetti importanti: bisogni e mezzi.

In generale viene operata una distinzione tra due tipi di bisogni di base, cui una persona necessita per sopravvivere. I bisogni interni, come, l'alimentarsi, il bere e avere una adeguata temperatura ambientale sono stabiliti dalla nostra struttura biologica. I bisogni esterni vengono determinati dall'ambiente materiale e sociale e  sono in relazione  con le nostre vulnerabilità. E' fondamentale non bruciarsi, non avvelenarsi o non morire di fame; poiché la maggior soddisfazione nella vita deriva da un clima sociale fatto di attenzioni positive, dobbiamo preoccuparci di ricevere sufficiente approvazione da altri. Per questi motivi l'ambiente sociale acquista potere su di noi, se non sottostiamo alle sue esigenze, può privarci della ricompensa, mostrare disapprovazione, infliggerci un castigo fisico o addirittura espellerci. Poiché la ricompensa è così importante, tutta una serie di esigenze sociali possono, dopo un certo periodo, diventare parte di noi stessi o, come viene detto, diventare "interiorizzate". Il fallire nel corrispondere a queste esigenze sociali può avere conseguenze dannose in senso psicologico. Le esigenze sociali, infatti, vengono considerate di grande importanza per comprendere la nostra vita emotiva (Lazarus, 1976). Per il nostro processo d'adattamento disponiamo di mezzi. L'ambiente ci offre acqua e cibo, ci riuniamo in gruppi per mettere insieme le nostre forze, impariamo da altri come comportarci in determinate situazioni e usiamo le cure degli amici o dei conoscenti se siamo malati. 

Quindi adattamento non significa solo sottostare alle esigenze del mondo materiale e sociale (accomodare), ma anche usare e cambiare quel mondo secondo i nostri bisogni (assimilare). La buona riuscita di questo processo dà la misura della nostra capacità d'adattamento. Il modo in cui lo realizziamo dipende, tra l'altro, dalla maniera in cui noi percepiamo soggettivamente l'ambiente (Thomae, 1983; Lazarus & Folkman, 1984; Eysenk & Martin, 1987). Non ha senso parlare delle esigenze dell'ambiente, senza tenere conto delle peculiarità della persona, che la rendono vulnerabile a certe influenze ambientali. Nel caso dell'adattamento sembra perciò più giusto parlare di relazione d'adattamento o d'interazione tra la persona e il suo ambiente. Lo scopo ultimo dell'interazione è descritto - da diversi autori - come reciproco accordo e mantenimento o raggiungimento di una condizione d'equilibrio (Sipsma, 1973; Linn, 1979; Van der Wulp, 1986). Il movente per mantenere costantemente attivo questo dinamico processo di armonizzazione viene cercato nell'impulso primario della soddisfazione dei bisogni e di conseguenza nella diminuzione della tensione o anche nella realizzazione e conservazione del Sé (Mischel, 1976). Van der Wulp caratterizza questo bisogno primario come 'il voler essere felici' (p. 220).

Ci possono essere delle situazioni nelle quali le esigenze poste dall'ambiente non sono più in equilibrio con i mezzi che l'individuo dispone o sono talmente nuove che le reazioni abituali si rivelano inadeguate. In casi simili c'è una grande possibilità che il processo di adattamento venga perturbato. Se ciò accade veramente, allora si parla di crisi o di disturbo dell'equilibrio. Come esemplificazione citiamo qui alcune situazioni che possono causare negli anziani disturbi di questo equilibrio (Ingebretsen, 1977; Van der Wulp, 1986):
- mutamenti fisici, tipo diminuzione della forza fisica, diminuzione delle funzioni visive e uditive e della mobilità;
- deterioramento della salute;
- deterioramento delle funzioni intellettuali, come nella demenza;
- cambiamento del tipo di abitazione, quale trasloco in una abitazione più piccola o in un altra forma di abitazione;
- variazione nei contatti sociali, per lo più come conseguenza della morte di amici, del partner e di membri della famiglia, ma anche a causa dell'handicap (sordità, sedia a rotelle o demenza) di amici o del partner;
- stereotipo negativo sugli anziani. La nostra cultura ha una preferenza per i termini 'sano, giovane, forte e sexy' e questo può influire negativamente sull'immagine, che l'anziano ha di se stesso;
- problemi esistenziali legati all'integrazione della vita precedente con quella attuale, nel ricercare valori nuovi  e nell'accettare la morte incombente.

Benché questi problemi presi uno ad uno possono essere superati, potrebbero sorgere dei disturbi dell'equilibrio specialmente quando più problemi si presentano assieme. Questo avviene frequentemente negli anziani. Non si è ancora superata una perdita, che si presenta il successivo problema. La riserva di mezzi viene così intaccata e l'interazione con l'ambiente risulta talmente mutata che la possibilità di crisi è molto grande (vedi anche Oberleder, 1970). La reazione alla modificazione dell'equilibrio sarà, secondo il concetto d'adattamento descritto sopra, rivolta a ristabilire un nuovo equilibrio. Qui di seguito analizzeremo quali esigenze sono poste a una persona quando ha a che fare con una malattia grave o, in generale, con una situazione di crisi e quali strategie di adattamento vengano messe in atto in queste difficili condizioni nel tentativo di ritrovare un nuovo equilibrio.
 

3. Coping durante una malattia grave e una crisi

La condizione che si viene a creare quando l'interazione con l'ambiente diventa difficile o quando si ha la sensazione che le capacità di adattamento (mezzi) rischino di venir eccedute si definisce stress (Lazarus & Folkman, 1984). Uno dei risultati della ricerca psicologica dell'ultimo decennio sullo stress è la conoscenza della differenza tra le influenze oggettive dell'ambiente e la, consapevole o inconsapevole, valutazione cognitiva o interpretazione di queste (cognitive appraisal): lo stress non viene causato solo dalle influenze oggettive dell'ambiente, ma anche dalla valutazione soggettiva della situazione (Lazarus & Folkman, 1984; Thomae, 1970, 1983; Kaplan, 1983; Van der Wulp, 1986). Questa valutazione soggettiva sarebbe collegata con le vulnerabilità dell'individuo e con l'adeguatezza del suo sistema di difesa, in altre parole con la sua caratteristica struttura fisiologica e psicologica. Questo spiegherebbe perché certe situazioni siano vissute come stressanti da alcuni individui e perché in un periodo di crisi situazioni che normalmente sono considerate come poco gravi possano venire vissute come molto gravi.

Il processo attraverso il quale l'individuo riesce a superare le situazioni giudicate come stressanti e le emozioni che da questo derivano è definito coping (Thomae, 1970; Lazarus, 1976; Haan, 1977). Una definizione dettagliata la danno Lazarus e Folkman (1984). Essi descrivono coping come 'constantly changing cognitive and behavioral efforts to manage specific external and/or internal demands that are appraised as taxing or exceeding the resources of the person' (p. 141). Coping viene qui considerato come un processo di adattamento cognitivo e comportamentale che richiede uno sforzo ed è rivolto ad affrontare le specifiche esigenze esterne e/o interne che vengono valutate come stressanti (indipendentemente dal risultato). In altre parole, secondo Lazarus e Folkman "coping" fa riferimento solo alle cosiddette reazioni d'adattamento non automatiche.

Quando a causa di una malattia grave, l'equilibrio viene turbato e ne consegue una crisi, allora, sulla base di questa definizione, dipenderà dal singolo paziente quali aspetti verranno vissuti come più o meno stressanti (per esempio il dolore, la casa di riposo, l'incertezza del futuro) e da come, di fatto, egli vi reagirà (coping response). Moos e Tsu (1977), riferendosi alle esigenze di adattamento poste ad un paziente grave, hanno introdotto il concetto di compiti adattivi: partendo dalla crisi per raggiungere un certo equilibrio, si dovranno adempiere alcuni compiti basali. In caso di malattia e di crisi in generale, sarebbero sette i compiti adattivi principali a giocare un ruolo nel processo di adattamento (vedi tabella 1).
 


Riferiti alla malattia:
1. L'affrontare il dolore e l'invalidità causata dalla malattia
2. L'affrontare l'ambiente dell'ospedale e le speciali procedure di cura
3. Lo sviluppare rapporti adeguati con lo staff professionale

In generale:
4. Il mantenere un equilibrio emotivo
5. Il conservare un'immagine positiva di sé
6. Il mantenere relazioni sociali (famiglia, amici)
7. Il prepararsi ad un futuro incerto
 

Tabella 1:  Principali compiti adattivi in caso di malattia e crisi in generale (secondo Moos e Tsu, 1977).


 

La maggior parte di questi compiti adattivi li ritroviamo in Van der Wulp (1986), che ha condotto una ricerca sul vissuto e la sua elaborazione nei pazienti somatici delle case di riposo. In questa ricerca sono stati identificati tre gruppi: 'ricoverati in equilibrio, ricoverati non in equilibrio e un gruppo con caratteristiche sia dell'uno sia dell'altro gruppo.' (p. 220). I gruppi risultavano differenziarsi sui seguenti punti: com'è vissuto l'handicap o la malattia, come è vissuta la differenza tra casa e casa di riposo, modo di affrontare la casa di riposo e come sono vissuti il passato e il futuro. Van der Wulp concludeva che questi punti sono, quindi, importanti nel ritrovare un equilibrio. Anche la necessità di mantenere le relazioni sociali viene ricordata frequentemente nella letteratura geriatrica come un aspetto importante nella capacità di accettare le perdite dovute alla vecchiaia. In un senso più ampio viene usato anche il termine 'reti sociali', che si riferisce a un complesso di variabili, quali sostegno interpersonale, attività in cui si è coinvolti e ruoli sociali (Berger, 1979; Gallagher et al., 1985; Hartwigsen, 1987). Soprattutto il sostegno sociale funzionerebbe come una protezione contro lo stress e avrebbe un'influenza positiva sulle possibilità di sopravvivenza, sul benessere psichico e fisico e sul morale (Conner et al., 1979; Gallagher et al., 1982; Lindzey e Aronson, 1985). L'importanza relativa che l'individuo attribuisce ai singoli compiti adattivi, la forma utilizzata di coping e le risposte emotive (quali ansia, tristezza, vergogna e collera) che sono causate dai compiti adattivi verrebbero secondo Moos e Tsu determinati dalla valutazione cognitiva, ossia dal significato che viene attribuito alla malattia (questa per esempio può essere sentita come minaccia, perdita o punizione, ma anche come sfida, vantaggio secondario o sollievo). Questa valutazione cognitiva verrebbe a sua volta influenzata da fattori personali, legati alla malattia, materiali e sociali (vedi fig.1; vedi anche Lipowski, 1983; Lazarus e Delongis, 1983; Lazarus e Folkaman, 1984; Moore e Christenson, 1988).

Per fattori personali intendiamo risorse fisiche, quali salute ed energie, risorse psicologiche, quali sviluppo emotivo, precedenti esperienze di coping, convincimenti filosofici o religiosi e competenze, quali abilità sociali e abilità nel risolvere i problemi (vedi anche Lazarus, 1980). Per fattori legati alla malattia ci riferiamo al momento nel corso della vita in cui la malattia ha avuto luogo, i sintomi specifici e il loro significato per la persona. Esempi di fattori ambientali materiali e sociali sono: spazio a disposizione, quantità di stimolazione sensoriale e qualità estetica dell'ambiente, relazioni sociali, sostegno sociale e norme e aspettative socioculturali.

Durante il processo di coping secondo Lazarus e Folkman avrebbero luogo regolari rivalutazioni (reappraisals), perché con l'andar del tempo s'impara meglio a conoscere la situazione e si sperimenta (processo di apprendimento) l'efficacia della strategia di coping scelta. Moos e Tsu non danno importanza nel loro modello a queste rivalutazioni; nonostante ciò sono presumibilmente un importante anello di congiunzione nel processo di adattamento, perché attraverso il feedback sono possibili correzioni e adattamenti del comportamento di coping (ciclo interno). Secondo noi queste rivalutazioni hanno come conseguenza cambiamenti concreti nei compiti adattivi (vedi figura 1). Questi cambiamenti possono a loro volta portare alla modifica del comportamento di coping.

Figura 1:  Il modello 'adaptation-coping': un modello teorico per capire l'adattamento e il coping in caso di mallattia e in generale in situazioni di crisi. Il modello è basato sul modello di crisi di Moos e Tsu (1977) e sulla teoria di coping di Lazarus e Folkman (1984). I collegamenti segnati da linee trateggiate sono stati da noi aggiunti al modello di Moos e Tsu (vedi testo).
 

Un altro aspetto che nel modello di Moos e Tsu viene trascurato è la costante interazione con l'ambiente durante il processo di coping (ciclo esterno). I risultati (provvisori) del processo di adattamento, hanno irrevocabilmente un effetto sull'ambiente, per cui si verificano cambiamenti dei fattori ambientali sia materiali, che sociali. Questi cambiamenti (per esempio, commento positivo o negativo ad un adattamento riuscito o meno) avranno a loro volta influenza sul coping del paziente ecc. ecc.. Un'aggiunta, vale a dire un feedback tra il risultato dell'adattamento e i fattori ambientali, a questo modello sembra perciò auspicabile, specie se consideriamo il coping come un processo dinamico e interattivo.
Benché l'attuazione dei compiti adattivi vari da persona a persona è tuttavia possibile una grossolana suddivisione delle strategie di coping. Certe sembrano orientarsi verso la diminuzione della tensione emotiva, che è provocata dalla malattia o dalla crisi, altre più verso la soluzione dei problemi che hanno causato la tensione e verso il ristabilimento del controllo (Lazarus e Folkman, 1984; Moos e Tsu, 1977). Esempi di strategie di coping di tipo emotivo sono: rimozione, ridimensionamento della gravità della malattia, presa di distanze, attenzione selettiva, ridefinizione della situazione e delle strategie di comportamento, quali sport, meditazione, uso d'alcolici, manifestazioni d'ira e ricerca di sostegno emotivo e di conforto. Esempi di strategie di coping di tipo operatorio sono: strategie analitiche, quali ricercare informazioni rilevanti, definire il problema, pensare a soluzioni, valutare le alternative, operare una scelta e agire. Ma anche strategie rivolte alla persona stessa, quali cambiamenti motivazionali o cognitivi (in parte reinterpretazioni cognitive) come modifica del livello di aspirazione, preparazione mentale alle conseguenze della malattia, diminuzione del coinvolgimento dell'ego, ricerca di forme alternative di soddisfacimento e apprendimento di nuove abilità vengono considerate come forme di coping di tipo operatorio.

Nella maggior parte delle situazioni viene utilizzata una combinazione di strategie di tipo emotivo e di tipo operatorio, ma quando la situazione di stress viene giudicata incontrollabile o non influenzabile (come nel caso di una malattia grave) si tende di solito a forme di coping di tipo emotivo. Per l'adattamento queste forme sembrano meno efficaci del coping di tipo operatorio, tipo la raccolta d'informazioni (Lazarus e Folkman, 1984; vedi anche Lohr et al., 1988; Jaspers et al., 1989). In situazioni che si considerano suscettibili di cambiamento si tende a scegliere forme di coping di tipo operatorio.

Se partiamo dal presupposto che i pazienti con la malattia d'Alzheimer vivono come stressante la demenza e le cambiate condizioni di vita, allora non è impensabile, viste le analogie con i pazienti con gravi malattie somatiche (situazione di crisi, invalidità cronica, istituzionalizzazione, dipendenza), che i compiti adattivi di base - nominati da Moos e Tsu - svolgano un ruolo nel processo di adattamento, anche per i malati di Alzheimer che vivono in casa di riposo. Tanto più che da numerosi autori nella letteratura geriatrica viene sottolineata l'importanza di questi aspetti per l'adattamento. Perciò noi utilizzeremo la teoria del coping durante malattie e crisi gravi, qui presentata, come una teoria sperimentale nello studio dell'adattamento di questi pazienti. Nei prossimi paragrafi proveremo a verificare fino a dove i compiti adattivi siano applicabili ai pazienti con la malattia d'Alzheimer e se certi compiti diano problemi nel funzionamento psicosociale. La nostra base di partenza sono le osservazioni sul comportamento di questi pazienti e altri dati ricavati dalla letteratura.

Poiché dobbiamo tenere conto che l'equilibrio di questi pazienti può essere determinato da numerosi, diversi ed eventualmente più importanti aspetti, che non sono stati qui nominati, le descrizioni che verranno date andranno considerate come un primo modesto inizio di classificazione della problematica psicosociale. La conoscenza di questo ambito dovrà essere ampliata in ricerche future.

Qui di seguito vengono presi in esame:
- come affrontare le conseguenze della demenza: invalidità, emozioni, mutata immagine di sé, futuro incerto;
- come affrontare le conseguenze dell'istituzionalizzazione: l'ambiente della casa di riposo, il personale, le terapie e la mutata situazione sociale.
 

4. Affrontare le conseguenze della malattia d'Alzheimer

La malattia d'Alzheimer provoca disturbi che compromettono il funzionamento della vita quotidiana. Nella sua quotidianeità il malato d'Alzheimer non è più in grado di funzionare autonomamente e diventa dipendente dagli altri. Parteciperà, inoltre, sempre meno alla vita sociale, anche perché col progredire della demenza le capacità di comprensione e di comunicazione saranno progressivamente intaccate.

4.1. Stress causato dalla malattia

Non si può dire con certezza in che modo questa invalidità progressiva, la necessità di aiuto, la perdita dell'autonomia e la limitazione delle possibilità di contatto che l'accompagnano, vengano vissuti dall'anziano. Di solito 'sembrano' non pienamente coscienti delle deficienze legate all'interazione con l'ambiente. In generale dimostrano di avere scarsa idea della malattia, il che non vuol dire che questa sia completamente assente. Una volta un paziente di novantadue anni mi confidava: "Ho dovuto pensare troppo ... risolvere troppi problemi. Per questo la testa non lavora più bene." Un'altra - con le lacrime agli occhi -mi diceva: "Da quando ho 'sta cosa in testa (e si picchiava con un pugno la testa) non son più in grado di far niente." Sono solo due esempi di una lunga serie che potrei citare. I pazienti in qualche modo sono in grado di provare che qualcosa non funziona nella loro testa (vedi anche Wells, 1977; Cox, 1985; Åkerlund e Norberg, 1986). In una recente ricerca, su pazienti ad un primo grado di demenza, era stata trovata una correlazione positiva tra il peggioramento osservato dai famigliari e dagli infermieri e il peggioramento vissuto dai pazienti (Little et al., 1986). Durante osservazioni e colloqui avuti con questi pazienti ho constatato che il non essere in grado di adempiere alle attività quotidiane spesso comporta sentimenti di insicurezza, impotenza, confusione, rabbia, dispiacere, delusione e diffidenza (vedi anche Diesfeldt, 1984). Reazioni d'ansia e comportamento depressivo sono frequentemente interpretati in letteratura come reazioni all'invalidità (McLean, 1987; Lipowski, 1985; Diesfeldt, 1984; Reifler, 1986; Lazarus, 1987; Group for the Advancement of Psychiatry, 1988; Claus, 1989). L'esperienza e i dati sulla presenza dell'ansia e della depressione tra questi pazienti sembrano indicare che gran parte dei malati di Alzheimer provano come stressante le deficienze del funzionamento. Attualmente non possiamo dire molto di più, eccetto che la quantità di stress vissuta dipende, tra l'altro, da fattori personali, da disturbi specifici e dal sostegno sociale e materiale che si riceve.

La ragione per cui questi pazienti (realmente) comunicano così poco riguardo ai problemi nei quali si dibattono, è probabilmente legata al fatto che essi sperimentano la loro situazione talmente pericolosa e irreversibile, che scelgono strategie di coping rivolte soprattutto a reprimere l'ansia e a venire il meno possibile a confronto con i propri deficit (vedi anche Wells, 1977). Lazarus e Folkman osservano che in questo tipo di situazioni di stress è privilegiato l'uso di strategie di tipo emotivo rispetto a quelle di tipo operativo, come, per esempio, informarsi o discutere sulle conseguenze della malattia. Questo è ancor più forte nei pazienti con la malattia di Alzheimer, in quanto sono danneggiate la valutazione cognitiva delle situazioni, come pure la capacità analitica, il processo più importante nel coping di tipo operatorio. In altre parole, quando un paziente demente viene messo di fronte a dei problemi non avrà soltanto difficoltà ad averne conoscenza, ma anche a darne una definizione e a trovarne una soluzione. Strategie di tipo operativo, che non siano basate sulla capacità analitica, ma che impieghino piuttosto la motivazione (tipo: limitazione delle aspirazioni), potranno dal paziente essere utilizzate con successo per un periodo più lungo. Così lo stress, causato dall'impossibilità di gestire da soli il governo della casa, diminuirà, se viene accettato un aiuto esterno. Anche il rinunciare agli hobby, che a causa dei disturbi cognitivi non sono più una distensione, ma una tensione, può aiutare a diminuire lo stress.

4.2. Strategie di coping utilizzate

Per capire il comportamento di questi pazienti e il possibile significato di certi sintomi comportamentali dovremo sapere di più riguardo le strategie di coping che i malati di Alzheimer utilizzano nell'adattarsi alle conseguenze della demenza. L'unico autore che tratta ampiamente il coping nella demenza senile è Verwoerdt (1976, 1981). Egli descrive da un punto di vista psicodinamico le diverse strategie di coping che sono utilizzate dai pazienti con una demenza senile; tra i fattori, che possono influenzare la scelta delle strategie, l'Autore nomina: i fattori personali (aspetti premorbosi della personalità; vedi anche Lazarus, 1980; Feil, 1985; Heck e Vingerhoets, 1989), lo stadio della demenza e il sostegno o reazione dell'ambiente (Cohen, 1989).
Esaminiamo, qui di seguito, le diverse strategie.

Strategie rivolte a padronanza e controllo
Queste strategie, secondo Verwoerdt, vengono utilizzate soprattutto nella fase iniziale della demenza. Esempi sono il comportamento ossessivo e compulsivo. Questi fenomeni dovrebbero essere interpretati come gli ultimi tentativi per tenere sotto controllo la situazione che origina ansia. Qualora queste strategie non raggiungano il risultato desiderato (controllo), ritorna lo stress. Si cade in un circolo vizioso, che alla fine porterà a reazioni depressive. Altre strategie, dentro questa categoria, sono la ipercompensazione e il comportamento controfobico. L'ipercompensazione, il mostrare cioè un comportamento che è l'opposto delle emozioni provate (per esempio, minimizzare le deficienze), è rivolta a superare i sentimenti negativi originati dai deficit. Il comportamento controfobico è un meccanismo utilizzato per controllare una minaccia che viene localizzata esternamente, che pertanto attraverso la proiezione puo essere riattivata.

Strategie per mantenere la minaccia fuori della coscienza
Esempi sono la rimozione, la negazione e la proiezione. Rimozione e negazione sono considerate come meccanismi mentali attraverso i quali un'osservazione, un fatto o un significato vengono tenuti fuori dalla coscienza o non vengono riconosciuti. Per esempio, facendo dell'altro, i pensieri vengono distolti dalla situazione problematica e diminuisce la tensione, che viene da questi provocata. Talvolta questa modalità assume dimensioni estreme fino all'iperattività. Queste strategie comparirebbero anch'esse soprattutto nei primi stadi della demenza. Una volta che, a causa dell'indebolimento fisico o del decadimento cognitivo, si è meno in grado di intraprendere altre attività, queste strategie diventano meno efficaci. Anche di notte il demente soffrirà maggiormente di pensieri ansiosi, a causa degli scarsi stimoli sociali e sensoriali, per cui la rimozione diventerà difficile. La negazione ha per lo più a che fare con la perdita stessa, con le sue conseguenze o con le reazioni emotive che conseguono alla perdita. La totale negazione della malattia, secondo Verwoerdt, è indicazione di psicopatologia grave (vedi anche Gainotti, 1975). Una moderata negazione delle emozioni e dei problemi legati alla malattia sembra accada spesso e sarebbe adattiva.
Nella proiezione viene attribuita ad altri la causa della propria situazione e delle emozioni indesiderate. Illusioni paranoidi, per esempio, sarebbero secondo Verwoerdt una forma di proiezione.

Strategie regressive
Le cosiddette strategie regressive, ovvero il ritirarsi in se stessi, la regressione e il darsi per vinti, verrebbero usate specialmente negli stadi più avanzati della demenza. Il ritirarsi, anche nel proprio mondo fantastico, può essere basato su sentimenti di inadeguatezza o di vergogna per le proprie deficienze. Questa strategia è solo parzialmente efficace, perché l'isolamento porta alla solitudine e pregiudica la possibilità di avvantaggiarsi del sostegno emotivo degli altri; aumentano, così, le possibilità di un'alterazione dell'equilibrio emotivo.
La regressione è un ritorno a schemi di comportamento primitivi ed è caratterizzata da riduzione di interessi, egocentrismo, eccessiva preoccupazione per il proprio corpo e aumento della dipendenza da altri. A causa delle forti limitazioni del proprio ambito di vita, la regressione sarebbe accompagnata - secondo Verwoerdt - da sentimenti d'incertezza e dall'aumento della necessità di 'reality-testing'. Il soggetto verificherà frequentemente la propria collocazione rispetto agli altri, questo atteggiamento potrebbe essere interpretato dall'ambiente circostante come un comportamento disturbante. Se il paziente è consapevole della sua situazione di dipendenza, potranno emergere sensi di colpa; il sospetto ne è una manifestazione (il paziente crede, per esempio, che il caregiver ne abbia abbastanza di lui). L'efficacia di questa strategia di coping dipende tra l'altro dal rapporto tra la regressione e l'entità dell'invalidità. L'eccessiva regressione può far si che gli altri considerino il paziente non cooperativo e questo mette in pericolo il necessario aiuto e il sostegno emotivo di cui il paziente necessita. Una grave regressione implica che anche un piccolo cambiamento della vita quotidiana possa causare uno scombussolamento. La percezione del trascorrere del tempo è talmente limitata (secondo Verwoerdt, simile alla sensazione del tempo nei bambini piccoli) che non possono aspettare e diventano impazienti. A seconda dei processi intrapsichici, più che un reality testing, l'ambiente verrebbe interpretato ora come ostile, ora come protettivo. Questa strategia può richiedere molto all'ambiente del paziente.
Il rinunciare viene considerato come una maniera estrema di resa e di capitolazione. E' una condizione di disperazione e impotenza, dove si è completamente persa la sensazione del controllo. Un chiaro segno della regressione in questa condizione è - secondo Verwoerdt - il rinunciare alla posizione eretta e il voler star solo sdraiati. In una tale condizione il sistema omeostatico nel suo complesso può crollare. Sembra come che non ci sia più energia per tenere funzionante il processo d'adattamento. Questo fa pensare che la rinuncia a volere vivere possa portare addirittura ad accelerare il momento della morte.

Verifichiamo adesso quali delle strategie di coping qui descritte possono essere interpretate come strategie per realizzare alcuni dei compiti adattivi nominati da Moos e Tsu. Successivamente cercheremo di spiegare i disturbi nel funzionamento psichico e del comportamento come manifestazioni di queste strategie di coping, in modo da avere (possibilmente) una certa comprensione di come i pazienti con la malattia d'Alzheimer affrontano le conseguenze della loro malattia, vale a dire l'invalidità, le emozioni, la mutata immagine di sé e l'incertezza del futuro.

4.3.  Affrontare l'invalidità

Da Verwoerdt vengono nominate diverse strategie con le quali si cerca di tenere sotto controllo le situazioni problematiche determinatesi a causa della demenza. Secondo noi il comportamento ossessivo e compulsivo può venire visto come coping di tipo operatorio con la propria invalidità attraverso un cambiamento motivazionale. Per esempio, concentrandosi completamente su alcuni dettagli delle faccende di casa uno cerca di mantenete l'equilibrio e la sensazione di controllo; anche la ripetizione di movimenti stereotipati e la coercizione a camminare possono venire spiegati, secondo questo punto di vista, come comportamento compulsivo finalizzato al controllo. La regressione negli stadi avanzati può anche essere interpretata come coping di tipo operatorio con la propria invalidità e i cambiamenti ambientali (es. istituzionalizzazione). Se si è in grado di partecipare solo limitatamente a diverse attività, l'abbassamento del livello di aspirazione e la limitazione del proprio ambito vitale possono contribuire a mantenere una sensazione di controllo e di equilibrio. Attraverso un atteggiamento di dipendenza si può dare un segnale di richiesta di aiuto e che si è (da un punto di vista psicologico) in grado di ricevere questo aiuto. La diminuzione d'interesse e iniziativa, la passività motoria e l'aumento dell'egocentrismo hanno probabilmente a che fare con questa strategia di coping. Certi comportamenti, che sono disturbanti per l'ambiente (per esempio inveire contro i caregivers o richiedere continuamente attenzione), sono probabilmente collegati con le sensazioni d'incertezza, che si accompagnano con la regressione e con l'esigenza, da questa aumentata, del reality testing (vedi Van der Zee, 1990). Anche la diminuzione delle abilità sociali e l'aumento dell'incontinenza (non dovuta a cause fisiche) vengono probabilmente indotte dal coping regressivo.

Mentre l'evitare situazioni di confronto può essere visto come coping di tipo operatorio con le proprie carenze, la negazione dei disturbi cognitivi e la confabulazione, che l'accompagnano, sono piuttosto forme di coping di tipo emotivo con la propria invalidità. Evitando il confronto con la propria invalidità o tenendo quest'ultima fuori dalla coscienza possono essere prevenute le sensazioni di inadeguatezza. Gainotti (1975), confrontando un gruppo di pazienti che confabulavano con un gruppo che non lo faceva, constatava che il confabulare era in relazione con la personalità premorbosa e con il modo di affrontare lo stress. Risultava che pazienti che erano stati scrupolosi e coscienziosi e che nel passato avevano dato grande importanza a indipendenza, prestigio e superiorità confabulassero di più. Egli considerava pertanto la confabulazione come un indice di riorganizzazione piuttosto che di disintegrazione.

Se, attraverso queste (o altre) strategie di coping, non viene raggiunto il risultato sperato si verrà confrontati, a causa del decadimento cognitivo, con l'incontrollabilità delle situazioni (vedi anche Diesfeldt, 1984; Salzman e Shader, 1979; Verwoerdt, 1981). Certe depressioni, nei pazienti con la malattia di Alzheimer, come pure l'ansia (reazioni catastrofiche) e un umore malinconico possono venire spiegati in questo modo. La constatazione di Lazarus et al. (1987) - secondo cui pazienti con la malattia d' Alzheimer depressi hanno un alto punteggio su quegli item della Hamilton Depression Rating Scale, che si riferiscono ai sentimenti interiori di depressione e di disperazione - sembra indicare che certe depressioni sono effettivamente reazioni emotive alla situazione problematica in cui ci si trova (vedi anche Lazarus, 1989). L'ipotesi che i sintomi depressivi nei pazienti con la malattia d'Alzheimer siano causati da cambiamenti strutturali nel cervello sembra non sostenibile. Tanto più che le depressioni risultano in gran parte trattabili con psicofarmaci, psicoterapia e strategie psicosociali e che diminuiscono con il progredire della demenza. Anche il sapere che in altre malattie gravi compaiono depressioni reattive in non irrilevante quantità (20-25%) (Reifler et al., 1982; Myers, 1985; Salzman e Shader, 1979) e che la combinazione di minaccia e incontrollabilità di solito produce frequenti sintomi depressivi (Thoits, 1983), fa pensare che qui si abbia a che fare sostanzialmente con reazioni emotive e con meccanismi fallimentari di coping.

4.4. Mantenere l'equilibrio emotivo

Possiamo considerare come strategie per mantenere l'equilibrio emotivo, le strategie che in primo luogo sono finalizzate ad affrontare l'incertezza e l'ansia causate dall'invalidità e dalla mutata situazione sociale. Verwoerdt cita a questo proposito: ipercompensazione, comportamento controfobico, rimozione, proiezione e ritirarsi in se stessi.

Agitazione, violenza e altri comportamenti aggressivi, come insulti, rifiutare con irritazione comportamenti richiesti e opposizione o, ancora, comportamenti ostili possono, secondo noi, essere riferiti, a seconda del paziente e della situazione, all'ipercompensazione o avere il significato di comportamenti controfobici. Il girovagare senza chiaro scopo (per quanto non abbia a che fare con un comportamento compulsivo, vedi anche Hiatt, 1987) potrebbe avere a che fare con la sensazione di ansia e di insufficienza che viene causata dalla demenza. I disturbi nel ciclo sonno-veglia sono forse la conseguenza dell'irrequietezza notturna con cui il paziente ha a che fare a causa del venire meno nelle ore notturne del meccanismo di rimozione. Il vagabondaggio notturno (e altri comportamenti disturbanti; vedi anche Koopman et al., 1988) può essere spiegato come una forma (benché disturbante per l'ambiente ) di coping con le sensazioni di ansia e di solitudine, che soprattutto di notte, a causa delle limitate stimolazioni sociali e sensoriali, si fanno vive (Lazarus, 1980; Verwoerdt, 1981). Anche il disturbo depressivo può essere interpretato, in alcuni casi, come un coping di tipo emotivo. Sintomi depressivi, quali l'appartarsi, l'isolamento e l'apatia (vedi anche Epstein, 1976; Hanley, 1984) non necessariamente sono di per sé reazioni a meccanismi di coping fallimentari, ma possono anche essere visti come strategie per limitare i sentimenti d'inadeguatezza e di vergogna che sorgono a causa di un funzionamento problematico. Le depressioni, invece, che si caratterizzano per il comportamento coercitivo, agitato o ostile, possono essere valutate come strategie proiettive, dove la causa della situazione e dei sentimenti indesiderati sono attribuiti ad altri. Così un soggetto è messo in grado di dar sfogo al suo dolore e alla sua rabbia dovuta al proprio peggioramento (e alle altre perdite). Non è del resto improbabile che l'attribuire agli altri una situazione indesiderabile e le reazioni veementi, che da qui ne conseguono, siano basate su un'errata valutazione (incomprensione) della situazione come conseguenza dei disturbi cognitivi (vedi anche Diesfeldt, 1984; Haugen, 1985). In tal caso la collera dovrà essere vista come una (inadeguata) forma di coping di tipo operatorio; non parliamo più quindi in questo caso di proiezione.
 

4.5. Mantenimento dell'immagine positiva di sé

Le strategie di coping, che sembrano poter offrire un contributo al mantenimento dell'immagine positiva di se stessi, sono: la negazione, la proiezione e il ritirarsi in un proprio mondo fantastico.
La negazione dei disturbi cognitivi è, come già detto, una forma di coping di tipo emotivo per mantenere fuori dalla coscienza la consapevolezza della propria invalidità e i sensi di vergogna e di inadeguatezza che l'accompagnano. Allo stesso tempo, ha la funzione di mantenere un'adeguata immagine di sé. Attraverso la negazione, quest'ultima rimarrebbe intatta. Il vivere in un (attivo) passato ("Devo andare in ufficio. Chissà cosa dirà il mio padrone, se non mi vede!") e il raccontare aneddoti, da cui emergono salute e una vita attiva ("Non sto mai fermo. Il dottore mi chiede dove trovo tutta quella energia."), sono altrettante indicazioni della negazione del senso di inadeguatezza, indispensabile per salvaguardare l'immagine positiva di sé. L'evitare situazioni in cui le proprie capacità vengano messe alla prova, potendo causare un'immagine negativa di sé, può essere considerato come un coping di tipo operatorio.

Certi deliri paranoidi sembrano andare assieme con la proiezione della causa (le proprie disabilità) degli stati d'ansia (vedi anche Van der Zee, 1990). Proiettando (esternalizzando) la minaccia, viene non soltanto ristabilita la sensazione di controllo, ma anche aumentata la possibilità di mantenere un'immagine positiva di sé ("Io sono a posto, l'agitazione che provo è causata da altri"). Anche il ritirarsi nel mondo della propria fantasia, può venire interpretato come una strategia per prevenire l'immagine negativa di sé: ci si isola dalla realtà per cui l'immagine familiare di sé, nonostante l'invalidità, può essere mantenuta. A causa dei disturbi nel reality-testing, inoltre, possono facilmente sorgere dei deliri, che vanno a supportare il mondo fantastico. Le allucinazioni potrebbero venire interpretate anche come un sintomo che accompagna il chiudersi alla realtà (vedi anche Wragg e Jeste, 1989).

Sintomi depressivi possono correlarsi con il non riuscire a mantenere intatta l'immagine di sé danneggiata dall'invalidità. In certi casi, grazie al comportamento depressivo, si riesce ad ottenere ancora l'attenzione che è necessaria per ristabilire la propria immagine. Questo dipende ovviamente anche dall'ambiente. Il comportamento depressivo funge allora da strategia di coping di tipo operatorio per ottenere quell'attenzione, che è necessaria per mantenere intatta l'immagine di sé. Per lo più il paziente raggiunge il risultato opposto a causa della strategia depressiva scelta: col richiudersi in se stesso o con l'agitazione vengono resi difficili i contatti sociali e con questo diminuisce il potenziale sostegno emotivo e di conseguenza l'immagine di sé rimane negativa. E' grande la possibilità di cadere in un circolo vizioso (Van Tilburg, 1985).

4.6. Prepararsi al futuro incerto

Verwoerdt non nomina nessuna strategia, eccetto il rinunciare, che sia rivolta a prepararsi a un futuro incerto (privo di prospettiva). I disturbi della vita istintuale, quali i disturbi del mangiare e i disturbi della motivazione, come pure la preferenza per l'allettamento, sarebbero un segnale della rinunzia alla volontà di vivere. Il rifugiarsi nella fantasia e il 'vivere nel passato', che spesso incontriamo in questi pazienti, starebbero ad indicare che una gran parte di loro evita il confronto con il presente e il futuro, perché questo, forse, è privo di prospettive e causa di ansia o perché l'autostima ne viene troppo danneggiata (Verwoerdt). Anche la negazione può indicare che non si è ancora in grado di guardare verso il futuro. E' da domandarsi quanto il negare il proprio deterioramento cognitivo, per esempio, sia in rapporto con i disturbi cognitivi (quali i disturbi della memoria e i disturbi del pensiero astratto) o non piuttosto con il minimizzare la paura del futuro, tenendolo fuori della coscienza.

4.7. Conclusioni

Da quanto sopra scritto risulta che, secondo il punto di vista dell'adattamento e del coping, i disturbi del funzionamento psichico e del comportamento possono essere interpretati, in parte come coping verso le conseguenze della malattia d'Alzheimer, in parte come sintomi che accompagnano le strategie scelte e in parte, infine, come manifestazioni del fallimento delle strategie di coping e dell'alterazione dell'equilibrio. Utilizzando la distinzione tra coping di tipo emotivo e di tipo operatorio colpisce che la maggior parte delle strategie (per lo meno quelle descritte da Verwoerdt) siano di tipo emotivo. La nostra ipotesi, precedentemente enunciata, che nell'affrontare le conseguenze della malattia si ricorra principalmente a strategie di tipo emotivo, viene qui nuovamente rafforzata. Dal momento che non avevamo mirato ad una completa classificazione del comportamento di coping (questo sarebbe anche impossibile, vista la limitata ricerca finora effettuata) dobbiamo però essere cauti nel trarre conclusioni.

Diversi disturbi del funzionamento psichico e del comportamento risultano essere correlati con il coping nei compiti adattivi 1, 4 e 5 (vedi tabella 1), nominati da Moos e Tsu. Come per altre malattie gravi, anche per questi pazienti sembra essere molto importante il riuscire a controllare le emozioni per ritrovare un equilibrio. Questo vale anche per quanto riguarda il poter accettare un aiuto nell'affrontare la propria invalidità e il riuscire ad utilizzare le strategie che salvaguardano l'autovalutazione e l'immagine di sé. La nostra conclusione provvisoria sostiene che una parte delle problematiche psicosociali dei pazienti malati d'Alzheimer sarebbe causata dai problemi che si hanno nell'eseguire questi compiti adattivi. Ci riferiamo a: strategie di coping inadeguate, interazioni problematiche con l'ambiente, alterazioni dell'equilibrio e sintomi che l'accompagnano.

Per quanto riguarda la preparazione all'incertezza del futuro (l'ultimo compito adattivo nominato da Moos e Tsu), dobbiamo concludere che sembrerebbe esserci una chiusura al futuro. L'unica strategia, che ha a che fare con la preparazione mentale all'avanzante disabilita, è il rinunciare. Una delle ragioni per non accettare il presente (la condizione d'invalidità) e il futuro è, probabilmente, che l'immagine di sé è talmente cambiata, che comporterà solo emozioni negative. Se un paziente conserva l'immagine di sé, di prima della malattia, si genera - secondo Van der Wulp (1986) - un altro conflitto: se la propria immagine, per qualsiasi ragione, non viene rivista, se, in altre parole, l'invalidità non è elaborata, può sorgere una discrepanza tra passato, presente e futuro, che viene vissuta come un conflitto con la continuità e un disturbo dell'identità. Van der Wulp constatava, nella sua ricerca sui malati fisici di una casa di riposo, che questo conflitto nel processo di ricerca di un nuovo equilibrio viene vicendevolmente affrontato e evitato. E' da chiedersi quanto questo sia vero anche nel caso dei pazienti con la malattia d'Alzheimer. Certi autori (Butler, 1974; Feil, 1985) considerano il rivivere il passato come un tentativo di rielaborazione della vita trascorsa, che ha come fine l'integrità e la preparazione alla morte. Secondo queste deduzioni non è impensabile che il ritirarsi nel passato, il non riconoscere il presente e il chiudersi al futuro siano manifestazioni dell'elaborazione (problematica) della propria invalidità e dell'incapacità di prepararsi al futuro. Visto che in base alla mia esperienza personale, la maggior parte dei pazienti affetti dalla malattia d'Alzheimer non si rifugiano (frequentemente) nel passato e non lasciano indiscusso il presente e il futuro; ritengo, pertanto, improbabile che le manifestazioni del comportamento siano semplicemente la conseguenza del deterioramento cognitivo. Sembra più logico interpretare questo comportamento, come un modo per affrontare l'incertezza del futuro e come l'espressione dei problemi che in questo processo si incontrano. In breve, anche l'ultimo compito adattivo sembra applicabile ai pazienti con la malattia d'Alzheimer.
 

 5. Affrontare le conseguenze dell'istituzionalizzazione

Quando gli anziani con turbe cognitive vengono ricoverati in una casa di riposo la loro aspettativa di vita sembra diminuire drasticamente; oltre ad un'aumentata mortalità si riscontra una più elevata morbosità rispetto ai pazienti dementi non istituzionalizzati. Una possibile spiegazione di questo fenomeno è che (oltre alla gravità dell'invalidità) le cambiate condizioni di vita provochino un aumento di stress e non si sia in grado, a causa della demenza, di affrontarlo in modo adeguato. La possibilità di una crisi grave è, pertanto, maggiore. Per cambiate condizioni di vita intendiamo l'ambiente materiale, il personale, la possibilità di mantenere i ruoli sociali e di curare e sviluppare i contatti con la famiglia, gli amici e gli altri ricoverati.

5.1.  Stress causato dall'istituzionalizzazione

In letteratura vengono nominati diversi fattori che possono far sì che un ricovero in casa di riposo possa venire vissuto come stressante. Secondo Zarit (1988), la causa dello stress negli anziani ricoverati va ricercata soprattutto nella combinazione tra fattori legati alla malattia e fattori ambientali. A causa del deterioramento cognitivo si incontrano, tra l'altro, problemi ad acquisire nuove informazioni e di conseguenza diminuisce la capacità d'adattamento, proprio quando il ricovero in un ambiente completamente nuovo richiede al paziente un'alta capacità di adattamento. La possibilità di crisi, pertanto, aumenta (vedi anche Lawton, 1981).
Secondo le teorie cognitive, la combinazione tra una situazione indesiderata e la sua non influenzabilità provoca stress (Toits, 1983; Lewitt et al., 1987); in altre parole, si cerca la causa dello stress nell'interazione tra fattori personali (psicologici) e fattori ambientali. I pazienti con la malattia di Alzheimer vengono ricoverati in una casa di riposo quasi sempre per necessità, poiché non sono più in grado di vivere autonomamente e il loro ambiente familiare non è in grado di offrire la sorveglianza, l'assistenza e la cura che sono necessarie. Tutto ciò comporta che il ricovero sia spesso definitivo. Questo 'trasferimento forzato', con l'abbandono pressoché di tutti i propri beni personali, verrà vissuto come un evento stressante (Duijnstee, 1983; Lindzey e Aronson, 1985; Hartwigsen, 1987). Una volta ricoverato, il paziente si trova a che fare con tutto un altro ambiente rispetto a cui era abituato: spazio e privacy sono fortemente limitati, si dorme generalmente in una camera a più letti e bisognerà adattarsi alle regole dell'istituto, quali l'orario per alzarsi, per mangiare e per fare la doccia. In breve il venire privati del controllo sull'ambiente fisico e sociale richiede molto alle capacità d'adattamento. Tutto quello con cui un soggetto, una volta, si identificava è sparito (vedi anche Dooghe et al., 1980; Reedijk, 1984; Bloemendal et al., 1985; Van der Zee, 1990) e, per le diverse attività, quali uscire,  mangiare, bere e le attività ricreative, dipende dal personale di sorveglianza e di cura. Una parte degli anziani vivrà questi cambiamenti come estremamente indesiderabili (vedi anche Havens, 1968; Van der Wulp, 1986). Questo vale anche per il vivere in un reparto chiuso e per il trascorrere la giornata tra un gruppo di 15 o 20 persone; dal momento che è molto difficile poter modificare tutto questo, c'è una grande possibilità di stress soprattutto nel periodo iniziale del ricovero (Lindzey e Aronson, 1985; Van der Wulp, 1986).
Secondo alcuni autori, il ricovero può assumere il significato di un cambiamento psicologico meno radicale, se il comportamento, che viene ricompensato nel contesto istituzionale, corrisponde a certi tratti di personalità. Da alcune ricerche è risultato che lo stress che si prova e la possibilità di un adattamento riuscito dipendono dalla concordanza tra personalità (esigenze) e caratteristiche dell'ambiente (Lieberman, 1969; Turner et al., 1972; Kahana et al., 1980; Lawton, 1981). Questi ricercatori hanno constatato, inoltre, che dipende dalle richieste dell'ambiente quali tratti debbano essere considerati come adattivi dopo l'istituzionalizzazione. La mia esperienza è che per quanto riguarda questi aspetti ci possono essere grandi differenze tra una casa di riposo e un'altra, addirittura anche tra gli stessi reparti dentro la casa. In generale, persone, che vivono come piacevole (sicuro) un ambiente sorvegliato, si sentono più sicure in un contesto istituzionale, di persone che invece non amano essere controllate (Kahana et al., 1980).
Diversi ricercatori hanno dimostrato, infine, un rapporto tra l'impoverimento della rete dei contatti sociali e il benessere generale degli anziani (ricoverati) (vedi tra l'altro Gallagher et al., 1981-1982; Hansson, 1986). E' soprattutto l'esperienza soggettiva di essere integrato socialmente, che risulta determinante per un sentimento generale di soddisfazione della propria vita (Smith e Brand, 1975). Non la quantità, ma la qualità delle relazioni sociali sembra, quindi, esercitare un'influenza importante (Steinkamp e Kelly, 1987). Questa conclusione la vediamo confermata in una ricerca di Levitt et al. (1987) tra anziani che, a causa del rinnovamento del quartiere, erano stati costretti a traslocare. L'avere almeno una buona relazione sembrava decisivo per trovare un nuovo equilibrio (affettivo). Gli anziani senza una relazione forte avevano chiaramente più problemi affettivi. Anche Dooghe et al. (1980) constatavano, nella loro ricerca tra i ricoverati di una casa di riposo, che la solitudine (la mancanza di soddisfacenti relazioni sociali) era il fattore principale che stava alla base dei problemi di adattamento dopo il ricovero (vedi anche Dominick et al. 1968; Haugen, 1985). Che l'essere isolati socialmente in parte sia dovuto alla diminuita iniziativa sociale degli anziani ricoverati risulta anche da un esperimento condotto da Hendy (1987) in una casa di riposo con ospiti esterni sconosciuti e con animali (cani). Sembra che i ricoverati della casa di riposo ridano molto di più, siano più vigili e girovaghino meno quando hanno ospiti e/o quando cani scodinzolano per il soggiorno, rispetto a quando si ritrovano soli tra i ricoverati. Anche altre osservazioni su pazienti dementi hanno dimostrato che pazienti, rinchiusi in se stessi e passivi, in circostanze dove veniva loro offerto maggior contatto sociale, per esempio durante una terapia di gruppo, sono più facili da avvicinare che non durante le normali  circostanze quotidiane nel reparto (Haugen, 1985). Quanto questa diminuita iniziativa sia determinata dalla demenza o dalla struttura sociale deprivante (nel caso più sfavorevole i ricoverati hanno un solo ruolo, quello di paziente; Coons, 1987) delle case di riposo, non si può ancora dire sulla base degli attuali dati delle ricerche.

5.2.  Strategie di coping utilizzate dopo il ricovero

Non conosciamo alcuna ricerca dove si sia analizzato specificamente come i pazienti affetti dalla malattia d'Alzheimer affrontino le conseguenze della loro istituzionalizzazione; mentre negli ultimi quindici anni sono apparse ben diverse pubblicazioni che trattano il modo con cui gli anziani, in generale, reagiscono al ricovero in casa di riposo. Da queste emergono delle tendenze di comportamento generale. Alcune verranno discusse qui di seguito.
Bloemendal et al. (1985) individuano cinque reazioni tra gli anziani ricoverati in casa di riposo di tipo somatico o psicogeriatrico, vale a dire: negazione, attesa, orientamento, ribellione e sollievo. Lindzey e Aronson (vedi anche Turner et al. 1972) descrivono come le persone reagiscono con 'good patient behaviour' o 'bad patient behaviour', dopo il loro 'ricovero forzato' in un contesto istituzionale, in cui il controllo sull'ambiente è molto ridotto. La prima strategia, che generalmente viene ricompensata dall'ambiente, sarebbe associata con la dipendenza (appresa) e la depressione (vedi Nelson e Farberow, 1980), la seconda con l'irascibilità e il comportamento reattivo, rivolto al controllo della situazione (vedi Coons, 1987). Ambedue le forme di coping risultano poter causare disturbi fisici oltre che disturbi del funzionamento affettivo e del comportamento e non sono, alla fin fine, adeguate per ritrovare l'equilibrio. Da esperimenti terapeutici con pazienti delle case di riposo è emerso che il sostegno, durante il processo di adattamento dopo il ricovero, basato sull'apprendimento di abilità di coping che aumentano il senso di controllo, può portare a una diminuzione della sensazione di stress, ad aumento del comportamento operatorio, a maggior interesse per l'ambiente e ad una maggiore attività di tipo sociale (vedi Rodin e Langer, 1977; Lindzey e Aronson, 1985).
Quando un individuo rimane isolato dalla società per tanto tempo, quando sperimenta con continuità una sensazione di perdita di controllo e quando impersona per lungo tempo il ruolo di 'paziente bravo' è in quel momento che affiora il pericolo di sintomi di istituzionalizzazione. Questi sintomi comportamentali sono la manifestazione della totale dipendenza dall'istituto e dal personale. Poiché questi modi di comportarsi vengono benissimo descritti altrove (vedi Barns, 1973; Rondagh, 1973; Bloemendaal et al.,1985), ci limitiamo qui a nominare solo alcuni tratti che si presentano spesso, quali: diminuzione dell'interesse per persone e avvenimenti circostanti, perdita del decoro personale, passività, comportamento dipendente e sottomesso, diminuzione dell'entusiasmo e dell'iniziativa, rifiuto dei mutamenti e appiattimento delle reazioni emotive, come piangere, ridere e esprimere affetto e collera. In generale, si presume che la partecipazione alle attività della casa di riposo e un utile utilizzo del tempo libero, come, ad esempio, frequentare un club, partecipare alle attività domestiche e ricreative, aumentino la possibilità di un buon inserimento (vedi Coons, 1987; Hiatt, 1987), anche grazie al fatto che favoriscono la sensazione soggettiva di integrazione sociale. Da queste attività verrebbe anche ristabilita o mantenuta la sensazione di controllo in modo da prevenire una inutile regressione (Haugen, 1985). Se una persona è già gravemente istituzionalizzata, anche un piccolo cambiamento di attività (per esempio, una passeggiata) può qualche volta venire considerato stressante e condurre al rafforzamento del coping regressivo (regressione, richiudersi in se stessi; vedi anche 4.). Questo si può esprimere nel rifiuto di partecipare ad attività, nel diventare aggressivo o nell'appartarsi dall'ambiente circostante (per esempio chiudendo gli occhi) (Bloemendal et al., 1985). Diversi studi, condotti su altri gruppi (anche anziani non dementi), sembrano peraltro indicare che vivere in una casa di riposo con un'alta densità sociale di solito comporta una diminuzione dell'iniziativa e un aumento della dipendenza (Lindzey e Aronson, 1985; vedi anche Hiatt, 1987). In altre parole, il solo cambiamento della dimensione del gruppo in cui un individuo vive quotidianamente può avere un'influenza sul grado di coping regressivo.
Moos e Tsu nominano tre compiti adattivi che hanno a che fare con l'adeguamento all'istituzionalizzazione (vedi tabella 1: compiti 2, 3 e 6).

5.3.  Affrontare l'ambiente della casa di riposo e gli interventi riabilitativi

Abbiamo sottolineato sopra come le condizioni di vita del paziente demente cambino radicalmente con il 'trasferimento forzato' in casa di riposo. Oltre che con l'ambiente nuovo il paziente ha a che fare anche con diverse forme d'interventi riabilitativi, che sono offerti nella casa di riposo, come trattamenti medici, fisioterapia, ergoterapia, terapia psicomotoria, logopedia e terapia occupazionale. L'affrontare questi aspetti dell'istituzionalizzazione viene considerato da Moos e Tsu come un importante compito adattivo. Dal momento che le manifestazioni comportamentali dopo il ricovero, descritte da Bloemendal et al., sono reazioni all'esperienza stressante del 'trasferimento forzato', le consideriamo come forme di coping con l'ambiente della casa di riposo. Le prenderemo successivamente in considerazione.
Il negare e il comportamento indifferente sembrano riportarci alle strategie di coping 'negazione' e 'rimozione' di tipo emotivo. Il fatto che una parte dei pazienti con la malattia d'Alzheimer, diverso tempo dopo il ricovero, continui a negare di vivere in una casa di riposo, convinta di ritornare presto a casa e che si rifugi col pensiero nel passato, quando era attiva (figli, lavoro ecc.), potrebbe avere a che fare con la negazione del trasferimento indesiderato e non invece essere attribuito esclusivamente ai disturbi della memoria di cui questi pazienti soffrono. Anche le 'confabulazioni', che secondo la mia esperienza regolarmente hanno a che fare con la propria situazione abitativa, e il vagabondare per i reparti alla ricerca del proprio ambiente abitativo familiare, potrebbero avere a che fare con la negazione. Che questa strategia di coping non sia sempre adeguata risulterebbe dall'agitazione che ne può conseguire a cadenze fisse. Così può accadere che una paziente demente completamente sconvolta e confusa cammini per il reparto alla ricerca di qualcuno che la possa aiutare: - Lei deve ancora fare le spese e cucinare e comunque essere a casa prima che i figli  ritornino da scuola. E cosa dirà sua madre, che la sta aspettando! - Le reazioni, qualora non si presti attenzione ai desideri e agli argomenti, sono: impotenza, collera e dispiacere.
Reagire indifferenti, in particolare con i familiari e con il personale di assistenza, può alludere alla rimozione di emozioni negative nei confronti delle cambiate condizioni di vita attraverso la loro riinterpretazione. Ne diamo un esempio: il progressivo bisogno d'aiuto aveva originato in una signora anziana, che abitava da sola a casa, molta ansia e insicurezza. In casa di riposo si sente al sicuro. I sentimenti negativi legati alla perdita dell'indipendenza vengono (temporaneamente) messi in secondo piano in quanto tutta l'attenzione è concentrata sui vantaggi del ricovero, cioè: diminuzione dell'ansia e dell'insicurezza. Il comportamento euforico, un disturbo dell'umore che si può verificare nel malato d'Alzheimer, potrebbe avere a che fare con questa strategia di coping. Questo non vuol dire, però, che il processo d'adattamento in seguito proceda perfettamente. Anche l'anziano, che in un primo momento è soddisfatto, dovrà in seguito adattarsi ai molteplici cambiamenti che la vita istituzionale comporta. Il "comportamento di attesa", come pure il "comportamento orientativo", possono venire considerati come coping di tipo operatorio, finalizzato ad avere sotto controllo il nuovo ambiente abitativo. La passività motoria e la diminuita iniziativa potrebbero essere interpretate, in alcuni casi, come un comportamento d'attesa. L'attiva partecipazione alle attività organizzate nella casa di riposo è un esempio di comportamento orientativo. Ugualmente, non è escluso che disturbi del comportamento, quali l'agitazione motoria (vagabondaggio) e i comportamenti disturbanti (verifica dei limiti consentiti), debbano essere anche interpretati come forme, magari meno adeguate, di comportamento orientativo. Reazioni acute d'ansia o attacchi di panico sono probabilmente da spiegare come il fallimento di queste strategie di controllo del nuovo ambiente, a causa dei disturbi cognitivi.
Il comportamento ribelle può essere considerato come una forma di coping di tipo emotivo verso i sentimenti di rivolta (e di disorientamento) che il ricovero e le cambiate condizioni di vita comportano. L'agitazione e l'aggressività (esplosioni verbali, aumentata irritabilità) sono forme potenziali di questo coping. Questa ipotesi viene sostenuta dall'osservazione che il comportamento ribelle nei pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer diminuisce se l'ambiente esterno viene maggiormente adattato alle capacità cognitive dei pazienti (ambiente protettivo) e se viene prestata maggiore attenzione a creare un ambiente di tipo casalingo (Coons, 1987). Se non c'è compensazione da parte dell'ambiente, allora è possibile che l'equilibrio emotivo venga turbato e che insorga la depressione. La frequente comparsa di una sintomatologia depressiva tra i pazienti con la malattia d'Alzheimer potrebbe in parte essere spiegata da questo.
Poiché di solito i malati d'Alzheimer sono ricoverati per un lungo periodo, c'è una forte probabilità che, col passare del tempo, insorga il fenomeno dell'istituzionalizzazione. In questo caso si tratta di rassegnarsi alla dipendenza dall'istituto, dal personale e dalle mutate situazioni sociali; possiamo parlare allora di una forma di coping di tipo emotivo con la vita dell'istituto attraverso la regressione. Tratti del comportamento che indicano un coping regressivo con il mutato ambiente abitativo e le cure sono per esempio: diminuzione dell'interesse per l'ambiente (che si manifesta attraverso l'incontinenza e la perdita del decoro personale), passività motoria, diminuzione dell'iniziativa, richiudersi in se stessi e rifiutare le cure. Da una ricerca in diversi istituti americani di assistenza psichiatrica (Lawton, 1981) è emerso che i pazienti dementi, rispetto ad altri pazienti, di solito partecipano meno alle terapie e alle attività ricreative fuori del reparto. Questo starebbe ad indicare che i pazienti dementi si rassegnano prima ad un mondo ristretto. Una conseguenza di questo coping regressivo è che, per esempio, si attengono compulsivamente alle regole del reparto (anche nei confronti degli altri pazienti!; Bloemendal et al., 1985) e che ogni piccolo cambiamento può scombussolarli.

5.4.  Sviluppare un adeguato rapporto con il personale

Quando i pazienti affetti dalla malattia d'Alzheimer vivono in una casa di riposo sono dipendenti in gran parte dal personale di sorveglianza, di assistenza e di cura. Per (poter) ricevere l'aiuto e il sostegno necessari è quindi importante che essi intrattengano con loro rapporti adeguati. Uno dei problemi in cui generalmente s'imbattono i pazienti ricoverati è il quotidiano turnarsi del personale (Moos e Tsu, 1977). Questo rende difficile al paziente poter sviluppare un rapporto stabile e di fiducia con chi lo assiste. Si matureranno, allora, strategie di comportamento finalizzate ad assicurarsi l'aiuto e il sostegno di cui si ha bisogno.
Dal momento che l'avvicendamento del personale si verifica anche nelle case di riposo, riteniamo che anche i pazienti con la malattia d'Alzheimer, dopo il loro ricovero, risentano di questo problema, tanto più che alcuni di loro, a causa dei disturbi cognitivi, hanno difficoltà a ricordare i volti. Il cosiddetto 'good patient behaviour' può pertanto fungere da coping con 'l'assistenza anonima'. La passività motoria e la diminuzione dell'iniziativa, che regolarmente si presentano nei pazienti con la malattia di Alzheimer, hanno eventualmente a che fare con questa strategia di coping: se uno rimane inattivo le possibilità di venir osteggiati dal personale diminuiscono. Vista l'associazione tra 'good patient behaviour' e depressione, certe depressioni che colpiscono i pazienti con la malattia d'Alzheimer possono venire spiegate come una reazione ai problemi emotivi che uno incontra in un simile rapporto con il personale.
Abbiamo visto sopra che i fenomeni di istituzionalizzazione possono prodursi quando il paziente sostiene per lungo tempo il ruolo del paziente bravo e si rassegna ad esso. Esempi di questo tipo nel rapporto col personale sono: comportamento dipendente e sottomesso, diminuzione dell'entusiasmo, rifiuto dei cambiamenti e appiattimento delle emozioni. Inoltre, come conseguenza della regressione e della limitazione del proprio mondo che accompagna le modalità regressive, può insorgere precocemente la sensazione di essere minacciato. Le reazioni di panico possono essere una manifestazione di questo stato d'animo. Di fatto, abbiamo qui a che fare con strategie di coping regressive, favorite dall'organizzazione istituzionale. Il 'good patient behaviour' può, inoltre, venire considerato come un coping di tipo operativo in rapporto all'aiuto di cui un paziente ha bisogno, mentre i sintomi di istituzionalizzazione sarebbero manifestazioni di coping di tipo emotivo con l'impotenza, che si prova nel rapporto con il personale e l'organizzazione istituzionale. Questo ci fa pensare che il comportamento regressivo, descritto in 4.3. riguardo al coping con la propria invalidità (come pure i sintomi, come il comportamento disturbante e l'incontinenza), può venire ancor più accentuato da una relazione instabile o inadeguata con gli addetti all'assistenza. Questa può a sua volta influenzare negativamente la relazione stessa. Precedentemente abbiamo visto che un'eccessiva regressione viene giudicata dagli addetti all'assistenza come un atteggiamento non cooperativo, per cui anche l'aiuto e il sostegno emotivo desiderato vengono mesi in pericolo.
L'agitazione è una caratteristica del comportamento molto frequente tra i pazienti con la malattia d'Alzheimer e durante il processo demenziale presenta un costante aumento. Quando l'agitazione è rivolta contro il personale, abbiamo forse in parte a che fare con una proiezione (illusioni paranoidi); in parte può anche venire interpretato come 'bad patient behaviour'. Questo comportamento va considerato come una protesta contro i rapporti esistenti con il personale (ruolo di paziente, dipendenza, anonimato) e va interpretato quindi come coping di tipo operativo. Anche altre forme di comportamento aggressivo e non cooperativo (per esempio, rifiutare le medicine o altri trattamenti medici) possono basarsi sul coping di tipo operativo con l'insoddisfazione legata alla relazione con gli addetti all'assistenza. Sarà chiaro che questa strategia non è sempre adeguata, dal momento che c'è bisogno di assistenza, di cure e/o di sostegno emotivo.

5.5.  Sviluppare e mantenere le relazioni sociali

Quando una persona si ammala gravemente c'è la possibilità che, a causa della sua nuova identità di paziente o invalido, si senta socialmente isolato. Questa sensazione d'alienazione, nonché la separazione fisica dovuta all'istituzionalizzazione, spesso disturbano le relazioni sociali esistenti con la famiglia e gli amici. E' estremamente difficile in questo caso mantenere aperti i canali di comunicazione.
La difficoltà che i pazienti con la malattia d'Alzheimer incontrano nel mantenere i contatti con i familiari e i conoscenti, una volta che sono ricoverati in casa di riposo, ha a che fare, oltre che con i sopra citati fattori, anche con la demenza (vedi anche Mace e Rabins, 1987). Il paziente può, per esempio, dimenticare quanto spesso i familiari lo visitino e quindi accusarli di trascurarlo. I familiari, a loro volta, possono dibattersi in sensi di colpa a causa del ricovero; per cui la visita al paziente demente diventa per loro particolarmente pesante. In generale, avviene che l'iniziativa di mantenere i contatti, certamente man mano che la demenza si va aggravando, dovrà venire dalla famiglia, dagli amici e/o dai conoscenti. Nella maggior parte dei casi non si sarà in grado di garantirla. Il ricovero significa, quindi, per il paziente affetto dalla malattia d'Alzheimer un cambiamento e in gran parte anche una limitazione dei rapporti sociali. In 5.1. abbiamo visto che l'avere una buona relazione può essere determinante per trovare un equilibrio. Quando un paziente, in conseguenza di un adattamento insoddisfacente alla nuova situazione, cade nell'isolamento sociale, ciò può avere un'influenza negativa sul funzionamento psichico e sul comportamento (vedi Niemeijer, 1970; Cahn, 1970, 1979; Stork-Groenveld e Meerloo, 1974).
Manifestazioni comportamentali, che potrebbero indicare che i malati di Alzheimer, dopo il ricovero in casa di riposo, cercano di sviluppare nuovi rapporti sociali, sono ad esempio la partecipazione attiva ad attività sociali dentro e fuori la casa di riposo e il partecipare attivamente a diversi ruoli sociali, quali compagno di conversazione, aiuto in cucina, nell'apparecchiare la tavola e nel versare da bere, amico/a, commensale, compagno di gioco ecc. (Hanson, 1987). In realtà, però, constatiamo molta passività sociale tra questi pazienti. Nel paragrafo precedente abbiamo già menzionato che i pazienti dementi di solito partecipano meno ad attività ricreative fuori del reparto, rispetto ad altri pazienti geriatrici e psichiatrici ricoverati. Dalla stessa ricerca (Lawton, 1981) emerge che pazienti dementi (come pure altri pazienti geriatrici) presentano molto spesso un comportamento socialmente isolato e passivo (soprattutto dormire, star seduti e avere scarsi contatti sociali). Hiatt (1987) riferisce nel suo articolo che nella casa di riposo americana media l'89% degli anziani si muovono solo per il 4% delle ore in cui sono svegli!
Tenendo conto delle strategie di coping e delle tendenze del comportamento precedentemente descritte è possibile spiegare questa passività sociale in parte come coping regressivo (ritirarsi in se stessi) con l'ambiente socialmente deprivante (regole dell'istituto, ruolo di pazienti, alta concentrazione sociale); in parte ha anche a che fare con la demenza stessa e con il coping regressivo con la propria invalidità. In quanto tale, l'isolamento sociale può essere una conseguenza della regressione. Strategie regressive e svolgere attività sociali sono, in fin dei conti, attività opposte. Questa opinione viene sostenuta dagli effetti positivi che, anche in pazienti dementi gravi, erano stati osservati in ambienti abitativi adattati, più casalinghi e stimolanti (Peteres e Spätjens, 1983; Haugen, 1985; Coons, 1987; Peters e Duine, 1987). I sintomi regressivi sembravano diminuire e si era osservato un aumento del coinvolgimento con l'ambiente. Erano stati anche constatati miglioramenti nell'orientamento temporale, nell'incontinenza, nell'aspetto esteriore, nel comportamento disturbante, nell'umore e nelle abilità verbali. Dobbiamo quindi stare attenti perché questi sintomi comportamentali possono essere causati non solo dalla demenza, ma anche, in parte, dall'ambiente deprivante. Questo vale anche per i cambiamenti di personalità che, forse, in parte sono anche la conseguenza del coping con la vita istituzionale (Haugen, 1985). Poiché non sappiamo se una limitata attività sociale dei pazienti con la malattia d'Alzheimer porti a un sentimento soggettivo di 'non essere socialmente integrato' (gli studi citati su 5.1. non riguardavano specificatamente pazienti dementi), non sappiamo quanto questa influenzi il funzionamento affettivo. E' probabile che sentimenti depressivi e aggressività abbiano a che fare con il fatto che un individuo, qualunque ne sia la ragione, non sia in grado di allacciare una buona relazione sociale in casa di riposo.

5.6.  Conclusioni

Sulla base delle precedenti considerazioni possiamo concludere che i compiti adattivi, nominati da Moos e Tsu in riferimento all'istituzionalizzazione di persone gravemente malate, sembrano essere applicabili anche ai pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer. Se cerchiamo di interpretare i disturbi del funzionamento psichico e  comportamentale dei pazienti con la malattia di Alzheimer, seguendo le strategie di coping descritte in 4.2. e in 5.2., è chiaro che una parte dei disturbi può essere interpretata come coping con l'istituzionalizzazione. Sembra che, in questo caso, si utilizzino soprattutto le strategie di coping regressive. Questo riguarda sia l'adattamento al nuovo ambiente e alle cure, che lo sviluppare rapporti adeguati con il personale e lo sviluppare e mantenere le relazioni sociali. Determinati disturbi comportamentali sembrano avere a che fare con la protesta dei pazienti contro l'aumentata dipendenza, che il ricovero in casa di riposo comporta. Naturalmente dobbiamo anche qui, vista la limitata ricerca finora condotta, essere cauti nel trarre conclusioni. Anche sulla base di dati ricavati dalla letteratura, riguardanti l'adattamento delle persone in un contesto istituzionale, ritengo che le strategie regressive di coping debbano essere interpretate in parte come di tipo emotivo e in parte come di tipo operativo. Poiché in tutti i casi la regressione viene determinata dalle cambiate condizioni di vita, è probabile che il ricovero in una casa di riposo, per pazienti che utilizzano strategie regressive di coping, abbia un effetto catalizzante sulla regressione, che si verifica come conseguenza del processo di demenza. Che queste strategie regressive di coping non siano sempre adeguate per il mantenimento dell'equilibrio emotivo, emerge tra l'altro dall'apparire, in pazienti regrediti, di reazioni di panico, depressione, ansia e della sensazione di sentirsi minacciati. Inoltre, la regressione si accompagna spesso con altri sintomi (per esempio isolamento sociale, comportamento aggressivo), che possono essere essi stessi causa di disturbi dell'equilibrio (vedi Jasper et al., 1989).
 

 6. Discussione

L'ipotesi di lavoro sull'adattamento alle conseguenze della malattia d'Alzheimer e all'istituzionalizzazione, presentata in questo capitolo, prende origine da alcuni presupposti di base. Li riassumiamo qui brevemente:
- le persone cercano sempre di trovare un certo equilibrio. Il movente, per tenere in moto questo processo dinamico d'adattamento, può essere caratterizzato come una tendenza generale alla conservazione di sé;
- lo stress è una condizione che insorge, quando le richieste (interne ed esterne) che vengono poste ad una persona sono da questa, a seconda dei mezzi personali, materiali e sociali di cui essa dispone, giudicate - consapevolmente o inconsapevolmente - come oppressive o soverchianti le capacità di adattamento;
- il coping è un processo dinamico di tentativi cognitivi e comportamentali, messi in atto per fronteggiare queste richieste (opprimenti);
- i disturbi dell'equilibrio insorgono, quando le capacità di adattamento sono (temporaneamente) oltrepassate. In altre parole, quando non si è in grado, attraverso il coping, di mantenere l'equilibrio;
- a causa del grave deterioramento delle risorse personali (in seguito alla demenza) e della limitazione delle risorse materiali e sociali (in seguito alla istituzionalizzazione) si presume che i pazienti con la malattia di Alzheimer vivranno periodi di stress, che cercheranno di superare utilizzando strategie di coping, come pure vivranno periodi di disturbi dell'equilibrio.
Per avere un'idea degli aspetti psicosociali, che svolgono un ruolo nel determinare lo stress e i disturbi dell'equilibrio nei pazienti con la malattia di Alzheimer, abbiamo verificato se alcuni compiti adattivi, che vengono ritenuti importanti in malattie e crisi gravi, possano valere anche per pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer. Questo ha portato a sette considerazioni, nelle quali, sulla base di quanto descritto in letteratura (a proposito delle strategie di coping nella demenza, delle manifestazioni comportamentali presenti nell'istituzionalizzazione e dei disturbi del funzionamento psichico e del comportamento nel malato di Alzheimer), abbiamo identificato alcune strategie di coping che sembra siano usate dai pazienti con la malattia di Alzheimer nell'adempiere i compiti adattivi.
Sulla base delle strategie di coping e dei disturbi del comportamento identificati abbiamo concluso con una certa riserva (sulla base delle conoscenze attuali possono essere espressi solo concetti ipotetici) che ciascuno dei compiti adattivi può provocare stress e disturbi dell'equilibrio nei pazienti con la malattia di Alzheimer. Per il momento presumiamo che la problematica psicosociale dei malati d'Alzheimer, ricoverati in casa di riposo, abbia a che fare con i compiti adattivi: affrontare la propria invalidità, mantenere l'equilibrio emotivo e l'immagine positiva di sé, prepararsi ad un futuro incerto, affrontare l'ambiente della casa di riposo e gli interventi riabilitativi, sviluppare un adeguato rapporto con il personale e sviluppare e mantenere le relazioni sociali. Ovviamente dipenderà dalla valutazione soggettiva dei pazienti e dalle loro capacità di adattamento quali compiti adattivi provocheranno, di fatto, nel singolo paziente un problema psicosociale. Nelle considerazioni sopra esposte abbiamo segnalato che certe strategie di coping sembrano meno efficaci di altre, per il fatto che portano ad un equilibrio precario o sono accompagnate da sintomi che, a loro volta, possono essere causa d'alterazione dell'equilibrio. L'idea, che il comportamento di coping venga influenzato dall'interazione e transazione con l'ambiente, tra l'altro anche attraverso il meccanismo della rivalutazione, suggerisce di tentare nella terapia di indirizzare o modificare le strategie di coping (per esempio, premiando il comportamento desiderato). Una diminuzione dei sintomi accompagnanti potrebbe essere considerata come segno di un coping più efficace (Moore e Christenson, 1988).
Il modello "coping adattivo" (vedi figura 1) ci ha offerto una descrizione attraverso la quale diversi disturbi del funzionamento psichico e del comportamento nei pazienti con la malattia di Alzheimer, finora non spiegati, possono venire interpretati come comportamento di coping, come sintomi accompagnanti o come manifestazioni di disturbo dell'equilibrio. La conseguenza di questa ipotesi di lavoro è che non consideriamo i disturbi citati soltanto come manifestazioni della degenerazione cerebrale, ma anche come sintomi della problematica psicosociale. Introduciamo in questo modo un riferimento (ipotetico) che offre aperture all'assistenza psicosociale.
 
 

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