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PSYCHOMEDIA
GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Infanzia



Il rapporto madre-bambino, base del processo di conoscenza

di Donatella Ghisu


Fin dalla nascita ogni individuo è coinvolto in una relazione che rimanda emozioni. L’evoluzione affettiva e cognitiva è legata ai rapporti con le persone incontrate nel corso della vita. all’inizio della sua storia il bambino s’incontra col mondo attraverso la figura della madre ed è proprio da questo primo rapporto, molto esclusivo, che il suo mondo esterno si arricchisce gradualmente fino a comprendere altre figure di riferimento.

Lo stesso Winnicott afferma che, all’inizio della vita, ognuno esiste solo in quanto parte di una relazione e, le sue possibilità di vivere e svilupparsi, dipendono totalmente dal soddisfacimento del bisogno primario di attaccamento e appartenenza ad un Altro (madre/caregiver) che si prenda cura di lui e gli dia qual senso di sicurezza e intimità che sono basilari per la crescita (D. Winnicott, 1974). Sarà proprio in rapporto alla qualità affettiva di tale relazione primaria, da quanto la figura di attaccamento sarà disponibile, protettiva, affidabile, costante e capace di un contatto caldo e rassicurante che dipenderà lo sviluppo sano del suo vero Sé.

“Nel momento in cui la madre vede il bambino per la prima volta ed entra in contatto con lui, ha inizio la potenzialità di un processo attraverso il quale si stabilisce il Sé di una persona” (H. Kohut, 1978).

Il punto di partenza per connettere l’esperienza soggettiva del bambino con l’altro e il mondo, è il senso del Sé ed essendo tale esperienza in continua evoluzione, visto che si organizza in relazione all’Altro, è importante che l’ambiente sia facilitante e sintonico affinché divenga una forma di organizzazione stabile pur nella sua evoluzione.

Nell’interazione con l’ambiente costituito quindi all’inizio sostanzialmente dalla madre, il bambino costruisce schemi di comportamento con l’altro che tenderà a riprodurre tutta la vita.

La madre compie fin dal primo momento di relazione col bambino una serie di gesti e attività che costituiscono una cornice entro cui il piccolo si sviluppa e che lo portano progressivamente ad emergere da quell’apparente stato di passività per acquistare un ruolo più attivo e più determinante per il procedere della relazione.

Molti autori sostengono che già alla nascita ogni individuo possiede una predisposizione sociale innata che lo prepara ad avere rapporti con altre persone anche se egli non è ancora capace di relazioni sociali reciproche e non possiede ancora il concetto di persona.

È quindi evidente come le interazioni tra madre e bambino, nei primi anni di vita, sono possibili in quanto, immediatamente dopo la nascita, è già presente nel bambino una forma e una capacità di intersoggettività molto prima che il bambino sia capace di comunicazione verbale e di elaborazioni simboliche.

Si tratta di una forma di intersoggettività primaria, come Trevarthen la definisce, una competenza le cui basi sono geneticamente determinate, che si esprime nel bambino in molti modi ed è testimoniata dalla capacità di imitazione precoce che ha il neonato (C. Trevarthen, 1997).

Allora il comportamento sociale del bambino sin dalle prime fasi è già organizzato e compito della madre è proprio quello di adattare il suo comportamento ad un’organizzazione comportamentale già esistente.

Un esempio di questo lo si può ritrovare nella madre che tiene in braccio e culla il piccolo durante l’allattamento: qui l’abbraccio della madre fornisce un contesto sociale stabile ove il bambino può abbandonarsi e sentirsi sicuro nei vari cicli e sperimentare così con sicurezza i ritmi di attività e paura legati a tale momento. In tal caso la madre funge da cuscinetto che protegge e fornisce struttura per la psiche emergente del bambino. Alcuni aspetti del comportamento della madre come la voce, il sorriso, gli occhi sempre disponibili divengono, infatti, punti fermi per permettere al bambino di conoscere l’ambiente che lo circonda e renderlo sempre più capace di esercitare un controllo su cicli che fino a quel momento erano inflessibili (fame-sonno).

Il comportamento materno col suo fluire continuo, col rispetto dei ritmi attività/pausa, con l’alternanza del turno nelle vocalizzazioni, fornisce al bambino la prima esperienza della struttura di base delle comunicazioni. È proprio attraverso questi dialoghi primari che il bambino imparerà le nozioni di reciprocità e di intenzionalità che stanno alla base del linguaggio e delle relazioni sociali vere e proprie.

Lo stesso D. Stern afferma che l’esperienza di essere con l’altro e di interagire con lui può costituire una delle più importanti esperienze della vita sociale. Ancora di più se il senso di essere con l’altro è considerato una modalità attiva di integrazione di due unità distinte –il Sé e l’altro- ove il bambino è parte integrante di una matrice sociale e ove gran parte della sua esperienza consegue alle azioni degli altri. Pertanto Stern ha evidenziato che il bambino è attivo nella relazione fin dalla nascita, rivelandosi in grado di stimolare interazioni, di parteciparvi e di rispondere (D. Stern, 1984). In altre parole, il neonato nasce competente e con un’innata predisposizione a fare esperienze affettive.

In tutto questo, l’altro (mare, caregiver) ha il delicato compito di fungere da Io ausiliario del bambino (D. Winnicott, 1987), di metà esterna del Sé (R. Spitz, 1973), di self-object (H. Kohut, 1982); è colui che deve aiutarlo ad ampliare e connettere le varie esperienze: da quelle sensoriali a quelle emozionali. Il caregiver deve, inoltre, fornire al bambino un ambiente di contenimento (holding environement) tale che, il bambino senta assicurata al propria continuità di essere e di esistere (D. Winnicott, 1970).

Molto importante sarà, a tale scopo, lo sviluppo delle qualità emozionali ed umane, l’empatia e, soprattutto, la competenza di sintonizzazione affettiva e di vicinanza emozionale che forniscono in maniera autentica e spontanea una base sicura (J. Bowlby, 1989) e un oggetto costante (M. Mahler, 1970).

Da quanto bene procede il primo anno di vita da un punto di vista affettivo, dipende l’evoluzione di tutta la vita psichica e relazionale futura. Se, infatti, la libera espressione del Sé e degli affetti incontra l’incomprensione, l’umiliazione, la disapprovazione o il rifiuto, il bambino imparerà molto presto a controllare le emozioni bloccando i muscoli espressivi dell’emozione negata (D. Stern, 1987).

Solo con un Vero Sé l’individuo avrà un senso di unità e interezza rendendo spontanei i suoi gesti, aperto il suo cuore, libere e personali le sue idee. Il vero Sé è fonte di autenticità, vivacità fisica e psichica ed è l’assicurazione della continuità del progetto vitale innato in ogni essere umano. Il vero Sé, quando è fatto crescere in una relazione genitoriale stimolante, rispettosa e protettiva, rende la persona veramente socievole, costante nelle relazioni, in sintonia col mondo.

Solo il vero Sé, dice Winnicott, può essere creativo e farci sentire reali. Infatti il vero Sé è il luogo della prima azione creativa del bambino che Winnicott chiama gesto spontaneo e può essere un sorriso, una vocalizzazione, un movimento del corpo: la cosa importante è che sorge dal bambino, dal suo nucleo emozionale. Egli non sta solo rispondendo o imitando il suo caregiver: sta, bensì, creando qualcosa di spontaneo e di assolutamente originale. Questo è l’inizio delle appercezioni creative e il compito del genitore è di guardare, gioire, incoraggiare ogni gesto spontaneo e creativo, guardandosi bene dal bloccarlo o dall’interferire col suo controllo o il suo giudizio o col modello di riferimento, visto che tutto dipende dalla qualità e quantità del suo sostegno affettivo.

Questo significa anche che il bambino, libero dal dover strutturare e aderire ad un’immagine ideale si se stesso imposta dall’esterno, può vivere nel suo essere reale, spontaneo e creativo, facilitando così la possibilità di sviluppare la costanza dell’oggetto, dell’immagine reale del genitore il quale potrà a sua volta mostrarsi in tutti i suoi aspetti, senza essere idealizzato o accettato solo in parte dal bambino. In tal modo il bambino diverrà un adulto capace di vivere con creatività e spontaneità, amando la vita così come è stata affettivamente nutrita la sua vitalità e dando grande valore all’esistenza. Perché il vero Sé è la somma del Sé innato con le rappresentazioni dell’altro indotte dalle esperienze sensoriali vissute nella relazione con l’altro, con gli stati affettivi caldi ed empatici ad essa correlati.

Stern ha proposto l’esistenza di una capacità di sintonizzazione affettiva che rende possibile una forma di imitazione trans-modale e selettiva e che, questa capacità di sintonizzazione degli affetti, renda possibile la condivisione degli stati affettivi interni, ma è qualcosa che ovviamente va al di là del comportamento osservabile (D. Stern, 1989). Tutti gli psicologi evolutivi sottolineano che esiste un sistema molto efficiente di scambi emozionali che è essenzialmente non verbale; un sistema che rimane attivo, poi, per il resto di tutta l’esistenza e che rende possibile le comunicazioni affettive sentite intuitivamente e che nascono, appunto, nell’ambito delle relazioni basate sull’intimità.

L’evento chiave dell’infanzia sta proprio nello sviluppo di questa capacità di sperimentare, comunicare e regolare le emozioni le quali, all’inizio della vita, sono regolate dai partner adulti ma poi, nel corso dello sviluppo, diventano auto-regolate anche in rapporto allo sviluppo del sistema nervoso del bambino.

Appare pertanto evidente quanto una buona relazione sia fondamentale per creare una condizione psichica, per quanto possibile, felice. La relazione mentale non è un’astrazione ma un’operazione che avviene fra due o più persone. Infatti, gli avvenimenti psichici, le azioni di ogni persona sono, per così dire, sempre incompleti: essi si completano solo nell’interazione e al cospetto dell’altro a partire dall’ambiente familiare, con particolare rilevanza data alla diade madre-bambino, fino ad arrivare alla considerazione dell’ambiente sociale (D. Stern, 1987). Fondamentale è, a tale scopo, la qualità dell’interazione al fine di poterne stabilire le variabili condizionanti e affrontare le determinanti inconsce della relazionalità degli esseri umani nel gioco dell’evoluzione psichica di ogni persona.

Stern ritiene che, per una definizione qualitativa della relazione madre-bambino, si debba tener conto di diversi elementi: il primo di questi riguarda l’importanza del dare spazio in riferimento allo spazio interpersonale quale area definita dallo stesso autore di rispetto, che esiste attorno ad ogni essere umano, bambino o adulto che sia. Quest’area è, secondo Stern, predisposta geneticamente e gli strumenti affinché si realizzi sarebbero innati, ma dipenderebbe da un lavoro da svolgersi in comune. Molti studi hanno infatti evidenziato come, già i bambini piccoli, siano dotati di strumenti idonei a manifestare avversione nei confronti della violazione di questo spazio che la madre ha la possibilità di comprendere, anche se con le normali difficoltà della situazione, aiutata –peraltro- dal fatto che il bambino comunica con lei per mezzo di un codice che madre e bambino hanno in comune.

È rilevante perciò, in una buona relazione, la capacità della madre di raffigurarsi il bambino come entità mentale autonoma. Kohut ha descritto in modo articolato come, per lo sviluppo del Sé, sia indispensabile l’esperienza vitalizzante e coesiva del rispecchiamento; inoltre il comprendere l’altro in termini di stato mentale, permette di dare senso e anticipare le azioni (H. Kohut, 1982).

Psicoanalisti come Sandler, Emde, Stern, Fonagy e studiosi dell’attaccamento come Bowlby, hanno esplorato lo sviluppo del mondo rappresentazionale del bambino e lo sviluppo delle sue capacità meta cognitive a partire dalla qualità della relazione madre-bambino in riferimento ai fattori che rendono possibile il costituirsi di un attaccamento sicuro. Essi hanno sottolineato che il rafforzamento progressivo della funzione meta cognitiva corrisponde all’aumento della coerenza della propria narrativa personale e che, per far ciò, sia di fondamentale importanza una buona capacità di sintonizzazione emotiva (attunement) e la capacità di rispondere in modo sensibile e accurato (sensitive responsiveness), da parte del genitore, ai bisogni di vicinanza, protezione e contatto del bambino.

Attunement e sensitive responsiveness sono in correlazione con l’accuratezza della rappresentazione mentale del bambino, nella madre. A sua volta la madre riflette al bambino sia la sua comprensione del disagio sia la percezione corretta dello stato affettivo. Pertanto è necessario sottolineare l’importanza di un altro elemento al fine di una “buona relazione”: il compito della madre di dare contenimento.

Il compito della reverie, come afferma Bion, è fondamentale per unificare gli elementi che circolano attorno al bambino: è quella funzione materna attraverso la quale le proiezioni mortali prodotte dalle parti psicotiche del piccolo, sono bonificate e trasformate (W. Bion, 1972). Le diverse identificazioni proiettive, le angosce primitive trovano, con tale funzione, uno spazio, una mente capace di accoglierle e trasformarle sì da poter essere restituite depurate. Ovviamente tutto questo segue alla relazione con l’Altro-disponibile che possiede la capacità di accogliere, lasciar soggiornare, metabolizzare e restituire il prodotto dell’elaborazione permettendo al bambino di introiettare la tollerabilità alla frustrazione, la capacità di lutto, del tempo, del limite (W. Bion, 1972).

Tutto ciò passa attraverso il mentale che si attiva nella relazione col caregiver e, senza il quale, il processo di sviluppo della mente fallisce dando luogo a diverse patologie che non sono altro che vie di scarico e di evacuazione di angosce primitive non elaborate. La mente diviene così fonte di sofferenza che disturba il comportamento armonicamente funzionante della persona. Per contro, una mente che funziona è una mente che crea continuamente immagini (elementi alfa) dalle proto-emozioni e dalle proto-sensazioni: è una mente che metabolizza tutti gli apporti che riceve (W. Bion, 1972).

Una mente che non ha modalità assuntive-trasformative-creative, inverte il proprio funzionamento e evacua all’esterno contenuti non pensabili e contenibili nella mente.

Chiaramente per una buona relazione è fondamentale avere una buona comunicazione nel senso di avere un linguaggio condiviso da entrambi i partners e di dare spazio alle diverse possibilità comunicative.

Tutto questo andrà a costituire quell’intersoggettività primaria nella quale la madre (ma anche il padre o il caregiver) si impegna tramite comunicazioni intuitive non consapevoli, fornendo una strutturazione della mente del bambino il quale, a sua volta, diviene consapevole di essere in grado, egli stesso, di intervenire nei proto-dialoghi con l’adulto che con il tempo, il corpo e le espressioni gestuali occupano un ruolo crescente nei loro rapporti. È un processo regolato reciprocamente durante il quale il bambino impara a mandare messaggi sociali specifici ai quali l’adulto deve rispondere.

In tal modo si crea il legame di attaccamento che avviene precocemente tra il bambino e la madre. Grazie a questo legame il bambino può fare riferimento ad una sorta di base sicura per esplorare l’ambiente e un rifugio che funga da punto di ritorno. Da questo punto riceverà indicazioni per muoversi nel mondo sociale e tanto più il legame è forte e sicuro maggiore sarà la possibilità di autonomia.

Ogni conoscenza, dunque, si origina da esperienze primitive di carattere emotivo; pertanto la relazione madre-bambino è la base del primo rapporto di comunicazione col mondo.

Nell’infanzia succedono al bambino molte cose buone e cattive che sfuggono al suo controllo per il fatto che nella prima infanzia la capacità di far rientrare queste nel proprio mondo psichico e, quindi, nella sua onnipotenza, è ancora in via di formazione. Winnicott sostiene che in questo periodo il sostegno dato all’Io prematuro dalla madre e dalla sua assistenza, permette al piccolo di vivere e svilupparsi anche se non è ancora in grado d’essere responsabile di ciò che di buono o cattivo c’è nell’ambiente.

Le cure materne date all’infante sono, per l’autore, fondamentali perché senza queste non può esserci infante. Di conseguenza la madre avrà la funzione di curare il bambino mediante l’empatia materna piuttosto che attraverso la comprensione di ciò che è o dovrebbe, essere appreso verbalmente. È il periodo dello sviluppo dell’Io il cui tratto principale è l’integrazione. Le cure materne si rivelano, allora, indispensabili anche per evitare che si sviluppi un Io malato, minimo o nel quale l’Id resta incompleto o quasi esterno all’Io, fino ad arrivare a forme di difesa psicotiche (D. Winnicott, 1970).

Egli parla, così, di madre sufficientemente buona la quale si preoccupa non solo di fornire cibo ma anche di soddisfare i bisogni di relazione. È il genitore quasi perfetto di cui parla Bettelheim, il genitore che commette errori perché non è infallibile ed è in grado di imparare dagli errori, riflettere e riparare, sapendo che il suo lavoro è destinato a molteplici frustrazioni.

Per Winnicott, infatti, l’errore è un elemento importante della genitorialità poiché è proprio dall’errore che bisogna ripartire quando si incontrano ostacoli e, per questo, diviene risorsa e forma di apprendimento che serve per ri-programmare altre scelte.

L’ipersensibilità materna primaria, di cui riferisce Winnicott, è quella sorta di preoccupazione sana della madre che nutre lo sviluppo della mente del suo bambino.

La good enough mother, come l’autore la definisce, è quella madre che sa concedersi di regredire, di diventare piccola, piccola come il suo bambino, per meglio potersi sintonizzare su di lui, sul suo mondo interno e sui suoi bisogni.

È proprio tale sensibilità materna che andrebbe, secondo molti autori, a nutrire la mente dei bambini. Appare allora evidente, in tale contesto, che lo sviluppo di una mente che pensa, di una mente che è, perciò, capace di cogliere e sviluppare un apprendimento di tipo cognitivo, ha inevitabilmente bisogno di una mente emozionale capace di sentire le esperienze della vita intorno a sé e di godere del piacere di un ambiente a lei esterno.

Nel bambino in età precoce, ma non solo, lo sviluppo di una mente emozionale è fondamentale per lo sviluppo di una mente capace di pensare. Da ciò si evince che molte forme di ritardo cognitivo o di difficoltà di apprendimento presenti nei bambini, potrebbero essere “curate” meglio se fosse presente -o di sviluppare qualora non fosse presente- la capacità materna di prendersi cura dei bisogni emozionali dei figli.

Una madre in grado di godere delle gioie dell’allattamento, di comunicare con amore al suo bambino mentre si prende cura di lui, che lo guarda in modo particolare, è una madre che sta creando le basi affinché avvenga lo sviluppo della “mente emozionale” che garantisce lo sviluppo di una “mente cognitiva”.

Winnicott, al pari di Bion, afferma che una madre sufficientemente buona permette al bambino di esprimere le sue angosce, le tollera e le contiene senza angosciarsi a sua volta: in questo modo ella restituisce al figlio le emozioni di lui, filtrate dal contenimento e bonificate.

Appare evidente, allora, che un bambino che ha avuto un attaccamento sicuro e che nutre fiducia nella disponibilità e nell’appoggio dell’adulto, esprime i propri sentimenti, positivi e negativi. Sarà, altresì, un bambino che saprà separarsi per un tempo sempre più lungo al fine di esplorare l’ambiente, accrescendo in tal modo le sue conoscenze e le sue sicurezze in una realtà oggettiva condivisa senza esserne traumatizzato ma permettendo l’espressione della sua originalità e della sua passione.

Donatella Ghisu
Psicologa, Psicopedagogista, Counsellor psicologico e socio-educativo, Psicologa forense, Insegnante


BIBLIOGRAFIA:

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