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PSYCHOMEDIA
GRUPPALITÀ E CICLO VITALE
Adolescenza


Attacchi al corpo in adolescenza: ridefinire i confini corporei o sfida evolutiva?

Maura Manca



Abstract

During the adolescence, over the last years, there has been an amplification to use the practices culturally not sanctioned as tattooing and body piercing. At the same time there was an increase in pathological direct self-damaging behaviors as a body modification and deliberate self-harm behavior defined as form of behavior that causes harm or injury to one’s whole body or to specific parts of it, and is characterized by deliberateness, repetitiveness, and the absence of suicidal intent.

Through this behavior the purpose of adolescents being to express their discomfort through their bodies and by enacting risky behaviour that function to release and express aversive emotional distress and tension.

Body modification e autolesionismo

Durante il periodo adolescenziale la tendenza ad agire (acting-out e acting-in) può rappresentare una modalità della mente per elaborare una realtà interna ricca di continui cambiamenti, instabile e, talvolta, inquietante (Cerutti & Manca, 2008). Tali condotte possono raffigurare, da una parte, l’espressione di una potenziale messa alla prova della costruzione dell’identità e, dall’altra, una manifestazione di profonda vulnerabilità e conflittualità (Laufer & Laufer, 1984). La tendenza all’acting, all’opposizione, alla ribellione, alla sperimentazione e al mettersi alla prova attraverso gli eccessi, sono espressioni utili per lo sviluppo dell’autodefinizione (Blos, 1971). L’azione può aiutare a fronteggiare i conflitti interni ma, nel contempo, il ricorso all’agito può rappresentare una spinta verso la messa in atto di condotte rischio per se e per gli altri (abuso di alcol, droghe, guida in stato di ebbrezza ecc.).

In particolare, in questi ultimi anni, si sta diffondendo, l’uso di pratiche di attacco al proprio corpo socialmente accettate, quali piercing e tatuaggi, al fianco di modalità autodistruttive più patologiche come le body modification (Manca, 2009). Tali condotte sono caratterizzate dal modificare volontariamente parti del proprio corpo come per esempio avviene con il branding che consiste nel marchiare a fuoco la pelle con un laser o con un ferro rovente. Altre modalità estremamente diffuse sono l’inserire innesti di silicone o di altri oggetti sotto la pelle con disegni o forme particolari o il microdermal che consiste nell’impiantare sotto la pelle un implant di titanio a forma di L la cui cima può essere cambiata in funzione delle esigenze estetiche.

Tali modalità autodistruttive lasciano sulla pelle segni e cicatrici indelebili e rappresentano un linguaggio attraverso cui l’adolescente può esprimere la propria indipendenza affettiva dalle figure genitoriali o una sfida nei confronti delle regole imposte dagli adulti. I comportamenti di attacco al corpo possono anche rivestire funzioni relative alla sfera personale, interpersonale e sociale quali: esternalizzare sentimenti di profondo disagio; rafforzare l’auto-immagine; istituire un senso di appartenenza ad un determinato gruppo; manifestare sentimenti antisociali e il simboleggiare o ricordare un evento significativo (Aizenman & Jensen, 2007; Anderson & Sansone, 2003). Altri studi sottolineano, invece, che tali comportamenti hanno la funzione di meccanismo di difesa e di strategia di coping che adolescenti e giovani adulti mettono in atto per fronteggiare una situazione di sofferenza (Derouin, Bravender & Terrill, 2004).

In questa fase evolutiva è importante distinguere modalità di attacco al corpo adolescence-limited, legate a tendenze e mode giovanili e al sostenimento della fragilità narcisistica (Ladame, 2004) che hanno la funzione di “protesi identitarie” (Le Breton, 2002), da altre più patologiche, più gravi a livello prognostico, caratterizzate dalla volontà di farsi intenzionalmente del male quali l’autolesionismo. Sulla scia degli studi compiuti da Moffitt (1993; 2003), relativi alla cronicizzazione dei comportamenti aggressivi etero-diretti, è possibile rilevare alcune modalità di aggressività auto-diretta life course persistent che si manifestano già nelle prime fasi dello sviluppo e che persistono e si cronicizzano nel corso del tempo fino a sfociare in un disturbo conclamato (Sindrome da Autolesionismo Ripetitivo). Tali condotte si esprimono con modalità più violente e ripetitive e i sintomi si aggravano nel corso dello sviluppo, per cui risulta più lungo e complesso anche l’intervento terapeutico, soprattutto perché il comportamento autolesionista ripetitivo si presenta di frequente in comorbidità con altre patologie quali: disturbi alimentari, depressione, PTSD e disturbi di personalità, soprattutto di cluster B.

Per autolesionismo intenzionale (Deliberate Self-Harm -DSH) o autoferimento intenzionale (Self-Injury Behaviour -SIB) si intende un comportamento che causa un danno o una lesione al proprio corpo o ad alcune parti di esso ed è contrassegnato da intenzionalità, ripetitività, assenza di intento suicidario (Kahan & Pattison, 1984; Favazza, 1996; Gratz, 2001; Manca, 2009; Cerutti et al., 2011; 2012); non deve verificarsi in risposta ad allucinazioni e in presenza di diagnosi di autismo o ritardo mentale grave (Favazza & Rosenthal, 1993; Yates, Tracy & Luthar, 2008). Tale comportamento è caratterizzato da mancanza di controllo dell’impulso, da un aumento della tensione e da una sensazione di sollievo successiva alla messa in atto dell’agito autolesivo. Il DSH ha insorgenza nella prima adolescenza (12-14 anni) e la forma più comune è quella superficiale/moderata (Favazza, 1998). Le modalità autolesive più frequentemente utilizzate sono il tagliarsi (cutting), il bruciarsi (burning), le scarificazioni, l’interferire con il processo di cicatrizzazione delle ferite, mordersi, inserirsi oggetti sotto la pelle e sotto le unghie (Pattison & Kahan, 1983; Favazza 1998). In questi casi, il corpo, può rappresentare un luogo di espressione della sofferenza psichica oppure lo strumento per comunicare i propri bisogni e conflitti evolutivi (Armstrong et al., 2004).

Secondo altri autori attraverso tali attacchi è possibile aggredire anche ciò che compromette l’integrità dell’individuo stesso (Irwin, 2001; Velliquette & Murray, 2002). L’agire diventa, quindi, un’espressione di difesa estrema messa in atto da un Sé che lotta contro l’angoscia di riconoscere la propria fragilità e i propri bisogni (Pelanda, 2008). Durante il periodo adolescenziale il giovane deve fronteggiare i profondi cambiamenti che le trasformazioni psico-fisiche determinano nel proprio mondo interno. Quando tale processo si svolge regolarmente l’adolescente vive e riconosce il proprio corpo come facente parte di un sé integrato.

Quando, invece, esso non viene superato in maniera regolare o si crea una fissazione, si ha una rappresentazione di un corpo non soggettivato, che l’adolescente porta con sé come risultato di un’interazione con l’ambiente fondata sull’attribuzione e la sua assunzione in quanto entità separata dalla propria identità psichica. Questi adolescenti per appropriarsi in termini psichici del proprio corpo e per assumerne il controllo lo attaccano con agiti autodistruttivi (Albero, Cesari & Pelanda, 2008). Il fallimento dei compiti evolutivi e dell’equilibrio tra il bisogno di continuità per la tutela della propria identità (narcisismo) e la spinta al cambiamento (fisiologica in adolescenza), provoca nell’adolescente una forte sensazione di frustrazione. La sfiducia che ne consegue, insieme alla rabbia, rappresenta il passaggio che porta l’adolescente a farsi male. L’atto violento rivolto contro di sé rappresenta una modalità distruttiva e patologica di difendere la propria identità narcisistica (io decido del mio corpo e della mia vita).

L’adolescente accanto a sentimenti di potenza e talvolta onnipotenza, si scontra con l’impotenza, la confusione e il dover dipendere. La condotta autolesiva può attenuare il conflitto tra il bisogno dell’oggetto e la paura di esperire questa dipendenza. I sentimenti di amore, odio e rabbia esprimono il legame con l’oggetto. Attraverso l’attacco al sé corporeo l’adolescente può preoccupare l’oggetto e attraverso tale preoccupazione può controllarlo e tenerlo legato a sé.

Il cutting ha la funzione di gestire stati emotivi particolarmente intensi come la rabbia, la frustrazione, la vergogna e il vuoto (Suyemoto & McDonald, 1995; Connors, 1996) e di autoregolare l’affettività (Figueroa, 1988). Infatti, l’acting rivolto al proprio corpo annulla il senso di torpore e, più in generale, la sofferenza psichica ad esso connesso divenendo, contemporaneamente, un meccanismo di gestione della tensione, della disforia, dell’ansia e delle situazioni stressanti (Simeon, 1992; Strong, 1998; Smith et al., 1999; Wells, 1999).

Ridefinire i confini corporei: perché la pelle?

Le parti del corpo più frequentemente attaccate sono le braccia, le gambe, il torace ed altre aree sulla parte frontale del corpo essendo, da un lato le zone più facilmente accessibili e, dall’altro, più facilmente occultabili, per poter mantenere intatta segretezza di tali condotte.

La pelle rappresenta l’elemento di separazione, di confine tra il mondo interno ed il mondo esterno, di comunicazione e di interazione tra i due mondi e di distinzione tra il dentro e il fuori; “il corpo, e soprattutto la sua superficie, è il luogo dove possono generarsi contemporaneamente percezioni esterne e interne” (Freud, 1922). La pelle è il luogo dove si supera in maniera chiara la contrapposizione tra corpo e mente in quanto si vengono a trovare in contatto l’apparato psichico e l’apparato fisico non più distinguibili (Anzieu, 1985). In merito alla comprensione dell’integrazione psiche-soma Winnicott (1965) ha fornito un contributo rilevante in particolar modo per quello che concerne il processo di personalizzazione caratterizzato dal progressivo insediamento del corpo nella psiche favorito dalla presenza di una madre devota capace di far crescere, curare e preoccuparsi del proprio bambino. Quest’ultimo inizialmente si trova in uno stato primario di non integrazione, in cui la comunicazione è mediata, per prima cosa, dalla regolazione dei bisogni fisiologici che a loro volta veicolano emozioni che sono alla base delle prime tracce mestiche costitutive della memoria biologica. Il fattore biologico del bisogno di base è amplificato dagli affetti che si associano ai diversi stati, modulati dalla persona che si prende cura del bambino; la realtà di uno stato del sé deriverebbe perciò dalla combinazione di una percezione e di una conferma consistente in una risposta e un riconoscimento esterno di tipo empatico. La ripetizione del bisogno fisiologico e la sua soddisfazione creano per il bambino un senso di familiarità di stato che gli consente di differenziare il proprio sé emergente (Lichtenberg, 1989). Nei primi mesi di vita gli oggetti vengono esperiti in funzione delle modificazioni che provocano nel corpo del bambino. Le sensazioni corporee e le modificazioni fisiologiche indotte dalla presenza dell’altro possono quindi costituire un modo primitivo per ripristinare la presenza della madre (presenza somatica) quando ancora la sua assenza non può essere rappresentata a livello simbolico.

Le capacità di holding, handling e object presenting materne sono fondamentali per un sano sviluppo del bambino. L’holding è il sostegno, non solo fisico, che viene fornito al bambino che non è ancora in grado di funzionare autonomamente ed è inteso come la capacità materna di mantenere-sostenere-educare e fornisce al neonato l’esperienza di “essere tenuto su”. L’handling racchiude quell’insieme di manipolazioni corporee materne: le cure e le pulizie così come i giochi corporei e gli atti affettivi e fornisce al neonato l’esperienza di “essere tenuto insieme”. L’object presenting si riferisce alla capacità materna di rendere disponibile al bambino l’oggetto nell’esatto momento in cui ne ha bisogno. Tali capacità consentono l’evoluzione di queste primitive modalità autoconsolatorie nelle esperienze transizionali e nello sviluppo delle capacità simboliche frutto di situazioni relazionali in cui il bambino sperimenta esperienze del tipo “lui (il caregiver) pensa che io penso, dunque sono” (Winnicott, 1958; Fonagy & Target, 2001). L’esperienza transizionale si configura come un terreno protetto dove è possibile mantenere il contatto con l’esperienza infantile di onnipotenza e dove il se creativo può giocare e agire, dove si può raggiungere l’equilibrio tra la libera espressione di se e la vita nel mondo reale. Se l’ambiente non sostiene adeguatamente tali processi favorendo la trasformazione dei bisogni del corpo in bisogni dell’Io, si osserverà una scissione tra mente e corpo, la formazione di un falso Sé (Winnicott, 1949).

Winnicott sostiene, quindi, che lo sviluppo del Sé si basa inizialmente su esperienze fisiche nelle quali la psiche ed il corpo dell’infante, attraverso adeguate cure materne, si integrano in un unità psiche-soma. Il rispecchiamento empatico e la manipolazione della madre nei confronti del neonato aiuta a definire i confini corporei e successivamente, a distinguere il suo corpo da quello della madre stessa. L’autore evidenzia la qualità della delle cure materne, concrete e quotidiane determina la continuità o la discontinuità dello sviluppo emozionale del bambino che provoca un disadattamento e una dipendenza assoluta che non favorisce la crescita; di conseguenza, o processi intellettuali di ciascun individuo devono compensare tali carenze.

Ogden (1997) sottolinea come nel caso in cui l’ambiente non è stato facilitante il bambino sperimenta la prematura separatezza corporea dalla madre alla stessa stregua della perdita di una parte del proprio corpo. Questo tipo di esperienza preverbale e preconcettuale viene vissuta come un profondo attacco alla propria integrità; il bambino cerca di difendersi attraverso un uso patologico, rigido degli oggetti autistici, degli oggetti sensazione (Tustin, 1980), al fine di poter recuperare le perdute sensazioni di conforto e di negare la separazione. L’uso di tali oggetti deriva dalla sostituzione della madre ambiente con la propria sensorialità, esperienza che consente il ritiro dell’individuo in una matrice di sensazioni autogenerate sottraendolo dall’imprevedibilità dei rapporti umani e isolandolo dal mondo delle sensazioni derivanti dalla realtà interpersonale. L’uso persistente non consente la loro evoluzione in oggetti transizionali e poi in oggetti della separazione sana; non consente lo sviluppo della capacità di pensare, sentire, giocare e immaginare.

Anche Anzieu (1985) approfondisce lo studio del passaggio dallo stato di non integrazione a quello di integrazione attraverso le modalità del contenimento materno. Egli ritiene che la pelle sia un “involucro psichico (enveloppe)” che consente alla psiche di svilupparsi in forme più complesse. Anieu (1985) definisce l’Io-Pelle come “una rappresentazione di cui l'Io del bambino si serve, durante le fasi precoci dello sviluppo, per rappresentarsi se stesso come Io che contiene i contenuti psichici, a partire dalla propria esperienza della superficie del corpo. L'Io-Pelle trova il proprio appoggio nelle diverse funzioni della pelle. La prima è quella di sacco che contiene e trattiene all'interno il buono che l'allattamento e le cure hanno accumulato. La seconda funzione è quella di superficie di separazione (interfaccia) che segna il limite con il fuori e lo mantiene all'esterno, in quanto barriera che protegge dalla penetrazione delle avidità e delle aggressioni altrui. La pelle, infine, è, contemporaneamente alla bocca, un luogo e un mezzo di comunicazione primario con gli altri, con cui stabilire relazioni significative; essa è, in più, una superficie di iscrizione delle tracce lasciate da queste”. L'Io-Pelle è, quindi, un “involucro psichico” un contenitore somato-psichico di quanto il bambino ha sperimentato nel contatto con la madre (Anzieu et al., 1993). In questo suo perimetro si inseriscono esperienze dell'essere toccati, tenuti al caldo, ascoltati e nutriti e, insieme, i sentimenti di sicurezza, stabilità e protezione che vi sono connessi. L'Io, in altri termini, non si comporta "come una pelle" per semplice analogia ma si radica nella pelle, ha una sua origine epidermica e propriocettiva, nasce e si sviluppa nel contatto di un corpo con un altro corpo.

La funzione interna di contenere le parti del Sé dipende, prioritariamente, dall’introiezione di un oggetto esterno, vissuto come capace di svolgere questa funzione. Questo oggetto si costituisce, normalmente, durante la poppata grazie alla doppia esperienza che fa il bambino del capezzolo materno contenuto nella bocca e della propria pelle contenuta dalla pelle della madre che lo abbraccia, che lo riscalda, che gli parla e che ha un certo odore che è familiare per il bambino. L’oggetto contenitore viene vissuto concretamente come una pelle. Se la funzione di contenimento viene introiettata il bambino può far propria la nozione di interno ed esterno, differenziando quindi tra Sé e l’Oggetto. Se la funzione di contenimento non viene svolta in modo adeguato o per una inadeguatezza dell’oggetto reale oppure per degli attacchi fantasticati contro di esso, questa non viene introiettata. All’introiezione normale si sostituisce una continua confusione di identità. In tal modo il bambino cercherà freneticamente un oggetto, una luce, una voce oppure un odore che mantenga un’attenzione sulle parti del suo corpo e gli permetta, temporaneamente di tenere attaccate le parti del suo corpo. Egli tiene insieme se stesso attraverso il rapporto con questi oggetti e soprattutto "aderendo", "stando appiccicato" alla madre (identificazione adesiva) (Bick, 1968).

Gaddini (1981), invece, sottolinea come lo sviluppo della mente sia un processo che si origina dal corpo e implica una graduale acquisizione mentale del Sé corporeo. L’apprendimento mentale è primariamente un apprendimento del funzionamento fisiologico. Il concetto di Io-Somatico o Io-Pelle, ripreso da Gaddini (1987), rappresenta la primissima organizzazione del Sé sperimentata attraverso le sensazioni corporee, soprattutto quelle tattili. Il bambino, qualora non venga adeguatamente stimolato a livello sensoriale non riuscirebbe a percepire la sensazione di essere un’ unica entità, protetta e contenuta dalla pelle. Ciò determinerebbe un’ incapacità di saper differenziare il sé dagli altri, dentro e fuori, fantasia e realtà. L’autolesionismo interverrebbe nel risolvere questi conflitti attraverso un utilizzo primitivo del corpo (Gaddini, 1987).

“L’automutilazione ridefinisce i confini del corpo, differenziando il sé dagli altri. Il sangue che scorre dalle ferite prova che dentro il corpo c’è la vita. La stimolazione della pelle attraverso l’automutilazione aiuta a ricostruire la frantumata percezione del sé, riattivando l’Io-Somatico e forse ricreando un’esperienza tattile che, almeno per chi si ferisce e piacevole e consolatoria” (Raine, 1982). Tale condotta può essere, infatti, legata alla mancanza di cure materne durante l’infanzia, soprattutto in relazione all’assenza di contatto corporeo con il caregiver (Pao, 1969). Alcuni autori hanno ipotizzato che la preferenza delle braccia per ferire il proprio corpo possa anche avere un latente significato di punizione alla madre piuttosto che a se stessi, in quanto le braccia rappresenterebbero quelle della madre che non hanno cullato e protetto adeguatamente il bambino. Attualmente studi ad orientamento psicodinamico, analizzano come il contatto cutaneo tra madre e neonato sia un fattore determinante per lo sviluppo psichico del bambino e quindi per le dinamiche emotivo-affettivo e cognitive e per la costruzione dello schema e dell’immagine corporea (Orlandelli, Garcovich & Satta, 2002). In questa prospettiva, è importante mettere in rilievo il ruolo della pelle. Il self-injurer sente il bisogno di attaccare il proprio confine, in questo modo il dolore silente potrebbe trovare sfogo al fine di essere regolato e calmato. Il dolore, la ferita di sé, vengono pensati come una forma ritualizzata che consente all'individuo di riconfigurare a suo piacimento i confini tra il sé ed il mondo che lo circonda.

Nella prospettiva di chi mette in atto una condotta autolesiva, l'incisione della propria pelle sarebbe un atto di rivendicazione della propria esistenza. L'autolesionismo diverrebbe, seppur a livello inconscio, una forma di auto aiuto, un atto estremo perché estrema è la condizione in cui il cutter si trova: una condizione di alienazione totale, non solo dal mondo che lo circonda, ma addirittura dalla sua stessa corporeità (Ladame, 2004).

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