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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING ISTITUZIONALE
Centri per la Salute Mentale



I contributi della ricerca sullo sviluppo infantile nel lavoro istituzionale con i pazienti gravi

di G. Campoli

(lavoro presentato al convegno "Strumenti Psicoanalitici in Psichiatria. Scenari Terapeutici con pazienti gravi" organizzato a Bologna, 24 Maggio 1997 dal Centro Psicoanalitico di Bologna)


Le recenti osservazioni e ricerche psicoanaliticamente informate, unite alle ricostruzioni cliniche retrospettive, consentono una migliore definizione dei fenomeni evolutivi e delle differenze fra i periodi dell'infanzia. L'ampiezza dei dati e l'autorevolezza di alcune scuole fanno sì che sia in corso in questi anni un vivace dibattito che investe le teorie e la clinica psicoanalitica. Poiché nel corso di questo intervento mi occuperò delle influenze di questo corpo di conoscenze sul lavoro nelle istituzioni psichiatriche, evidenzierò gli aspetti più rilevanti emersi dalle ricerche.

La nascita biologica coincide con la nascita psicologica e non è, quindi, preceduta dalla fase autistica, dalla fase simbiotica, da un periodo di indifferenziazione dal quale progressivamente emergeranno le sottostrutture della mente. Il neonato è dotato di competenze prevalentemente affettive, percettive, motorie e mnestiche che gli consentono sin dalle prime settimane di vita di differenziare fra Sé e l'oggetto. È attivo e non vive difeso dalla barriera anti-stimoli. Il suo sviluppo, complesso e organizzato, sarà garantito dalla maturazione biologica e dalle regolazioni affettive reciprocamente armoniose con gli oggetti significativi.

Gli psicoanalisti, differenziandosi nettamente dagli psicologi evolutivi, collocano gli affetti al centro delle prime relazioni sociali, attribuendo loro il primato temporale gerarchico sulle funzioni cognitive.

R. Emde (1991, 1993) ritiene che gli affetti operino stabilmente, che il Nucleo Affettivo del Sé organizzi l'esperienza e ne garantisca la continuità, che gli affetti positivi abbiano pari importanza degli affetti negativi; che la disponibilità delle figure di accudimento, cui spetta, fra gli altri, l'importante compito di non lasciare il piccolo negli stati estremi, è il fattore che favorisce lo sviluppo.

D. Stern (1987, 1995), ritiene che gli affetti costituiscano il principale strumento a disposizione del bambino nello stadio del Sé Emergente ed allo stadio del Sé Nucleare per interagire con la madre; accanto ai già noti affetti categoriali, egli colloca gli affetti vitali che, a differenza dei primi, operano stabilmente e sono descrivibili in termini di intensità, cinesi e dinamica; egli dà grande importanza alla percezione amodale che consente le sintonizzazioni affettive, prerequisiti della rispondenza empatica.

J. Lichtenberg (1988) considera gli affetti come segnali che permettono di iniziare le relazioni, piuttosto che segnali successivi ad eventi di socializzazione. La capacità di rappresentazione simbolica non si realizzerà nella prima metà del primo anno di vita; sarà raggiunta, secondo Lichtenberg, solo dopo il compimento del 18o mese e sarà preparata dai modelli di azione percettivo-affettiva, concetto vicino alle rappresentazioni di interazioni generalizzate di Stern.
La pulsione libidica e la pulsione aggressiva vengono ridimensionate al rango di forze motivazionali al pari di altre, ed analogo ridimensionamento, che non significa scomparsa, subiscono le fasi dello sviluppo psicosessuale.

A questo corpo di nuove conoscenze, gli psicoanalisti clinici rispondono assumendo posizioni diverse che vanno dal marcato scetticismo alla convinta accettazione. Essi si chiedono: se l'interpretazione si possa conciliare con esperimenti nei quali prevalgono i rapporti di causalità; se la psicoanalisi, rivolta a comprendere la realtà psichica, possa accogliere nel suo grembo conoscenze ottenute con strumenti estranei alla tradizione, atte a descrivere capacità piuttosto che a comprendere esperienze. Rilevando che l'enfasi assegnata all'interattività possa relegare in secondo piano gli aspetti intrapsichici, avanzano le ipotesi che le inferenze cliniche non siano di portata maggiore rispetto alle esperienze tratte dagli studi sugli aspetti non verbali e pre-verbali del bambino. L. Rangell (1989, p. 200) ribatte che nel bambino freudiano "le pulsioni istintuali sono sempre potenti, attive, alla ricerca dell'oggetto (e che) il vecchio modello è complesso, multiplo e caleidoscopico".

A conferma di un evidente atteggiamento di accoglimento delle nuove conoscenze, si ricorda, da più parti, la posizione espressa da Freud nella nota aggiunta nel 1909 ai "Tre saggi sulla teoria sessuale" nella quale deplorò la mancanza di dati osservativi di conferma alle sue tesi.

Nel volume curato da S. Dowling e A. Rothstein (1989), del quale segnalo l'efficace sintesi storica di P. Tyson, fatta eccezione per le posizioni maggiormente critiche di W. Meissner, il quale afferma che dalla Infant Research possiamo ottenere poco più di "metafore organizzanti per integrare la nostra esperienza clinica e per elaborare un approccio terapeutico" (p. 186) e dal già citato Rangell, si registra, infatti, un significativo accordo nel ritenere fruttuosi per il clinico i dati dell'osservazione e della ricerca.

S. Bordi (1996) ricorda nel suo saggio storico-critico che il processo psicoanalitico "è una varietà di esperienza evolutiva, straordinariamente simile a quella che si vive nel corso dell'infanzia, durante la quale un bambino per dare un significato alle proprie esperienze ed inserirle nel contesto nel quale è chiamato a vivere, si serve proprio dell'affettività e della fantasia interattiva di coloro che si prendono cura di lui" (p. 46).
Sono ritenuti di maggior utilità clinica quegli aspetti che, riferendosi alle prime relazioni sociali del bambino, si concentrano sulla predisposizione dell'offerta ambientale, sulla sicurezza, sul rispecchiamento, sulla possibilità di costruire nuove e più accurate scene modello, sugli aspetti non verbali e pre-verbali del funzionamento mentale già ritenuti molto importanti nel trattamento dei pazienti gravi da Rosenfeld, Winnicott, Guntrip e Kohut.

Il dibattito si sviluppa tuttora vivacemente e F. Pine (1994, 1996), rispondendo alle critiche al modello mahleriano provenienti da Lichtenberg e Stern, fra gli altri, precisa che la fase autistica non venne mai ritenuta centrale dalla stessa Mahler e che essa non è assimilabile alla categoria clinica, ma, piuttosto, ad un evento biologico. Egli aggiunge che le sofisticate attività attribuite al neonato dai ricercatori psicoanaliticamente informati sono proprie dello stato di veglia vigile, uno stato del Sé che copre un arco temporale molto limitato nella vita del neonato. Egli concorda, a proposito della fase simbiotica, sul fatto che il neonato registra il mondo con la percezione e che è differenziato dalla madre, riconosce che le esperienze fusionali possono avere un carattere transitorio (addormentarsi in braccio alla madre), ma sottolinea che la Mahler si riferì non tanto alla separazione di per sé quanto allo stato di separatezza.

Stern (1996) in un breve resoconto dei suoi incontri con M. Mahler, racconta che la sua illustre interlocutrice attribuì scherzosamente le loro divergenze sulla simbiosi alle qualità differenti delle rispettive madri. (Sappiamo bene quanto seriamente debbano essere intesi i motti di spirito).

Una posizione simile a quella degli psicoanalisti contemporanei venne tenuta da D. Winnicott, che , forte dell'esperienza ventennale di pediatra già nel 1941 mise a punto il gioco dell'abbassalingua, collegandone la terza fase alle osservazioni di Freud sul gioco del rocchetto del nipotino, lo utilizzò nelle situazioni terapeutiche e come base osservativa dei fenomeni transizionali. Egli nel 1957, ribadendo il primato della clinica, affermò: "Chi osserva direttamente gli infanti deve essere preparato a concedere che l'analista possa formulare sulla primissima infanzia concetti che possono essere psichicamente veri, eppure non dimostrabili; può anzi talora essere possibile dimostrare mediante l'osservazione diretta, che quanto è stato riscontrato nell'analisi non può esistere effettivamente ad una certa età a causa dell'immaturità del lattante. Ma l'osservazione non può invalidare ciò che viene ripetutamente trovato nell'analisi" (p. 141).

Se i rapporti tra Infant Research e psicoanalisi sono già così complessi, si possono trovare i collegamenti tra la prima e il lavoro nelle Istituzioni Psichiatriche con i pazienti affetti da disturbi gravi? Ci sono elementi comuni tra crescere un bambino e trattare uno schizofrenico?
Non si corre il rischio di applicazioni semplicistiche ed incongrue alla ricerca ad un campo troppo diverso dalla psicoanalisi nelle mete, negli atteggiamenti, nelle tecniche?

I dubbi sono fondati, ma ipotesi teoriche, possibilità di applicazione, metafore organizzanti, vanno considerate, specie se si sta nelle istituzioni cercando di mantenere l'atteggiamento psicoanalitico e riservando una costante attenzione al pluralistico mondo della psicoanalisi. Un importante contributo ci proviene, innanzi tutto dal semplice studio dello sviluppo psicologico normale cui viene data scarsa importanza nel corso di studi di medicina; ricordare che il bambino nasce predisposto a relazioni armoniose con il mondo, può rinforzare la speranza e la responsività del medico o dell'operatore, specie se quotidianamente entra in rapporto con i pazienti psicotici o affetti dai disturbi borderline di personalità.

Un collegamento fra ricerca psicoanalitica e psichiatria si ritrova nell'opera di alcuni pionieri i quali anticiparono i temi delle trasformazioni istituzionali e ci propongono esperienze ed interrogativi ancora attuali. Non è un caso, del resto, che alcuni di essi furono nello stesso tempo clinici e ricercatori, aperti al dialogo con gli psichiatri e gli operatori, con i genitori, con le amministrazioni, attenti, inoltre ala predizione e alla prevenzione dei disturbi psichici.

Anna Freud proseguì a Londra l'opera iniziata a Vienna con Dorothy Burlingham e nel 1943 assistette circa 200 bambini di guerra in un asilo diurno e negli asili residenziali della Hampstead Nursey. Ella si impegnò notevolmente nella organizzazione e nell'impostazione scientifica dell'esperienza che venne corredata delle puntuali osservazioni e dai resoconti scritti di tutti gli operatori. Ella ebbe modo do rilevare gli effetti negativi prodotti sui bambini dall'istituzionalizzazione e scrisse: "Se i tre bisogni principali dei bambini che crescono sono: il bisogno intimo di scambio affettivo con una figura materna, il bisogno di ampia e costante stimolazione esterna delle potenzialità innate, il bisogno di un'ininterrotta continuità delle cure, l'esperienza dimostra che anche gli sforzi più risoluti degli operatori inevitabilmente falliscono nel soddisfare pienamente anche uno solo di questi bisogni, e meno che mai nel soddisfarli tutti e tre" (1943, p. 287).

Molti tra coloro che operano nelle strutture residenziali sottoscriverebbero queste considerazioni poiché sanno quanto sia difficile raggiungere e mantenere quegli obbiettivi.

Dopo due anni, Spitz (1945), nell'ambito delle ricerche sull'angoscia di separazione e sull'influsso che la relazione con la madre ha sullo sviluppo del bambino, descrisse, molti anni prima dell'inizio del processo di trasformazione delle istituzioni psichiatriche, gli stati di minaccia alla vita dei bambini prodotti dalla istituzionalizzazione.

Bowlby, nel 1944, collegò i disturbi antisociali dei giovani con le brusche e precoci separazioni; nel 1952 girò con Robertson il film "Un bambino di due anni va in ospedale", incentrato anch'esso sull'angoscia di separazione, tema quanto mai attuale per chi conosce gli effetti sui pazienti del turn-over degli operatori o per chi si deve rapportare con i cicli di separazione giornalieri, settimanali, stagionali dei pazienti che frequentano i centri diurni.

I tentativi di definire la psicopatologia evolutiva ed il conseguente passaggio dalla nosologia individuale alla nosologia relazionale, meritano costante attenzione. La Infant Research non ci ha offerto finora teorie forti come quelle di Freud che ci ha insegnato a collegare le nevrosi, le perversioni, i disturbi del carattere con la pulsionalità del bambino, della Klein che ci ha proposto la ricchezza delle fantasie inconsce delle posizioni schizo-paranoide e depressiva per avvicinarle agli stati psicotici, della Mahler che ha riflettuto sui fenomeni fusionali benigni e maligni. Le ipotesi patogenetiche più recenti interessano per lo più settori delimitati dello sviluppo e della psicopatologia. Esse propongono, tuttavia, interessanti ipotesi esplicative e indicazioni terapeutiche.

Stern (1989) collega la fenomenologia dei sintomi psicotici alla compromissione dei quattro elementi fondamentali del Sé nucleare: il Sé agente, il senso di coesione, il senso di continuità, il senso di una propria affettività.

S. Greenspan (1990) con il suo approccio evolutivo strutturale, tenta di stabilire correlazioni fra influenze biologiche, psicologiche, schizofrenia ed altre condizioni psicopatologiche; fornisce indicazioni sugli atteggiamenti da tenere, per esempio con il paziente confuso, con il paziente ipo-attivo, con il paziente iper-attivo.

P. Fonagy e M. Target (1996) descrivono la patologia nevrotica mettendola in relazione con le distorsioni del processo di acquisizione da parte del bambino e continuità vs discontinuità tra salute e patologia. Le posizioni di coloro che mettono l'accento sugli elementi di discontinuità, vicine alla tradizione psichiatrica portata a separare la grande dalla piccola psichiatria (nelle istituzioni, attualmente sono forse gli infermieri i maggiori depositari di questa posizione, poiché hanno contatti fugaci con i pazienti affetti da patologie meno gravi), sono minoritarie. La tendenza prevalente è quella di tenere, nell'una o nell'altra questione, una posizione di equilibrio tra continuità e discontinuità.

Il bambino che ha acquisito il linguaggio o che ha acquisito una propria teoria della mente è in possesso di capacità relazionali e di strumenti affettivi e cognitivi molto diversi da quelli prevalentemente interattivi in possesso del bambino nei primi sei mesi di vita. Le originarie competenze, però, non sono andate perdute, non solo rappresentano i pre-requisiti dell'auto-riflessione e del linguaggio, ma, organizzate e trasformate, ancora li accompagnano. Simili considerazioni, tenuto conto delle costellazioni diverse, potrebbero essere estese alla fase edipica, alla latenza, all'adolescenza, all'età adulta, alla terza età, alla patologia, ricordando che le fasi di passaggio tra età evolutive diverse (P. Fonagy, M. Target, cit.) e fra cicli di vita diversi, segnano periodi di alta vulnerabilità.

Segnalo, infine, la recente letteratura di scuola bowlbiana che si orienta per la continuità degli stili di attaccamento. Si registrano corrispondenze tra i comportamenti neonatali e la sicurezza dell'attaccamento ad un anno; M. Main (1991) attraverso studi condotti con la Strange Situation, riferisce corrispondenze al 75% dei modelli di attaccamento stabiliti ad un anno e quelli operanti a dieci anni; i dati raccolti con la Adult Attachment Interview lasciano intravedere analoga continuità fra gli stili di attaccamento infantili e gli stili di attaccamento adulti.
Queste ricerche prospettano nuove possibilità sulla predittività e sulle possibilità di prevenzione; devono, tuttavia, essere accolte con una certa cautela, raccomandata dagli stessi studiosi, i quali sostengono che forme di attaccamento insicuro evitante, insicuro-ambivalente e disorganizzato, non sono da considerare indicatori attendibili di patologie future. Esiste, infatti, ampio accordo sulla improponibilità di relazioni semplici fra traumi ambientali, costellazioni infantili e sviluppo dei diversi disturbi psichici.

Mi soffermerò, ora, sugli aspetti pre-verbali e non verbali del funzionamento mentale, messi a fuoco con particolare efficacia dalle osservazioni naturalistiche e partecipi e dalle ricerche, riferendoli, in particolare, ai contesti che vanno oltre il setting psicoterapeutico.

Nelle istituzioni, la molteplicità dei comportamenti, delle interazioni e delle regolazioni affettive, il pluralismo dei contesti (alle psicoterapie strutturate può essere riservato uno spazio limitato), la gravità dei pazienti trattati, l'impossibilità a verbalizzare gran parte delle esperienze vissute, assegnano al pre-verbale ed al non verbale importanza quasi pari a quella che la psicoanalisi riserva alla parola.

Consideriamo innanzitutto l'azione.

Hartmann (1947), ampliando le osservazioni presenti in numerose opere di Freud, ci offrì un saggio completo sugli aspetti sistemici (gli scopi di utilità, piacere, moralità riconosciuti da Aristotele) ed intersistemici, energetici, genetici, adattativi dell'azione. Ne chiarì i processi trasformativi per opera delle difese, gli aspetti adulti ed infantili, le difficoltà a distinguere tra azione razionale ed irrazionale.

La Infant Research ci offre ulteriori contributi collegati al pensiero freudiano che ci aiutano a comprenderne aspetti teorici ed operativi. All'azione viene riconosciuta continuità con gli altri processi psichici e funzione organizzante per il Sé.

Per Stern (1994, p. 169) essa è "uno degli attributi che partecipano in una più ampia unità mnestica: l'avvenimento vissuto soggettivamente. Ciascun attributo (azioni comprese) è collegato a tutti gli altri da reti associative e ciascuno di essi, quando viene provato nuovamente, può costituire lo spunto per recuperare il ricordo dell'intero avvenimento vissuto con tutte le caratteristiche originarie. Movimenti particolari, come pure un odore, un colore o un pensiero e così via, possono evocare un ricordo. E un desiderio agito può far emergere altri ricordi passando per la memoria motoria".

L'azione, in psicoanalisi clinica, viene contrapposta al ricordo. Freud dice che lo psicoanalista "si accinge a un permanente conflitto con il paziente per trattenere entro il campo psichico tutti gli impulsi che il paziente vorrebbe avere in campo motorio ... (egli) ... saluta come una vittoria della cura tutti quei casi in cui è possibile liquidare con un'attività mnestica ciò che il paziente vorrebbe scaricare con un'azione" (1914, p. 359).

In clinica l'azione è ridotta al minimo, limitata a quegli ambiti che Stern (1994), definisce acting accettabile, fondato sul modo con cui l'analizzando saluta l'analista, va verso il lettino o se ne allontana per raggiungere l'uscita, sta sul lettino, cambia tonalità di voce, ecc. Ed a queste possiamo aggiungere le azioni accettabili dello psicoanalista che si ritrovano ancora nel modo di salutare, nei toni di voce, nelle interiezioni, ecc.

Le cose vanno diversamente nei Servizi di Salute Mentale, dove, specialmente nelle strutture intermedie e nei reparti ospedalieri, l'azione non è ridotta al minimo, ma si fa tramite necessario, unico con i pazienti estremamente ritirati ed oppositivi, regolazioni delle relazioni fra operatori e pazienti. Il problema è riuscire a differenziare, come ha spiegato Hartmann, fra aspetti razionali ed irrazionali, cercare di comprendere a quale (o a quali) livello di funzionamento mentale si possono riferire le differenti azioni.

Uno strumento conoscitivo, diverso dal senso comune a cui spesso facciamo ricorso, ci è offerto dalla costruzione e dal mantenimento, nelle strutture residenziali e semiresidenziali soprattutto, di un contenitore, una sorta di griglia a maglie larghe, che definisca i confini spaziali, la successione temporale degli eventi, la trama e le regole dell'istituzione. Tale costruzione richiede pensiero, memoria, desiderio, applicazione costante, da parte degli operatori. Senza la presenza di questo dispositivo e di quelle qualità non si può fornire sicurezza agli elementi cardine danneggiati del Sé Nucleare dei pazienti. Senza di esso è difficile, se non impossibile, differenziare le azioni frutto dei processi mentali maturi ed agiti.

Tale compito è tutt'altro che facile anche in psicoanalisi nel trattamento dei pazienti gravi, con i quali il setting, che richiede anch'esso la dedizione dello psicoanalista, è spesso in pericolo.

Un'area nella quale gli elementi non verbali e pre-verbali giocano ruoli importanti è la relazione di accudimento.

Grande cautela è necessaria nell'omologare la funzione genitoriale con il prendersi cura, in certi casi a vita, dei pazienti gravi nelle istituzioni. Le analogie con la relazione del genitore con il bambino piccolo e fra quella tra i curanti ed i pazienti sono numerose, ma non tali da renderne omologabili la qualità. Capacità di coinvolgimento e rispondenza empatica, costanza delle cure, gli aspetti funzionali della relazione secondo Emde (1991) (attaccamento/legame, vigilanza/protezione, regolazione fisiologica, gioco/apprendimento), oppure la matrice di supporto (la protezione fisica e psicologica che sostiene la relazione madre-bambino) nella costellazione materna secondo Stern, 1995, sono necessarie sia alla diade madre-bambino che agli operatori ed ai pazienti.

Tutto ciò non è sufficiente, ovviamente, ad annullare le differenze. I curanti non possono effettuare quella sorta di adattamento totale ai bisogni del figlio neonato che Winnicott definì "preoccupazione materna primaria" e Stern chiama "relazionalità primaria", né devono sottoporsi alla profonda riorganizzazione dell'identità cui vanno incontro i genitori; queste tematiche vengono piuttosto risvegliate come fantasie inconsce e come ricordi ed esperienze del proprio essere stato bambino.

I curanti entrano in rapporto con i pazienti adulti il cui funzionamento mentale, dotato di strutture cognitive ed affettive complesse, sane e patologiche, presenta forti elementi di discontinuità con il funzionamento mentale del bambino. Quell'adulto non è dotato delle capacità di recupero e di Self-Righting del bambino, ha interiorizzato rappresentazioni di relazioni gravemente distorte e porta con sé aspettative di relazioni deludenti, strettamente connesse con modalità primitive e ripetitive di funzionamento mentale.

È ipotizzabile che si possano trovare conferme, entrando in rapporto con alcuni di questi pazienti, del lavoro clinico che S. Fraiberg (1982) effettuò con i bambini, i quali, fra i tre e i diciotto mesi, avevano vissuto condizioni estreme di deprivazione e di pericolo. Ella individuò alcune difese attivate prima dello sviluppo del linguaggio (l'evitamento, il congelamento, il combattimento, la trasformazione degli affetti, il rivolgere l'aggressione contro il Sé) e le differenziò dai tradizionali meccanismi difensivi che iniziano ad operare con l'acquisizione della capacità di rappresentazione simbolica.

Con questi pazienti è difficile trovare la giusta distanza, il rischio consiste nell'accettare comunicazioni troppo distali o troppo prossimali che non consentono di modulare gli stati estremi del Sé. Si prova, spesso, la sensazione che tutto cambi di minuto in minuto, ma che ogni giorno si debba ricominciare daccapo. Si stabilisce una buona relazione di accudimento con alcuni pazienti, con altri non vi si riesce. Tutto ciò attacca la speranza dell'operatore, può impedirgli la costruzione delle immagini future dell'altro che possono favorire l'emergere delle nascoste potenzialità evolutive. Vigotsky (1966) ci insegna quanto sia importante per lo sviluppo del bambino che il genitore si collochi sempre un passo avanti all'esperienza del suo stato mentale.

Alcuni colleghi di un Servizio di Salute Mentale di Roma (M. Corradi et al., 1996) hanno il merito di aver cominciato a riflettere su un'area della realtà istituzionale finora trascurata: la terapeuticità dell'agire quotidiano che può interessare gli interventi meno strutturati quali la risposta a bisogni concreti dell'utente, i colloqui informali, la semplice conversazione che hanno denominato lo "stare con" nei servizi. Le interazioni e le regolazioni affettive che si svolgono intorno a comuni eventi quotidiani quali l'andare a dormire ed il risveglio mattutino, l'igiene quotidiana, la preparazione ed il consumo dei pasti, l'uscire ed il rientrare, il gioco, ecc., nelle strutture intermedie, possono rappresentare gli scenari di nuove occasioni terapeutiche, o, al contrario, di nuove delusioni. Questi eventi più informali della vita istituzionale devono essere predisposti ed osservati, quindi, con la massima cura e con la medesima attenzione che si riserva alle psicoterapie. Intorno al loro dispiegarsi si avvicendano bisogni di base, desideri, emozioni, ricordi, pensieri, parole, di operatori e pazienti.

Seguendo il modello di Lichtenberg (1994), che ha allargato rispetto al modello freudiano la gamma dei bisogni di base dell'individuo, possiamo ipotizzare che regolazioni affettive (categoriali e vitali) sufficientemente buone e costanti intorno ad un Sistema Motivazionale permettano di sviluppare buone relazioni, le quali, a loro volta, possono favorire buone regolazioni affettive intorno agli altri Sistemi Motivazionali, e che il ripetersi delle esperienze, possa alla lunga attenuare la rigidità interna e la netta prevalenza sugli altri del Sistema Motivazionale Avversivo (dominante nei pazienti psicotici).

Per meglio chiarire quanto sto esponendo, ritengo utile soffermarmi sulla rappresentazione e sulla memoria.

Riferivo in precedenza dell'accordo sull'ipotesi che la capacità di rappresentazione simbolica non faccia parte delle dotazioni iniziali del bambino e che si sviluppi, attraverso stadi intermedi, dopo il compimento del primo anno di vita. Sulla base di questa concezione, Lichtenberg (1995, p. 57) distingue due modalità di funzionamento mentale inconscio: una modalità rappresentazionale che corrisponde all'inconscio nell'accezione classica, e una modalità pre-rappresentazionale, o fondamentalmente, "una modalità pre-simbolica di processare l'informazione, accessibile solo attraverso la prestazione", pre-programmata, costruita sui modelli di azione percettivo-affettiva, attiva nei primi 18 mesi di vita. Queste due modalità di funzionamento inconscio, strettamente interconnesse lungo tutto l'arco della vita (Lichtenber, Lachmann, Fossage, cit.), ci conducono agli studi sulla memoria.

Pare accertato che esistano diversi tipi di memoria e che tracce dei primi modelli di azione percettivo-affettiva "possono non essere ricodificati ma rimanere attivi nella memoria come potenziali automatismi di azione e affetto e cioè come memoria procedurale" (Lichtenbrg, 1989, p. 40). La memoria procedurale è distinta dalla memoria episodica (quella prevalentemente chiamata in causa nel corso del processo psicoanalitico), la quale con la memoria semantica (fatti e informazioni generali memorizzati durante esperienze specifiche) fa parte della memoria dichiarativa (Squire, 1986). Le memorie procedurali e i funzionamenti pre-rappresentazionali hanno notevole incidenza nella spontaneità delle interazioni nei comuni eventi quotidiani e le ritroviamo nelle posture, nella cinesi, nella mimica, nella vocalità delle parole, nella distanza fisica abitualmente tenuta rispetto all'interlocutore (gli esempi di Lichtenberg sono sovrapponibili a quelli di acting accettabile presentati da Stern).

L'operatore in queste interazioni è chiamato ad una messa a disposizione della propria persona nella quale egli può impersonare contemporaneamente funzioni adulte, ruoli della sua propria infanzia, atteggiamenti che i propri genitori tennero con lui bambino. E queste possibilità sono maggiori nei contesti meno strutturati. Alcuni operatori, non necessariamente più formati, si riveleranno dotati di naturali capacità di entrare in relazione nella fasi in cui è preminente un sistema motivazionale piuttosto che un altro, altri saranno più efficaci in interazioni che chiamano in causa il sistema relazionale motivazione psichica delle esigenze fisiologiche e così via.

Ma allora le nostre capacità empatiche furono definite una volta per tutte durante la nostra prima infanzia, o addirittura durante la prima infanzia dei nostri genitori? Le cose non stanno così. Gli eventi, innanzitutto, sono co-costruiti dal convergere di elementi provenienti dalla nostra prima infanzia, dalla seconda infanzia, dall'età adulta. Prendiamo, ad esempio, le frequenti interazioni vis à vis che si susseguono, nel corso di una giornata in una struttura residenziale fra un paziente ed un operatore.

Winnicott, Racker, Kohut ci hanno offerto magistrali indicazioni, a questo proposito, sulla illusione materna, l'oggetto interno, le primitive relazioni narcisistiche. Darwin ha tracciato dei punti ancora cardinali sulle espressioni emotive degli affetti. La Infant Research ci dice che il volto umano costituisce l'oggetto privilegiato dell'infante. Quanti fattori, quindi, pre-rappresentazionali (il riferimento sociale o le sintonizzazioni affettive), rappresentazionali (riferiti alle fasi dello sviluppo psicosessuale secondo Freud oppure ai sistemi motivazionali secondo Lichtenberg) consci ed inconsci, concorreranno a determinare le sequenze di interazioni vis à vis? Non solo.

S. Fraiberg, con la sua fiducia nella forza dello sviluppo, nella natura umana, e nelle opportunità offerte dalle relazioni sociali, ci ricorda che la storia non è un destino. L'empatia può svilupparsi o inaridirsi a seconda degli eventi con i quali ci incontriamo attraverso l'intero ciclo vitale. Ed il lavoro nelle istituzioni che quotidianamente ci espone alle angosce più profonde e che forse ci chiama, in alcune circostanze, a fare ricorso alle difese del periodo pre-verbale, può configurarsi, se accompagnato ad una trama pensata di interventi coordinati, come un evento di vita che favorisce la crescita.

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