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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoterapia Analitica


Fabiola Fortuna

Alberto e il silenzio dell'oscurità


Fabiola Fortuna
Psicologo, Psicoterapeuta
Analista Didatta S.I.Ps.A.
Socio Individuale Coirag
Membro S.I.S.E.P.
Membro C.S.R. Coirag
Membro S.E.P.T.


Per giungere al numero nove, debbo attraversare un giardinetto che sta in fase di ristrutturazione, così come i vari palazzi che compongono il condominio in questione. Giungo quindi alla mia meta e dopo aver trovato il nome che cerco sul citofono pigio il bottone col fiato in gola. Risponde una voce femminile domandando chi sia, ed io rispondo: " Sono la dott.ssa Fortuna, c'è Alberto?".
Così è iniziata una incredibile "avventura analitica" della quale difficilmente mi scorderò.
Salgo al quarto piano di questo palazzo piuttosto anonimo e, quando arrivo di fronte all'appartamento che cerco, mi viene incontro una bionda signora che dice essere la mamma di Alberto, alla quale rinnovo la domanda di prima.
Mi risponde che il figlio sta per svegliarsi e mi fa entrare in un salottino. Domando alla donna se può avvertire Alberto che io sono arrivata; lei va di là e quando torna mi dice che se voglio, posso accomodarmi, appunto, nella stanza del figlio. La mia impressione, arrivando in quella casa, è di sbigottimento, essendo questa, piena di un disordine incoerente che non mi sarei aspettata di trovare in quella famiglia, che per quel che sapevo doveva appartenere ad un ceto medio-alto.
Nell'ingresso regna il "caos": libri accatastati, cappotti e cappelli buttati alla rinfusa su di un attaccapanni che sembra svolgere quasi la funzione di un armadio e poi ancora, appoggiate alle pareti, delle biciclette e altri oggetti in terra che ostruiscono il passaggio.
Entrando nella camera di Alberto, però, il mio stato d'animo peggiora ulteriormente: mi trovo catapultata infatti in una dimensione ancora più incredibile, in cui l'oscurità domina completamente lo scenario.
Aspetto, per orientarmi, che i miei occhi si abituino al buio e comincio a notare i contorni di quello che mi circonda, solo con l'ausilio della penombra dovuta ad una porta socchiusa. Capisco allora di essere in una stanza ancora più disordinata dell'ingresso: c'è una specie di scrivania sommersa di oggetti e una seggiola con sopra dei vestiti. La libero e mi siedo, poi, di fronte a me, scorgo un letto su cui è sdraiato, tra coperte arruffate, un essere poco definibile che dà, anche lui, l'impressione di qualcosa di assai oscuro, con capelli lunghi e barba neri, una specie di tuta, pure nera e dei calzini, bucati in punta, dello stesso colore.
Ai piedi del letto ci sono delle pantofole, nere anch'esse, con dei buchi sulla punta.
L'individuo di fronte a me è completamente immobile, tanto che ho il dubbio che dorma.
Rimango in silenzio per un po’, e poi facendomi coraggio dico: "Buongiorno Alberto, sono la dott.ssa Fortuna e sono qui perchè i suoi genitori mi hanno chiesto di incontrarmi con lei". Queste sono le prime parole di quella, che con molta buona volontà, si può definire la prima seduta.
Gli antefatti sono i seguenti: mesi addietro, il prof. Claudio Modigliani1 , uno dei miei supervisori, mi chiese se ero disponibile ad andare a casa di una coppia, da lui seguita per alcuni anni, per fare un tentativo terapeutico con il loro figlio ventiquattrenne. Mi fu detto che questo ragazzo, di nome Alberto, era chiuso in casa da circa cinque anni, che non parlava con nessuno, non voleva lavarsi né accettava di essere accudito in alcun modo.
Praticamente ogni tanto mangiava qualcosa, beveva un po’ di vino e fumava, ma per il resto era chiuso ad ogni forma di dialogo, anche perché, tranne degli amici tedeschi che lo erano venuti a trovare tre volte nel corso di questi ultimi cinque anni, non aveva voluto avere contatti con nessuno; sembra poi che, sempre nello stesso periodo, avesse avuto qualche incontro con uno psichiatra e uno psicologo, che però aveva cacciato.
Il prof. Modigliani mi disse chiaramente che non si trattava di intraprendere un trattamento analitico classico ma che comunque, secondo lui, valeva la pena di tentare un qualche approccio, a patto che io me la sentissi.
Questo caso mi incuriosiva, per cui decisi che sarei andata a conoscere il paziente e avrei provato ad effettuare qualche colloquio preliminare per poi decidere. Pertanto il prof. Modigliani mi diede le seguenti notizie: Alberto si era, di fatto, quasi barricato, nella sua camera, cinque anni prima, dopo un periodo particolarmente burrascoso della sua vita, in cui, tra l'altro, aveva assunto eroina e forse, la scelta di chiudersi dentro casa era stata anche dettata dalla voglia di salvarsi da una strada che capiva essere senza uscita, cioè non voleva prendere la via della droga.
Prima dell’assunzione dell’eroina, Alberto aveva girato due films con una coppia di registi tedeschi molto particolari; la prima opera fu ambientata proprio in casa sua ed egli sembrava molto contento di avere la parte del protagonista e, inoltre, ci fu anche la partecipazione, sempre come attori, sia del padre che della sorella.
Tutto andò per il meglio ed il paziente e la sua famiglia strinsero un forte rapporto di amicizia con i registi. Alberto era soddisfatto della carriera di attore che forse pensava stesse intraprendendo, visto poi, che frequentava una scuola di cinematografia; l'anno successivo, fu convocato per girare il seguito del primo film le cui riprese però sarebbero state effettuate in Germania.
Alberto partì, ma le cose questa volta andarono diversamente.
I registi infatti pretesero da tutti gli attori una completa identificazione con i personaggi ed in particolar modo dal “nostro” ragazzo, che, questa volta, purtroppo, interpretava un ruolo particolarmente drammatico. Il copione prevedeva ora qualcosa di totalmente diverso e inatteso, era necessario cioè che Alberto prendesse il posto di un individuo disperato che, rendendosi conto dell'impossibilità di salvare il mondo e la natura dalle contaminazioni alla fine, si suicidava.
Inoltre sembra che, i registi, per riuscire ad avere la perfetta identificazione col personaggio, cominciarono a trattare Alberto e tutti gli altri, con grande freddezza e per giunta pretesero e ottennero, dai vari interpreti, che interrompessero i rapporti con il mondo esterno compresi quelli con i familiari.
Terminarono le riprese e il paziente, a quel punto, sembrò fosse già in preda ad una crisi di depersonalizzazione: credeva infatti veramente, di essere il protagonista del film e per questo tentò il suicidio.
Il padre andò allora a trovare Alberto in Germania, ma questi lo mandò via comunicandogli che, con i soldi guadagnati, avrebbe fatto un lungo viaggio e quando poi, alfine, tornò a casa, stava malissimo, assumeva eroina e fu da allora, che si chiuse nella sua stanza da cui di fatto non uscì più.
Questa ricostruzione dei fatti avvenne nelle sedute tra il prof. Modigliani ed i genitori di Alberto.
Ed ora eccomi qui, in questa stanza buia di fronte a questo ragazzo immobile.
Mi rendo conto che da una radio proviene una musica di sottofondo, ma per il resto tutto è silenzio ed oscurità.
Dopo una decina di minuti, facendomi coraggio, dico: "Alberto io sono qui perchè i suoi genitori mi hanno chiesto di venire per chiederle se è interessato ad un lavoro su di sé, ma, ovviamente, io voglio sapere cosa ne pensa lei di tutto questo!".
In risposta ottengo solo lo stesso silenzio, per cui, dopo circa trentacinque minuti, decido di andarmene. Prima, però, comunico al ragazzo che gli lascerò il mio numero telefonico e che se ha qualcosa di urgente da comunicarmi, può telefonare; affermo, però, che comunque sarei tornata per lui il martedì successivo alla stessa ora.
La settimana seguente si ripete la scena del citofono in cui ribadisco ciò che avevo detto la prima volta e che si ripeterà per tutte le altre sedute.
Come al solito, la stanza del paziente è nel caos e regna l'oscurità, questa volta però gli chiedo, dopo averlo salutato, se posso aprire un po’ la finestra e non ottenendo risposta faccio un po’ di luce, domando poi se ha riflettuto su quello che "ci siamo detti" nella seduta precedente, ma, anche questa volta, per risposta arriva solo il silenzio.
Mi accorgo ora, che la radio ha un volume elevato, per cui domando ad Alberto se è possibile abbassarla, in quanto, altrimenti, avrei delle difficoltà ad ascoltarlo e lui, stranamente si alza, abbassa la radio, torna a letto e chiude gli occhi; affermo poi, che io sono una psicologa e che in genere le persone si rivolgono a me per domandarmi e domandarsi qualche cosa, ma, considerando che qui la situazione è andata diversamente, ci tengo a ribadire che, nello spazio e nel tempo che gli offro, lui può dirmi ciò che desidera.
Dopo qualche minuto mi alzo per andarmene, ma questa volta Alberto si solleva dal letto e mi tende la mano, che io stringo, esclamando: "Buongiorno" e salutandolo gli ripeto allora la frase che diventerà conclusiva di tutte le sedute: “Ci vediamo martedì alla stessa ora".
Prima di uscire dall'uscio di casa, vengo fermata dalla madre del giovane, che, mi chiede, come siano andate le cose; io però non rispondo specificatamente alla domanda, limitandomi invece ad affermare che tornerò la settimana seguente.
Le sedute successive, si svolgono in un'atmosfera molto pesante, perché, Alberto mi fa trovare sempre il solito disordine e non dice assolutamente nulla; sembra che sia, quasi sempre, in una specie di stato ipnotico e i miei interventi si limitano pertanto, a sottolineare, che conosco pochissimo di lui e dei suoi desideri e che vorrei saperne di più.
In un’altra seduta, quando, come al solito, c’è solo silenzio, improvvisamente, nella semioscurità, il paziente scende dal letto e mi viene dietro alle spalle.
Sono un po’ spaventata perchè non capisco cosa voglia fare ma decido di non voltarmi a guardarlo e dopo un po’ comprendo che si sta accendendo una sigaretta; poi, torna a letto e seguita a fumare.
Da questo momento cominciano, se così si può dire gli spostamenti di Alberto che da ora in poi, si alzerà ogni tanto per camminare nella stanza; in un'altra seduta gli chiedo se vorrebbe sedersi anche lui e stranamente mi risponde con un no secco e io replico domandogli cosa significhi no, ma lui non risponde.
Il mio sconforto per quelle strane sedute va aumentando e ad un certo punto diventa angoscia anche perché, seguito a tentare di capire quale sia il senso di questi incontri e quali strategie terapeutiche potrei usare per uscire da quella che mi sembra una fase di stallo.
Accade poi che in una seduta la mia angoscia si trasformi in rabbia, per cui, dopo il solito silenzio, decido di dire ad Alberto: "Sa, mi stavo domandando se questo suo non parlare è un modo che lei utilizza per comunicare a me, e forse anche a se stesso, qualche cosa, magari il suo dissenso al mio venire qua, da lei"; lui, allora, esce immediatamente dal torpore e lucidissimo esclama: "Questo non è affatto vero"; per cui, proseguo, domandandogli cosa significhi, specificatamente, questo silenzio, ma non ottengo risposta. La seduta successiva però, quando arrivo trovo una novità. Il paziente, infatti, mi viene ad aprire la porta ed è “vestito”, nel senso che indossa jeans e maglione e ai piedi ha delle nuove pantofole. Entro nella sua stanza ed incredibilmente le finestre sono spalancate e la seggiola che io utilizzo è sgombra. Inoltre è tutto abbastanza in ordine ed il letto è rifatto.
Prendo posto sulla “mia poltroncina” e dopo che Alberto ha un po’ passeggiato nella stanza si ferma e si siede sul letto guardandomi:
“Desidera parlarmi un po’ di lei, magari anche riguardo ai suoi studi?”, chiedo, e un po’ a monosillabi lui afferma di aver frequentato, precedentemente, una scuola cinematografica, ha anche girato due films e ha degli amici che vede poco ma, dopo queste parole, comincio a capire che si sta stancando e forse spaventando delle ammissioni che mi ha fatto e che, quindi, vuole terminare il suo discorso.
Comunico ad Alberto che interromperemo le sedute per una settimana per via delle vacanze di Natale, e a tal proposito gli chiedo come le passerà, al che, lui risponde: "A casa".
Dopo questa pausa, il paziente sembra tornare indietro paurosamente. Infatti le sedute sono nuovamente piene di silenzi, è tornata ancora l'oscurità e lui sta sdraiato sul letto con gli occhi chiusi.
Dopo questa fase piuttosto difficile, in una seduta, il giovane sembra avere un atteggiamento diverso, in parte un po’ strafottente e cominciano a comparire delle improvvise risate. Una volta capita poi, che il telefono squilli ed Alberto esce dalla stanza e va a rispondere; sento che dice qualche parola al suo interlocutore riguardo al fatto che sua madre non è in casa e, terminata la telefonata, girovaga un po’, per rientrare, dopo poco, nella stanza e chiedermi se voglio un caffè, ma, io ringraziandolo, declino l'offerta.
Quando il paziente, compare di nuovo, si siede sul letto, e io gli domando, se può dirmi qualcosa circa una chitarra che ho visto lì nella sua stanza e allora lui cominica a raccontare, con entusiasmo, di quanto ami suonare, anche, se riconosce, che è un po’ che non lo fa più e che il genere, che preferisce, è il country; chiedo quindi, se vuole farmi sentire qualcosa, ma risponde di no.
Seguono altre sedute in cui, sembra, si muova qualcosa, malgrado i soliti silenzi di cui, tra l'altro, Alberto, però, comincia a parlare e poi una volta, arrivando a casa sua, è proprio lui a rispondermi al citofono, ad aprirmi la porta e a farmi accomodare nella sua stanza; sono strabiliata perché è irriconoscibile, infatti si è tagliato i capelli e la barba,per cui gli dico in tono scherzoso: "Cosa ha combinato?”, e lui, tutto inorgoglito afferma, che il giorno precedente, è andato dal barbiere; la stanza, poi, è di nuovo in ordine e la luce, finalmente, può entrare dalle finestre aperte.
In questa seduta Alberto mi dice di avere avuto, in precedenza, una ragazza con cui, alle volte, usciva, per andare al cinema; poi, dopo un po’, come al solito diventa più vago e si vede che questi ricordi devono averlo turbato, capisco quindi, che questo è il segnale del suo voler interrompere il discorso.
Nelle sedute seguenti mi trovo nuovamente di fronte ad una regressione del paziente, e la mia reazione, questa volta, è di stanchezza. Ho il timore, di arrivare a dover scoprire, che, quello che sto facendo, sia solo una mia illusione e che il fatto che Alberto riesca ad avere dei cambiamenti non sia reale: forse non sta accadendo nulla di nuovo o di produttivo e inoltre, non so capire più, dove io stia andando; ho l’impressione di perdere i confini. Penso che in fondo sia un po’ come se si fosse creata una sfida tra me e questo giovane così particolare, quasi una gara per stabilire chi di noi due mollerà per primo. Comunque, alla fine, decido di insistere nel mio lavoro “impossibile” e, in una seduta successiva, dico ad Alberto che, dobbiamo cominciare a domandarci se per caso non sia arrivato il momento di prendere in considerazione la possibilità che sia lui a venire al mio studio. Il ragazzo non risponde, per cui rinnovo la domanda, al che, questi, in modo perentorio afferma, che ciò non è proprio fattibile; cerco allora di chiedere qualcosa su questa impossibilità, ma, come al solito lui si chiude a riccio e non dice più niente.
Comincia poi un periodo in cui, nelle sedute, il paziente si dimostra particolarmente agitato non solo perchè si muove in continuazione, ma anche per via dell’alternanza di silenzi con delle grandi risate; un giorno, poi, gli domando, se può dirmi qualcosa su ciò che lo fa ridere, ma ottengo, come risposta, una frase sconnessa e allora, in un’ altra seduta, tento il tutto per tutto ed esclamo, in modo perentorio: “Alberto se vuole che qualcuno entri nel suo mondo, magari anche io, di certo deve considerare la possibilità di imparare a cambiare un po’ la sua posizione nei confronti degli altri e magari, considerare anche, che lei, non è detto, sia per forza il centro dell’universo; inoltre, forse il mondo potrebbe pure non avercela così tanto con lei, così come ha deciso di credere!!” Il paziente mi risponde seccamente che no, lui non vuole proprio nessuno, e io ancora non mollo e ostinatamente gli chiedo perché, ma per risposta ho ancora dei mugugni.
Malgrado l’andamento dell’ultimo “round” inizia adesso una fase in cui il paziente è sempre vestito adeguatamente, è lui ad aprirmi la porta, è lui a rispondere al telefono e mi accorgo anche che, quando vado a casa sua, siamo soli. Deduco quindi che i genitori e la sorella hanno cominciato ad accettare la possibilità che il giovane stia da solo.
Un giorno quando vado mi apre però la madre che piuttosto allarmata mi comunica che il figlio non c'è e che è uscito dicendo di voler fare una passeggiata.
Rispondo che non c'è problema e che aspetterò nella solita stanza, ma dopo nemmeno cinque minuti Alberto torna e saluta dicendomi che era uscito per fare una passeggiata e approfittando di questo momento di “buon umore” gli chiedo come vada e lui risponde: “Bene”; domando allora dopo un po’ quali siano i suoi interessi oltre la musica e lui mi risponde che ha passione per la pittura e la lettura; come al solito, però, comincia poi, un nuovo momento di chiusura, che ormai so, essere il segnale della conclusione della nostra conversazione .
Nelle sedute seguenti comincio a parlare, con il paziente, del come mai stia sempre chiuso in casa e se per caso non desidererebbe, magari, anche viaggiare, perché, tra l'altro, cominciano ad avvicinarsi le vacanze estive; lui sembra un po’ riflettere a queste mie parole e poi dice che sì, l’idea del viaggio gli piace e penserà a ciò che potrebbe fare durante l'estate.
Arriviamo così alla fine di luglio. Dico ad Alberto che lo incontrerò ancora una volta perchè poi ci sarà l'interruzione per le vacanze estive ma che se vuole ci potremo rivedere a settembre, a patto però che lui decida di venire al mio studio.
Il giovane ha di nuovo una fase in cui sembra molto taciturno, anche se però sono scomparse quelle improvvise risate che squarciavano il silenzio e al termine di quella che per me doveva essere la penultima seduta, lo saluto, con la solita affermazione : “Ci vediamo il prossimo martedì”.
All’ora di pranzo del giorno dell’appuntamento della settimana successiva, però, mi arriva una telefonata dalla mamma di Alberto: “Dottoressa Fortuna volevo avvertirla di non venire oggi perchè mio figlio non c'è. Tre giorni fa sono venuti qui da noi tre dei suoi amici tedeschi e lui, incredibilmente, è venuto a mangiare a tavola insieme a tutti noi, e la prima cosa che ha detto è stata che ha una dottoressa, che si chiama dottoressa Fortuna, che viene appositamente da lui tutte le settimane; poi ha parlato molto con noi e con i suoi amici. Questa mattina, prima che io uscissi, Alberto mi ha comunicato che non avrei dovuto preoccuparmi, se, quando fossi tornata a casa, non lo avessi trovato, perché questo avrebbe voluto dire soltanto che lui aveva deciso di partire con questi ragazzi, per andare in Germania, ma questa volta per una vacanza. Dottoressa, lei non ci crederà, ma quando sono tornata, ho trovato, sopra al tavolo, un biglietto, in cui Alberto, appunto, mi salutava, raccomandandomi di essere contenta per lui che partiva per il suo viaggio”.

Cosa dire allora di Alberto, dell’oscurità, della soggettività, dell’appartenenza, dell’analisi, delle psicoterapie, e di tante cose ancora che di fatto questa esperienza terapeutica evoca?
Come interrompere il silenzio del buio?
Questa è stata la mia pre-occupazione dal primo momento che incontrai Alberto.
Lacan a proposito della teoria di Freud sul narcisismo parlò di bipolarismo riferendosi alla distinzione che Freud stesso fece tra libido dell’io e libido oggettuale, per cui, tanto più viene investito di libido l’oggetto, tanto più si depaupera l’io e viceversa, con la conseguenza quindi di avere una divisione tra il soggetto libidico e il mondo.
Appare evidente che la prima ipotesi diagnostica di Alberto fosse stata da parte mia di psicosi, tenendo ben presente l’accezione per cui, ad esempio, la schizofrenia rappresenta, in qualche modo, uno degli aspetti clinici delle patologie narcisistiche che emergono col ritiro della libido dal mondo in senso regressivo e quindi autistico e con modalità di esaltazione dell’io rappresentate da deliri di grandezza e di onnipotenza.
Sicuramente Alberto si è trovato a rifiutare e a perdere la realtà, in una situazione in cui, però, la dimensione immaginaria non ha fatto da schermo protettivo nei confronti del reale attraverso il fantasma, e quindi appare chiaro, come in virtù probabilmente anche di frustrazioni intollerabili, il paziente si sia rifugiato in una condizione “autoerotica”, quella per cui un soggetto gode senza l’altro e in cui il narcisismo è completamente collegato alla pulsione di morte.
Mi sembra poi che la situazione di Alberto espliciti perfettamente la perenne confusione che alcuni soggetti possono avere tra il livello simbolico e quello reale che, porta come conseguenza, l’impossibilità di effettuare una rimozione che consenta una vera operazione simbolica, come dire non è possibile difendersi dal reale che irrompe, non c’è un padre simbolico che tuteli, non esiste un nome del padre che serva da garanzia all’incompletezza dell’Altro.
E questo rimanda all’impossibilità, da parte del soggetto psicotico di fare e sopportare tagli, tagli che, presuppongono per l’appunto, l’essere arrivati alla questione dell’Edipo e quindi della legge.
All’inizio degli incontri con Alberto era impossibile non essere colpiti dal suo modo di vestirsi, o meglio di non vestirsi e questo può far riflettere al fatto che il vestito, in fondo, ha proprio origine dal “taglio”che determina la superficie del vestito stesso: è ciò che consente che possa esistere una forma.
Del resto, il simbolico ha a che fare con il buco, che è proprio quello che permette che il reale possa venire a galla col linguaggio.
Una struttura si regge proprio perché esiste un punto di mancanza e certamente Alberto, quando l’ho conosciuto, non era proprio in grado di sopportare questa falla, tant’è che, precedentemente, aveva provato a fare un tutto pieno, prima con identificazioni massicce all’interno dei films che girava e con i vari personaggi e col regista, poi attraverso l’uso di droghe.
Alla fine, probabilmente, nell’estremo tentativo di salvarsi si è chiuso in casa e in se stesso, non potendo più accedere nemmeno all’uso di un linguaggio condivisibile con i piccoli altri della realtà, tant’è che, nel suo parlare, comparivano frasi ritornello e olofrasi.
Il “trattamento” di Alberto non può certo definirsi un’analisi classica, ma sicuramente rappresenta una forma di psicoterapia che gli ha consentito di far emergere qualcosa della sua soggettività e di costruire delle “supplenze”.
Inoltre, questo “lavoro” ha permesso al paziente di poter fruire nuovamente della possibilità di esistere in una ritrovata via di appartenenza, con il proprio nucleo familiare e con un gruppo di pari, senza che questo, però, abbia poi assunto per lui, solamente, il significato di un’alienazione.
Vi domanderete forse se ho più avuto notizie di Alberto, ebbene ecco cosa poi di fatto è successo:
il giovane, mi è stato detto dai genitori, è rimasto all’estero per circa sette mesi, riprendendo di fatto contatti con vecchi e nuovi amici e dopo circa un anno dall’ultimo mio incontro con lui, ho ricevuto, all’improvviso una sua telefonata: era sempre un po’ taciturno, ma in compenso mi comunicava che, appunto, era stato fuori per qualche tempo e che si era anche abbastanza divertito.
Mi ha chiesto poi, se avremmo ripreso la “nostra terapia” e io gli ho risposto che questo era senz’altro possibile e anche utile, tanto più che il lavoro che avevamo iniziato e poi interrotto, di certo non era finito.
Ho poi ribadito ad Alberto che i colloqui, qualora lui avesse deciso di fissare un nuovo appuntamento con me, si sarebbero però svolti nel mio studio, perché, non sarei più tornata a casa sua e la settimana successiva a questa conversazione, mi ha telefonato di nuovo, per chiedermi, quando ci saremmo potuti incontrare, cosa avvenuta qualche giorno dopo.
Ho avuto con il paziente, circa una ventina di sedute settimanali, al termine delle quali, mi ha comunicato che aveva trovato un “lavoretto”; in questa fase infatti, aveva cominciato ad elaborare il suo rapporto col denaro, accennando al fatto, di ritrovarsi sempre senza soldi.
Avevo fatto notare allora ad Alberto, che in realtà questo sembrava essere un problema comune a molti e che in genere, le persone poi affrontavano questa questione in due modi, rubando o lavorando: era indispensabile però chiedersi, prima di scegliere, quanto per lui fosse importante mantenere nella propria vita una posizione etica.
A questa mia affermazione, il paziente, preso in contropiede, ha mugugnato qualcosa circa il fatto che si stancava molto a conciliare una terapia con un lavoro fuori, nella realtà, e io gli ho sottolineato, in risposta, che tutte le scelte, ahimè, comportano il pagamento di un prezzo.
Quella è stata l’ultima volta in cui ho incontrato Alberto.


NOTE

1) già Analista Didatta della Società Psicoanalitica Italiana
and Former Member of the International Psycho-Analytical Association
Socio della Società Italiana di Psicologia
Membre Titulaire dell’Association Internazionale de Psychologie Applique


NOTA BIBLIOGRAFICA

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