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Essere analisti nel 2000: identita’ e cambiamenti

Daniela Alessi, Marina Baj Rossi, Claudia Balottari, Giuliana Barbieri, Simonetta Bonfiglio Senise, Claudio Cassardo, Paola Silvia Ferri, Pietro Roberto Goisis, Mario Marinetti, Marzia Mori Ubaldini, Lucia Rapezzi Imbasciati, Leonardo Resele, Andreina Robutti, Giuseppe Sabucco, Serenetta Sonzini, Francesca Trucchi Romano1

1 Gli autori sono membri della S.P.I. (Società Psicoanalitica Italiana) e soci del Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti



Un lavoro di gruppo

Nel 2004, la SPI, avvalendosi dell’Istituto di Ricerche Eurisko, ha svolto una indagine tra i soci, producendo un testo che fu distribuito a tutti, soci e candidati. Il documento, intitolato “Profilo della Società Psicoanalitica Italiana, 2004”, non ebbe fortuna, eppure riportava, fra i molti dati su quanto e come lavorano gli psicoanalisti, alcune affermazioni inattese e in un certo senso ‘scandalose’.

Molti dichiaravano di lavorare anche a 1-2 sedute la settimana e considerare psicoanalisi questo tipo di trattamenti, consapevoli che lo standard SPI era non meno di tre sedute settimanali.

Ma allora, si sono chieste due di noi, sono cambiati gli psicoanalisti nel corso degli anni? E come? Queste domande, proposte ai soci del Centro Milanese di Psicoanalisi con l’intenzione di formare un gruppo di studio, hanno raccolto l’adesione di molti colleghi (ordinari, associati, candidati, nessun AFT).

Il gruppo, formato successivamente da 16 persone, dal marzo 2007 si riunisce una volta al mese presso il Centro.

Il numero delle sedute

Nei primi incontri ha tenuto banco il ridotto numero di sedute, riconosciuto come tendenza nella pratica attuale, anche se manteniamo le 3-4 sedute a settimana, quando possibile. Alcuni hanno accettato pazienti a 1 o 2 sedute settimanali per necessità e controvoglia. Altri invece perchè lavorando solo a 3 o 4 sedute avrebbero escluso dalla propria esperienza persone non in grado di accettare o sostenere un tale ritmo. E avrebbero rinunciato a un’ampia casistica che suscitava interesse.

I più anziani fra noi sono concordi nello stabilire una data, intorno alla quale è diventato difficile trovare pazienti a tre sedute o più: la fine degli anni ’80, l’inizio dei ’90. Come mai, ci siamo chiesti? Non abbiamo una risposta, anche se qualcuno ricorda che quella fu un’epoca di radicali modificazioni culturali, sociali, economiche e politiche. Sono soprattutto gli anni in cui la legge sulla psicoterapia ha messo nel mercato i primi diplomati psicoterapeuti.

Con il lavoro su casi clinici ci poniamo fra le altre una domanda di fondo: la riduzione del numero di sedute consente di mantenere un trattamento psicoanalitico vero e proprio?

Elasticità della tecnica

Di elasticità si parla spesso nel gruppo. Fermo restando che non è facile capire che cosa il paziente chieda, confrontando le nostre modalità di presa in carico ci troviamo d’accordo sul dare risposte coerenti ai bisogni e alle possibilità di ogni singolo paziente. C’è la tendenza a consultazioni prolungate (3-4 incontri o più), durante le quali si cerca di orientarsi sul trattamento più adatto a ogni situazione.

Il numero delle sedute viene concordato con il paziente, sulle sue possibilità: economiche, di tempo ed emotive, rispetto a una maggiore o minore distanza tollerabile. Ci siamo trovati tutti d’accordo sulla opportunità di iniziare, la maggior parte delle volte, con poche sedute settimanali (anche una), per aumentare poi eventualmente la frequenza, quando stimato opportuno e accettabile per il paziente. Analogamente, ci siamo trovati per lo più concordi nel proporre (non imporre) la posizione faccia a faccia o sul lettino. Si accoglie un uso più modulato del lettino da parte del paziente, sul quale può coricarsi, stare seduto, appoggiarsi in vario modo in libertà di scelta.

Emerge l’idea che sia cambiato oggi il concetto di dipendenza: la concepiamo come bisogno del paziente ed esito di una relazione in cui una mente aiuta un’altra mente a elaborare pensieri, in un setting elastico e ospitale che favorisce l’esprimersi. L’accoglienza deve promuovere il graduale avvicinarsi a una versione conquistata e costruttiva della dipendenza, contro la tendenza, presente nell’attuale clima culturale, a giudicarla negativa.

C’è poi un’altra idea di fondo, secondo cui una psicoanalisi diversa non è richiesta solo dal fatto che i pazienti sono cambiati. Sono cambiati gli analisti stessi che, più capaci di entrare in contatto con profondi e intensi elementi di ‘pazzia’, hanno ampliato il loro campo di intervento. Il nostro setting è diverso in seguito a una nuova sensibilità, che ci predispone a interventi più articolati e profondi e a una indispensabile apertura e disponibilità a patteggiare.

Psicoanalisi o psicoterapia?

Per una eventuale distinzione abbiamo ritenuto più importante l’assetto mentale dell’analista, ossia l’ascolto di cosa viene detto, ma anche cosa non può ancora essere detto o pensato. La restituzione di questo ascolto dipende dalle capacità ricettive del paziente. Con alcuni, non in grado di rappresentare, occorrerà tempo per creare l’accesso a capacità associativa e pensiero.

Il modello teorico

Una domanda continua ad affiorare nel gruppo: se è cambiata la prassi è cambiata anche la teoria? Alcuni ritengono di non aver molto cambiato pratica e orientamento perché sono cresciuti in un ambiente (analisi, supervisioni) in cui il modello era già diverso rispetto a un tempo. Quale tempo?

Se partiamo da Freud, dalla sua concezione di mente e sviluppo orientata secondo la teoria delle pulsioni, vediamo campeggiare l’importanza di resistenze e difese. Compito dell’analista è vincere le resistente e analizzare le difese, con un paziente che collabora per metà, l’altra metà impegnata a resistere agli sforzi del terapeuta.

Se invece si pensa all’essere umano come qualcuno che fin dall’inizio ha bisogno di una persona da cui attende sicurezza, accoglienza, comprensione e riconoscimento, allora la posizione dell’analista cambia. Se la sofferenza del paziente nasce da difetti traumatici nell’accoglienza primitiva (e anche in quella successiva) e gli aspetti sofferenti sono frutto di aree di ‘fragilità narcisistica’, più o meno non cresciute, distorte, traumatizzate, allora l’attenzione dell’analista non sarà volta a quanto il paziente fa per impedire l’analisi, ma sarà volta a far sì che i vecchi traumi non si ripetano o, se si ripetono, possano essere riconosciuti e curati. Di qui una maggiore tendenza a seguire il paziente, nella relazione analitica, con flessibilità, attenzione e vicinanza.

Il confronto fra modelli illustrato in queste pagine è condiviso da molti nel gruppo, meno da altri, che lo vedono troppo saturo. E’ infatti presente anche la tendenza a integrare impostazioni variegate, capaci di attingere alle varie formulazioni teoriche che la psicoanalisi ci ha offerto nel corso della sua storia, anche perché sono proprio i pazienti a essere eterogenei (Marucco, 1998, Quinodoz, 2004).

Viene data importanza, nel gruppo, al Sé, alla sua formazione nella relazione originaria e in quella analitica. La stanza d’analisi, ricorda una di noi, è il luogo in cui il soggetto trova un oggetto per la trasformazione del Sé (Bollas, 1987). L’analista, privilegiando interventi insaturi, assume una posizione meno autoritaria, modificando la qualità della dipendenza del paziente.

Constatiamo la presenza di modelli teorici diversi tra loro e dal passato: il cimento è tenerli insieme rinunciando luttuosamente ma anche liberatoriamente a una teoria onnicomprensiva; l’idea è usare le teorie non come dogmi ma strumenti di lavoro, ingredienti per preparare di volta in volta il cibo appropriato.

Il denaro

Abbiamo dedicato tempo al denaro, argomento poco trattato e a volte considerato tabù. Con la franchezza che l’atmosfera del gruppo ha consentito, oltre a esserci confrontati su tariffe (variabili e adattabili alle condizioni e ai bisogni dei pazienti) e fatturazione, abbiamo affrontato il dilemma se far pagare le sedute saltate e consentire spostamenti.

C’è accordo per quanto riguarda l’opportunità di aderire a richieste di spostamenti, quando sia possibile, creando un apposito spazio mentale e fisico per renderli fattibili.

C’è invece ampia divergenza sulle sedute saltate, che alcuni fanno pagare sempre, anche in caso di lunghi ricoveri in ospedale, altri non fanno pagare se c’è un preavviso più o meno ampio, altri ancora non fanno pagare del tutto. Queste diverse modalità di approccio sono state messe in relazione, tra l’altro, con la fase dell’analisi in cui la coppia si trova. Dobbiamo ridurre, per motivi di spazio, a queste poche note un tema dibattuto con passione e che meriterà una trattazione più ampia. Tre articoli (Seligman, 2003, Laor, 2007, Bass, 2007) di cui parleremo, portano esempi clinici su diversi modi di affrontare il problema.

Novità o resistenza?

Sin dalle prime battute, compare nel gruppo lo spauracchio delle ‘resistenze’. Si ricorda che un autorevole collega ha detto: gli analisti chiamano idee nuove quelle che invece sono resistenze (Riolo, 2006). E si osserva che quanto si va dicendo ora, vent’anni fa sarebbe stato considerato una collezione di difetti dei giovani analisti con scarsa capacità di tenere il setting e scarsa fiducia nella psicoanalisi. Vent’anni fa. E oggi?

Ci troviamo a scambiare esperienze di sconcerto, difficoltà, crisi di identità vissuti nel periodo del cambiamento. Essere psicoanalisti in modo diverso ha creato imbarazzo, e tutti, per alcuni anni si è lavorato nel cambiamento alla chetichella. Molti, come si diceva, sono analisti di bambini e adolescenti, che hanno avuto uno spazio (l’Osservatorio) dove confrontare vissuti ed esperienze. Ma gli altri? Si ricordano scritti sulla clandestinità (Badoni, 1994), necessaria quando una identità si va costituendo, e su vergogna e colpa (Israel, 1993, Sonzini, 1999) che accompagnano il senso di inadeguatezza rispetto alla ‘purezza’ della pratica psicoanalitica quando cambiando avvertiamo conflitto con le nostre origini.

E’condivisa e apprezzata l’idea che un ridotto numero di sedute sia comunque efficace e sovente praticabile, rimanendo, tuttavia, favorevoli, senza eccezioni, ad analisi a elevato numero di sedute quando sia possibile e indicato.

I più giovani, si diceva, credono di lavorare come i loro analisti o supervisori. Alcuni ‘anziani’, invece, hanno, di supervisioni e analisi personale, ricordi legati a esperienze coartanti, e imposizioni che hanno rallentato e complicato lo sviluppo di stile personale e spontaneità coi pazienti. Tutti però ricordano leggerezza e sollievo alla fine del training e l’incubo d‘obbligare i pazienti a una frequenza perlopiù vissuta come impropria e incomprensibile.

Noi desideriamo offrire ai colleghi la condivisione del lavoro quotidiano, quel che capita davvero, per riflettervi. I risvolti da approfondire sono moltissimi.

Questo scritto nasce dalla necessità di custodire una intensa e autentica, non solo formale, appartenenza alla nostra Istituzione, e dalla passione non incrinata per la psicoanalisi. La partenza è questo sentimento: non siamo psicoanalisti in crisi, siamo psicoanalisti rivolti alla propria Istituzione, a volte con disagio, ma con il fermo desiderio di capire e andare oltre i suoi aspetti critici. Sapremo superare la fatica di dire cosa facciamo?

A proposito di identità

Pensiamo che un nodo nel fare analisi a poche sedute siano immagine e identità: che differenza c’è allora fra noi e altre scuole? Il training? No, il training, in alcune scuole ricalca il nostro. La differenza è un’altra: noi siamo una Società - e non solo una scuola - che ha cura dei soci, fa istruzione permanente e capillare ovunque e ha servizi di consultazione aperti al pubblico.

La SPI non è solo training, la SPI siamo anche noi che continuiamo, ogni volta un passo in più, a lavorare, a interrogarci, a nutrire dubbi, a confrontarci in gruppi, in incontri, a voce o per iscritto in varie sedi istituzionali. Esiste un senso di appartenenza sostanziale.

L’analista non diventa tale una volta per tutte, ma ha bisogno di continuare a rimanerlo attraverso il rapporto con pazienti e colleghi. Il che rimanda a un implicito teorico fondamentale: il nostro funzionamento mentale è lo strumento principe nel nostro lavoro.

La nostra esperienza non si è svolta nel vuoto. La letteratura è densa di testimonianze di cambiamento, che risalgono ai primi passi della psicoanalisi. Ci muoviamo in un contesto ricco di idee e discussioni con radici lontane.2

Identità e cambiamenti nel corso della storia

I consigli di Freud e l’elasticità della tecnica

Freud non si espresse mai in modo dogmatico sulla tecnica. Nei “Consigli al medico” del 1912 molte indicazioni riguardano quello che non si deve fare perché un comportamento sia da considerare analitico (Freud, 1912). Cosa si deve fare, invece, è che paziente e analista assumano un assetto mentale particolare (libere associazioni e attenzione fluttuante). Nei “Nuovi consigli sulla tecnica della psicoanalisi” (1913-14) dirà con chiarezza: “La straordinaria diversità delle costellazioni psichiche di cui siamo costretti a tener conto, la plasticità di tutti i processi psichici e la quantità dei fattori che si rivelano di volta in volta determinanti, sono tutti elementi che si oppongono a una standardizzazione della tecnica” (Freud, 1913-14, 333). Tuttavia, dà alcune regole per “un comportamento mediamente appropriato per il medico” (Ibidem, 334). Per quanto riguarda il numero delle sedute informa che la scelta per sé è sei a settimana (nei casi meno gravi, tre). Anche i suggerimenti su denaro e uso del lettino non hanno nulla di categorico. Propone le scelte adatte a lui, non esclude che altri lavorino in altro modo. Sappiamo che lavorò anche a cinque sedute a settimana. Se all’inizio il suo lavoro era improntato alla ricerca, poi si dedicò alle analisi didattiche. Nel desiderio di espandere la psicoanalisi e creare nuovi analisti in grado di formarne altri, faceva trattamenti a cinque sedute settimanali per pochissimo tempo (da poche settimane ad alcuni mesi, un anno al massimo). Ne sono testimonianza i resoconti di alcuni suoi allievi (Wortis, 1954, Doolittle, 1956, Blanton, 1971), nei quali appare un Freud analista poco “ortodosso”, con comportamenti per nulla neutrali, molto presente come persona ed elastico nella tecnica. Ne parlano Cremerius (1985), Flem (1986), Nissim Momigliano, che si chiede “Ma Freud era freudiano?” (1985). E’ indubbio che dopo Freud ci sia stato irrigidimento della tecnica, evidente nella richiesta di standard sul setting. E’ stata una ricerca di regole e rigore indispensabili per una psicoanalisi che doveva dare garanzie al mondo. Come vedremo, oggi, dopo settant’anni, le cose possono cambiare.

Tornando a Freud, egli espresse preoccupazione per le persone sofferenti ma povere, che non potevano accedere all’analisi. Disse: “ ... è possibile prevedere che un giorno o l’altro la coscienza della società si desti e rammenti agli uomini che il povero ha diritto all’assistenza psicologica [ ... ]. Dovremo allora affrontare il compito di adattare la nostra tecnica [...]. Sarà quindi “molto probabile che l’applicazione su vasta scala della nostra terapia ci obbligherà a legare in larga misura il puro oro della psicoanalisi con il bronzo della suggestione diretta [ ...]” (Freud, 1918, 27-28, corsivo nostro). Sono affermazioni profetiche. Il padre della psicoanalisi era consapevole che ciò avrebbe comportato gratificazioni dirette anche se, allora, pensava più a una gratuità di trattamenti che non a fattori temporali (numero delle sedute e durata del trattamento). Oggi dobbiamo e vogliamo offrire la psicoanalisi anche a chi non può permettersi (per le ragioni più varie, interne ed esterne) un trattamento psicoanalitico troppo intenso e costoso. Va detto al contempo che, mentre la preoccupazione di Freud e dei primi analisti era accorciare la durata, oggi si ha meno paura di trattamenti lunghi e i cambiamenti riguardano più l’intensità (la frequenza delle sedute, che può essere troppo costosa anche in termini di vicinanza emotiva).

Nel periodo in cui Freud si occupava di formare nuovi analisti, Ferenczi continuava la sua originale ricerca, con metodi arditi, a volte troppo, e una sensibilità particolare ad accogliere i pazienti con curiosità e tatto, avendo in mente l’importanza di non essere intrusivi e impositivi . In “Elasticità della tecnica” (Ferenczi, 1927) paragona l’atteggiamento flessibile dell’analista ai bisogni e alle richieste del paziente, alla situazione di chi ha in mano un elastico, che maneggiato al contempo da qualcuno vicino, si allunga o si accorcia. L’analista non si fa sbilanciare, conserva una sua, pur flessibile, posizione, finché non si trovi l’ottimale equilibrio. Questa descrizione appare pertinente rispetto a quanto il nostro gruppo ha discusso: trovare con ogni paziente un equilibrio, una distanza ottimale, una quantità presenza-assenza adatta. Ferenczi dice “E’ più conveniente concepire l’analisi come un processo di sviluppo che avviene davanti ai nostri occhi, che come l’opera di un architetto, che tende a realizzare un progetto preordinato” (Ibidem, 307). Rispetto quindi, tatto, empatia, non come giustificazione di spontaneismo quanto per “valutazione dei fattori dinamici della situazione” (Ibidem, 317). La ricerca psicoanalitica si è andata svolgendo da due filoni, che fanno capo a Freud e a Ferenczi, l’”enfant terrible” per molto tempo screditato e poi rivalutato e considerato fra i grandi maestri. Noi seguiremo il secondo filone, per motivi di affinità. Va detto, però, che se gli analisti di fede freudiana tendono a essere rigidi sul setting, come poi vedremo, Freud era aperto e possibilista, come dimostrano le affermazioni e i consigli che abbiamo citati.

Casi particolari e l’avvicinamento della psicoanalisi alla follia

Una delle figure della storia della psicoanalisi che può essere maggiormente avvcinata a Ferenczi, è Winnicott. Dai resoconti di due suoi illustri pazienti risulta quanto egli potesse essere disponibile a venire incontro alle loro esigenze rinunciando a proporre e mantenere i setting rigidamente codificati dalle Istituzioni del momento.

Margaret Little era una paziente grave, che iniziò l’analisi con Winnicott dopo una cura con Freeman Sharpe, che la aiutò a diventare psicoanalista ma non seppe capire quanto fosse malata. Con lei Winnicott fece un maternage concreto (Little, 1990), seguendo l’idea che al principio della vita un essere umano debba trovarsi in simbiosi con la madre ambiente, in una atmosfera mentale di identificazione primaria e fusione, come condizione per imparare a sentire e a pensare. E seguendo l’idea che questa è un’epoca dello sviluppo, a cui, se è stata carente, l’uomo deve tornare per riavviare una crescita fisiologica.Winnicott riteneva che l’analisi classica, del transfert, dell’edipo e così via, fosse adatta ai nevrotici. Per le persone con danni primitivi più gravi era invece indispensabile la “regressione alla dipendenza” (Winnicott, 1954). Egli diede molta importanza all’ambiente esterno, soprattutto quello della prima infanzia, come causa delle sofferenze dei pazienti, e fu un analista-ambiente, che assumeva atteggiamenti attivi e concretamente accoglienti quando fosse utile. E’ lampante, nel caso della Little, come le sue teorie sullo sviluppo e il lavoro con i bambini influenzassero profondamente la sua tecnica.

Harry Guntrip è un altro testimone dell’elasticità di Winnicott. “Dal 1962 al 1968 ho fatto 150 sedute e il loro valore non è stato assolutamente proporzionale al loro numero. Winnicott si disse sorpreso che tanto potesse essere elaborato in sedute così distanziate; questo si deve, io penso, in primo luogo al lavoro di chiarimento che era stato fatto prima con Fairbairn e al fatto che riuscivo a tener viva l’analisi negli intervalli fra le sedute; ma soprattutto ai profondi insight intuitivi di Winnicott relativi a quei primitivi periodi dell’infanzia ai quali avevo così bisogno di ritornare” (Guntrip, 1975, 152, traduzione nostra). Winnicott accolse Guntrip, che viveva e lavorava a Edimburgo e voleva un’analisi con lui a Londra, accettando di incontrarlo per una o due sedute ravvicinate al mese. Nell’arco di sei anni, un’analisi considerata dal paziente proficua e risolutiva, avvenne con una frequenza che non raggiungeva le due sedute al mese.

Winnicott sosteneva che quando è possibile si propone l’analisi, se no si inventa modifiche adatte. “Dei molti pazienti che per un motivo o un altro vengono da me” disse “solo una percentuale minima viene trattata con la psicoanalisi, sebbene io lavori al centro del mondo psicoanalitico.” (Winnicott 1986, 101). Egli, comunque, riteneva psicoanalitico ciò che faceva (Winnicott, 1954, 1989).

A differenza di Ferenczi, ma non senza difficoltà, Winnicott riuscì a rimanere al centro del mondo psicoanalitico londinese, dominato dalla psicoanalisi kleiniana degli anni ’50-‘60. Franco Borgogno accomuna Ferenczi e Winnicott, capaci di “mantenere modestia e umiltà nella loro ‘sperimentazione’ terapeutica, turbando, ieri e oggi, chi aderisce pedissequamente alla regola e non allo spirito nobile della psicoanalisi” (Borgogno, 2006, 11). Nel riscoprire la teoria attraverso la clinica hanno saputo entrambi “opporsi come partner franchi e solidali, e non solo discepoli, ai maestri (il primo a Freud, il secondo a Klein)” (ibidem, 12).

Un autore italiano molto vicino a Winnicott, chiedendosi negli anni ‘80 se e come fossero cambiati i pazienti, concluse che non tanto i pazienti quanto gli analisti erano cambiati, avvicinandosi alla psicosi considerata inavvicinabile dalla psicoanalisi ai suoi primi passi. “La conoscenza della psicoanalisi è andata verso la conoscenza della pazzia, circondata dalla paura di tutti”. (Gaddini, 1984, 578-579) Non i pazienti vanno verso la pazzia, ma gli analisti si avvicinano con il loro aiuto alla verità perennemente temuta. Ora, se ciò è vero, pare naturale che l’incontro debba avvenire spesso in condizioni di grande fragilità e incertezza. Un approccio all’inconscio fondato sulla paura della pazzia costituisce un cambiamento di paradigma rispetto a quello fondato sulle idee di resistenza e difesa. Questa “paura” non è l’emanazione di una spinta pulsionale pericolosa. Essa suggerisce una minaccia immediata e radicale all’esistere e all’essere vivi, sia pure in senso psichico. In altre parole, non si tratta tanto di far emergere le rappresentazioni inconsce come nella cura dei nevrotici, quanto di costruire la possibilità stessa di inconscio, la possibilità dell’oblio e della rimozione (Fiorentini et Al., 2001).

La “crisi della psicoanalisi”

Si potrebbe a questo punto concludere che di modificazioni della tecnica si è sempre parlato ma su situazioni speciali, particolarmente gravi o, come nel caso di Guntrip, eccezionali. In realtà accade sempre, consultando la letteratura, che il dilemma è intorno a cosa sia psicoanalisi o no. Si possono fare molte cose che diciamo di fare oggi, ma si passa allora nell’ambito della psicoterapia. La storia della psicoanalisi a un certo punto mette gli analisti di fronte a un problema che non può lasciare indifferenti e costringe ad affrontare situazioni nuove (e a pensare). Già dagli anni ’70 è segnalata negli USA una crescente difficoltà, da parte dei candidati, a trovare pazienti adatti alle supervisioni di training: pazienti non troppo gravi e che possano sostenere quattro o cinque sedute settimanali per lungo tempo (Glifford, 2005).

La situazione successivamente dilaga. Negli Stati Uniti, e poi in Europa, diventa sempre più difficile trovare pazienti da setting classico, a quattro sedute, non solo per i candidati ma per tutti gli analisti. Noi abbiamo incontrato, si diceva, le prime difficoltà nel 1989. Questo problema è stato a lungo dibattuto (e il dibattito prosegue tutt’ora) come crisi della psicoanalisi. Su questo tema la letteratura è immensa e coinvolge le maggiori riviste psicoanalitiche ma anche le varie Istituzioni, compresa l’IPA, che affida a volte il dibattito a commissioni ad hoc (Monari e Resele, 2010).

Potrebbe sembrare che i temi affrontati nel nostro lavoro di gruppo rientrino proprio nella cosiddetta “crisi della psicoanalisi” ma noi, come abbiamo già detto, non ci siamo riuniti sotto questo titolo e non ci siamo mai sentiti in discussione come professionisti per mancanza di lavoro. Siamo d’accordo con chi dice che la crisi della psicoanalisi è la crisi di alcuni psicoanalisti in difficoltà ad adattarsi a un mondo che cambia.

Dove sono finiti i pazienti psicoanalitici?

Un numero monografico di Psychoanalytic Inquiry del 2000, parafrasando una canzone di Joan Baez, si intitola: “Where have all the psychoanalytic patients gone?”. Gli autori si dividono in due gruppi: per alcuni i pazienti d’analisi ci sono ancora, basta adattarsi alle esigenze di un mondo che cambia e allargare l’applicazione dell’analisi a casi nuovi; per altri la psicoanalisi classica e la frequenza quadrisettimanale, vanno custodite anche a costo di rimanere pochi e con pochi pazienti o nessuno.

Wallerstein, primo gruppo: i pazienti psicoanalitici non se ne sono andati, “sono ancora qui” (Wallersterin, 2000, 503); la riduzione delle richieste di analisi classica negli studi privati è dovuta a ragioni esterne (economiche, sociali) mentre il vero cambiamento è nel mutato modello psicoanalitico. In base al modello prevalente negli Stati Uniti negli anni ‘50-’60, l’analista era focalizzato sulle distorsioni transferali e, attraverso ripetute interpretazioni finalizzate a distinguere realtà e fantasia, induceva una riorganizzazione intrapsichica. Era una psicologia unipersonale, con l’analista fuori dal campo di battaglia. Questo quadro teorico oggi è molto cambiato, nelle analisi come nelle psicoterapie, considerate varianti tecniche per curare particolari tipi di pazienti. I chiarimenti di Kohut sulla particolarità di specifici transfert, l’allargarsi del consenso intorno alla psicologia bipersonale nelle sue varie declinazioni, insieme a sostanziali modifiche tecniche (non più soltanto interpretazioni!) hanno allargato l’applicabilità del metodo psicoanalitico a una più vasta gamma di pazienti. Per questo Wallerstein dice che i pazienti psicoanalitici sono ancora qui. Basta riconoscerli e avvicinarli con il metodo giusto. La differenza tra psicoanalisi e psicoterapia, nel suo modo di vedere, sfuma.

Nello stesso numero della rivista Skolnicoff (2000) afferma con decisione che per i pazienti nevrotici la terapia a quattro sedute è quella di elezione, per gli altri no; le differenze psicoanalisi/psicoterapia esistono ma, nella sua esperienza, non ci sono mai trattamenti “puri” (o l’una o l’altra). L’autore dichiara che è per lui più gratificante, oggi, lavorare sentendosi libero di rinunciare al pur amato metodo classico pur di poter incontrare sempre nuove esperienze.

Di posizione contraria è Bachrach, non disposto a considerare analitico un metodo senza alta frequenza delle sedute, la quale consente l’uso delle libere associazioni che affondano nell’inconscio “fino alle estreme conseguenze” (Bachrach, 2000, 548). Allison (2000) ritiene opportuno, piuttosto che diminuire la frequenza delle sedute, abbassare gli onorari. Skolnicoff (2000) scrive che gli allievi psicoanalisti devono sapere che cosa li aspetta: pazienti difficili e onorari bassi.

Creare il paziente?

Il numero monografico pone ai suoi autori un’altra domanda: è opportuno come dice Rothstein (nel libro Psychoanalytic Technique and the Creating of Analytic Patients, 1998) “creare” il paziente psicoanalitico, iniziando l’analisi anche a una seduta settimanale con l’obiettivo, di cui il paziente è a conoscenza, di portarla a quattro, vincendo la riluttanza – resistenza del paziente? Lazar (2000) è decisa nel dire che no, non è analitico avere questo intento, è contrario all’assenza di memoria e desiderio prescritta da Bion. E aggiunge che spetta al paziente decidere quanto debba essere intensivo il trattamento e quanto a lungo debba durare.

La formula di “creare” il paziente portandolo gradualmente al setting classico fa pensare a Ferro, che parla della opportunità a volte di incominciare con una seduta a settimana faccia a faccia per consentire poi una frequenza più alta e l’uso del lettino. Egli sostiene che questa prima fase del trattamento è analisi, non psicoterapia, poi tuttavia fa capire che per lui arrivare al lettino e alle quattro sedute è importante. Il suo atteggiamento però è diverso da chi combatte per vincere la “riluttanza” di un paziente resistente, e infatti usa la metafora più morbida di aiutare il paziente “a nuotare verso il lettino” (Ferro, 2007, 124)

La “creazione” del paziente ci riporta al problema della resistenza. Rothstein punta alle resistenze del paziente, d’accordo con Bachrach, ma nessuno accenna a quelle dell’analista. Da noi, invece, Riolo ha parlato proprio di questo: “... chiunque è disposto a riconoscere in linea di principio l’esistenza dell’inconscio, salvo poi a rifiutare di applicare questo riconoscimento a se stesso e continuare a pretendere per le proprie ‘interessate’ ragioni il crisma della verità. A questo tipo di difesa, osserva Freud, sono particolarmente esposti gli analisti, che per il fatto di esercitare questa professione si ritengono immuni dall’essere soggetti alle stesse resistenze dei loro pazienti. Con una aggravante in più, quello che le loro difese possono presentarsi in forma di teorie psicoanalitiche.” (Riolo, 2006, 587). E’ vero, le resistenze (e difese) sono inconsce e difficili da smascherare. Tuttavia la difficoltà dell’analista ad accogliere nuovi approcci all’analisi potrebbe venire essa stessa da una resistenza inconscia. O no?

La psicoanalisi e il lettino

Parlavamo di Ferro e del nuotare verso il lettino. Sull’uso di questo oggetto che caratterizza agli occhi di tutti la psicoanalisi freudiana, sono state espresse le opinioni più diverse. Cahn scrive: “Non è forse vero che è fuori dal setting della cura sul divano che è nata la maggior parte delle nozioni e dei modi di approccio che hanno rinnovato e approfondito la tecnica e la teoria psicoanalitica [...]?” e si riferisce all’analisi dei bambini e adolescenti, ai gruppi, allo psicodramma. E aggiunge: “Da quando è diventato sempre più evidente che era meno il setting o l’indicazione, a prescindere dalle circostanze, a costituire le condizioni dell’analisi, quanto piuttosto la modalità di ascolto e di azione dell’analista in quanto analista, il faccia a faccia si è rivelato ricco di possibilità inaspettate” (Cahn, 2002, 78, corsivo nostro). Kernberg osserva che “né la frequenza delle sedute, né l’uso del divano rappresentano una caratteristica significativa che permette di definire la psicoanalisi” (Kernberg, 2000, 208). Ogden, pur riconoscendo che in alcuni periodi il lettino può essere per certi pazienti pericoloso lo preferisce in genere poiché facilita la reverie di analista e paziente, la riservatezza, e il flusso associativo. E non capisce per quale motivo dovrebbe rinunciarvi con i pazienti che vede una volta a settimana (Ogden, 1997)

Negoziazione del setting e autorità dell’analista

Siamo partiti dall’Europa (Freud, Ferenczi, Winnicott, Gaddini), ci siamo poi ritrovati negli Stati Uniti (Wallerstein, Bachrach, Allison, Laor) per ritornare in Francia (Cahn) e negli Stati Uniti ancora (Ogden). Ora parleremo di un autore statunitense e di una israeliana. Citeremo più avanti il contributo importante di un autore brasiliano. La psicoanalisi che cambia è un tema di ubiquitario interesse e i contributi si vanno infittendo nella prima decade del terzo millennio.

Seligman (New York) e Laor (Tel Aviv) possono essere qui accostati per un tema assai importante per il nostro discorso, quello della negoziazione del setting. In un lavoro del 2003, Seligman affronta una serie di capisaldi della psicoanalisi, mostrando i mutamenti che sono avvenuti. Parla di rimozione, che oggi forse è più avvicinabile alla scissione, di passato, presente e conoscenza procedurale, essere umano come insieme di Sé morbidamente assemblati, nelle varie matrici relazionali della vita. Ma un aspetto significativo sul discorso che seguirà è cosa dice sull’autorità dell’analista. Se l’analista è legato alla narrativa edipica come fattore evolutivo per la nascita del Superio, allora il suo atteggiamento sarà sorvegliare il compiersi adeguato di questo percorso, come benevolo occhio autoritario, guida garbata nei confronti dei fatti psichici in cui è coinvolto il paziente. L’autorità dell’analista, in questo contesto, è inevitabilmente data, un fatto compiuto. Diversamente, in una matrice relazionale, l’autorità dell’analista non è un fatto compiuto, ma emerge nella relazione ed è, come gli altri eventi della relazione, soggetto a negoziazione. La ricerca infantile e il modello bipersonale portano a vedere l’autorità dell’analista formarsi dall’influenza reciproca dei due soggetti nella coppia. Il Superio perde enfasi, nel modello relazionale e la cooperazione e il riconoscimento dell’altro divengono le principali radici dello sviluppo morale. Il potere e l’autorità dell’analista diventano più simili a quelli della madre che a quelli del padre (Seligman, 2003). Questi concetti sono una premessa indispensabile a quanto l’autore dirà in un lavoro qualche anno dopo. Il rifiuto di una paziente a pagare le sedute non fatte per una vacanza mette l’analista di fronte a uno sterile braccio di ferro. Vi rinuncia e prova a mettersi nella mente della giovane, ne saggia l’incapacità a mentalizzare, ossia a vedere le cose dal punto di vista dell’altro, in questo caso l’analista. La decisione di non far pagare le sedute, spiegando alla paziente d’aver maturato dubbi sulla questione e voler cercare in seguito, insieme, la via giusta da seguire dà fiducia alla ragazza e il discorso fra loro continuerà. Raccontando questa storia Seligman suggerisce l’importanza di piegare il setting al paziente e non il paziente al setting, mediante la capacità di negoziare e aspettare, accompagnando la paziente nella costruzione dell’ambiente adatto a lei (Seligman, 2007).

A proposito di autorità, ritornano alla mente le parole di Little: per Winnicott “richiedere delle ‘associazioni’ o forzare un’’interpretazione’ sarebbe stato’maleducato’ oltre al fatto che sarebbe stato inutile” (Little, 1990, 47).

Anche Ileana Laor (Tel Aviv) parte da un problema sorto con una paziente sul pagamento. La conclusione dell’autrice è favorire la negoziazione, esperienza importante per questa paziente, che nella sua storia era stata soggetta a uomini prepotenti e per la quale non c’era possibilità di una terza via rispetto all’ essere tiranni e forti o santi e deboli. E’ importante tenere presente che la negoziazione non tende al compromesso, ma alla soluzione per la coppia analitica in quel momento. L’elasticità della tecnica, sotto questo profilo, assume connotazioni più chiare e ragionate (Laor, 2007).

Teoria, tecnica e stile

Gli autori convinti che la tecnica dipenda dalla teoria che l’analista ha in mente sono tanti. Fra questi Bass, secondo cui gli analisti che operano con teorie differenti sulla situazione psicoanalitica e le sue caratteristiche di cura e mutamento, operano con cornici differenti (Bass, 2007). Per Freud lo scopo era mettere in evidenza lo sviluppo delle esperienze di transfert in quanto derivato dalle pulsioni, ma il secolo scorso ha prodotto nuove idee e di conseguenza nuove cornici. In un ampio lavoro che meriterebbe più spazio, l’Autore aggiunge anche un rilievo interessante: considerando la lunghezza delle analisi di oggi, che supera la media della durata dei matrimoni, ci può essere uno sviluppo di analista e paziente in direzioni diverse, con l’esigenza quindi di ridefinire la cornice in funzione di questi cambiamenti. Ci sono momenti di impasse, in analisi, dovuti al fatto che la cornice non si adatta più al quadro.

Per Ogden la tecnica analitica è ciò che “ si è sviluppato da un ramo o un gruppo di rami della propria ascendenza analitica” (Ogden 2009, 111). Egli preferisce riferirsi allo stile, che nasce dalla personalità, dalla competenza dell’analista, dalla sua esperienza della vita, oltre che dai propri antenati psicoanalitici. Queste visione ci permette di tornare al Freud del 1912: “Le regole tecniche che mi accingo a proporre sono state ricavate dalla mia pluriennale esperienza [ ... ]. Devo tuttavia dire esplicitamente che questa tecnica si è rivelata l’unica adatta alla mia individualità e non pretendo di escludere che una personalità medica di altra natura possa essere spinta a preferire un atteggiamento diverso di fronte al malato e al compito che deve affrontare” (Freud 1912, 532).

Quello che realmente facciamo è psicoanalisi?

Nella stanza d’analisi

Per più di un anno, si sono discusse nel gruppo le nostre relazioni con i pazienti, studiando anche le situazioni da molti giudicate inadatte a un’analisi: frequenza settimanale inferiore a tre sedute, faccia a faccia, adattamenti per impossibilità dei pazienti ad avere ritmi regolari.

Da quanto raccolto e discusso, estrapoliamo gli aspetti che caratterizzano un trattamento psicoanalitico.

L’analisi si svolge in uno spazio definito, intimo e protetto, sempre lo stesso (se si può), con incontri di uguale durata e cadenze regolari. Solo un caso, tra quelli visti, si è svolto senza questa regolarità, ma ne riparleremo, sarà occasione per aprire ulteriormente il nostro discorso.

“L’analista è costante e affidabile, risponde agli affetti del paziente, accoglie e accetta il paziente e non ha atteggiamenti di ritorsione e di rivalsa. E’ presente per i bisogni del paziente e non per i propri”. Facciamo nostre queste affermazioni di Modell (1984, 74) che si adattano molto bene al nostro modo di lavorare.

L’analista non utilizza mai il paziente per le sue capacità professionali, non intrattiene con il paziente rapporti sociali extra-analitici, non ha relazioni d’affari o sessuali con lui.

Ci pare in effetti importante tra i principi di fondo, sottolineare ciò che come analisti non facciamo.

In seduta l’analista ascolta il paziente e contemporaneamente i propri pensieri emergenti. La comprensione dello scambio affettivo inconscio con il paziente avviene spesso attraverso il riconoscimento di sé in immagini e racconti che fa il paziente. Per esempio: al primo incontro, l’analista propone un trattamento a tre sedute settimanali. Al secondo la paziente porta un sogno nel quale minacciava il padre con un coltello, gridando che non gli avrebbe permesso di fare alle nipoti quel che aveva fatto a lei. L’analista si vede nel padre e ipotizza d’essere visto dalla paziente come intrusivo e abusante per aver proposto un legame troppo stretto.

L’analista ricostruisce nella sua mente la storia emotiva e affettiva del paziente e della coppia analitica, ed è pronto a restituire le ricostruzioni quando ritenga che il momento sia opportuno. Ascolta la storia del paziente ma non gli racconta la propria.

L’analista è in grado di fluttuare nella non chiarezza, segue il paziente nei suoi racconti e nei suoi sogni accettando di non capire e lasciandosi guidare. Ciò accade per esempio in un caso a due sedute settimanali faccia a faccia dove, dopo un lungo errare giunge un sogno. L’analista accompagna le associazioni della paziente ancora senza capire, finché dal simbolismo del sogno la stessa paziente trae il ricordo di un abuso subito nell’infanzia, di cui può finalmente parlare con qualcuno che le crede. Prima mai: i genitori non avevano né “visto” né creduto. Questo caso, così come altri, ci ha portato a considerare che il faccia a faccia possa essere molto opportuno per pazienti con traumi misconosciuti, che hanno bisogno d’esser “visti” dall’analista e “vedere” sulla sua faccia le espressioni emotive, cosa pensa, come sta.

In un caso a una seduta settimanale la paziente porta un sogno articolato, insieme a un grave problema professionale che ne minaccia acutamente l’equilibrio mentale. Di fronte al materiale traboccante, l’analista sceglie di aiutare la paziente a elaborare il problema di lavoro, limitandosi a “dare ricevuta” del sogno che riprenderà nelle sedute successive. Gli sarà possibile mantenere nella mente i due percorsi di senso, che si intrecciano, dei sogni e della reazione ambivalente della paziente per l’aiuto ricevuto, riportandoli all’attenzione di questa, tenendoli vivi e presenti pur negli intervalli di una settimana tra una seduta e l’altra.

Gli analisti francesi hanno sempre preferito tre sedute settimanali, contro le quattro o cinque richieste dall’IPA, mettendo in rilievo l’elaborazione, da parte del paziente ma anche dell’analista, che gli intervalli fra le sedute possono favorire (Israel, 1993).

In uno stile di rapporto non paludato, “alla mano”, rilievi o commenti di poca apparente importanza possono invece trasformarsi, nella mente del paziente, in una forma di interpretazione che lo aiuta a vedere cosa sta provando in quel momento, ad accorgersene, a cogliere con più vivezza il suo stato emotivo inconscio. Per esempio: di fronte a un inizio di seduta tumultuoso, zeppo di argomenti diversi, l’analista dice semplicemente “Difficile decidere da dove partire”. Questa è una interpretazione della situazione emotiva della paziente (probabilmente condivisa dall’analista) in quel momento nella seduta. Più avanti, al discorso concitato e preoccupato della paziente per il figlio preadolescente che mostra già segni di mascolinità, brevemente commenta nello stesso stile: “Crescono in fretta eh ... e ce lo segnalano al volo”. Anche questa è una interpretazione dello stato emotivo presente in quel momento in seduta.

Con una paziente psicosomatica, dal pensiero intellettual-concreto, in una situazione sempre difficile da reggere per la passionalità aggressiva che caratterizza il rapporto con l’analista, c’è un momento di incontro quando, da una timida possibilità di rappresentazione simbolica legata all’immagine di un quadro d’autore, si passa a giocare con immagini di cartoni animati. Il rapporto per un pò si distende, analista e paziente ridono quando quest’ultima definisce le libere associazioni uno “sparare cazzate”. In questo e in altri nostri casi il fattore terapeutico fondamentale sembra sia stato proprio il “setting”, quel luogo protetto (due sedute a settimana, faccia a faccia, in questo caso), in cui la paziente sente di avere uno spazio suo, su misura per lei, e si sente, forse per la prima volta, voluta da qualcuno.

Come si crea una “casa”

Parleremo ora, come si accennava, della situazione nella quale non è stata possibile per anni alcuna regolarità. La paziente doveva assentarsi per lunghi periodi, d’altra parte non poteva pagare le molte sedute che prevedeva non avrebbe potuto fare. L’analista è a un bivio: o imporre scadenze e pagamenti regolari, secondo una linea classica, rischiando acting out, manipolazioni, interruzioni, o rispettare quella che appariva anche una fobia relazionale della paziente e lasciare a lei la possibilità di governare le sue venute in analisi. L’analisi, con la paziente sul lettino, ha una durata ultradecennale e si svolge, anche in sedute a scadenza irregolare, secondo i canoni previsti da un trattamento psicoanalitico. La paziente all’inizio porta sogni ricorrenti su case, minacciate da quanto sta intorno. L’analista, attraverso caute ipotesi, espresse come interrogativi, esplora i pensieri e le fantasie inconsce e con cautela amplia lo spazio della consapevolezza. Un racconto di vita all’inizio confuso e frammentato si va delineando. Si aprono spazi di scoperta, qualità personali sacrificate ai bisogni di un ambiente sofferente e traumatico, qualità che pian piano si liberano producendo un umore più allegro, l’abbandono del sacrificio dell’amore, la riuscita professionale. La metafora della casa ritorna spesso nei racconti, insieme con i passaggi da una casa all’altra nella vita reale. Si direbbe che l’analista sia riuscita a dare alla paziente l’idea di una casa proprio non imponendo un setting deciso unilateralmente da lei, ma stando con lei nella ricerca di un posto veramente suo.

“L’ospitalità nella clinica psicoanalitica di oggi” è il titolo di un articolo di de Freitas Giovannetti (2004) psicoanalista brasiliano, già Presidente della Società Brasiliana di San Paolo. L’autore descrive brevemente tre casi. Per lavoro, i primi due pazienti erano sempre in viaggio e non sapevano stabilire quando avrebbero potuto incontrare l’analista per una seduta. L’analista accetta questo setting. Nonostante le lunghe separazioni queste due analisi sono andate avanti. Anche qui si è creata la possibilità di tessere racconti di vita che prima sembravano non esistere, approdando al progetto di costruirsi una casa su un lembo di terra ereditato dalla famiglia, in un caso, e tornare a stabilirsi in una città nell’altro. Il terzo paziente, giunto in analisi disperato per aver dovuto abbandonare la propria casa in seguito a separazione matrimoniale, nel corso dell’analisi incomincia a viaggiare molto per lavoro, rendendo così imprevedibilmente irregolare un setting partito regolare. La casa che questo paziente aveva dovuto abbandonare era, secondo l’interpretazione dell’analista, un nascondiglio contro la vita.

Epilogo

Torniamo alla domanda: ciò che facciamo in un setting non “classico” è psicoanalisi? Si, noi lo pensiamo.

Freud, alla fine del XIX secolo, è stato molto coraggioso. Ha affrontato assolute novità, scandalose per i suoi tempi. A noi, nel XXI secolo, non è chiesto di essere tanto coraggiosi. Cerchiamo soltanto di capire cosa vogliono i pazienti oggi e come li possiamo aiutare con la psicoanalisi.


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RIASSUNTO
Un gruppo di analisti si trova al Centro Milanese di Psicoanalisi una volta al mese da tre anni per confrontarsi sulla loro pratica analitica attuale. Tema principale è l’opportunità di offrire a ogni paziente il setting che più si adatta a lui, ai suoi bisogni, alle sue possibilità. Una indagine nella letteratura psicoanalitica cerca di individuare quali percorsi ha seguito il cambiamento nel modo di essere psicoanalisti e i modelli teorici che lo sottendono. Infine, anche con il supporto di alcuni casi clinici, vengono messe a punto le caratteristiche che un trattamento deve avere per essere considerato psicoanalitico.

SUMMARY
To be analysts today: identity and changes
A group of psychoanalysts have been meeting monthly at the Milanese Centre of Psychoanalysis for three years, trying to confront each other regarding their present analytical practice. The opportunity of offering every single patient the kind of setting that is most suitable to his/her needs and possibilities was one of the main subjects of the meetings. A research in psychoanalytical literature tries to understand how psychoanalysts have been able to change their practice as well as the theoretical models that influenced such a change. With the aid of some clinical cases, the characteristics a treatment should have to be considered psychoanalytical are defined.

PAROLE CHIAVE
elasticità della tecnica – identità dello psicoanalista –negoziazione del setting – assetto mentale dell’analista – specificità della psicoanalisi


Referente per il gruppo:
Andreina Robutti
via Monte Rosa 15
20149 Milano
tel. fax 02-433462
cell. 349 7329700
e.mail : anrobutt@tin.it

2 Questa prima parte, cui hanno collaborato anche Costanzo Gala, Cristina Riva Crugnola e Anna Scansani, è stata presentata al Centro Milanese di Psicoanalisi il 22 gennaio 2009


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