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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



Felice Zadra

L'ebraismo, il sogno, la psicoanalisi*

Conferenza su "Freud e l'Ebraismo" tenutasi nel gennaio 2001 presso la Comunità Ebraica, con il concorso di quest'ultima e dell'Associazione Psicanalitica "Nodi Freudiani", diretta dal dr. Sergio Contardi.


Introduzione.

Desidero innanzi tutto ringraziare la Comunità Ebraica di Milano, in particolare la prof. Paola Sereni, e la Associazione Psicanalitica Lacaniana "Nodi Freudiani", in particolare il dr. Sergio Contardi e il dr. Stefano Reali, per l'opportunità che mi hanno offerto di parlare della lunga, complessa e sofferta relazione tra Sigmund Freud e l'ebraismo.
Il primo punto che sancì il rapporto tra la psicoanalisi e l'appartenenza alla Comunità ebraica di Freud, appartenenza non a caso da lui mai smentita ma anzi sempre rivendicata, fu il nome che ricevette alla nascita, Schlomo, primo vero nome di Sigmund Freud.
Con questo nome, Salomone in ebraico, che è derivato dalle stesse tre lettere della radice di scialom, pace, il suo legame profondo con la Comunità Ebraica e con tutte le difficoltà che tale appartenenza comporta, erano sancite ancor prima della sua circoncisione rituale. La famiglia scelse tale nome per suggellare la sua appartenenza al popolo d'Israele, così come si conveniva ad una buona famiglia d'osservanti. Nella realtà la famiglia non era molto osservante e probabilmente anche questo aspetto, di adesione incompleta, influenzerà poi Schlomo nel riprendere sapientemente alcuni elementi del suo passato e costruire i capisaldi della sua psicanalisi.
Spesso tuttavia, si pensa che il successivo legame di Sigmund Freud all'ebraismo sia stato molto labile.
In realtà, per comprendere il profondo e lungo rapporto tra Schlomo Sigmund Freud, la psicoanalisi da lui fondata e l'ebraismo, esistono molti punti d'approccio e un'ottima e abbastanza vasta letteratura, in Italia ben rappresentata da David Meghnagi, psicoanalista e docente di grande valore.
A mio avviso in ogni modo, qualunque di questi momenti di partenza per affrontare il vincolo tra la storia personale dell'uomo Freud e la terapia e lettura del mondo da lui elaborata, conferma il loro inscindibile legame, con una continuità che in molti momenti diviene un vero e proprio rapporto affettivamente molto ricco e intenso. Si può anzi affermare che tale relazione affettiva, come ogni buona realtà d'affetto, si realizza in vari momenti e con differente intensità.
Per evidenziare ulteriormente la complessità di tale relazione, vorrei solo ricordare una piccola parte della lettera che Freud scrisse ad Arnold Zweig il 2 dicembre 1927. La lettera fa parte di un epistolario recentemente pubblicato in Italia e curato da David Meghnagi, con la traduzione della sorella Miriam. Sigmund Freud è un uomo già maturo, con molta esperienza professionale ed umana alle spalle. Si rivolge a Zweig, scrittore noto perché è l'autore del "Sergente Grischa"; Zweig è un personaggio ricco di idee, con un'analisi personale alle spalle, socialista e sionista, che probabilmente, come potrebbe accadere anche oggi, riesce ad integrare questi aspetti apparentemente lontani tra loro solo a prezzo di una considerevole fatica individuale. Freud scrive: "Sulla questione dell'antisemitismo ho poca voglia di cercare spiegazioni, in questa materia provo una forte inclinazione ad abbandonarmi ai miei sentimenti e mi sento confermato nel mio credo, interamente non scientifico, che gli uomini sono mediocri e nell'insieme delle povere canaglie...".
Il lavoro di Sigmund Freud verso la completa riappropriazione della sua identità ebraica, ricorda in molti aspetti ciò che accade durante il percorso psicoanalitico. In altre parole, il lungo cammino, il viaggio come lo definirà Ernest Jones, biografo ufficiale di Freud, di continua andata e ritorno dalla propria infanzia, mette in luce sentimenti riscoperti e rivissuti, ma soprattutto comprende il recupero e la rielaborazione d'alcuni aspetti della cultura ebraica che diventeranno poi il patrimonio di tutta la psicoanalisi freudiana.
Schlomo Sigmund Freud nasce a Freiberg, in un piccolo paese della Moravia, allora parte integrante dell'Impero Austro-Ungarico, ora Friborg, nella Repubblica Ceca. Si pensa spesso che quasi tutti gli Ebrei vivessero nelle grandi città. Niente è più lontano dalla realtà; sia in Russia, sia nell'Impero Austro-Ungarico, come nei villaggi del grande Impero Turco, o anche in Italia, nacquero comunità anche in centri di piccole dimensioni. Un esempio può essere quello di Sermoneta, piccola cittadina nel basso mantovano che ha lasciato anche un importante cognome ebraico.
Il clima che respira nella sua cittadina dell'Impero fin dalla nascita lo porta subito a contatto con il problema base con cui si scontra ogni israelita, l'anti-ebraismo. Esiste un episodio che lui stesso racconta e respinge fermamente. Il padre, Jakob, è stato oggetto di un atto d'aggressione da parte di un cristiano, il suo cappello nuovo di pelliccia è stato da quest'ultimo scagliato nel fango, ma il padre racconta al figlio che lui non ha reagito, limitandosi a raccogliere il berretto. Schlomo invece si ribella a tale atto di violenza e derisione, commentando l'episodio con la frase "Questo non mi sembra eroico". Sigmund, dicendo ciò, non si limita a farne un caso da risolvere individualmente, e inizia anzi a costruire e rielaborare il suo legame con l'ebraismo. In seguito a quest'episodio, Sigmund promette a se stesso di non essere mai remissivo e sceglie com'eroe Annibale, il semita che ha osato sfidare Roma, in altre parole la lotta dell'ebreo contro la sede dei cattolici antiebraici.
Il Padre fondatore della psicoanalisi non potrebbe, infatti, essere altro che un appartenente al popolo d'Israele. Tutti i temi che compongono la teoria psicoanalitica, l'ambiente di base della psicoanalisi, l'humus" e l'atmosfera che si respira provengono dall'ebraismo. Tra i momenti essenziali di tale relazione vi sono il sogno, la sessualità e la morte. Altri esistono poi certamente, in apparenza a lato di questi temi, ma senza dubbio sempre profondamente intrecciati.

1. Il sogno, l'ebraismo, la psicoanalisi. I sogni nella Bibbia Ebraica.
Nel 1899 Freud elabora il famoso testo "L'interpretazione dei sogni", che è pubblicato l'anno successivo. In realtà esiste anche uno scritto minore dedicato più specificamente al sogno e che, infatti, si chiama "Il sogno". Probabilmente, proprio in questo testo meno noto emerge il primo aspetto accessibile alla valutazione dell'immediata contiguità tra psicoanalisi ed ambiente israelita, vale a dire il sogno stesso. Inoltre, "L'interpretazione dei sogni" fu il libro più caro a Schlomo Freud e, per questo motivo dedicherò un po' più di spazio ai sogni.
Il riferimento ai sogni, come manifestazione di un fatto da interpretare, è già manifesto in numerosi punti della Bibbia. Nella Genesi (37, Va-Jèscev) si narra dei sogni di Giuseppe, figlio di Giacobbe. "Giuseppe fece un sogno e lo raccontò ai fratelli, che lo odiarono ancora di più". In ogni momento del racconto di Giuseppe è presente un riferimento al sogno com'espressione della volontà divina diretta, esiste insomma un riferimento simile a quello che accadeva nel mondo politeista con gli aruspici, ma il sogno ha un carattere "nascosto", da comprendere, e quest'operazione è in ogni modo anche umana. Nell'ambito del testo, ciò sembra presupporre che, in ogni caso chi, come Giuseppe, può interpretare il sogno, sia in ogni modo portatore di una capacità "particolare" di rielaborare il materiale onirico. A Giuseppe anzi, quando poi è nella prigione del Faraone per l'ingiusta accusa di tentata violenza contro la moglie di Potifar, ministro del Faraone, è richiesto di interpretare due sogni da parte del coppiere e del panettiere personali del Faraone stesso; nessuno dei due è ebreo e pertanto lo scopo della richiesta d'interpretazione del sogno non può certo essere religiosa, visto che non appartengono alla religione monoteista. Giuseppe, interrogato dai due egiziani, risponde loro con una frase molto ambigua: "Le interpretazioni appartengono a Dio", ma prosegue subito aggiungendo, "Raccontatemeli, vi prego". Poco oltre però lo stesso Giuseppe si contraddirà, esprimendosi in chiaro, ed esprimerà questa frase: "L'interpretazione è questa", dando anzi lui stesso un significato al sogno, senza far riferimento ad una divinazione. Nel testo Biblico, lo scopo della richiesta che i due compagni di prigionia avanzano a Giuseppe è simile a quella che ciascun paziente porta al suo psicanalista, in altre parole di sollevarlo da uno stato d'ansia, d'angoscia per la condizione attuale e per il futuro; in questo caso, è chiesto a Giuseppe di rielaborare il materiale portatogli dai due personaggi e lo stesso farà in seguito con Faraone. Secondo alcune ipotesi linguistiche, il nome che sarà assegnato in seguito a Giuseppe, Tsefanath Pa'neach, significa in realtà "colui che mostra il nascosto" (dall'ebraico "tsafan", nascondere, e pa'an, mostrare), mentre per altri si tratterebbe invece di due parole copte che significano "il Salvatore del mondo".
Il motivo del sogno è indubbiamente un lungo percorso della storia dell'umanità, sia perché nonostante la sua estrema soggettività è tuttavia un fenomeno universale, sia per il suo continuo uso dall'antichità per la divinazione o per la rappresentazione del desiderio, e questo per dare corpo ad una visione o come rappresentazione del male. E' solo però con la religione cristiana, ormai nel periodo medioevale, che il sogno inizia a perdere il carattere di percorso soggettivo, riferibile ma non verificabile da alcuno, per assumere il connotato di chiave d'espressione univoca e colpevolizzante delle forze del male o, più raramente, di quelle del bene. Con il cristianesimo si annulla in maniera quasi completa qualunque riferimento all'interpretazione dei sogni e subentra invece una concezione del momento onirico come luogo pericoloso, per la facilità del maligno di raggiungere e tentare l'individuo, quindi un posto dal quale tenersi lontani. La assenza di coscienza era perciò paragonata agli altri luoghi nei quali era possibile essere preda del demonio, inclusi i ghetti nei quali vivevano gli ebrei o le selve oscure, estendendo così la necessità di controllo della chiesa cattolica ad ogni istante della vita privata dell'individuo. Questi passaggi anticipano, nella sostanza, la pratica delle conversioni forzate e la successiva caccia alle streghe, sentite dalla chiesa cristiana come una esigenza necessaria per consolidare ed estendere il proprio potere.
Così descrisse Freud il sogno : "La psicoanalisi insegna, ogni sogno ha un senso, la sua stranezza dipende da deformazioni eseguite sulla manifestazione del suo significato, la sua assurdità è voluta, la sua incongruenza non ha valore per l'interpretazione". L'interesse per la psicoanalisi nei confronti del sogno nasce dunque dallo stesso motivo che ha affascinato sin dall'antichità, in pratica di essere il sogno un lungo momento della vita che esula dalla coscienza, un momento in cui il lessico, personalissimo, diviene apparentemente incomprensibile e slegato dalla necessità di luogo, d'azione e di tempi determinati e congruenti, tipici della comunicazione quotidiana.
Lo stesso Sigmund Freud ben sapeva che la tecnica da lui definita di lavoro sul contenuto onirico manifesto, rielaborazione dei pensieri onirici latenti, ricordava direttamente quanto è noto a molti ebrei, anche non pienamente osservanti, vale a dire la rielaborazione e l'interpretazione dei sogni esistenti nella tradizione israelita. Sicuramente, nella tradizione talmudica, il riferimento e l'uso del sogno muovevano da un punto diverso, ma esiste un grosso punto di contatto tra le due situazioni, biblica e psicanalitica. La tecnica delle associazioni libere, introdotta da Freud nell'interpretazione dei sogni e nella relazione analitica, aveva indubbiamente un rapporto diretto con la pratica evolutasi sin dalle origini nel mondo monoteista ebraico, di "ragionare e disquisire" intorno alle Scritture. Nel testo Biblico inoltre, non è mai chiarito fino in fondo se il Signore parlasse ai Patriarchi in condizioni di sonno o di veglia.
Non a caso quindi, Freud, nello stesso testo del 1899, descrive il sogno con queste parole: "... abbiamo trattato come un testo sacro ciò che, a detta degli studiosi, sembra essere un'improvvisazione arbitraria, abborracciata frettolosamente in un momento d'imbarazzo...".
I riferimenti a Giuseppe e ai suoi tre sogni ci portano ad un doppio legame con l'Egitto. Molti dei criteri usati per lunghissimi periodi nell'interpretazione dei sogni provengono dall'Egitto, paese al quale Freud ricollega addirittura la nascita del monoteismo, con il Dio Aton, nel suo ben noto libro "Mosè e il monoteismo". In particolare, è possibile utilizzare per il sogno due metodi di lettura, ancora oggi largamente utilizzati, quello simbolico e quello metaforico. Nel caso del primo, ciascuna immagine del sogno corrisponderebbe ad un preciso riferimento, né più né meno di quanto può accadere oggi con i numeri del lotto e le immagini che li richiamano. Pertanto, se nel sogno è comparso un cavaliere, questi corrisponderebbe in maniera univoca ad un potenziale numero o ad una precisa situazione, ad es. di pericolo. Tale restrizione del significato del sogno ad una serie di quadri, ciascuno dei quali ascrivibile ad un riferimento esatto, ad es. al numero, era presente nelle culture dell'antichità, compresa quella ebraica. L'oniromanzia, cioè la possibilità di divinare attraverso i sogni, è il substrato mentale dal quale parte per elaborare la metodologia psicoanalitica. Tuttavia, il lavoro di Freud non è sicuramente riducibile al significato singolo, né vuole ricordare il lavoro dell'indovino che preconizza una situazione, ma è importante notare che anche nel lavoro analitico il singolo particolare può assumere una sua specifica valenza e caricarsi di significati e riferimenti psichici determinati. Diverso è invece il caso della metafora, uno dei due poli della semantica, insieme alla metonimia, entrambi punti basilari per esprimere la semantica. La metafora, usata anche nel linguaggio comune per rendere più attraente o impreziosire il linguaggio, raramente nel sogno ha un significato letterale. Nel sogno anzi, il significato metaforico e simbolico sono spesso molto vicini e analizzando il sogno, unico e scarsamente trasmissibile, la metodologia freudiana utilizza gli stessi strumenti usati dal sognante, e tra questi il simbolismo e la metafora, per arrivare a svelarne il significato e giungere alla pulsione repressa o deviata. La motivazione sostanziale che differenzia i sogni biblici o antichi dalla psicoanalisi freudiana, é che, quest'ultima, teoricamente, utilizza le associazioni offerte dall'analizzando per indagare la sua psiche, per poi ritornare all'infanzia.
Ancor più immediato nel suo carattere d'interpretazione del sogno, privo com'è di riferimenti alla figura del Signore, è il sogno di Mardocheo nel libro d'Ester. A lei dobbiamo la festività ebraica di Purim di Susa, quello che potrebbe essere una sorta di carnevale ebraico, con banchetti, scambi di doni il 14 del mese d'adar (intorno a febbraio - marzo), ma soprattutto dobbiamo un bellissimo esempio d'enorme rischio personale per la salvezza del popolo d'Israele. In tutta la versione solo ebraica del libro d'Ester, esiste una caratteristica particolare: non è mai citato il nome del Signore. Nella parte di testo greca invece, che ha probabilmente un origine differente, Mardocheo, cugino d'Ester, è la persona che scopre il complotto, ma, per quello che interessa a noi questa sera, egli fa un sogno, a carattere divinatorio, nel quale compare la figura di Dio. Quello che è descritto al risveglio è indubbiamente interessante: "Mardocheo destatosi, dopo aver avuto questo sogno e visto ciò che Dio aveva deciso di fare, continuò a pensarci fino di notte e desiderava con ogni ragionamento di penetrarne il significato".
Compare insomma il desiderio di comprendere il significato del sogno, né più, né meno di quando l'analista, secondo quello che scriveva Freud, pone il suo inconscio in condizioni di massima ricettività nei confronti dell'inconscio del paziente.

2. La sessualità e la Bibbia ebraica
Il breve brano d'Umberto Saba, utilizzato da Sergio Contardi come (esogoro) enunciato del suo articolo "La passione dell'analista", pubblicato su "Scibbolet" nel 1995, esprime in pieno e con garbata ironia la relazione tra Freud e la sessualità. Saba scrive: "Come non si è accorto Ludwig, e gli altri che, molto prima di lui, hanno proferito la stessa calunnia, che chiamare Freud "sessuomane" sarebbe come chiamare Pasteur "bacillomane". Insomma, il riferimento é ancora al vecchio untore d'ogni buona cultura sessuofobica, particolarmente molto diffuso tra quelle religiose, che utilizzano la negazione della pulsione sessuale come strumento di controllo dell'individuo. Non a caso, infatti, Jung, per rendere la sua cosiddetta nuova teoria psicanalitica accettabile al potere in generale, in particolare in seguito a quello del mondo germanico di Hitler, escluse dalla psicanalisi ogni riferimento alla sessualità come pulsione fondamentale, e questo gli permise agevolmente di fondare la "psicoanalisi ariana", in contrapposizione alla "psicoanalisi ebraica". Vedremo in seguito come Sigmund riuscirà molto bene a descrivere la confusione teorica ed applicativa che deriva dalla psicoanalisi junghiana, purtroppo molto affascinante e allettante per molti individui. Non solo. Mentre il fondatore della psicoanalisi non desidera rinnegare le proprie convinzioni circa l'applicabilità della lettura psicanalitica alla religione, senza per questo sentirsi "non ebreo", Jung riteneva di avere in quel campo più competenza e sensibilità del suo momentaneo Maestro. Il riferimento era principalmente alle costruzioni teoriche sviluppate da Freud in "Totem e Tabù", tanto è vero che quest'ultimo si rivolge all'allievo svizzero dicendo: "Ma perché mai dovevo lasciarmi indurre a seguirla in questo campo ?". E, quasi immediatamente, Jung ribatte: "E' tuttavia assai opprimente che lei scenda in campo anche nella sfera della religione". Compare qui in Jung con sempre maggiore evidenza l'intenzione di eliminare il Maestro Freud e la sessualità dalla psicoanalisi, riducendo quest'ultima ad un insieme di feticci immaginari, similmente a quanto era già avvenuto nella trasformazione della religione monoteista dall'ebraismo al cristianesimo. Questo nonostante Freud, al termine di "Totem e Tabù", abbia nei confronti dei nevrotici ossessivi che praticano una supermorale, un atteggiamento molto blando e comprensivo, dicendo solo che "...Ognuno di questi uomini oggi moralissimi ha conosciuto, nella sua infanzia, un periodo di cattiveria, una fase di perversione che preparava e annunciava la loro successiva fase supermorale.
Così, anche se la pulsione sessuale manterrà sempre il suo carattere dirompente nella costruzione psicanalitica freudiana, il tema della sessualità mantiene un legame diretto, immediato, con la formazione ebraica. Rientra in gioco nuovamente, pur se da un punto di vista d'interpretazione "profonda", il legame dell'individuo alla madre, figura cardine della cultura ebraica, persona che permette di mantenere il legame con il popolo d'Israele anche al di fuori d'ogni altro riferimento rituale, come ad es. la circoncisione, e al padre, figura primordiale d'ogni cultura.
E se osserviamo ciascuno dei Comandamenti che si riferiscono alle figure parentali e alle varie relazioni che si creano con questi ultimi, i concetti di sessualità e possesso dei beni sono validi e mantengono la stessa base anche in Freud.
"Onora tuo padre e tua madre", affinché si prolunghino i tuoi giorni sulla terra che il Signore Dio tuo ti dà"; "Non commettere adulterio"; "Non desiderare la casa del tuo prossimo; non desiderare la moglie di lui né il suo schiavo e la sua schiava né il suo bue né il suo asino né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo" (tratto da "Esodo o Scemot, "i Nomi", 20, 8-26", Bibbia ebraica, curata da Rav Dario Di Segni). Particolarmente quest'ultimo precetto è interessante, perché allarga il concetto di desiderio e parifica in un unico punto due pulsioni, quella sessuale e quella economica, di desiderio di possesso di oggetti ed animali. Va tra l'altro notato che, secondo alcune interpretazioni rabbiniche, il riferimento biblico non è soltanto all'azione di onorare la sorgente della propria vita, la madre e il padre, ottenendo il merito di prolungare la propria esistenza, ma il decalogo intero si rivolgerebbe al popolo in generale, nonostante il carattere individuale di ogni precetto. Si tratterebbe insomma di preservare non la sola singola vita umana, ma la longevità sociale, mantenendo in perpetuo la nazione.
Ritornando al campo psicanalitico, il riferimento al desiderio sessuale contenuto nel decalogo Biblico funziona perfettamente, intendendosi in questo caso la necessità di possesso come espressione di pulsioni sessuali che non possono essere soddisfatte nella realtà, e che quindi sfociano nella nevrosi, o ancor peggio nella psicosi, se non correttamente rielaborate. Si tratta cioè di saper percorrere una via d'uscita possibile, rielaborando la rimozione o la sublimazione, per non incorrere nella regolazione non corretta delle normali pulsioni sessuali. Nella realtà umana, come ha ben delineato Freud in "Al di là del principio del piacere", libro cardine di un lavoro terminato nel 1920, le pulsioni di autoconservazione, o pulsioni dell'Io, entrano in conflitto con le pulsioni sessuali irrisolte e generano il sintomo patologico, in altre parole la peggiore realtà conflittuale. In pratica, il divieto presente nella Legge Biblica si oppone ai tentativi della pulsione, del desiderio, di avere soddisfazione. Per Freud si tratta di un compromesso fragile, che, se non ben condotto, dà luogo a sintomi patologici, sempre più incontrollabili.
Un riferimento più ampio al possesso, alla sessualità come aspetto non solo individuale ma anche sociale esiste anche in Freud, in particolare nell'ultima fase della sua esistenza, quando emergono con più forza e nettezza, anche quasi contro la stessa volontà del fondatore della pratica psicanalitica, il carattere "universale" e dirompente della psicoanalisi, il suo rimettere in gioco la sessualità come pulsione da conoscere e da disciplinare all'interno di regole universali, non molto lontane da quelle esposte nel decalogo biblico.
Nel momento in cui tali pulsioni sessuali e di possesso divengono più manifeste riaffiora nella società l'antico desiderio di allontanare da sé la "pulsione - problema", attraverso vari meccanismi di difesa, spesso patologici, quali la guerra, il culto della personalità e la dittatura. Questi ed altri meccanismi tengono sopita per un certo periodo la pulsione di possesso e permettono di ridurre al minimo la lotta per la sopravvivenza e di semplificare le regole per formare e mantenere uniti i gruppi sociali, condizioni imposte dalla scarsità dei beni e delle risorse.

3. Il rapporto con la morte e l'ebraismo.
Al termine del libro di Meghnagi su "Freud e l'ebraismo" è presente in appendice il testo della Conferenza di Freud "Noi e la morte". Tale richiamo non è casuale. Freud dedica alla morte la lettura che svolge durante gli incontri con i "cari Fratelli" dell'Associazione Umanitaria Austriaco - Israelitica, B'nai Berith, ed anche questa sede non appare subito casuale. Io stesso avevo incluso tale presentazione tra i testi di Conferenze da utilizzare per affrontare il legame tra la psicoanalisi freudiana e l'ebraismo, e questo già da prima di conoscere il "Il Padre e la legge" di Meghnagi; chiunque approcci tale argomento lo fa quasi in maniera automatica. Freud tiene questa conferenza a Vienna il 16 febbraio 1915, in un momento per lui particolarmente difficile, complesso, quando è in corso la Guerra Mondiale, che vede l'Austria felix in preda ad un completo disfacimento, e ancora in Sigmund non si è attuata una piena ricomposizione delle difficoltà create dalla fuoriuscita di molti suoi allievi dalla Società psicanalitica da lui stesso fondata. Subito all'inizio Freud fa questa precisazione: "Sono consapevole che vi sono molte persone che non vogliono sentir parlare della morte, forse anche tra voi, e volevo evitare di attrarre questi fratelli nella trappola di un'ora così penosa. Avrei potuto inoltre cambiare l'altra parte del mio titolo e, invece di "Noi e la morte", avrei potuto chiamarlo "Noi ebrei e la morte" poiché il rapporto con la morte che io tratterò al vostro cospetto riguarda assai di frequente e nel modo più particolare proprio noi ebrei". Questo, insieme a quanto poi Freud scrive nel testo su Mosé pochi mesi prima di morire, nel giugno 1938, è il punto focale della relazione di Freud con l'ebraismo, ma è anche contemporaneamente un fondamentale punto di partenza, a mio avviso ancora inesplorato e poco rielaborato, per affrontare il problema dell'antiebraismo e della relazione del cristianesimo con l'ebraismo.
Nella religione e nella cultura ebraica non esistono spiegazioni e consolazioni sul cammino oltremondano, ma soprattutto solo il vivente può lodare il Signore. Freud ironizza sul desiderio di superare la morte con la comparsa del figlio del Signore, del Messia, che riesce a sconfiggere la morte; egli mette sapientemente in luce il rischio proveniente dal negare, ritenendo di averlo superato, il conflitto tra Eros e Thanatos, la pulsione sessuale contrapposta alla morte. Dopo aver affermato che l'uomo primitivo era un essere peggiore degli altri animali, passionale e malvagio, senza ritegno nell'ammazzare, e aver ripetuto che tale l'uomo è rimasto, Freud sviluppa nella sua presentazione il passaggio principale, l'omicidio primordiale, o meglio il parricidio, vero punto focale della questione. "Ancor oggi quella che i nostri figli imparano a scuola come storia universale è una serie di uccisioni tra i popoli. L'oscuro senso di colpa che domina l'umanità fin dall'inizio, e che in talune religioni si è condensato nell'idea di una colpa primordiale, di un peccato originale, è molto probabilmente l'espressione di un delitto di sangue di cui gli uomini delle origini si sono fatti carico".
Ma, proseguendo nella stessa lettura, anche l'ebraismo ha responsabilità nella questione secondo Schlomo Freud. "L'ebraismo ha tenuto accuratamente in disparte questi oscuri ricordi dell'umanità e forse proprio per questo si è dequalificata come religione mondiale".
Siamo in piena guerra, Freud ha manifestato una iniziale infatuazione per la guerra. Nel corso della lettura, Sigmund parla del soldato tedesco e austriaco come di patrioti che combattono, ma lui stesso si rende conto, quasi con senso di colpa e con l'idea dell'imprecisione del nostro sapere, che la sua stessa psicanalisi supera i confini nazionali.
Ma è in quest'argomento, la morte, che si esplica con chiarezza il legame tra l'ebraismo e la psicanalisi, così come richiamato da Sigmund Freud all'inizio della lettura. L'ebraismo impone, infatti, ad ogni "figlio" di assumere in pieno la difficoltà di e la necessità di "uccidere" il padre, e non trova il "Padre" già ucciso da altri, come accade nel Cristianesimo, scaricandosi così dalle spalle il peso di tale pesante incombenza.
Il riscatto del Figlio, cioè di ogni Ebreo, avviene pertanto nella vita quotidiana, senza possibilità di scorciatoie, assumendosi la responsabilità del parricidio, e portando questa responsabilità fino in fondo.
Freud scrive nel libro "L'uomo Mosé. Terzo saggio". "...fu nello spirito di un uomo ebreo, Saulo di Tarso, il quale come cittadino romano s'era scelto il nome di Paolo, che per la prima volta si fece strada la nozione: "Siamo infelici perché abbiamo ucciso Dio Padre". Da questo pensiero si rinforzerà in seguito tutto l'antiebraismo già esistente nel mondo romano.
Anche secondo Freud, l'enigma intellettuale costituito dalla morte ha costretto l'uomo a riflettere, ed il conflitto emotivo generato dalla morte di una persona amata ha costretto il genere umano a darsi delle regole ferree riguardo all'omicidio, creando il precetto etico "Non ammazzare". Sempre secondo Freud, fu in quel momento che l'uomo iniziò a sentire la necessità di creare altre forme di esistenza e, ancor più importante, escogitò la scomposizione dell'individuo nel corpo e nello spirito, ponendo sopra a tutto la divinità. Di conseguenza, anche i defunti assunsero importanza e necessità di venerazione.

4. Momenti, tipologia e scelte della relazione con l'ebraismo.
La relazione di Schlomo Sigmund Freud con l'ebraismo è apparentemente episodica e sporadica, perché Freud, persona di grande sensibilità e cultura, lamenta di non aver appreso a fondo la lingua e la cultura ebraica.
L'immagine che descrive il rapporto tra l'ebraismo e la psicoanalisi può essere quella di un tronco dal quale si dipartono vari rami, anche se, in ogni caso, alcuni psicoanalisti non freudiani ma rimasti nell'alveo della tradizione religiosa, come Haim Baharier, rimproverano a Freud, l'ebreo senza Dio, di aver murato l'Io dentro di sé e di aver ridotto il ritorno all'indietro nel proprio passato, tipico della tradizione ebraica, ad un viaggio sterile dell'individuo nella propria infanzia. Per Baharier, come altri psicoanalisti, il ritorno all'anteriorità sarebbe memoria attiva, che entra in relazione e dà luce al futuro senza anticiparlo, ma soprattutto prefigura scenari mentali, ma non sente la necessità compulsiva di crearsi certezze sul domani. Forse proprio quest'ultima osservazione invece rende ragione a Freud e ricorda semmai la relazione tra l'ebraismo e l'aspetto consolatorio e di negazione della sofferenza del cristianesimo.
La posizione di Schlomo S. Freud riguardo alla religiosità è molto particolare, perché, come evidenzia bene in "Totem e Tabù", è possibile un riferimento alla figura della Divinità come limite necessario all'individuo, per comprendere la finitezza della propria vita, e quasi come per accettare la necessità di non pensare e non sentirsi l'"essere supremo".
In realtà, l'ebraismo è come il "fil rouge" che accompagna Freud per tutta la vita, in particolare nell'ultima parte, legando la sua ricerca di se stesso, e questo non perché sentisse l'avvicinarsi della morte e dunque la necessità di "pentirsi a Dio", ma perché la saggezza che pervade negli ultimi anni di vita porta ad affrontare la realtà con più pacatezza degli anni precedenti.

5. Aspetto culturale e sociale.
Fino a quel momento, tutti gli allievi di Freud, da Karl Abraham a Paul Federn, uno degli allievi più fidati ed anche uno dei pochi psicanalisti ad affrontare con un parziale risultato casi di psicosi o catatonia, fino ad arrivare ad altri importanti allievi quali Sandor Ferenczi, Max Eitington, Hanss Sachs, Otto Rank, erano, infatti, di famiglia, cultura e formazione ebraica. Lo stesso Sigmund Freud se ne rese conto. D'altro canto Saba ancora, proveniente dalla Comunità Ebraica di Trieste, rilevava come "...quasi tutti i triestini che si appassionavano alla psicoanalisi in quegli anni erano ebrei o mezzi ebrei".
Il grosso impegno era di sganciare la psicoanalisi dal mondo e realtà ebraiche. Esistevano due estremi, da un lato all'interno del mondo ebraico vi era chi desiderava fare di Freud una sorta di eroe, e tale desiderio era comprensibile visto il perenne antiebraismo esistente, dall'altro le speculazioni pseudo-scientifiche degli antisemiti tendevano a negare ogni validità pratica e scientifica all'opera dello stesso Freud, ricacciandola anzi nel mare di teorie senza senso che sempre compaiono sulla terra.
Questa affermazione, lo stretto legame tra psicoanalisi e realtà israelita, che dovette costare molto allo stesso Freud, lo spinse a cercare di rompere l'accerchiamento iniziale in cui venne a trovarsi, provando a creare un legame con Carl Gustav Jung, un giovane psichiatra svizzero, cristiano, che, come è ben delineato nel carteggio tra Freud e lo psichiatra stesso, fu invece fonte di una vera e propria disgrazia e mistificazione morale per Freud.
All'inizio, infatti, Freud cerca di rimandare, parzialmente occultando quelli che sono i richiami alla tradizione ebraica, ma dopo poco si rende conto che non è possibile celare la realtà e accetta di scendere in campo, battagliando, piuttosto che rinunciare alle sue idee.
E Schlomo è un vero combattente.
Già nella lettera del 7 aprile 1907 a Jung, innanzi tutto mette in luce il gioco semantico iniziato da quest'ultimo, e gli fa notare che la "libido" pur se non chiamata con quel nome, tale rimane, ma soprattutto gli scrive "L'aggressione è la miglior difesa, dico io". E ancora gli fa notare che non è con piccole concessioni, o cambiando il nome alle pulsioni, che si riuscirà a cambiare la sostanza delle cose. L'istinto sessuale rimane, con qualunque nome o mistificazione lo si voglia camuffare. D'altro canto, Freud scrive molto chiaramente a Jung: "Ciò che si pretende da noi è, né più, né meno, che noi rinneghiamo la pulsione sessuale. E allora professiamola."
Jung mostrerà una identica resistenza, in senso psicanalitico, come farà osservare Freud, nell'accogliere il concetto di inconscio espresso da quest'ultimo e, ogni volta, le trasformazioni operate da Jung ricorderanno molto da vicino i cambiamenti e mascheramenti delle Sacre Scritture attuati dalla Chiesa Cattolica nel passaggio dalla religione monoteista ebraica alla loro. Anche lì, il risultato è una frittata, dove il prodotto originario, è divenuto inconoscibile.
La necessità per Jung di rimuovere e cancellare la sua relazione professionale ed umana con il Professore, titolo col quale si rivolgeva al fondatore della psicoanalisi, si evidenzia con forza quando è intervistato da John Freeman in un filmato per la BBC, alla fine degli anni '50. Freeman gli chiede se ha da obiettare qualcosa alla pubblicazione del carteggio tra lui e Freud. In quell'occasione, contrariamente alle volte precedenti, nelle quali minimizzava e cincischiava sulla validità, utilità e possibilità di stampare il suo carteggio con il maestro, ammette la possibilità di stamparlo, ma solo dopo la sua morte. In compenso, quando l'intervistatore gli chiede se hanno grande importanza storica, Jung risponde dicendo: "Non lo penso". E afferma che non lo ha stampato perché ciò non ha alcuna "speciale importanza". Ancor più esemplificativo della necessità di Jung di sbarazzarsi sbrigativamente dell'immagine del padre fondatore della psicoanalisi è il necrologio che scrive in memoria di Sigmund Freud. "Da tutto il pensiero di Freud...ridonda dunque su di noi un terribile e pessimistico "null'altro che". In esso non si apre mai uno spiraglio liberatorio su forze soccorritrici, risanatrici, che l'inconscio faccia giungere a beneficio del malato...Il metodo psicologico di Freud è sempre stato un farmaco per materiale guasto e degenerato, quale si trova soprattutto nei nevrotici. E' uno strumento che deve essere maneggiato dal medico, e che diventa pericoloso e distruttivo, e nel migliore dei casi inservibile, se è applicato a manifestazioni e necessità vitali e naturali". Non dimentichiamo che Carl Gustav Jung scrive questo necrologio nel 1938, in piena epoca nazista, dottrina che lo porterà a scrivere che "La questione ebraica è un complesso...una piaga purulenta", oppure "Le SS si vanno trasformando in una casta di cavalieri che governano sessanta milioni di selvaggi". Altre frasi lodavano Hitler, Mussolini, l'inconscio ariano, che conteneva "germi creativi di un futuro da realizzare", e denigravano i tentativi popolari di risollevarsi dalle condizioni umane miserevoli, come "sollevazione di disadattati contro ogni tentativo di ordine".
Freud riprende appieno il messaggio ebraico e inizia a lavorare sulla parola come relazione diretta dell'inconscio, qualcosa di profondo che, in ciascuna lingua, attraversa tutti gli individui, tutti i popoli, e non solo come significato immediato di un oggetto o un concetto.
Non solo. Con Freud nasce anzi un progetto che, a partire da un linguaggio "primordiale", e al di là di queste "parole base", riesca a far parlare il sintomo interno al paziente, che grazie al confronto multiculturale trova maggiori possibilità di comunicazione all'esterno. Questo perché l'esame della situazione, da parte di una persona parzialmente estranea ad un mondo culturale chiuso, permette di accedere ad aspetti in precedenza nascosti, similmente al problema posto ad ogni analista dalla necessità di "decolonizzarsi" delle idee prevalenti nella società, apparentemente con significato neutro o di "bontà", per poter meglio affrontare l'analisi con il suo paziente. Così, se nell'analista vi sarà un motivo di resistenza "preconcetta" verso un paziente di in un particolare popolo, una lettura "a priori" di alcune suoi peculiari comportamenti e caratteristiche, perché legati alla popolazione di appartenenza, ben difficilmente l'analisi potrà superare gli stadi iniziali. E se anche li superasse, l'analisi più che un procedere umano e terapeutico prenderebbe, per l'analista, le sembianze di una identificazione proiettiva, a sfondo sadico.
Il primo psicanalista cristiano, seppur ateo, che riesce a recuperare l'insegnamento del Maestro, rielaborandolo in aspetti fondamentalmente validi anche per la tradizione ebraica, è Jaques Lacan. Senza con questo nulla voler togliere a Ernest Jones, biografo ufficiale di Freud, che però è più un cronista dell'opera del maestro che uno sviluppatore della stessa, o senza negare l'appartenenza di Rudolph Urbanitsch, primo non ebreo, al circolo freudiano viennese già nel 1908, quattro mesi prima di Jones. Entrambi tuttavia partecipano all'attività psicanalitica, senza in realtà modificarla realmente.
Secondo Lacan, l'inconscio è strutturato come un linguaggio. La nozione è molto importante, perché il Signore, nella lingua ebraica è "il nome", haShem, che è tradotto non correttamente dai cristiani col termine "il verbo", col solo risultato di far perdere il legame tra "la parola/Signore" e la tradizione ebraica. Questo richiamo di Lacan, un non - ebreo, sembra perciò ripresentare il legame tra psicoanalisi ed ebraismo, saldando il cerchio senza dover ricorrere alla cultura ebraica, così come avrebbe desiderato Freud.
All'inizio dello strutturalismo, cresciuto in Francia con Ferdinand e Raymond de Saussure, la "langue" è distinta dalla "parole" e il segno è definito dal valore; nel 1926 de Saussure e Nicolaj Trubeckoj fondarono la "linguistica strutturale e funzionale". A questa costruzione, a questo passaggio dal formalismo allo strutturalismo, nella costruzione di una nuova scienza, la linguistica, mancava la psicoanalisi, anche se, in realtà, già alla base esisteva qualcosa di molto simile all'inconscio freudiano, il cosiddetto "sapere intuitivo" o "subliminale". Roman Jakobson, studioso di linguistica, ne era uno dei propugnatori. Quest'ultimo divenne, nel dopoguerra grande amico di Lacan, ma, non avendo una formazione freudiana, non tradusse mai subliminale in "inconscio".
Ci pensò invece Lacan ad ampliare il discorso linguistico. Secondo Lacan, Freud, volente o nolente, in ogni istante, praticava un'analisi del linguaggio per giungere all'inconscio. Lacan sostiene, riprendendo lo spunto da de Saussure, che la lingua sarebbe una vera e propria struttura preesistente all'uomo, che quindi non la crea, e perciò sarebbe la lingua ad organizzare i discorsi e pensieri degli esseri umani. E se perciò l'inconscio è strutturato come un linguaggio, l'Es non sarebbe più qualcosa di "individuale", ma, al contrario, vorrei usare quest'espressione, un "magma" comune. Durante il primo periodo di vita, tra i sei e i diciotto mesi avviene la scissione dalla madre, per diventare se stessi, e, non casualmente, proprio in questo delicato periodo si creerà il "complesso di Edipo". Il bambino inizia così a riconoscere se stesso allo specchio, ma soprattutto inizia a strutturare l'inconscio e la concezione del se, con la presenza anche di un condizionamento sociale. Quello che avvicina molto ancora Lacan a Freud è la concezione dello sviluppo del Sé, da cui, per Lacan, discenderebbero tutti gli altri aspetti psichici, che anche in Lacan è "in equilibrio precario" fra quella che la società chiama "normalità ed anormalità", similmente a quando Freud sosteneva che il confine tra nevrosi e normalità è molto labile.
Indubbiamente, Lacan ha spesso assegnato a Freud idee non esattamente in linea con quelle del Maestro viennese. In particolare, Freud non aveva mai pensato che le sue idee dovessero sovvertire l'ordine costituito, né che l'inconscio dovesse parlare attraverso i segni, come per un certo verso emergeva dalle lezioni di Lacan, ma va anche sottolineato che le idee e gli scritti di Lacan, anche se pochi nacquero come testi organizzati, in realtà non contraddicevano gli scritti freudiani, ma ne erano la naturale prosecuzione. E, come aveva saggiamente previsto Freud, per merito di un non ebreo.

6. Essere ebreo
Questa diffusione della psicoanalisi, al di là del popolo di Israele, non sta tuttavia a significare che non esistano caratteristiche di popolazione peculiari. La perdita dell'identità ebraica, intesa come rapporto con il Padre Ebreo, qualcosa che precede tutti noi, è d'altronde molto rischiosa, per l'individuo, così come per la collettività, ebraica e non, per lo meno all'interno del mondo derivato dalla religione monoteista ebraica. Se, infatti, razze ed etnie sono esclusivamente costruzioni mentali necessarie all'organizzazione sociale di una società, in un particolare momento dello sviluppo economico, l'identità ebraica ha tuttavia una sua configurazione e sue tipologie, certamente non lombrosiane, cioè non basate su caratteri fisiognomici.
Meghnagi ricorda il "complesso del Padre" proposto dalla psicoanalisi freudiana e il problema del rapporto del figlio ebreo emancipato col padre ebreo, che in Franz Kafka vede un esplicazione completa. Kafka paragonava, infatti, la psicoanalisi al "commento scritto e dolorante di una generazione che con le zampe posteriori aderiva ancora al giudaismo del padre, ma con quelle anteriori non trovava ancora il terreno".
Nel caso della religione, il cristianesimo ha cercato di annullare, in termini freudiani si potrebbe dire "rimuovere", la propria origine ebraica, in particolare dal momento della rielaborazione teorica e dal distacco di Saul (Paolo di Tarso) dalla comunità ebraica. Nella religione cristiana, tranne poche e lodevoli eccezioni, ad es. i Valdesi, tutti i riferimenti all'origine ebraica di quest'uomo, Ioshù, scompaiono e, come nella psicoanalisi junghiana, sono avvolti in un fumo di inconoscibile, totalmente fuori del tempo ed apparentemente "a storico". Per lungo tempo, sicuramente dalla fuoriuscita degli ebrei dai ghetti, fino al termine della seconda guerra mondiale, ma probabilmente, per alcuni aspetti anche oggi, una vera e propria ossessione riguardo alla possibilità di individuare ed espellere l'ebreo dalla società prevalentemente cristiana, ha percorso le società occidentali. Spesso la richiesta da parte della maggioranza numerica era duplice e contraddittoria. Da un lato di nascondersi, cambiando nome e religione, dall'altro riconoscendo però quel che afferma la Bibbia, "sarai ebreo per mille generazioni" e pertanto perseguibile per almeno altrettante generazioni.
Desidero perciò concludere ponendo quello che è il quesito base di ogni individuo e cultura, trasportandolo al popolo di Israele: in cosa consiste l'identità ebraica?
Mi piace rispondere a questo quesito immenso facendomi aiutare da un autore israeliano molto ben conosciuto, Abraham Yehoshua.
"Dunque signor Mani lei è ebreo". Inizia così, ad Iraklion, sull'isola di Creta, con queste parole, il lungo dialogo e il rapporto tra il nazista tedesco, Egon Brunner, e un componente della lunga genealogia dei Signori Mani. Il tedesco, studioso di cultura classica greca, pone in Creta i confine meridionali del Terzo Reich, alla cui cultura classica, secondo il pensiero di Brunner, il Reich appartiene. In questo richiamo classico, l'Autore riecheggia un avvenimento di tanto tempo fa, di importanza capitale, quando cioè vi fu la rivolte contro la cultura classica greca da parte di un gruppo di ebrei, i Maccabei, per mantenere la propria identità ebraica, contro il tentativo di assimilazione alla cultura alessandrina. Nel secondo dialogo del romanzo intitolato appunto "Il signor Mani", Abraham Yehoshua, grande romanziere in lingua ebraica, tradotto in numerosissime altre lingue, che ha saputo tratteggiare con efficacia molte problematiche situazioni della vita ebraica, descrive il tentativo del nazista Brunner di annullare nella famiglia del signor Mani la condizione di "ebraicità" di ciascuno di loro. Il vero promotore ed interprete del desiderio di annullare l'ebraicità è però il signor Mani; intuisce e comprende quello che lo stesso nazista teme direttamente. Il sig. Brunner, citando Adolf hitler, parla alla nonna del "...pericolo dell'ebreo che si annida in ognuno di noi". E per convincerlo di aver perso ogni ebraicità, Mani dice al tedesco: "Si, ero un ebreo, ma ho smesso di esserlo...l'ho annullato...". Giorno dopo giorno, per verificare l'annullamento dell'ebraicità, Egor li spia, interroga nel freddo della notte "gli ebrei annullati", ma soprattutto cerca nella loro casa, nel cuore della notte, di sorpresa, "un segno inequivocabilmente ebraico, qualcosa che potessero usare di notte e potesse farli cadere in trappola", per svelare la mancata perdita di ebraicità. Ma Brunner conclude il pensiero affermando: "...in quell'inverno del 1942 non avevo ancora capito ciò che è cominciato a divenirmi chiaro nella primavera del 1942: che non esiste alcun oggetto ebraico di cui un Ebreo non possa fare a meno...". Tuttavia, per un certo periodo il nazista si convince dell'autoannullamento e quando incontra nell'isola il sig. Mani, parla di lui come del "...mio ex Ebreo, quello che si era autoannullato...".
La possibile conclusione del rapporto di ogni ebreo con la propria ebraicità è simile a quella che sempre il signor Mani, l'autoannullato, porge al nazista Brunner, quando gli spiega perché ha dovuto far fuggire il proprio figlioletto. Perché, dice Mani, "il bambino rimaneva, intanto, quello che era, vale a dire, un piccolo ebreo che non aveva annullato sé stesso".


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