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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



J E P (Journal of European Psychoanalysis, 2004, 18: 49-85) 

Psychoanalysis and the law: An italian discussion

A Round Table Discussion (March 14, 2004):
Bice Benvenuto, Sergio Benvenuto, Sergio Contardi, Giacomo Contri, Marco Focchi, Giorgio Landoni, Valeria La Via, Paolo Migone, Diego Napolitani, Paola Ronchetti, Paolo Tucci
Traduzione italiana


Giacomo Contri Il punto di partenza del testo che analizzo nel testo che vi ho proposto, "I Bin Laden del diritto", è la premessa non solo di questo signore dell'Alta Savoia - Accoyer, il deputato francese autore della proposta di legge - ma la premessa di tutti i tentativi di legislazione intorno a psicoanalisi e psicoterapia. Questa premessa è sempre la stessa ed è un falso giuridico: ossia che queste pratiche - psicoanalisi, psicoterapie e altre ancora - vivrebbero in un "vuoto giuridico". Noi italiani, nel peggio, siamo molto più avanzati dei francesi: loro hanno cominciato appena adesso, mentre noi abbiamo cominciato più di venti anni fa. Ora, affermo che non c'è alcun vuoto giuridico. E' falso crederlo per il fatto che esiste il concetto costituzionale di "permesso giuridico": significa che è permessa, giuridicamente, ogni azione che non sia espressamente proibita da una norma. Schiaffeggiare è proibito da una norma, parlare no. In questo momento siamo qui riuniti in pienezza giuridica, non in un vuoto giuridico: è giuridicamente permesso ciò che abbiamo deciso di fare insieme, al punto che se qualcuno cercasse di impedire questa nostra riunione, allora interverrebbe una sanzione giuridica precisa, perché verrebbe brutalmente impedito ciò che giuridicamente ci è permesso. Perciò, la psicoanalisi e tutto ciò che ad essa si connette ha pienezza giuridica, tutelata dalla Costituzione.
Nel 1968 Lacan aveva detto: "Lo psicoanalista si fa guardiano della realtà collettiva", in questo caso il guardiano del diritto. Ci troviamo addirittura a collocarci dal lato dell'autorità del diritto, non da quello di chi si difende da un'invadenza. Il resto dell'argomentazione è un semplice sillogismo: A è B, C è A, C è B.
1° La proposizione maggiore: gli atti espressamente già giuridici in quanto permessi giuridicamente sono una famiglia vastissima - come parlare, sostenere idee, avere una vita amorosa, ascoltare, narrare, confessare, testimoniare, tacere, giudicare, criticare, soccorrere, educare, commentare, confutare, suggerire, consigliare, sostenere idee anche politiche; o ancora inventare una scienza come ha fatto Freud, o un pensiero filosofico, o fondare un Partito. Per tutti questi atti non c'è vuoto giuridico.
Proposizione minore: la psicoanalisi è il composto di alcuni di tali atti connessi tra loro secondo un legame immanente insindacabile.
Conclusione: la psicoanalisi vive del permesso giuridico. Non esiste vuoto giuridico.
Quindi, progetti di legge come quello di Accoyer non attaccano la psicoanalisi: attaccano il Diritto stesso, sottraendo a esso l'ambito immenso del permesso giuridico. Addirittura è attaccato il principio stesso di habeas corpus.

Sergio Benvenuto. L'habeas corpus non è applicato in Italia. Alcuni politici importanti sono stati processati per anni senza alcun habeas corpus.

Contri Ž applicato indirettamente, attraverso altre vie. L'habeas corpus è implicito al principio del permesso giuridico.
Nello scritto che vi ho dato parlo di Bin Laden perché dovremmo finirla di fare gli psicoanalisti o psicoterapeuti paranoici che sentono di doversi difendere dall'invadenza del cattivo diritto: è al diritto che viene portato l'attentato attraverso questo tipo particolare di volontà piuttosto che attraverso altre specie di attacchi alla Costituzione e ai principi generali del diritto.

Migone Non ho mai pensato nella prospettiva in cui tu, Contri, hai esposto la tua tesi. Hai elencato una serie di attività sulle quali lo Stato non può intervenire con una regolamentazione. Però ci sono attività su cui lo Stato interviene, per esempio l'attività medica. Quale è allora secondo te il criterio con cui lo Stato interviene oppure no?

Contri Ž semplice: basta riferirsi all'elenco di attività che ho citato nel mio intervento, come parlare, conversare, sostenere idee. Lo Stato regola il sostenere idee? Ma siamo pazzi? In paragone il fascismo era mite perché censurava sì certe idee, ma non regolamentava l'attività produttiva di idee come tale, stabilendo preventivamente chi è autorizzato a farlo.

Migone Però nel caso della nostra attività terapeutica non si rientra nel campo dell'attività medica? E quindi non è logico da parte dello Stato prevedere una qualche forma di regolamentazione?

Contri Si tratta della distinzione elementare tra azione specifica e azione generica. L'agire medico è specifico, e così quello di altre professioni, mentre tutte le azioni che ho elencato, tra le quali rientra la psicoanalisi, sono generiche nel senso di genus umano, ossia alla portata di chiunque viene al mondo. Il fatto che talune di tali azioni siano terapeutiche - o meglio lo possano essere: alcuni negano che la psicoanalisi sia curativa - non cambia nulla. Regolamentare questo tipo di cura vorrebbe dire regolamentare il fatto che l'umanità parla. Neanche il nazismo si è sognato di costruire le liste preventive degli autorizzati a parlare, ad avere figli, ad amare, a educare, a sostenere un pensiero, a scrivere, a diventare imprenditore, a fare lo psicoanalista. Naturalmente il nazismo ha provato a metterci su le mani, ma non preventivamente abolendo il permesso giuridico dell'agire umano generico.

Sergio Benvenuto Quasi tutti gli analisti sostengono però che applicano una tecnica. Si parla di tecnica analitica.

Contri Anche fare l'amore ha una tecnica. Anche l'attività persuasiva, o retorica, ha una tecnica. Anche il parlare ha una tecnica: grammatica e sintassi. Idem per uno che fa politica. Non troverete una sola azione umana generica che non comporti una tecnica. Il "selvaggio" non esiste.

Migone Perché allora secondo te lo Stato si arroga il diritto di regolamentare certe cose?

Contri Non userei la parola "arroga". Tutto ciò che ho detto sul permesso è un'apologia del diritto. Senza il permesso giuridico il diritto finirebbe, a partire dalla Costituzione. Diritto è libertà proprio in ragione del fatto che costituisce l'ambito del permesso giuridico. Non è una questione di liberalismo, di laissez faire.

Napolitani Però bisogna tener presente la materia di cui ci si occupa. Allora, se la materia rientra in quello che è considerata malattia, allora ci sono anche dei tecnici autorizzati a curare la malattia. Se io, non avendo nessun diploma particolare, mi metto ad aprire il cervello di una persona, perché voglio curare un bernoccolo, questo è un abuso e vado in galera.

Contri Certo che è un abuso, perché un atto chirurgico è un atto specialistico, non genericistico.
Quanto alla differenza tra educare e curare, vero che è una questione ma, fin che siamo nell'ambito dell'agire generico, cioè alla portata di tutti, è una questione che riguarda ognuno di noi nell'ambito del permesso giuridico. Non c'è nulla da regolare nell'educazione e nella cura perché la giuridicità c'è già.

Napoletani Allora dovremmo dire chiaramente che noi non ci occupiamo di malattia.

Contri Ma perché no? Se a Lourdes i miracoli curassero le malattie, che cosa faremmo, l'Albo dei Miracolisti?
La legge non si occupa di guarigione in generale, ma solo di quella conseguente a certe azioni specifiche, e perciò l'Ordine dei Medici. Se passare il tempo con amici mi guarisse, ciò significa che sarebbe in atto una legge di guarigione con cui la legge dello Stato non ha la capacità di confrontarsi. E lo psicoanalista è un amico privo delle tradizionali stupidaggini sull'"amicizia" o sull'"amore". Cura (senza miracolo!, né magia!) ma non è medico.

Sergio Contardi: Il problema, però, è che la legge italiana ha fatto rientrare tra le attività sanitarie la psicanalisi. E' questo l'escamotage su cui si fa perno.

Contri Ma questa è una sciocchezza: come si può fare rientrare un generico umano in uno specifico medico? Ciò è giuridicamente irrecepibile: sarebbe come legittimare la più sciagurata tra le medicine alternative. E la psicoanalisi (almeno Freud) non si è mai voluta come medicina alternativa.

Sergio Contardi: E io ti faccio notare - e l'ho anche scritto - che la legge, togliendo la dicitura "comprese quelle psicanalitiche", ha lasciato un vuoto giuridico. Allora, i francesi dicono: "facciamo sì che sia formalmente esclusa la psicanalisi, vista l'esperienza italiana". Il giudice, in Italia, tende, infatti, a applicare un'interpretazione restrittiva e a ricomprendere la psicanalisi tra le attività sanitarie. Secondo me, è questo il problema e bisogna distinguere il livello del diritto da quello del discorso giuridico. Quello che tu dici appartiene sì al piano del diritto, ma occorre anche entrare nel merito della regolamentazione giuridica.

Contri : Invece ripeto che il vuoto giuridico non esiste. Comunque è molto significativo che sia in Italia sia in Francia abbiano voluto lasciar fuori la psicoanalisi: hanno avuto necessità (logica e giuridica) di tirarla fuori perché qualcuno si è accorto, obtorto collo, che la psicoanalisi è conversare, persuadere, dir di sì, dir di no, amare, eccetera, ossia già giuridica nell'ordine del permesso giuridico. Ma hanno dovuto tirare via la psicoanalisi facendo due pesi due misure, confondendo le acque già confuse, in modo da disseminare una specie di grande nebbia per mezzo dell'equivocissima parola "psicoterapia", in modo che nessuno ci capisca più niente.
Tutti coloro che praticano il cosiddetto "psicoterapeutico" farebbero bene a cavalcare per se stessi l'argomento quasi riconosciuto per la psicoanalisi. Dato che tutte o quasi le psicoterapie sono parlare, conversare, tacere, proporre, consigliare, ecc., sono della medesima famiglia cui appartiene la psicoanalisi - tutte le psicoterapie o quasi appartengono all'ambito del già giuridico, non del discorso giuridico. La Costituzione protegge tutte queste attività dall'essere inserite in liste specialistiche.

Valeria La Via Allora perché la gente si sposa e va dall'ufficiale, se amarsi è un atto generico?

Contri Prima di sposarsi, la gente si mette insieme: e due per mettersi insieme non devono appartenere a una lista degli autorizzati a vivere insieme. Se vogliono, si sposano, e anche per sposarsi non occorre essere in una lista di autorizzati a sposarsi. Oltre tutto, potremmo definire l'analisi come due tizi che si mettono insieme, non per fare sesso, per fare altre cose. E questo mettersi insieme è già vita giuridica, tutelata costituzionalmente. Proibito fare liste di autorizzati in tutta questa serie di attività.

Giorgio Landoni Negli interventi scritti dei partecipanti si evidenzia una divisione di contenuti. Per alcuni, l'argomento è la legge e i suoi effetti, eventualmente anche le intenzioni più o meno presunte che sorreggono l'impianto della legge Ossicini e altre simili. Poi, altri tendono ad allargare il discorso all'epistemologia della psicoanalisi. Secondo me, questi due discorsi non possono stare insieme in questa tavola rotonda. Io trovo particolarmente interessante l'impostazione che ha dato Contri al tema, e la collego alla posizione di Sergio Contardi. Certo la posizione di Contri ha punti discutibili: io manterrei una ferrea distinzione tra psicoanalisi e il resto. Ferrea nel senso indicato da Contardi, cioè che al più si parla di effetti psicoterapici anche nell'attività psicoanalitica: questo è un modo per tentare di dare ai non tecnici un'idea degli effetti che ci si può attendere da interventi di conversazione, incontro, eccetera, di quelle attività che sono state definite in maniera molto esauriente da Contri. Manterrei la distinzione tra psicoanalisi e psicoterapia perché ritengo che la legge Ossicini abbia prodotto degli effetti devastanti sul modo di pensare di tutti, a partire dagli psicoanalisti, anche più ortodossi. Ha mercantilizzato l'attività in maniera tale che oggi un discorso come quello di Contri - più che mai giusto - da un punto di vista pratico non ha alcuna possibilità di fare una minima breccia all'interno di nessuna formazione analitica.
Gli effetti più devastanti della legge Ossicini sono stati al livello degli psicantropi. Comunque, anch'io sono dell'avviso che ci sia una possibilità d'intervento, ma sulla falsariga di quello che stanno dicendo i francesi, vale a dire di una richiesta di espulsione o autoespulsione completa della psicoanalisi dall'ambito della giurisprudenza. Come sta chiedendo René Major in Francia, occorre che la psicoanalisi si riconosca per il fatto di autoescludersi dall'ambito della regolamentazione della legge. Chiediamo che la legge dica che essa vale per tutte le psicoterapie salvo che per la psicoanalisi. Questo comporta delle conseguenze: ne dico una banale, i rapporti con le assicurazioni si andranno a strutturare prossimamente, in tutta Europa, sulla falsariga di quello che succede in America.

Sergio Benvenuto E cioè che la psicoanalisi non sarà più coperta dalle assicurazioni?

Landoni Le conseguenze economiche sono un dato che segue. Quando io decisi di chiedere alla Società Svizzera di diventare allievo, mi arrivò un librettino. Al primo punto diceva: "La Società Svizzera di Psicoanalisi suggerisce che coloro che vogliono dedicarsi alla psicoanalisi si assicurino di avere una professione con la quale guadagnarsi da vivere, perché niente garantisce che la psicoanalisi permetta di guadagnarsi da vivere". Io lo capii in due maniere. La prima era : "Ce ne freghiamo completamente delle tue propensioni professionali; il tuo rapporto con la psicoanalisi è un fatto che riguarda te; le modalità con le quali lo esplicherai sono fatto tuo; se tu vuoi entrare in questo gruppo, noi ci riserviamo di valutare il tipo di formazione. Punto e basta." A questo io mi attengo ancora oggi.

Marco Focchi Sono d'accordo con Contri. Il tentativo di regolamentazione di cui parliamo, nel modo in cui è fatto, è la punta di lancia di un tentativo di controllo generalizzato, portatore di un pericolo autoritario che non investe solo la psicoanalisi, ma la società nel suo complesso. Tali forme di controllo sono relative alla società del rischio in cui viviamo.
Non credo che la distinzione tra un aspetto legislativo, regolamentativo, e un aspetto epistemologico, sia netta. C'è, a mio parere, una connessione logica tra i due aspetti: nel momento in cui i poteri pubblici e le istituzioni si interessano a noi, usciamo dal nostro ambito ristretto e siamo tenuti a dar conto della nostra attività. Siamo quindi esposti a una valutazione pubblica. La psicoanalisi, nel suo insieme, non si è mai sottratta all'esigenza della valutazione. Fenichel pubblicava negli anni Trenta i risultati dell'Istituto di Berlino; Alexander ha pubblicato i risultati dell'Istituto di Chicago; in America ci sono stati poi studi più sofisticati che hanno messo in relazione il processo con i risultati, come gli studi di Luborsky. C'è sempre stato un tentativo di esporre al pubblico quello che facciamo. Il problema è il come lo facciamo. Tutti questi tentativi - da quelli più semplici che consideravano i risultati sul piano statistico e numerico, a quelli più complessi che elaboravano in maniera sofisticata i risultati - rientravano nella retorica della metodologia scientifica. Dico retorica perché, in fondo, questi aspetti vanno a far parte della protrettica del discorso psicoanalitico, non della dottrina. Ž un po' come nelle scuole di filosofia antica, in cui c'è una parte del discorso che si rivolge all'ascoltatore ingenuo per distoglierlo dall'opinione corrente e rivolgerlo alla vera teoria e, a questo scopo, usa meccanismi ed esche retoriche per conquistarlo a sé. La psicoanalisi, quando usa queste modalità del discorso scientifico, fa un'operazione protrettica, cioè di cattura dell'attenzione attraverso strumenti considerati evidenti e consolidati nel senso comune. Siccome oggi la scienza è la fonte di ogni convalida, autenticazione e certezza, attingiamo alla strumentazione del discorso scientifico per presentare i nostri risultati. Ciò è avvenuto in un determinato periodo storico.
Adesso però dovremmo entrare in una prospettiva diversa, giacché è ormai evidente il limite di questo tipo di impostazione. In fondo, la metodologia di questi studi di valutazione, che viene dall'epidemiologia, richiede una serie di condizioni--come l'omogeneità del tipo di pazienti, il doppio cieco, la randomizzazione--che non sono coerenti con la logica del discorso analitico e, soprattutto, mettono in gioco un'uniformità che non si può concepire per la psicoanalisi. Gli studi comparativi tra le varie psicoterapie, per esempio, non possono tenere conto della specificità della psicoanalisi. C'è quindi una forte spinta di omogeneizzazione che fa perdere i contorni di quello che realmente facciamo. E' come se considerassimo uno sport come il pattinaggio sul ghiaccio e vi includessimo il pattinaggio artistico, le gare olimpioniche di velocità, gli spettacoli di Holiday On Ice, l'hokey su ghiaccio, e facessimo delle valutazioni sulla base dei punteggi. Ma se non si discriminano le varie attività, i risultati non valgono nulla.
Alcune psicoterapie sono del tutto congruenti alle metodologie d'impronta scientifica: ad esempio le psicoterapie cognitivo-comportamentali, che hanno come obiettivo la soppressione di un sintomo, o che considerano il sintomo come un equivoco sul piano cognitivo; oppure le teorie biopsichiatriche, che considerano il sintomo come uno squilibrio biochimico del cervello: in tal caso, si può fare una statistica basata sulla presenza o l'assenza dei sintomi a fine terapia. Nella psicoanalisi, invece, si è imposta in tutte le correnti la concezione che il sintomo non è semplicemente disfunzionale, ma un elemento rivelatore di uno strato profondo. L'obiettivo della psicoanalisi è allora la decostruzione del sintomo spinta fino a far emergere quello che Lacan chiamava "l'incurabile". Il risultato dell'analisi è arrivare all'incurabile. Lacan lo diceva in un modo provocatorio, però è la stessa cosa che, in termini diversi, diceva anche Freud in Analisi terminabile e interminabile: qui sostiene che ci sono dei punti insuperabili nell'attività terapeutica che riguardano la roccia basilare della castrazione.
Tutti gli strumenti di validazione che si fondano sulla metodologia scientifica presuppongono una totalizzazione del positivo. Questo è necessario, perché la scienza si rivolge al positum, a ciò che è oggettivato nel dato. Nell'analisi, invece, vi è una messa in discussione del soggetto, quindi vi è un elemento negativo che resiste. Per il Lacan degli anni Cinquanta, per esempio, obiettivo dell'analisi è far emergere una mancanza in cui si può riconoscere una verità, la mancanza insuperabile che costituisce il soggetto. Quindi, dovremmo distinguere, ad esempio, la sofferenza nevrotica dalla negatività che, staccata dal male, viene integrata in un nuovo equilibrio compensativo. C'è un atteggiamento (positivista) che respinge la negatività come il male, e c'è un atteggiamento (psicoanalitico) che la integra all'interno di una dialettica.
Nel suo momento protrettico la psicoanalisi usava la metodologia scientifica per presentarsi al pubblico, adesso credo che siamo in un altro momento, in cui possiamo proporre gli strumenti interni alla psicoanalisi per presentare i risultati della nostra attività in termini appropriati alla logica e alla realtà del discorso analitico. Dobbiamo creare noi stessi un dispositivo--che non derivi dal linguaggio scientifico stretto--che consenta di mostrare adeguatamente la logica propria dell'operazione psicoanalitica. I rapporti della psicoanalisi con la scienza sono essenziali. Lacan considerava che il soggetto della scienza fosse il soggetto dell'inconscio, ma il fatto che ci sia un buon rapporto tra psicanalisi e scienza non vuol dire che la prima sia riconducibile pari pari alla seconda. Se facciamo questa forzatura, creiamo un rapporto tra la psicoanalisi e la "falsa" scienza, quella che esporta i metodi con cui studia la physis per farne misura del campo del soggettivo. Sappiamo che le statistiche producono risultati contraddittori, perché il campione che noi prendiamo ad oggetto è poco omogeneo.
Leggevo uno studio sugli attacchi di panico. Una psicoanalista americana, Barbara Milrod, applicando una terapia breve standardizzata di orientamento psicodinamico, è riuscita nel giro di tre, quattro mesi a ridurre del cinquanta per cento il panico di cui soffrivano i suoi pazienti. Ma come si fa a quantificare un fenomeno di questo genere? Se, per produrre indicatori chiari ed univoci, violentiamo la natura dell'oggetto a cui ci rivolgiamo, ci sfugge la realtà più viva su cui lavoriamo.

Paola Ronchetti Vorrei mettere in evidenza una domanda: Chi siamo? Molti anni fa, Ossicini dava questa risposta a noi psicologi: "siete res nullius, perché nessuna legge ci riconosce". Ancora oggi parliamo di leggi. All'epoca abbiamo confuso lo stimolo a ricercare un'identità con il bisogno di definirci in un ruolo a cui spettassero competenze specifiche, scegliendo una omologazione che ci garantisse la sopravvivenza professionale. Dopo vent'anni di congressi sul "ruolo dello psicologo", non abbiamo fatto molta strada. Ci siamo annoiati dei nostri ossessivi distinguo, senza riuscire a dar valore alle differenze di interpretazione del ruolo. C'è lo Stato che ora ti dice "fai parte di una corporazione". Così si ripropongono le appartenenze come vincolo, trappola. L'appartenere è anche necessario per ritrovare lo stimolo alla ricerca di una identità più autentica per poter "dis-appartenere", rispetto a un'indicazione di percorso che schiaccia qualunque spirito critico o innovativo. Si tratta di assumere in prima persona la responsabilità della scelta della "professione", come dice Landoni, riconoscendone oneri e onori.

Sergio Contardi: (rivolgendosi a Focchi) Vorrei soffermarmi, brevemente, sul problema della passe, che era una questione che Lacan si era posto rispetto all'iscrizione degli analisti nell'istituzione. C'era una certa modalità nell'IPA che prevedeva tutto un complesso di prove per arrivare a essere iscritti come analisti; Lacan a un certo momento della sua elaborazione teorica, inventa un dispositivo, che chiama passe, per cui qualcuno dà testimonianza sul punto in cui in lui si era manifestato il desiderio di diventare analista. Ossia, su come era arrivato lungo la sua analisi a manifestare questo desiderio: era la testimonianza del suo percorso analitico. E questa poteva valere ad iscriverlo come analista dell'istituzione... Insomma, c'era qualcuno che era a un certo punto della sua analisi, cioè sul punto di autorizzarsi a diventare analista e decideva di dare testimonianza di questo passaggio a due persone che si trovavano ancora nel percorso e che si presumeva fossero in condizione di ascoltare.

Focchi: A due pari, perché è una testimonianza a due persone che sono nello stesso percorso.

Sergio Contardi: Che andavano poi a testimoniare a una giuria, quella sì di analisti, che ascoltavano e decidevano se c'erano gli elementi, ossia ascoltavano gli effetti del passaggio. Che cosa avveniva, però, a mio parere? Che, alla fine , anche questo dispositivo è risultato essere soltanto - e Lacan ne ha decretato il fallimento - un altro modo con cui l'istituzione iscriveva gli analisti. E questo perché si erano messe in moto tutta una serie di perversioni istituzionali, per cui l'unico desiderio in gioco era diventato il voler essere iscritto per essere riconosciuto come analista. Detto questo, continuo però a ritenere molto importante, per una mia posizione personale, la questione posta sulla passe. Poiché ritengo che il divenire analista sia una questione che riguarda solo l'analisi personale di qualcuno. Pertanto, mi è sembrato sempre giusto che il decidere se qualcuno è analista o no da parte di un'istituzione, iscrivendolo nei suoi registri, avvenisse sulla questione del come era avvenuto questo passaggio, e non su questioni teoriche o di altro tipo, o sulla discussione dei casi clinici. Continuo a ritenere la passe giusta in questi termini. Il problema è come inserirla nell'istituzione, come stabilire il dispositivo più idoneo.
Insomma, il problema si situa a livello delle istituzioni psicanalitiche. E a questo proposito vorrei anche ricordare che Lacan, nel '73, riflettendo proprio intorno all'esperienza della passe, ribadiva ancora una volta quanto fosse illusoria ed errata la distinzione tra psicanalisi terapeutica e psicanalisi didattica, mettendo in discussione il termine stesso di didattica: "Occorrerebbe saper notare le cose di cui non parlo: non ho mai parlato di formazione analitica; ho parlato di formazioni dell'inconscio. Non c'è formazione analitica. Dall'analisi si snoda un'esperienza che a torto si qualifica didattica".
Certo sembrerebbe, tutto sommato, una pignoleria, un eccesso di rigore. Ma, a mio parere, così non è. Anzi, ritengo che non si possa parlare veramente di psicanalisi laica, per esempio non medica, finché non si è chiarito questo punto. Insomma, se leggiamo il dibattito parlamentare fiorito intorno alla 56/89, la legge che regolamenta la professione di psicoterapeuta, ci accorgiamo subito di come lo stesso legislatore abbia fatto fatica a far rientrare la psicanalisi nella classe della psicoterapia. Conclusione? Si è dovuto ricorrere ad un'ennesima astuzia della ragione. Si è cancellata materialmente la voce psicanalisi dall'elenco delle psicoterapie, lasciando ad ognuno l'onere di indovinare se era compresa o esclusa. Al giudice, dunque, l'ardua sentenza!
Con tutti i problemi che dicevamo prima... - Cerchiamo quindi di ritornare ad dibattito, alla nostra questione: se la psicanalisi non sta dentro alla voce psicoterapia non è, a mio parere, perché è una specie di superterapia, come è stato affermato, ma proprio perché un'analisi è sempre un intreccio inestricabile di terapia e formazione. La terapia non avviene senza formazione; la formazione procede provocando effetti di terapia. Il voler separare forzatamente e forzosamente la terapia dalla didattica fu l'effetto, forse necessario - ma a mio parere resta da dimostrare - dell'istituzionalizzazione stessa della psicanalisi. Certamente questa divisione sorse nel '24, quando la commissione per l'insegnamento della società di Berlino prese, per la prima volta nella storia del movimento psicanalitico, la decisione di regolamentare la propria attività. La vicenda andò probabilmente come ce la descrive, trent'anni dopo, un accorato Bernfeld in una sua conferenza del '52. Scrive Bernfeld: A Vienna, accanto a Freud, si preferiva l'idea di offrire al nuovo movimento l'occasione di uno studio serio della psicanalisi e dell'applicazione della psicanalisi a tutti i settori della terapia e dell'educazione. A Berlino la tendenza era piuttosto quella di isolare le società psicanalitiche dal movimento culturale generale e di stabilire la psicanalisi come una specializzazione per la professione medica. E procede: Operando un compromesso, le cliniche di Vienna e di Berlino decisero di includere nel programma della formazione alcune disposizioni sulla formazione dei non medici. Ma ben presto apparve, con intensità crescente, che il loro scopo era di distribuire diplomi di psicanalisi. Alla fine la tendenza berlinese ha prevalso. Preciso che questa conferenza di Bernfeld fu pubblicata solo dopo dieci anni dalla sua morte con un'introduzione redazionale in cui si spiegava che, se l'autore ne avesse avuto il tempo, l'avrebbe certo rimaneggiata dandole quella forma obiettiva che gli era abituale, mentre così, naturalmente, era solo un documento che testimoniava le reazioni turbate dell'autore di fronte ai problemi della formazione analitica. Insomma, storicamente, il problema inizia a porsi quando le istituzioni psicanalitiche, contraddicendo lo stesso Freud, si sono date come obiettivo prioritario la formazione degli analisti; diventando così, per l'appunto, "distributori di diplomi di psicanalisi". Questa posizione delle istituzioni psicanalitiche, sedimentata nei decenni, ha offerto e offre ancora oggi la motivazione e l'autorizzazione affinché gli Stati possano pretendere di ufficializzare quella che in fin dei conti era ormai una prassi acquisita.
In altri termini: la "formazione dello psicanalista", e la sua formalizzazione, è stata da sempre il miraggio - e poi l'incubo - di ogni istituzione analitica. L'unica eccezione é, guarda caso, costituita proprio da Freud: la prima Società psicanalitica di Vienna e i suoi "mercoledì". Non certo da Lacan, nonostante il lodevole e vano tentativo della sua passe, per i motivi che indicavo prima...
E occorre dirlo, su questo punto, sulla formazione dell'analista, la "famigerata" legge 56/89 rende paradossalmente giustizia: l'unica formazione possibile nel campo psi è quella dello psicoterapeuta.
In effetti, per sua natura e logica, il discorso giuridico tende a sostituirsi, per otturarle, alle falle etiche degli altri discorsi e, quindi, al traballante legame sociale che ne consegue: "mani pulite" in absentia etica del discorso politico, o la legge sulle psicoterapie in absentia etica del discorso analitico.
E si potrebbe perfino aggiungere che tanto "mani pulite" quanto la legge 56/89 nascono al fondo di un medesimo movimento provocato dallo svolgersi storico della psicanalisi in Italia. L'affaire Verdiglione - vero antefatto di "mani pulite" - è stato, per la logica in cui è sorto, la reazione a una perversione del discorso analitico, così come la legge sulla psicoterapia è stata motivata dalla reiterata insistenza, attuata dalle Società di psicanalisi, nell'esibire il feticcio della "formazione dello psicanalista".
La reazione alla legge dello Stato, come sappiamo, è consistita, da parte delle istituzioni psicanalitiche (tutte, nessuna esclusa), nel rigettare la verità emersa dal discorso giuridico. O aderendovi acriticamente o denegandola nei fatti. Non mi dilungo, è storia troppo recente e arcinota.
Comunque, ascoltiamone l'insistente lamento: se il nostro feticcio (la formazione dell'analista) - l'unico oggetto che per noi giustifica il nostro esistere come associazioni - viene meno, come tollerare di continuare a vivre ensamble, ossia come tollerare di fondare il proprio desiderio su una mancanza...
Non vi sembra un piagnisteo quanto meno curioso da parte di psicanalisti?
Ma, come scrive Lacan, "non esiste formazione dell'analista" in quanto tale, esistono solo formazioni dell'inconscio, ossia rappresentazioni, parziali e transitorie, del desiderio...
E allora prendendo alla lettera l'insegnamento di Lacan, tento di passare velocemente alla pars costruens della mia proposta: perché non dismettiamo definitivamente anche i residui orpelli luttuosi e prendiamo atto finalmente che il compito di un'associazione psicanalitica, di una nonscuola, non è quello di formare l'analista ma piuttosto quello di effettuare, secondo il legato freudiano, una trasmissione della psicanalisi? E che questa non può avvenire lungo un processo - analisi didattica, insegnamento teorico, ecc. - più o meno preordinato e prestabilito ma solo in una scansione puntuale, in una puntuazione, in un susseguirsi di eventi che traccino, non tanto frasticamente quanto sintatticamente, il divenire di un analista?
Insomma, non credo che il legame sociale tra analisti, il loro associarsi, possa essere semplicemente fondato su un legame epistemico e ordinariamente trasmissibile come, più o meno, è avvenuto fino ad oggi.
E dunque perché non accettare la sfida impossibile che il nostro essere analisti ci impone: fondare il legame sociale tra psicanalisti, il nostro associarsi, non avendo come scopo la formazione dell'analista - enunciato di un sapere - ma proprio le formazioni dell'inconscio - emergere di verità parziali e transitorie - e quindi il nostro rapportarci teoricamente ad esse attraverso una nonconoscenza?
In questo modo, forse, un'associazione psicanalitica potrebbe essere un'associazione che ha per scopo non tanto un sapere comune e comunicabile (l'esserci del sapere) quanto un sapere da costruire a partire da una nonconoscenza (il divenire del sapere). Quindi un'associazione che non abbia per scopo tanto la formazione dell'analista quanto la trasmissione della psicanalisi.
Credo, insomma, e per concludere, che le associazioni psicanalitiche dovrebbero riflettere ulteriormente sulla situazione posta dalla legge 56/89 in Italia. Coglierne così anche gli effetti di verità che contiene. E non per adeguarvisi ma per ridisegnare altrimenti l'antica e mai risolta questione posta dalla formazione degli analisti.

Bice Benvenuto Personalmente sono inclusa non in un albo degli psicoterapeuti, ma in un Register, in Gran Bretagna. In UK di fatto c'è un'articolazione permanente tra psicoterapia e psicoanalisi. La richiesta di un Register degli psicoterapeuti è venuta dai professionisti stessi: secondo la cultura e la legislazione inglesi, le corporazioni non sono qualcosa che viene definito dall'alto, non esiste un Ministero che definisce una professione e le dà le regole. Così è successo con le psicoterapie, psicoanalisi inclusa. In risposta a questa richiesta, il governo britannico ha reagito dicendo "Bene, ma voi chi siete?" Allora, vent'anni fa, per dieci anni tutti gli psicoterapeuti britannici - dalla Psychoanalytic British Society fino all'ultimo terapista in basso nella scala del prestigio - si sono incontrati a Rugby, ogni anno, per rispondere a questa domanda. Negli anni Ottanta vi entrai anch'io. Il fine di questi incontri era di trovare dei minimi denominatori comuni per poter comunicare all'Altro - alla società, allo Stato, al Governo - che cosa noi stessi avevamo articolato su noi stessi. Si partecipava alla Rugby Conference in rappresentanza della propria organizzazione. Per me è stata un'esperienza di grande interesse.
Finalmente, nel 1990, siamo arrivati alla Costituzione della UKCP - United Kingdom Conference of Psychotherapists - i cui membri erano le varie organizzazioni psicoterapiche e psicoanalitiche. Quindi ogni organizzazione ha dovuto fare un lavoro, al proprio interno, per definirsi: per articolare il proprio codice etico, tecnico o non tecnico, decidere se quello che faceva era psicoanalisi o non psicoanalisi.
Qui si integra anche la questione della passe: il lacaniano, ad esempio, dice "noi facciamo questo, questo e questo". Quindi il suo bisogno di differenziarsi è relativo. Eppure ad un certo punto il problema della differenziazione si è posto. Non che tutte le organizzazioni della Conference andassero in pace e d'accordo: per esempio, la British Psychoanalytic Society, membro dell'IPA, ha lavorato con noi per 12-13 anni, ma quando si è dovuta costituire la UKCP se n'è andata, con questa motivazione: "Noi abbiamo un'autorità storica, e quindi negoziamo direttamente con il governo." Altri gruppi psicoanalitici hanno deciso di seguire la British Society, che ne ha presi alcuni sotto la sua ala dicendo "Noi garantiamo presso lo Stato anche questi gruppi". Quindi c'è un va e vieni: questi gruppi dell'IPA a volte rientrano, a volte escono, a seconda della negoziazione.
Oltre alla BPS, si sono staccati la Tavistock Clinic, kleiniana, anch'essa un'istituzione con una sua autorità storica - anche se inferiore alla Society. La Tavistock comunque già da anni ha accordi con i municipi di varie città dell'Inghilterra, per cui erano già in qualche modo integrati nel NHS [National Health Service]: se un municipio doveva prendere uno psicoterapeuta dell'infanzia, il Tavistock lo forniva. Ci sono concertazioni - il governo inglese funziona sempre attraverso concertazioni - ma l'identificazione viene sempre dalla professione. Certo all'interno della Rugby ci sono lotte, ma il processo è interessantissimo. Attualmente prevalgono la questione della differenziazione e quella di trovare dei denominatori comuni a tutte le psicoterapie.
Contri ha detto che la psicoanalisi è legale in se stessa. Invece io penso che proprio in quanto psicoanalisti, più ancora che come psicoterapeuti, dobbiamo confrontarci con la legge in modo diretto, altrimenti succede quello che è successo in Italia e sta succedendo in Francia: che qualche autorità a noi estranea verrà a dirci chi siamo, "o siete così o ve ne andate, altrimenti siete qualcosa di illegale o di oscuro" .
Ci deve essere una fine di analisi delle istituzioni analitiche stesse. Su questo sono d'accordo con Contri: anche le istituzioni psicoterapeutiche potrebbero utilizzare lo stesso discorso della psicoanalisi, se vogliono; del resto molte psicoterapie sono analitiche. A parte i dettagli tecnici, il discorso della psicoterapia analitica è analitico. Ma perché non ci vogliamo confrontare con la legge? Perché non entriamo in una lotta che l'altro ci impone, anziché fare le vittime? Perché facciamo i castrati?
Molto spesso si parla del legame sociale, ma lo si vede sempre come un legame sociale tra analisti. Naturalmente questo legame tra analisti è forte: c'è una lotta continua tra analisti - la lotta è parte del legame. Ma non si parla mai del legame della psicoanalisi con il sociale, del suo confronto con l'Altro. Per cui temo che persino il discorso, così interessante, della passe risulti comprensibile solo a noi - insomma, noi analisti non possiamo presentarci a chi analista non è parlando della passe. Certo dobbiamo farlo passare come nostra cosa specifica, ma questo non ci esime, assieme a tutte le altre istituzioni psicoterapeutiche, dal dover aderire a quello che lo Stato, e la società in genere, ci chiedono come garanzia di quello che facciamo. Abbiamo il dovere di farci capire. Non possiamo restare su un trono che nessuno ci riconosce. Se vogliamo stare su un trono, allora ce lo dobbiamo conquistare. Ecco, l'esperienza inglese mi ha insegnato questa umiltà. Certo l'esperienza inglese è diversa da quella italiana perché si tratta di culture diverse. Anche in Francia però si tende a mettersi, come da noi, su un trono - si tratta forse di specificità latine?
I nostri governi, a un certo punto, ci mettono di fronte a una questione: "Ma tu chi sei?". E noi rispondiamo: "Ma io sono e basta, io sono al di là delle definizioni sociali!" Invece occorre il rispetto del vero legame sociale, aldilà dell'odio. L'odio in fondo è simbiotico: ma ci dev'essere, poi, il momento della separazione, quello in cui uno dice "Io sono solo e devo spiegare agli altri chi sono; sono un soggetto separato". Quindi noi analisti siamo divisi gli uni dagli altri, divisi dallo stato, però legati. Penso che Lacan per legame sociale intendesse proprio questo: separazione nell'essere legati.
In questa esperienza della Rugby, ciascuna organizzazione doveva decidere il modo in cui presentarsi. Poi, siccome ci dovevamo convalidare reciprocamente, si estraevano a sorte quattro istituzioni: queste andavano a visitarne una e controllavano quello che questa faceva. Noi eravamo un giovane centro lacaniano in Inghilterra, il primo in Gran Bretagna - quindi eravamo sicuri di subire ostracismo. Come controllori ci toccarono in sorte la Tavistock, altre due organizzazioni molto rigide, e la Philadelphia Association. Eravamo terrorizzati: "Non ci accetteranno mai!" Ora, le quattro controllore, dopo aver visto cosa facevamo, dissero "Sinceramente per noi siete un po' strani, ma siete stati convincenti, quindi diremo che avete tutto il diritto di far parte della Conference; però dovremmo insieme trovare il minimo comun denominatore". Anche in Francia si sono trovati di fronte a questa castrazione: "Noi non vi riconosciamo un privilegio, a meno che voi non ve lo conquistiate". E' nel confronto che si fa valere la propria etica: solo così si conquista il riconoscimento dell'Altro.

Paola Ronchetti Vorrei mettere in evidenza una domanda: Chi siamo? Molti anni fa, Ossicini dava questa risposta a noi psicologi: "siete res nullius, perché nessuna legge ci riconosce". Ancora oggi parliamo di leggi. All'epoca abbiamo confuso lo stimolo a ricercare un'identità con il bisogno di definirci in un ruolo a cui spettassero competenze specifiche, scegliendo una omologazione che ci garantisse la sopravvivenza professionale. Dopo vent'anni di congressi sul "ruolo dello psicologo", non abbiamo fatto molta strada. Ci siamo annoiati dei nostri ossessivi distinguo, senza riuscire a dar valore alle differenze di interpretazione del ruolo. C'è lo Stato che ora ti dice "fai parte di una corporazione". Così si ripropongono le appartenenze come vincolo, trappola. L'appartenere è anche necessario per ritrovare lo stimolo alla ricerca di una identità più autentica per poter "dis-appartenere", rispetto a un'indicazione di percorso che schiaccia qualunque spirito critico o innovativo. Si tratta di assumere in prima persona la responsabilità della scelta della "professione", come dice Landoni, riconoscendone oneri e onori.

Sergio Contardi: (rivolgendosi a Focchi) Vorrei soffermarmi, brevemente, sul problema della passe, che era una questione che Lacan si era posto rispetto all'iscrizione degli analisti nell'istituzione. C'era una certa modalità nell'IPA che prevedeva tutto un complesso di prove per arrivare a essere iscritti come analisti; Lacan a un certo momento della sua elaborazione teorica, inventa un dispositivo, che chiama passe, per cui qualcuno dà testimonianza sul punto in cui in lui si era manifestato il desiderio di diventare analista. Ossia, su come era arrivato lungo la sua analisi a manifestare questo desiderio: era la testimonianza del suo percorso analitico. E questa poteva valere ad iscriverlo come analista dell'istituzione... Insomma, c'era qualcuno che era a un certo punto della sua analisi, cioè sul punto di autorizzarsi a diventare analista e decideva di dare testimonianza di questo passaggio a due persone che si trovavano ancora nel percorso e che si presumeva fossero in condizione di ascoltare.

Focchi: A due pari, perché è una testimonianza a due persone che sono nello stesso percorso.

Sergio Contardi: Che andavano poi a testimoniare a una giuria, quella sì di analisti, che ascoltavano e decidevano se c'erano gli elementi, ossia ascoltavano gli effetti del passaggio. Che cosa avveniva, però, a mio parere? Che, alla fine , anche questo dispositivo è risultato essere soltanto - e Lacan ne ha decretato il fallimento - un altro modo con cui l'istituzione iscriveva gli analisti. E questo perché si erano messe in moto tutta una serie di perversioni istituzionali, per cui l'unico desiderio in gioco era diventato il voler essere iscritto per essere riconosciuto come analista. Detto questo, continuo però a ritenere molto importante, per una mia posizione personale, la questione posta sulla passe. Poiché ritengo che il divenire analista sia una questione che riguarda solo l'analisi personale di qualcuno. Pertanto, mi è sembrato sempre giusto che il decidere se qualcuno è analista o no da parte di un'istituzione, iscrivendolo nei suoi registri, avvenisse sulla questione del come era avvenuto questo passaggio, e non su questioni teoriche o di altro tipo, o sulla discussione dei casi clinici. Continuo a ritenere la passe giusta in questi termini. Il problema è come inserirla nell'istituzione, come stabilire il dispositivo più idoneo.
Insomma, il problema si situa a livello delle istituzioni psicanalitiche. E a questo proposito vorrei anche ricordare che Lacan, nel '73, riflettendo proprio intorno all'esperienza della passe, ribadiva ancora una volta quanto fosse illusoria ed errata la distinzione tra psicanalisi terapeutica e psicanalisi didattica, mettendo in discussione il termine stesso di didattica: "Occorrerebbe saper notare le cose di cui non parlo: non ho mai parlato di formazione analitica; ho parlato di formazioni dell'inconscio. Non c'è formazione analitica. Dall'analisi si snoda un'esperienza che a torto si qualifica didattica".
Certo sembrerebbe, tutto sommato, una pignoleria, un eccesso di rigore. Ma, a mio parere, così non è. Anzi, ritengo che non si possa parlare veramente di psicanalisi laica, per esempio non medica, finché non si è chiarito questo punto. Insomma, se leggiamo il dibattito parlamentare fiorito intorno alla 56/89, la legge che regolamenta la professione di psicoterapeuta, ci accorgiamo subito di come lo stesso legislatore abbia fatto fatica a far rientrare la psicanalisi nella classe della psicoterapia. Conclusione? Si è dovuto ricorrere ad un'ennesima astuzia della ragione. Si è cancellata materialmente la voce psicanalisi dall'elenco delle psicoterapie, lasciando ad ognuno l'onere di indovinare se era compresa o esclusa. Al giudice, dunque, l'ardua sentenza!
Con tutti i problemi che dicevamo prima... - Cerchiamo quindi di ritornare ad dibattito, alla nostra questione: se la psicanalisi non sta dentro alla voce psicoterapia non è, a mio parere, perché è una specie di superterapia, come è stato affermato, ma proprio perché un'analisi è sempre un intreccio inestricabile di terapia e formazione. La terapia non avviene senza formazione; la formazione procede provocando effetti di terapia. Il voler separare forzatamente e forzosamente la terapia dalla didattica fu l'effetto, forse necessario - ma a mio parere resta da dimostrare - dell'istituzionalizzazione stessa della psicanalisi. Certamente questa divisione sorse nel '24, quando la commissione per l'insegnamento della società di Berlino prese, per la prima volta nella storia del movimento psicanalitico, la decisione di regolamentare la propria attività. La vicenda andò probabilmente come ce la descrive, trent'anni dopo, un accorato Bernfeld in una sua conferenza del '52. Scrive Bernfeld: A Vienna, accanto a Freud, si preferiva l'idea di offrire al nuovo movimento l'occasione di uno studio serio della psicanalisi e dell'applicazione della psicanalisi a tutti i settori della terapia e dell'educazione. A Berlino la tendenza era piuttosto quella di isolare le società psicanalitiche dal movimento culturale generale e di stabilire la psicanalisi come una specializzazione per la professione medica. E procede: Operando un compromesso, le cliniche di Vienna e di Berlino decisero di includere nel programma della formazione alcune disposizioni sulla formazione dei non medici. Ma ben presto apparve, con intensità crescente, che il loro scopo era di distribuire diplomi di psicanalisi. Alla fine la tendenza berlinese ha prevalso. Preciso che questa conferenza di Bernfeld fu pubblicata solo dopo dieci anni dalla sua morte con un'introduzione redazionale in cui si spiegava che, se l'autore ne avesse avuto il tempo, l'avrebbe certo rimaneggiata dandole quella forma obiettiva che gli era abituale, mentre così, naturalmente, era solo un documento che testimoniava le reazioni turbate dell'autore di fronte ai problemi della formazione analitica. Insomma, storicamente, il problema inizia a porsi quando le istituzioni psicanalitiche, contraddicendo lo stesso Freud, si sono date come obiettivo prioritario la formazione degli analisti; diventando così, per l'appunto, "distributori di diplomi di psicanalisi". Questa posizione delle istituzioni psicanalitiche, sedimentata nei decenni, ha offerto e offre ancora oggi la motivazione e l'autorizzazione affinché gli Stati possano pretendere di ufficializzare quella che in fin dei conti era ormai una prassi acquisita.
In altri termini: la "formazione dello psicanalista", e la sua formalizzazione, è stata da sempre il miraggio - e poi l'incubo - di ogni istituzione analitica. L'unica eccezione é, guarda caso, costituita proprio da Freud: la prima Società psicanalitica di Vienna e i suoi "mercoledì". Non certo da Lacan, nonostante il lodevole e vano tentativo della sua passe, per i motivi che indicavo prima...
E occorre dirlo, su questo punto, sulla formazione dell'analista, la "famigerata" legge 56/89 rende paradossalmente giustizia: l'unica formazione possibile nel campo psi è quella dello psicoterapeuta.
In effetti, per sua natura e logica, il discorso giuridico tende a sostituirsi, per otturarle, alle falle etiche degli altri discorsi e, quindi, al traballante legame sociale che ne consegue: "mani pulite" in absentia etica del discorso politico, o la legge sulle psicoterapie in absentia etica del discorso analitico.
E si potrebbe perfino aggiungere che tanto "mani pulite" quanto la legge 56/89 nascono al fondo di un medesimo movimento provocato dallo svolgersi storico della psicanalisi in Italia. L'affaire Verdiglione - vero antefatto di "mani pulite" - è stato, per la logica in cui è sorto, la reazione a una perversione del discorso analitico, così come la legge sulla psicoterapia è stata motivata dalla reiterata insistenza, attuata dalle Società di psicanalisi, nell'esibire il feticcio della "formazione dello psicanalista".
La reazione alla legge dello Stato, come sappiamo, è consistita, da parte delle istituzioni psicanalitiche (tutte, nessuna esclusa), nel rigettare la verità emersa dal discorso giuridico. O aderendovi acriticamente o denegandola nei fatti. Non mi dilungo, è storia troppo recente e arcinota.
Comunque, ascoltiamone l'insistente lamento: se il nostro feticcio (la formazione dell'analista) - l'unico oggetto che per noi giustifica il nostro esistere come associazioni - viene meno, come tollerare di continuare a vivre ensamble, ossia come tollerare di fondare il proprio desiderio su una mancanza...
Non vi sembra un piagnisteo quanto meno curioso da parte di psicanalisti?
Ma, come scrive Lacan, "non esiste formazione dell'analista" in quanto tale, esistono solo formazioni dell'inconscio, ossia rappresentazioni, parziali e transitorie, del desiderio...
E allora prendendo alla lettera l'insegnamento di Lacan, tento di passare velocemente alla pars costruens della mia proposta: perché non dismettiamo definitivamente anche i residui orpelli luttuosi e prendiamo atto finalmente che il compito di un'associazione psicanalitica, di una nonscuola, non è quello di formare l'analista ma piuttosto quello di effettuare, secondo il legato freudiano, una trasmissione della psicanalisi? E che questa non può avvenire lungo un processo - analisi didattica, insegnamento teorico, ecc. - più o meno preordinato e prestabilito ma solo in una scansione puntuale, in una puntuazione, in un susseguirsi di eventi che traccino, non tanto frasticamente quanto sintatticamente, il divenire di un analista?
Insomma, non credo che il legame sociale tra analisti, il loro associarsi, possa essere semplicemente fondato su un legame epistemico e ordinariamente trasmissibile come, più o meno, è avvenuto fino ad oggi.
E dunque perché non accettare la sfida impossibile che il nostro essere analisti ci impone: fondare il legame sociale tra psicanalisti, il nostro associarsi, non avendo come scopo la formazione dell'analista - enunciato di un sapere - ma proprio le formazioni dell'inconscio - emergere di verità parziali e transitorie - e quindi il nostro rapportarci teoricamente ad esse attraverso una nonconoscenza?
In questo modo, forse, un'associazione psicanalitica potrebbe essere un'associazione che ha per scopo non tanto un sapere comune e comunicabile (l'esserci del sapere) quanto un sapere da costruire a partire da una nonconoscenza (il divenire del sapere). Quindi un'associazione che non abbia per scopo tanto la formazione dell'analista quanto la trasmissione della psicanalisi.
Credo, insomma, e per concludere, che le associazioni psicanalitiche dovrebbero riflettere ulteriormente sulla situazione posta dalla legge 56/89 in Italia. Coglierne così anche gli effetti di verità che contiene. E non per adeguarvisi ma per ridisegnare altrimenti l'antica e mai risolta questione posta dalla formazione degli analisti.

Bice Benvenuto Personalmente sono inclusa non in un albo degli psicoterapeuti, ma in un Register, in Gran Bretagna. In UK di fatto c'è un'articolazione permanente tra psicoterapia e psicoanalisi. La richiesta di un Register degli psicoterapeuti è venuta dai professionisti stessi: secondo la cultura e la legislazione inglesi, le corporazioni non sono qualcosa che viene definito dall'alto, non esiste un Ministero che definisce una professione e le dà le regole. Così è successo con le psicoterapie, psicoanalisi inclusa. In risposta a questa richiesta, il governo britannico ha reagito dicendo "Bene, ma voi chi siete?" Allora, vent'anni fa, per dieci anni tutti gli psicoterapeuti britannici - dalla Psychoanalytic British Society fino all'ultimo terapista in basso nella scala del prestigio - si sono incontrati a Rugby, ogni anno, per rispondere a questa domanda. Negli anni Ottanta vi entrai anch'io. Il fine di questi incontri era di trovare dei minimi denominatori comuni per poter comunicare all'Altro - alla società, allo Stato, al Governo - che cosa noi stessi avevamo articolato su noi stessi. Si partecipava alla Rugby Conference in rappresentanza della propria organizzazione. Per me è stata un'esperienza di grande interesse.
Finalmente, nel 1990, siamo arrivati alla Costituzione della UKCP - United Kingdom Conference of Psychotherapists - i cui membri erano le varie organizzazioni psicoterapiche e psicoanalitiche. Quindi ogni organizzazione ha dovuto fare un lavoro, al proprio interno, per definirsi: per articolare il proprio codice etico, tecnico o non tecnico, decidere se quello che faceva era psicoanalisi o non psicoanalisi.
Qui si integra anche la questione della passe: il lacaniano, ad esempio, dice "noi facciamo questo, questo e questo". Quindi il suo bisogno di differenziarsi è relativo. Eppure ad un certo punto il problema della differenziazione si è posto. Non che tutte le organizzazioni della Conference andassero in pace e d'accordo: per esempio, la British Psychoanalytic Society, membro dell'IPA, ha lavorato con noi per 12-13 anni, ma quando si è dovuta costituire la UKCP se n'è andata, con questa motivazione: "Noi abbiamo un'autorità storica, e quindi negoziamo direttamente con il governo." Altri gruppi psicoanalitici hanno deciso di seguire la British Society, che ne ha presi alcuni sotto la sua ala dicendo "Noi garantiamo presso lo Stato anche questi gruppi". Quindi c'è un va e vieni: questi gruppi dell'IPA a volte rientrano, a volte escono, a seconda della negoziazione.
Oltre alla BPS, si sono staccati la Tavistock Clinic, kleiniana, anch'essa un'istituzione con una sua autorità storica - anche se inferiore alla Society. La Tavistock comunque già da anni ha accordi con i municipi di varie città dell'Inghilterra, per cui erano già in qualche modo integrati nel NHS [National Health Service]: se un municipio doveva prendere uno psicoterapeuta dell'infanzia, il Tavistock lo forniva. Ci sono concertazioni - il governo inglese funziona sempre attraverso concertazioni - ma l'identificazione viene sempre dalla professione. Certo all'interno della Rugby ci sono lotte, ma il processo è interessantissimo. Attualmente prevalgono la questione della differenziazione e quella di trovare dei denominatori comuni a tutte le psicoterapie.
Contri ha detto che la psicoanalisi è legale in se stessa. Invece io penso che proprio in quanto psicoanalisti, più ancora che come psicoterapeuti, dobbiamo confrontarci con la legge in modo diretto, altrimenti succede quello che è successo in Italia e sta succedendo in Francia: che qualche autorità a noi estranea verrà a dirci chi siamo, "o siete così o ve ne andate, altrimenti siete qualcosa di illegale o di oscuro" .
Ci deve essere una fine di analisi delle istituzioni analitiche stesse. Su questo sono d'accordo con Contri: anche le istituzioni psicoterapeutiche potrebbero utilizzare lo stesso discorso della psicoanalisi, se vogliono; del resto molte psicoterapie sono analitiche. A parte i dettagli tecnici, il discorso della psicoterapia analitica è analitico. Ma perché non ci vogliamo confrontare con la legge? Perché non entriamo in una lotta che l'altro ci impone, anziché fare le vittime? Perché facciamo i castrati?
Molto spesso si parla del legame sociale, ma lo si vede sempre come un legame sociale tra analisti. Naturalmente questo legame tra analisti è forte: c'è una lotta continua tra analisti - la lotta è parte del legame. Ma non si parla mai del legame della psicoanalisi con il sociale, del suo confronto con l'Altro. Per cui temo che persino il discorso, così interessante, della passe risulti comprensibile solo a noi - insomma, noi analisti non possiamo presentarci a chi analista non è parlando della passe. Certo dobbiamo farlo passare come nostra cosa specifica, ma questo non ci esime, assieme a tutte le altre istituzioni psicoterapeutiche, dal dover aderire a quello che lo Stato, e la società in genere, ci chiedono come garanzia di quello che facciamo. Abbiamo il dovere di farci capire. Non possiamo restare su un trono che nessuno ci riconosce. Se vogliamo stare su un trono, allora ce lo dobbiamo conquistare. Ecco, l'esperienza inglese mi ha insegnato questa umiltà. Certo l'esperienza inglese è diversa da quella italiana perché si tratta di culture diverse. Anche in Francia però si tende a mettersi, come da noi, su un trono - si tratta forse di specificità latine?
I nostri governi, a un certo punto, ci mettono di fronte a una questione: "Ma tu chi sei?". E noi rispondiamo: "Ma io sono e basta, io sono al di là delle definizioni sociali!" Invece occorre il rispetto del vero legame sociale, aldilà dell'odio. L'odio in fondo è simbiotico: ma ci dev'essere, poi, il momento della separazione, quello in cui uno dice "Io sono solo e devo spiegare agli altri chi sono; sono un soggetto separato". Quindi noi analisti siamo divisi gli uni dagli altri, divisi dallo stato, però legati. Penso che Lacan per legame sociale intendesse proprio questo: separazione nell'essere legati.
In questa esperienza della Rugby, ciascuna organizzazione doveva decidere il modo in cui presentarsi. Poi, siccome ci dovevamo convalidare reciprocamente, si estraevano a sorte quattro istituzioni: queste andavano a visitarne una e controllavano quello che questa faceva. Noi eravamo un giovane centro lacaniano in Inghilterra, il primo in Gran Bretagna - quindi eravamo sicuri di subire ostracismo. Come controllori ci toccarono in sorte la Tavistock, altre due organizzazioni molto rigide, e la Philadelphia Association. Eravamo terrorizzati: "Non ci accetteranno mai!" Ora, le quattro controllore, dopo aver visto cosa facevamo, dissero "Sinceramente per noi siete un po' strani, ma siete stati convincenti, quindi diremo che avete tutto il diritto di far parte della Conference; però dovremmo insieme trovare il minimo comun denominatore". Anche in Francia si sono trovati di fronte a questa castrazione: "Noi non vi riconosciamo un privilegio, a meno che voi non ve lo conquistiate". E' nel confronto che si fa valere la propria etica: solo così si conquista il riconoscimento dell'Altro.

Valeria La Via In Italia gli psicologi sono sotto il Ministero di Grazia e Giustizia; i medici sono sotto quello della Sanità. Non esiste in Italia un "albo degli psicoterapeuti", anche se in effetti si parla di un progetto europeo di albo degli psicoterapeuti distinto da quello degli psicologi. Attualmente esiste un albo dei medici e uno degli psicologi; presso ciascuno di questi due albi, esiste un elenco di psicoterapeuti. Il prerequisito è di avere una laurea in medicina o in psicologia, e poi di aver fatto una scuola quadriennale di quelle riconosciute dal Ministero; in sede di sanatoria sono stati inseriti nell'elenco coloro che avevano potuto dimostrare di svolgere già una professione inquadrabile, avendo ricevuto una formazione congrua. La prospettiva che preoccupa molti psicologi è che la psicoterapia divenga una professione autonoma grazie ad una regolamentazione europea.
Solo in Italia e in Spagna esiste un Ordine professionale degli psicologi; l'Ordine è un'istituzione molto particolare anche dal punto di vista giuridico. Per esempio ha competenze che derivano dal diritto penale per quanto attiene alle sanzioni che commina. Ž un'amministrazione, in quanto tale regolata dal diritto amministrativo, ossia è burocrazia, con tutti gli svantaggi che spesso sono stati sottolineati, anche sotto il profilo giuridico. Bisogna anche considerare che l'Ordine degli psicologi è un'istituzione abbastanza giovane (la prima formazione dell'Albo è del 1990; gli Ordini hanno iniziato a costituirsi circa tre anni dopo) e quindi non ha la tradizione di competenza amministrativo-burocratica che hanno invece Ordini più vecchi. La questione della psicoanalisi è stata affrontata in questo contesto e non a partire da una discussione "scientifica", ma sotto il capitolo del presunto abuso di professione, per cui l'Ordine ha l'obbligo di fare esposto quando ne viene a conoscenza. Di conseguenza la questione della psicoanalisi--se essa vada classificata come psicoterapia e pertanto richieda la preliminare iscrizione a un albo e quindi all'elenco degli psicoterapeuti--viene affrontata prevalentemente in sede giudiziaria, sulla scorta dei documenti prodotti dai consulenti tecnici.
Ho portato qui una sentenza della magistratura che proscioglie uno psicoanalista senza laurea né iscrizione all'albo, processato per presunto abuso di professione. Non è indicato se la denuncia sia stata fatta dall'Ordine; in ogni caso, se l'Ordine viene a conoscenza di questi casi procede d'ufficio a fare esposto alla magistratura.

Sergio Benvenuto L'Ordine si può anche costituire parte civile?

La Via Non credo, perché probabilmente non difende un interesse di parte, a differenza di un'associazione: l'Ordine è un ente di diritto pubblico. L'Ordine procede direttamente se c'è una violazione delle norme sulla pubblicità; per esempio c'è stato un contenzioso con Seat-Pagine Gialle per l'inserimento del lemma "psicoanalisi".

Contri Se sulle Pagine Gialle scrivo come professione "Insegnante", nessuno può giuridicamente eccepire. Non è la dichiarazione di una professione ad essere perseguibile, se non si è inseriti in un certo Ordine.

La Via Noi, iscritti all'Albo degli psicologi o dei medici, siamo soggetti alle norme sulla pubblicità sanitaria. Stavo parlando comunque della sentenza di assoluzione di uno psicoanalista non laureato, né iscritto ad alcun Ordine, imputato di esercizio abusivo della professione di psicologo. Il capo di imputazione non era quindi professione di psicoterapeuta.
Alla fine l'imputato viene assolto perché il fatto non sussiste, con la motivazione che la psicoanalisi non è psicologia. Lo si dice con una serie di passaggi, alcuni dei quali riportano le audizioni dei vari testimoni, tra cui le persone che sono andate in analisi da costui. Queste persone a domanda rispondono che l'analista non aveva loro prescritto alcun farmaco o suggerito tecniche comportamentali e che interveniva solo per porre qualche domanda e per chiedere alla persona di fare libere associazioni.
Viene anche menzionato un consulente tecnico della difesa, che dice di essere psicoanalista da venticinque anni, laureato e iscritto all'albo, il quale afferma che la psicoanalisi è "pratica di parola, in cui c'è una persona che si chiama l'analizzante [evidentemente è un lacaniano!] che si rivolge ad un'altra persona, lo psicoanalista, con l'obiettivo di cercare di capire con più corrispondenza al vero che cosa si vuole ottenere della propria esistenza e di evitare confusione tra quello che vogliamo noi e quello che in qualche modo viene imposto, o dall'identificazione con altre persone o da sollecitazioni di persone che sono state particolarmente importanti per noi ecc. ecc. Quindi, la psicoanalisi non ha come obiettivo l'eliminazione del sintomo, ma la comprensione del desiderio del soggetto."
Quindi, secondo questa sentenza, la psicoanalisi non è psicologia. Dice: "La legislazione vigente prevede l'albo degli psicologi, ma non quello degli psicoanalisti. La legge 56/89, all'articolo 1, pur non fornendo la precisa nozione della professione di psicologo, recita che per la professione di psicologo è richiesta la laurea in psicologia e l'iscrizione all'albo". Nulla è invece previsto per l'esercizio della professione di psicoanalista e "non si vede, alla stregua delle considerazioni sopra esposte, come questa possa essere identificata con quella di psicologo. Del resto, conferma dell'esistenza di una fondamentale divergenza tra le due professioni, è proprio il tenore del capo d'imputazione, a mente del quale l'accusa contesta a X di esercitare la professione di psicologa e non di psicoanalista".
Un altro passaggio: "l'elemento differenziale tra la professione di psicologo e quello di psicoanalista è che, nel primo caso, l'obiettivo è quello curativo, ossia la rimozione dell'elemento di disturbo della psiche conseguita attraverso la diagnosi e la prescrizioni di comportamenti da parte del terapeuta, mentre, per quanto riguarda la seconda, la psicoanalisi, obiettivo dell'analista non è diagnosticare la malattia e trovare il rimedio, né prescrivere alcun comportamento".
Questo è il punto veramente problematico anche per coloro che, all'interno dell'ordine, hanno sempre preso la difesa della psicoanalisi, distinguendola dalla psicoterapia, e cioè il "sostegno passivo" fornito al paziente nella conoscenza di se stesso. Questa nozione, intellettualistica e un po' filosofica, di psicoanalisi è il rischio che si corre quando si percorre questa strada.
In un'intervista che Sergio Benvenuto, nel 1987, fece a Elvio Fachinelli, si affrontava la questione della contesa con la SPI (IPA italiana), che era esattamente quella di ora: la questione che impropriamente veniva chiamata "psicoanalisi selvaggia". Allora facevo la redattrice in una casa editrice e mi chiamarono dei redattori del settimanale "Panorama", perché dovevo aiutarli a fare la mappa dell'analisi selvaggia in Italia!

Sergio Benvenuto Per Freud, selvaggia era l'analisi fatta dagli psichiatri...

La Via Allora si contrapponevano ortodossi e non ortodossi, e i non ortodossi - quelli più spettacolari erano i lacaniani, di solito - dicevano che per principio non volevano nemmeno laurearsi per essere puri analisti. Io stessa stavo per rinunciare alla laurea... per fortuna poi la ragione ha prevalso.
Nell'intervista a Fachinelli, Sergio Benvenuto girava a Fachinelli un'osservazione che circolava all'epoca, ossia che gli analisti ortodossi non sapevano curare i casi per cui non ci sono le indicazioni all'analisi: gli psicotici, i bambini ecc. Fachinelli rispondeva che la responsabilità era dell'istituzione SPI, che generava degli analisti "grigi", perché il modo SPI di trasmettere spegneva le creatività: era un problema di formazione.
Freud, con il termine "analisi selvaggia", si riferiva a un medico che aveva un'infarinatura di psicoanalisi; potremmo anche dire che molta psicoterapia sia in realtà psicoanalisi selvaggia. Ora, all'università gli studenti ricevono appunto un'infarinatura di teorie psicoanalitiche, come si vede dai testi che circolano nelle facoltà; si tratta di un sapere non dissimile, per forma e contenuto, da quello del medico analista selvaggio di cui parlava Freud. Ora, il problema di Freud era allora quello di salvare il buon nome della psicoanalisi, problema che tuttora mi pare del tutto attuale. Infatti, con la legge Ossicini è successo che anziché essere la psicoterapia un caso della psicoanalisi, la psicoanalisi è diventata un caso della psicoterapia. In questa notte in cui tutte le vacche sono grigie, ne ho viste di tutti i colori.
Ž vero che all'Ordine per molto tempo si è censurata la parola "psicoanalisi" in nome di un criterio burocratico che prevaleva su quello scientifico: la parola legittima era solo "psicoterapia". C'era stato addirittura divieto di utilizzare la parola "psicoanalisi" sui biglietti da visita, secondo un'interpretazione decisamente restrittiva delle norme sulla pubblicità sanitaria.

Migone . Ma uno che è iscritto a una società psicoanalitica può mettere "psicoanalista" sulla carta da visita?

La Via. Per la pubblicità sanitaria si possono mettere solo informazioni relative a titoli con valore ufficiale, perciò titoli di carriera e di studio con valore legale, in contesti pubblici. Il biglietto da visita, se viene dato a una persona determinata, non è pubblicità. Adesso i criteri sono molto più ampi, ma agli inizi degli anni 90 tutti vivevano nel terrore!

Migone Segnalo un altro pericolo nel separare psicoanalisi e psicoterapia: creare due tipi di professionisti, gli psicologi e gli psicoterapeuti, dove gli psicologi non sono psicoterapeuti. Questo è un obbrobrio. Creiamo degli psicologi che hanno il diritto di non sapere nulla di psicodinamica. Ricordo che Contri, in un incontro pubblico di anni fa, in un intervento molto chiaro segnalò il rischio di separare i discorsi: la psicanalisi dovrebbe includerli tutti, ponendosi come globalità.

Contri Una frase di Freud che io sottoscrivo dice: "io conosco solo due scienze, fisica e psicologia". E quando dice psicologia, intende psicoanalisi in quanto demarcata da un'altra psicologia, che lui classificava come "accademica".

Migone Quindi il pericolo è quello di spaccare la professione di psicologo, facendole perdere la completezza e la complessità che le danno senso.

Sergio Contardi: Una questione brevissima. Mi sembra che tu, Contri, dica che tutto è psicologia. A partire da questo, nella psicologia rientrerebbe anche il rapporto di due amici che si incontrano a parlare. A mio parere, invece, il problema consiste nella tecnica, o presunta tecnica, che avrebbe la psicologia. E tali tecniche o si rifanno al discorso medico oppure bisogna provare che esistono in quanto tecniche psicologiche...

Tucci Una domanda a Contri: che senso dai al pagamento, all'interno del tuo discorso?

Contri Se non fossimo claustrofilici (ricordo il titolo di un libro di Fachinelli), capiremmo che la psicoanalisi è agorafilica, ossia che la psicoanalisi ci chiama a essere uomini pubblici (ancora Lacan: "Lo psicoanalista si fa guardiano della realtà collettiva"). Allora non solo non saremmo paranoici verso il diritto che ci "invade", ma ci concepiremmo come giuristi per statuto. E dovremmo ringraziare il signore savoiardo e il nostro Ossicini per averci dato l'occasione di saltare sul carro del diritto.
Non sto accusando i colleghi di essere clinicamente paranoici: sto accusando, questo sì, una cultura paranoica anche tra noi.
Faccio quest'altra osservazione: alla legge non importa un fico della ragione per cui un individuo dà del denaro a un altro individuo (salvo illeciti già previsti dalla legge).
Sulla parola "cura", osservo che il diritto è saggio: siamo noi a proiettare sul diritto un pregiudizio fascista. Il diritto di nessun paese al mondo si è mai sognato di occupare normativamente l'intero campo semantico e pratico della parola "cura": si è solo occupato di farlo per quel caso particolare anzi specifico di cura che si chiama Medicina. Vero che la psicoanalisi ha sempre cercato una correlazione con la Scienza moderna e con la Medicina, ma senza confondersi con esse. Quindi se noi diciamo che curiamo, il diritto non dice "Ah, ma non sei medico". Potremmo benissimo scrivere "curante" sulla carta intestata.

Sergio Contardi: Il problema è che il significante che si usa è terapia. La questione è cura o terapia, secondo me. E' preferibile usare il termine cura che ha una sua valenza anche in altri discorsi (filosofico, giuridico, ecc.) piuttosto che il termine terapia che ha un'appartenenza troppo marcata al discorso medico.

Contri Ž lo stesso. Il diritto non si è mai occupato di occupare normativamente neppure l'intero campo della parola "terapia". E tanto meno della parola "salute".
Ma allo Stato non consta neppure la parola "amore", con la conseguenza che non si dà il caso di una regolamentazione giuridica dell'amore. Ora, Freud ha preteso di fondare una cura proprio sull'amore, o una certa versione di esso (detta "di transfert"). Ci vuole un mente-captus per pretendere di regolamentare una cosa del genere.
Nel '27 Freud ha scatenato sull'International Journal of Psychoanalysis un dibattito tra i suoi seguaci sul suo libro La questione dell'analisi laica, dedicata al nostro argomento. Ebbene, quasi tutti erano contro Freud. Sotto sotto stavano già con Ossicini e Accoyer. Insomma, abbiamo cominciato male!

Focchi Però, rischiamo di definire la psicanalisi in termini solo negativi. La psicanalisi non dà farmaci, non applica tecniche psicologiche... Quello che tu dici, Contri, è giusto. Però c'è una trappola in questo emendamento francese di cui stiamo discutendo. Si presenta una ragionevole proposta di regolamentazione, ma è collegata a questa proposta una cassa di dinamite, vale a dire il decreto d'attuazione Clery-Melin basato sulla psichiatria, che subordina completamente la psicoterapia alla prescrizione psichiatrica. Nella situazione definita dalla legge Ossicini, noi italiani abbiamo un privilegio rispetto a questo, perché almeno siamo sottratti alla medicalizzazione. Ci si lamenta a volte della debolezza della posizione degli psicologi rispetto ai medici nel settore pubblico, eppure, dal punto di vista del diritto, noi non-medici italiani abbiamo una situazione molto migliore rispetto a quello che si prospetta nel caso francese. Perciò è importante la distinzione, proposta da Tucci, tra il nostro modo di operare nel campo della clinica e quello invece della medicina. Non dimentichiamo che la psicanalisi, con Freud, nasce all'ombra della medicina, ma non vi rimane.

Contri La guarigione, la salute, la terapia, come l'amore, è un tema per tutti, ma non è un tema del diritto.

Focchi Come definisce l'OMS lo stato di salute? Come il raggiungimento di uno stato di pieno e totale benessere. Ž un'esagerazione anche rispetto alla medicina, ed è chiaro che per noi le cose non sono così semplici. Per capire meglio, prendiamo il caso del Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) nel caso di pazienti in crisi psicotica acuta, dove le regole non ricoprono completamente lo spazio delle decisioni necessarie, e in cui si pongono dei problemi di scelte, dunque di etica. Nella medicina, per esempio nella chirurgia, c'è la possibilità che una tecnica intervenga sul paziente al di là del suo consenso: il TSO è possibile. Nel campo analitico il TSO non è possibile, non si può produrre un effetto terapeutico senza il consenso soggettivo di chi è in trattamento. Mentre nella medicina abbiamo due campi, etica e clinica, uno esterno all'altro, nella psicanalisi abbiamo due poli in relazione tra loro. E, soprattutto, nella psicoanalisi non c'è guarigione senza decisione soggettiva. In analisi non si può prendere in cura un paziente che non voglia. Non abbiamo una correlazione causa-effetto che possa arrivare meccanicamente al risultato che ci eravamo prefissi in partenza.
Insomma, c'è una dimensione legata alla fisicità, alla corporeità animale dell'uomo, e c'è poi una dimensione che sfugge alla natura, che non è tributaria del funzionamento biologico. L'uomo ha un corpo, ma non possiamo ridurlo a essere corpo.

Sergio Benvenuto Mi pare però che questa prospettiva - che distingue scienze del corpo e scienze dello spirito - sia alquanto datata. Essa risale per lo meno a Cartesio: il dualismo tra res extensa e res cogitans. Ripreso poi da Dilthey. Veramente la psicoanalisi ha bisogno di Cartesio per esistere? Non possiamo concepire la psicoanalisi invece proprio come una rottura del dualismo cartesiano? Le teorie del caos e della complessità, ad esempio, tentano una scienza non cartesiana, in cui questo dualismo non ha più senso.

Bice Benvenuto. Quello di cui Focchi parla è estensibile alla psicoterapia in generale - non penso quindi che questo ci distingua in quanto psicanalisti. Del resto, nessuno va da un medico o da uno psicoterapeuta con la certezza di guarire, ma per sottoporsi ad un trattamento - la discriminante quindi non è la guarigione. In primo piano è la sofferenza, anzi, se non c'è sofferenza in un soggetto non dovremmo accettarlo come analizzante. Contri diceva che noi siamo come il filosofo - no, perché chi viene da noi viene con la sofferenza e il dolore. Qualcuno che viene da noi con una domanda en souffrance probabilmente è già stato dal medico, dallo psicologo, dallo psichiatra; la sua è una domanda sociale. Ž più sociale che claustrofilico.

Sergio Contardi: Però, c'è una differenza specifica tra discorso medico e discorso analitico. Io ritengo la psicoterapia subordinata al discorso medico. Medico e psicoterapeuta tendono al ristabilimento dello status quo ante. La psicanalisi, invece, tende al cambiamento. Sono due prospettive completamente diverse. Possiamo parlare in entrambi i casi di guarigione. Solo che è proprio l'idea di guarigione ad essere, nel discorso analitico, completamente diversa, addirittura opposta rispetto a quella proposta dal discorso medico-psicoterapeutico.

Landoni Ci sono molte inesattezze in quello che è stato detto. Io credo che la psicanalisi si sottragga al rapporto sociale, né che la psicanalisi stia perdendo prestigio sociale. Occorre invece tenere presente il potere negativo che emana dall'IPA, anche se è un potere ormai ridotto ad una sorta di cadavere vivente come il cavaliere ariostesco: quello che va combattendo e non sa di essere morto.
Siamo arrivati al paradosso che porre il titolo di psicanalista sul proprio biglietto da visita può portare a conseguenze anche penali. E il titolo non esiste perché non c'è stata alcuna difesa, né legale né di principio, dell'uso di questo termine.
Quando parliamo di legame sociale della psicanalisi, invece di rispondere alla domanda su chi siamo, quasi automaticamente rispondiamo parlando di ciò che facciamo. E così ci infiliamo nella trafila di leggi, regolamenti, assicurazioni e via dicendo.
Invece dovremmo riflettere sui cambiamenti che il nuovo assetto sociale, le nuove patologie, e le nuove modalità di accesso all'analisi da parte dei pazienti impongono alla nostra identità professionale, ma bisogna farlo con una consapevolezza epistemologica adeguata. Abbiamo il compito di identificarci, e non per esclusione.

Sergio Benvenuto Io sono d'accordo con Contri, quando dice che queste proposte giuridiche - come quelle oggi in Francia - hanno il merito se non altro di averci ricondotto a discutere e a ridefinire la nostra identità di psicanalisti. Quello che rende tanto difficile il dibattito tra noi, infatti, è che non condividiamo la definizione di che cosa siamo. Tuttavia siamo tutti d'accordo, credo, nel dire che la psicanalisi non è una scienza. Perché? Perché, al di là delle varie teorie filosofiche ed epistemologiche, dobbiamo accettare il punto di vista di Thomas Kuhn quando parlava di una scienza "normale": è quel paradigma esplicativo su cui c'è un certo consenso in una comunità scientifica. La fisica oggi è una scienza soprattutto perché, al limite, tutti i membri della comunità dei fisici condividono la validità della relatività di Einstein o della meccanica quantistica. Ora, potremmo dire che la psicoanalisi non è una scienza semplicemente perché non c'è consenso tra analisti su quello che chiamiamo psicanalisi. E questo sia per quanto riguarda la teoria che la pratica analitiche.
A tutti quanti sarà capitato di ricevere analizzanti in seconda o terza battuta i quali parlano delle loro analisi precedenti; e a tutti voi sarà capitato di sentirne delle belle! Gli analizzanti raccontano cose, anche di colleghi stimati e famosi, per cui questi ultimi dovrebbero essere espulsi immediatamente da qualsiasi società psicoanalitica seria.... Insomma, ogni singolo analista interpreta la propria pratica in modo specifico. Proprio perché non c'è un consenso, e quindi la psicoanalisi non è una scienza, allora si entra in conflitto per la definizione del suo statuto. Conflitto delle interpretazioni. Anche qui, tra noi, abbiamo visto almeno due analisti, Migone e Contardi, dare due definizioni assolutamente opposte del rapporto tra psicoanalisi e scienza, e tra psicoanalisi e psicoterapia. Qual è la vera psicoanalisi, quella di Migone o quella di Contardi? Ma ha senso la domanda "qual è la vera psicoanalisi?"
Ovviamente, quello che rende difficile il rapporto e il dialogo tra analisti è il fatto che ciascuno di noi non solo è convinto che la propria interpretazione esprima al meglio l'essenziale della propria pratica - il che è ovvio - ma anche che la propria interpretazione della propria pratica sia anche il parametro per giudicare la pratica degli altri. Ad esempio, quegli effetti analitici che un kleiniano interpreta secondo la propria griglia teorica - a base di seno buono e cattivo, di identificazioni proiettive, di riparazione, ecc. - viene interpretato dal lacaniano secondo la propria griglia teorica; e viceversa. Il che rende le cose molto più complicate, perché ciascuno rivendica la superiorità del proprio paradigma anche nel capire quel che fanno gli altri, superiorità che però questi altri non sono disposti a concedergli. Il confronto, come risulta anche da questa tavola rotonda, assume pertanto una dimensione ad un tempo filosofica ed etica, perché mette in conflitto interpretazioni dell'essenza stessa della psicoanalisi.
Ma quando abbiamo a che fare con interlocutori esterni, con l'agorà o con il Potere - sia esso il Palazzo politico (come lo chiamava Pasolini), i media o l'opinione pubblica - ovvero con soggetti che non sono competenti della nostra pratica, né padroneggiano i linguaggi diversi delle varie scuole, ci si pone seriamente il problema di dire a queste persone chi siamo e che cosa facciamo in modo per loro intelligibile. Ora, la strategia più semplice e comoda è quella di un'autoesclusione, con tutta l'ambiguità che comporta tale decisione snob. Ci si autoesclude dal riconoscimento pubblico dicendo "io non sono la cosa regolamentata dal Potere". Ora, l'autoesclusione da qualsiasi riconoscimento può essere un privilegio - è stata questa la strategia della British Society in Inghilterra di cui ci ha parlato Bice, e, per un certo periodo, è stata la strategia della IPA in Italia: cioè, "autoescludendomi dall'insieme delle pratiche simili alla mia, ipso facto relego tutti i colleghi delle altre pratiche in una sorta di serie B". L'autoesclusione è una tattica politica per garantirsi una forma di privilegio; ma può anche risultare anche in una forma di autoemarginazione. Ad esempio, si discute ora nel Parlamento italiano su come e se regolare le medicine alternative, come acupuntura, omeopatia, ayurvedica, shatzu, ecc. E' notevole che quelli che sostengono la non-scientificità - la ciarlataneria - di queste medicine si schierino contro la loro regolamentazione: regolamentandole, lo stato ne riconosce la validità e quindi, implicitamente, le raccomanda. In effetti la regolamentazione è a doppia faccia: stabilisce vincoli esterni, ma allo stesso tempo protegge e avvantaggia. Quindi, resta da stabilire se l'esclusione della psicoanalisi dalla psicoterapia sia una strategia vincente o perdente, nello scenario sociale - e oggi, quel che più conta in ogni scenario sociale sono le quote di mercato.
Sicuramente, sia farsi includere tra i riconosciuti che farsi escludere è un gioco rischioso. Perché chi alla fine decide non è lo Stato e nemmeno il Diritto. Occorre ricordare, come diceva il buon vecchio Marx, che il Diritto non va mai da solo: è una forma che può assumere contenuti diversi a seconda dei rapporti di forza sociali all'interno di quella società giuridicamente regolata. Ci sono quindi tre dimensioni nel nostro rapporto con l'altro, inteso come agorà o come Potere, che io considero incommensurabili e che interagiscono in questo nostro discorso, rendendolo complesso.
In una dimensione c'è il diritto, una struttura formale di riconoscimento di certe pratiche e di chi è autorizzato a svolgerle. Ma c'è anche la dimensione dei rapporti di potere in una società, che continuamente interagiscono col diritto. La terza dimensione, non meno importante, è quella che io chiamerei della forma di vita culturale - la Kultur. Siamo sinceri: se la psicoanalisi oggi vive e sopravvive, non è certamente perché è regolamentata o meno, ma perché risponde ad una richiesta in senso lato spirituale, perché si è affermata nella nostra cultura quella che Foucault chiamò la cura di sé. Tutti vogliono curarsi di sé, della propria anima, e quindi vogliono curarsi l'anima. C'è quindi una domanda sociale - perfino crescente oggi - di persone che vogliono discutere di sé con qualcuno e avere un qualche tipo di aiuto, come dice Migone, in rapporto alla propria sofferenza spirituale. Ora, la psicoanalisi lega questa cura di sé alla vecchia prescrizione delfica del "conosci te stesso". Freud ha detto in sostanza questo: conoscersi è il modo migliore per curarsi (il "se stesso" da conoscere lo chiamò inconscio). Tutti gli analisti, chi più chi meno, sono eredi di questa tradizione "greca". Questi tre fattori - Diritto, Potere (il potere reale esercitato dalle assicurazioni e da altri enti capaci di erogare rimborsi) e Kultur - sono inestricabili. Per Kultur includo l'opinione pubblica che si forma sui media, nelle piazze e nei mercati. Districare tra loro questi tre fattori è estremamente complesso, da qui la difficoltà anche della nostra discussione qui.
Ci lamentiamo tutti della legge Ossicini in quanto, paradossalmente, ci condiziona proprio nella misura in cui ci esclude dalla lettera della legge. Perché? Per esempio, prima si parlava della fattura che alcuni clienti richiedono. Ora, poter emettere fattura vuol dire ampliare almeno potenzialmente il numero dei propri clienti. E per emettere fattura occorre far parte di un albo riconosciuto. In ogni caso, non possiamo isolare i tre aspetti - la cultura della cura di sé, i dispositivi del Potere, e il Diritto formale. E' Potere il fatto che ci siano associazioni analitiche oggettivamente più forti di altre, come la Tavistock in Inghilterra, perché accedono facilmente ai grandi media, alle importanti case editrici, piazzano i loro membri nelle cattedre universitarie: questo potere non viene conferito loro da leggi, ma dal loro successo nella rete degli scambi sociali. E poi c'è la questione del diritto formale, à la Hans Kelsen. Ž questa complessità che volevo mettere in rilievo.
Inoltre, tutti hanno osservato che questa questione del riconoscimento giuridico è inscindibile dalla questione epistemologica, dal chiarimento sul chi siamo - ovvero, non siamo d'accordo tra noi su che cosa sia questa cosa che lo stato vuol riconoscere o meno. E se facessimo una tavola rotonda su come definire questa cosa che siamo, anche in questo caso tutti già sappiamo che non arriveremmo ad un accordo definitivo tra noi - così come non siamo arrivati ad un accordo definitivo oggi - perché le varie scuole si distinguono le une dalle altre nella misura in cui interpretano la pratica analitica in modo diverso. Ma questi nostri dibattiti non mirano a trovare un accordo politico, negoziale, tra noi: mirano a chiarificare i termini di un dibattito, ad affinare insomma i nostri argomenti.

Diego Napolitani Vorrei dire che la psicoanalisi occupa, tra i saperi e le pratiche sociali, un'area marginale. Non può far parte, a pieno titolo, di nessun campo codificato della nostra cultura occidentale. Essa si insinua in uno spazio "tra", ai cui bordi si collocano con precise definizioni la scienza positiva, la filosofia, l'arte-letteratura e la religione.
Freud non ha mai abbandonato l'ambizione di vedere la psicoanalisi inscritta, in quanto "psicologia scientifica", tra le scienze della natura, per lo meno così come erano postulate fino ad alcuni decenni or sono in quanto saperi sperimentali su oggetti, immuni da contaminazioni soggettive dell'osservatore. Il causalismo determinista domina il paesaggio psicoanalitico e lo rende refrattario a quella rivoluzione scientifica (Kuhn) che approda negli ultimi anni al pensiero della complessità. Malgrado i tanti modelli teorici, spesso tra loro incompatibili, e le tante tecniche operative proposti in oltre cento anni dal movimento psicoanalitico, la psicoanalisi non dispone né di criteri validativi di ordine sperimentale né di una prevedibilità dello sviluppo dei fenomeni di cui si occupa. Se la biologia medica offre maggiori agganci scientifici alla psicologia in generale e alla psicoanalisi in particolare, la sua pratica terapeutica, nei suoi fondamenti epistemologici e nelle sue procedure fattuali, non ha alcun punto di contatto con quanto accade nei trattamenti psicologici o psicoanalitici. L'obiettivo della terapia biologica è di eliminare con il sintomo la causa della sofferenza o della limitazione nella funzionalità di organi, mentre il trattamento psicoanalitico ha l'obiettivo di dare un senso, una direzione di un possibile sviluppo, ad un impedimento del pensiero e dei progetti. Patologia significa, in biologia, l'applicazione della ratio ad un male presuntivamente eliminabile, mentre in psicologia la ratio, necessariamente integrata con la non-ratio dell'empatia, si fa carico del pathos in quanto ineliminabile frizione, con la propria storia e con l'Altro, di un'anima che dolorosamente urla il suo sostanziale bisogno di esprimersi. Per quanto anche questa pratica si avvale di un suo rigore metodologico, essa non può esibire protocolli come nelle scienze esatte.
L'oggetto della psicoanalisi non è dunque una "cosa" ponderabile, misurabile, verificabile, ma non è neppure una costruzione meramente speculativa. Essa si sostiene su visioni del mondo, su filosofie più o meno esplicitate, tanto diverse quanto diversi sono i modelli teorici a cui le tante psicoanalisi fanno riferimento - ma non è una filosofia, proprio perché presume di trovare una verità nel suo misterioso oggetto e non nel tessuto delle sue costruzioni teoretiche. Del resto, se la pratica del filosofo coincide per lo più con una professione didattica, proprio questa funzione viene esplicitamente bandita dalla psicoanalisi, per quanto abbondantemente praticata "sotto banco".
Il valore aggiunto di una relazione psicoanalitica è la dimensione estetica, dove la verità coincide con l'esperienza della bellezza - questo è stato sottolineato in negativo indicando nell'"angoscia della bellezza" la forma sostanziale della resistenza al processo analitico. Ma la psicoanalisi non dispone di un prodotto ostensibile come è un quadro, una sinfonia o una scultura, poiché il suo prodotto, creato all'interno di una relazione chiusa, è fruibile solo dai suoi interlocutori diretti e si scioglie nelle loro esistenze.
Della religione la psicoanalisi conserva alcune connotazioni forti: il carattere intimistico, confessionale della sua pratica, la fede dell'analista nel Verbo che il suo capostipite ha tramandato attraverso le generazioni fino a lui, la simmetrica fede dell'analizzando (specie quando intende diventare a sua volta un "curato") nelle parole del suo curatore d'anime, la moltiplicazione di "chiese", ciascuna la più fedele interprete del Verbo e ciascuna distinguendosi dalle altre per la propria orto- od etero-dossia, il carattere oracolare dell'interpretazione considerata come la interpretazione contro ogni altra interpretazione possibile, e così via. Tutto ciò è sostenuto da una speciale ontologia della colpa, per quanto fantasmatica, per la quale la psicoanalisi si pone come una pratica di riparazione attuata con rituali per lo più mortificanti ed efficacemente infantilizzanti. Bion ha avuto il merito di distinguere il "vertice mistico" della psicoanalisi dai suoi costumi "religiosi", ma di lui si ricorda per lo più il ruolo cardinalizio che non il suo fecondo "delirio mistico". Pur sfilacciandosi progressivamente negli ultimi decenni, il costume sacerdotale è rimasto appiccicato addosso all'analista, ed una vera "layen Psychoanalyse" secondo l'auspicio di Freud è ben lontana dal realizzarsi.
"Sono un analista in formazione" diceva Bion in prossimità dei suoi ottant'anni. E intorno al concetto di formazione, così in voga in tutti gli ambiti della vita sociale postmoderna, si delinea l'aspetto politico e la specificità etica della psicoanalisi, che potrebbero dare una consistenza autonoma a quello spazio "TRA", contiguo a scienze, arti, filosofie e religioni. Ma è tutt'ora così dominante l'immagine culturale della terapia, che rimane del tutto fuori dal discorso sulla psicoanalisi la sua potenzialità nel concorrere alla formazione del cittadino affinché possa abitare meglio le sconvolgenti trasformazioni del suo ambiente (da quello famigliare a quello planetario). A differenza dei processi terapeutici, la cui politica riguarda esclusivamente le risorse o i vantaggi in termini strettamente economici, i processi formativi nascono da un'esigenza diffusa nel collettivo (di cui l'individuo è singolare portatore) e tornano alla polis.
Credo che tutti - cittadini in quanto pazienti, famigliari e professionisti - abbiano bisogno di una regolamentazione delle attività psico-, ma, quale che sia il suo profilo, essa risulta essere sempre una coperta troppo corta. Il problema è quello dello statuto epistemologico di una data disciplina e solo secondariamente quello del mestiere. Tutte le pratiche sociali - dal prete alla puttana, dall'artigiano al tecnico con diploma, dal poeta al politico - si fondano su un corpo di credenze, di tradizioni, di visibilità dei propri confini tale da poter essere politicamente maneggiato con una certa facilità, tenendo simultaneamente presenti le esigenze e i vantaggi sia degli operatori che della collettività. Le discipline psichiatriche e psicologiche nascono nella deriva illuministica che ha pervaso tutta la cultura occidentale negli ultimi due secoli, senza avere però un proprio patron - come dice Hillman - che le autorizzasse in modo autonomo. Esse si radicano o in pratiche caritative e confessionali, che illuministicamente si trasformano in visioni sociologiche, o nel campo rigoglioso della biologia e della medicina. Questa eteronomia si conserva nell'abito arlecchinesco che avvolge entrambe, dove ogni pezza colorata si riferisce alla propria matrice assunta come "vera" rispetto alle altre.
Ritengo totalmente sterile ogni dibattito sulla regolamentazione delle nostre pratiche: ogni gruppo di operatori è disperatamente avvinghiato al proprio referente, ritenendo di potere così conferire purezza e nobiltà a una ascendenza irriducibilmente bastarda, e ciò implica il comune rigetto di ogni regolamentazione che tenda ad accomunarli. Ma allora: è possibile che un processo mutativo del nostro statuto epistemologico si sviluppi autopoieticamente, all'interno di un ampio confronto che non si esaurisca in un gioco di forza "a chi tira di più la coperta dalla sua parte"? Ž possibile farci promotori di un forte richiamo all'etica della responsabilità come principio che ispiri il confronto tra posizioni diverse?
Dobbiamo qui prendere in considerazione il problema della responsabilità nel momento in cui essa viene sancita da un contratto. Ci sono manifestazioni dell'uomo (tutte quelle che Contri cita e tante altre) che entrano nello scambio di parole e di gesti senza che, ovviamente, nessuno pensi di limitarne l'uso secondo norme: ma quando questi comportamenti avvengono in uno scambio vincolato ad impegni di ordine economico, la eco-nomia indica la necessità di un nomos che regolamenti gli scambi nell'ambiente. Ad esempio, se è riconosciuta da organi competenti una mia qualità di autore di un'opera, in campo artistico o tecnologico, allora la mia pretesa di trarne un vantaggio economico viene tutelata da un "diritto d'autore" o da un brevetto. In questa prospettiva tutte le professioni si svolgono nell'ambito di contratti che sanciscono un riconoscimento di competenze specifiche che, messe sul mercato, diventano pratiche eco-nomiche.
Il problema non è dunque quello di esonerare il nostro mestiere da riconoscimenti, patenti o simili, ma è quello di definire le peculiari caratteristiche che devono qualificare questi processi. Se rimaniamo definiti da quel fondamento eteronomo su cui si costruisce il "delirio terapeutico", ne rimaniamo prigionieri e "soggetti". Sottolineo qui il valore etimologico di questo termine, il "sub-jectus", che contrariamente al suo uso sintattico, che indica l'agente di una scelta, significa "colui-che-è-soggetto-a". Siamo così impregnati dai miti giudaico-cristiani delle origini, che tendiamo a rimanere aderenti, letteralmente "soggiogati" dal mito del male inteso come colpa, e, funamboli della parola come per lo più siamo, finiamo per intenderla come rimedio contro il "male", come strumento per definire l'aitia (la causa del male) e, al contempo, come il mezzo del suo disvelamento che ponga il sofferente nella condizione di redimersi....

Sergio Benvenuto Segnalo che in greco antico aitìon voleva dire sia causa che colpa...

Napolitani ....La formazione dell'analista significa prima di tutto dare forma ad una identità teorica ed epistemologica della nostra professione come pratica sganciata dall'ideologia della cura in senso medicale, e quindi mirata ad agevolare l'autopoiesi della mente del nostro interlocutore, e quindi di noi stessi, senza costringere questa mente in schemi evolutivi prescritti.

Testo a cura di Sergio Benvenuto e Valeria La Via


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