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Psicoanalisi



Gian Paolo Scano

L'interazione come oggetto formale della psicoanalisi



Per un secolo intero il termine "interazione" è stato espunto dal dizionario psicoanalitico: nell'opinione comune indicava, infatti, semplicemente ciò che "non si deve fare", "ciò che non è psicoanalisi". Questo radicale ostracismo, facilmente spiegabile da un punto di vista storico, ha un sapore assai paradossale: qualunque azione terapeutica, si produce infatti necessariamente attraverso una relazione interpersonale e implica, dunque, una interazione! Ciò non sfuggì all'intelligenza critica di D. Rapaport, che, già negli anni '40, riflettendo sui problemi metodologici, individuò, inaspettatamente per quei tempi, nel "metodo della relazione interpersonale" il metodo specifico della psicoanalisi(1). Questa indicazione, che avrebbe potuto promuovere una ben differente considerazione dell'interazione, non suscitò né riflessione né attenzione. Rapaport stesso, del resto, divenne presto consapevole della difficile conciliabilità di questo dato fattuale con gli assunti e l'impianto della metapsicologia(2).
Nell'ultimo decennio tuttavia, la nozione di interazione sembra aver riottenuto cittadinanza(3) e gode anzi di una vera e propria riabilitazione nella considerazione di molti autori. La pattuglia, degli interazionisti dichiarati si fa sempre più folta. Essi utilizzano il concetto di interazione riferendolo a qualcosa di intrinseco alla natura stessa della transazione terapeutica. Tale tesi viene sostenuta a partire da differenti angolazioni. Talvolta si tratta della semplice sottolineatura del fatto che qualunque cosa il terapista faccia o non faccia in ogni caso non può non agire (Gill, 1994). Altre volte gli assunti interattivi emergono nella riconsiderazione della neutralità e della soggettività dell'analista (O. Renik 1993, 1996) o si impongono nella rilettura del transfert, del controtransfert e dell'enactment (O. Renik,1999). In altri casi ancora, la nozione di interazione si inquadra invece in una visione più complessiva "costruttivista"(I. Hoffman), "intersoggettiva" (Stolorow e Atwood, 1995) o "relazionale" (Mitchell, 1993). Si deve, comunque, a M. M. Gill, la proposta più chiara, netta ed autorevole: approdando a una visione "costruttivista", al termine di un lungo cammino partito dalla "topica", egli giunge, infatti, a riconoscere l'interazione come "intrinseca alla procedura" (Gill, 1994).
Agli interazionisti dichiarati si contrappone la posizione tradizionale, che assume il termine "interazione" secondo una accezione prevalentemente ristretta e la riferisce a modalità tecniche di intervento e a forme di azione terapeutica, che sono considerate in intima opposizione all'essenza stessa dell'agire psicoanalitico (Oremland J., 1991). Tale giudizio poggia, in ultima analisi, su una doppia contrapposizione (azione\interpretazione, intrapsichico\interpersonale) considerata volentieri come inoppugnabile linea di demarcazione tra ciò che è psicoanalitico e ciò che non lo è (Green A., 1993).
Tra questi estremi si distende una variegata posizione intermedia propria di quanti, sfuggendo in genere a impostazioni più propriamente teoriche, si attengono alla pratica clinica, smussando così le assolutizzazioni della teoria e della tecnica tradizionale riguardo, ad esempio, alle nozioni di neutralità o astinenza (Bordi S, 1995), ma evitando contemporaneamente parole d'ordine troppo radicali.
Lo status quaestionis tuttavia non è chiaro. Gli interazionisti risultano molto efficaci quando presentano le loro argomentazioni logiche e cliniche; mostrano invece minor sicurezza e vigore quando tentano di disegnare compiute prospettive teoriche. Accade così che nell'intreccio discordante delle voci rischia di prevalere il lavorio di quanti si affaticano a digerire il "corpo estraneo intersoggettivo" nel tentativo di trasformarlo, assimilarlo e ridurlo al già conosciuto, secondo un modulo consueto e ripetitivo in psicoanalisi.
Questo breve studio, intende sviluppare la tesi di M.M.Gill. La nozione di interazione è, infatti, assunta nella sua accezione più "forte" e alternativa rispetto al quadro concettuale tradizionale. Viene, pertanto, avanzata e argomentata l'idea che essa debba essere considerata come l'effettivo oggetto formale della psicoanalisi e come il perno centrale della necessaria riformulazione intersoggettiva della teoria. Come primo passo in questa direzione viene introdotta e concettualizzata la distinzione tra interazione e meta-interazione nell'intento di delimitare due distinti domini, che sottendono campi differenti di variabili congetturate attive nel processo di cambiamento.


1. Cosa è "interazione"?

Il termine "Interazione" non è tecnico, ma quotidiano: necessita dunque di definizione e costruzione concettuale qualora si intenda introdurlo nel registro teorico.
In senso puramente fenomenologico ("interazione terapeutica" o "analitica") è usato per indicare l'insieme delle transazioni che intercorrono tra un T(terapista) e un P(paziente) e denota, dunque, ciò che un osservatore esterno potrebbe descrivere avvenire nell'arco di una seduta o di una terapia. Questa accezione, condivisibile e condivisa, è in genere considerata di scarso interesse.
Preferibilmente "interazione" e "interattivo" sono invece utilizzati per designare una specifica modalità tecnica caratterizzata da interventi "attivi" del terapista e dunque dalla adozione di un metodo ritenuto dai più alternativo rispetto a quello psicoanalitico, che dovrebbe attenersi rigorosamente all'intrapsichico, all'interpretazione e alla neutralità. Questa seconda accezione, assai condivisa, ha egemonizzato il dibattito, caratterizzandolo conseguentemente come un dibattito sulla tecnica e, in particolare sulla ammissibilità di una tipologia di interventi cosiddetti "interattivi". Il problema tecnico avrebbe, naturalmente, anche un risvolto teorico riguardante la compatibilità tra la teoria tradizionale e le istanze interazionali, che, per essere accolte, dovrebbero risultare armonizzabili con il quadro concettuale consueto.
Questa tesi, del tutto logica nella visione di quanti assumono il termine interazione secondo questa accezione riduttiva, è responsabile di un equivoco. In questa ottica infatti gli interazionisti sembrerebbero semplicemente propugnare la legittimità di quanto nella storia della psicoanalisi è stato di volta in volta indicato come "attivo", "educativo", "suggestivo", "direttivo", "non controllato" o "agito" e, dunque, sembrerebbero voler giustificare forme di intervento, che la tradizione psicoanalitica ha sempre considerato estranee al suo metodo. Da qui il malinteso. La posizione degli interazionisti infatti è differente. Nella loro accezione, la nozione di interazione ha sicuramente valenze tecniche, ma ha anzitutto un significato specificamente teorico e concettuale. Ciò è stato espresso in modo chiaro e perentorio da M.M. Gill : "Considero l'interazione in ogni aspetto della situazione psicoterapeutica non come una contaminazione, ma come intrinseca alla procedura. Considero la situazione ideale non solo irraggiungibile nella pratica, ma errata in via di principio". Questo asserto poggia sulla evidenziazione della contraddizione insita nella contrapposizione tradizionale tra interpretazione e interazione, dato che, al di là delle intenzioni consce dell'analista, "...dovrebbe esser chiaro che è impossibile fare un'interpretazione che al tempo stesso non sia un suggerimento, oppure, messa in un altro modo, un'azione. Dal momento che la stessa cosa è vera per l'influenza dell'analizzando sull'analista, la situazione analitica può essere descritta come un'interazione, oppure come propongono Stolorow e collaboratori alla luce del costruttivismo, un'interazione intersoggettiva (M. M. Gill,, 1994, p. 54).
Certo, anche Gill si muove sul terreno tecnico, ma le implicazioni della sua osservazione vanno ben al di là di tale angusto dominio. Se infatti, l'interazione è "intrinseca alla procedura" e se il terapista, al di là della sua visione teorica e dei contenuti della sua comunicazione esplicita, non può non interagire, allora il termine deve necessariamente indicare una caratteristica ineludibile delle transazioni tra soggetti, una forma intrinseca della comunicazione e della relazione umana, che implica l'azione di una classe di variabili, (pertinenti a questo livello), non scotomizzabili o espungibili per buona volontà tecnica o convenienza teorica. In questo senso forte il termine "interazione" può essere usato, dunque, per indicare la totalità delle transazioni (consapevoli, inconsapevoli, intenzionali, non intenzionali, esplicite, implicite, verbali, non verbali, emozionali, comportamentali...), che intercorrono tra un terapista e un paziente in senso sincronico e diacronico. Tale accezione implica la denotazione fenomenico-descrittiva; evita la riduzione a mero fatto tecnico e mira a evidenziare che una terapia consiste essenzialmente di questa interazione, che rappresenta quindi il campo complessivo delle variabili e dei fattori responsabili del cambiamento. Tale concezione altro non è che la definitiva valorizzazione dell'affermazione di D. Rapaport che, in tempi davvero non sospetti, identificò nel "metodo della relazione interpersonale" il metodo specifico della psicoanalisi.
E' verosimile che l' interazione "forte" possa comportare modificazioni nella tecnica e nella teoria della tecnica, per esempio riguardo alla concezione della neutralità, dell'interpretazione o del transfert, essa però non si riferisce primariamente a questo pur importante livello, ma piuttosto alla essenziale natura interattiva delle transazioni umane, che, intrinseca ad ogni pensabile relazione intersoggettiva, non può non caratterizzare la relazione terapeutica, che è anzitutto appunto una relazione intersoggettiva.
In questa ottica, si pongono due problemi: in primo luogo si tratta di comprendere da un punto di vista storico-critico le ragioni che hanno determinato la mancata valorizzazione dei fattori interattivi (e anzi la loro radicale espunzione) nella teoria tradizionale. In secondo luogo, se il problema dell'interazione non è un problema relativo alla tecnica e non riguarda in sé e per sé le procedure, ma si riferisce piuttosto a un campo di variabili, che pertengono a un differente livello logico e fattuale, allora, da un punto di vista teorico-concettuale, si tratta di avviare la costruzione di un modello, che le includa e consenta previsioni verificabili.


2. Un equivoco non casuale

L'accezione forte di interazione trova scarsa considerazione nella discussione. Qualcosa di molto simile accade in un terreno assai prossimo, quello riguardante l'enactment. Anche in questo ambito sono chiaramente distinguibili due accezioni: una "forte", sostenuta per esempio da O. Renik (1997), che tratta dell'enactment al singolare come caratteristica onnipresente e ineludibile di ogni transazione e una "debole" (Chused J., 1991), in cui gli enactments sono intesi come "eventi" che possono o no intervenire e sulla cui valutazione, significato, importanza e accettabilità si discute da un punto di vista essenzialmente tecnico e teorico-tecnico. Anche l'enactment al singolare (che sembra intrinseco alla procedura e dunque molto prossimo alla accezione forte di interazione) viene scarsamente considerato.
Questa difficoltà a comprendere l'interazione "forte" non ha nulla di casuale e dipende dalla vischiosità inerziale della teoria della tecnica tradizionale, che si andò codificando nel corso del XX secolo sulla base delle implicazioni della teoria classica, la quale, a causa dei suoi presupposti epistemologici e della sua architettura concettuale non poteva includere variabili interattive. Da quell'impianto derivano, infatti, le assunzioni fondamentali del metodo come il punto di vista intrapsichico, il ruolo dell'interpretazione e gli asserti sulla neutralità. In assenza di una chiara consapevolezza critica di tale dipendenza logica, le istanze degli interazionisti vengono automaticamente vagliate in rapporto agli asserti consueti della tecnica e della teoria della tecnica, considerate evidentemente come definitivamente acquisite. Ciò è comprensibile, ma non logico. Se si afferma, infatti, che l'interazione è "intrinseca alla procedura", si sta in modo assai poco velato suggerendo che le variabili tradizionalmente indicate come responsabili del cambiamento non possono più essere considerate indipendenti, ma piuttosto interconnesse e, forse, subordinate a un'altra classe di variabili di ordine interattivo mobilitate inesorabilmente dall'esercizio stesso del metodo e della tecnica. In tal modo viene sollevato un problema né tecnico né clinico, bensì squisitamente teorico, cui non si può logicamente rispondere con considerazioni di ordine tecnico o con il semplice ricorso alla tradizione. Gli asserti tecnici tradizionali sono giustificati infatti proprio dalla teoria che è messa in discussione dal problema che viene sollevato. Se infatti il valore di una interpretazione è determinato non solo dal suo contenuto, ma anche e soprattutto dal suo significato interattivo ne consegue: a) che i presupposti teorici che hanno per un secolo garantito la preminenza dell'interpretazione non rendono conto dell' azione di una intera classe di variabili; b) che l'assunto intrapsichico ritaglia e riduce quindi artificiosamente l'oggetto d'indagine; c) che il terapista, infine, non può essere neutrale e dunque le premesse teoriche che giustificano tale assunto sono da considerare contraddittorie.
La difficoltà ad affrontare questo come altri gravi problemi deriva direttamente dal modo in cui fu gestita la crisi della metapsicologia negli anni settanta e ottanta e, più in generale, da una insufficiente analisi storico-critica, che, se si esclude la grande stagione rapaportiana, non è mai stata eccessivamente coltivata in psicoanalisi.
Di fronte al paventato venir meno della teoria formale, la nostra disciplina reagì con una timorosa fuga nella clinica piuttosto che con una attenta analisi critica degli assunti teorici, clinici e tecnici allo scopo di discernere quanto poteva essere utilizzato per la riformulazione da quanto doveva essere considerato pura implicazione logica degli asserti della metapsicologia. La centralità della clinica è cosa encomiabile, ma rischiosa se disgiunta dall'attenzione teorica. Quando la teoria formale godeva ottima salute, si poteva anche lasciare a pochi ardimentosi (Rapaport, Rubinstein, Klein, Gill...) il compito di scandagliarne il terreno: nell'opinione comune il metodo risultava infatti giustificato da una teoria condivisa e vitale. Dopo quella crisi, invece, l'enfatizzazione della clinica ha assunto un implicito significato difensivo, come un impaurito e istintivo non voler guardare da quella parte per paura di scoprire la nudità dell'imperatore(4). Tale atteggiamento ha, però, finito per accreditare l'idea che la clinica e la tecnica si giustifichino indipendentemente dalla teoria in cui sono nate e mantengano il loro valore a prescindere dal destino della teoria. L'analisi storico-critica può facilmente dimostrare, invece, che, per esempio, l' assunto tecnico della centralità dell'interpretazione non deriva da argomentazioni di fatto, ma dal tessuto della metapsicologia e che la distinzione tra interventi "interattivi" e "non interattivi" non regola semplicemente l'ambito della tecnica, salvaguardandola dalle intemperanze soggettive e intersoggettive, ma rimanda invece alla teoria pulsionale, al conflitto e dunque alla metapsicologia, perpetuandone la delimitazione del punto di vista, la definizione dell'oggetto formale, la conseguente concezione del metodo.
La psicoanalisi si è costruita come teoria della struttura e sviluppo della mente. Tale teoria ha logicamente modellato e predeterminato il metodo, stabilendo e giustificando nei termini della sua articolazione concettuale, la concezione del cambiamento, il modello del processo, il quadro dei fattori e la correttezza delle procedure. Nella concezione freudiana infatti P (anzi la mente di P) è l'oggetto dell'osservazione, della teoria e dell'intervento. Lo scienziato-osservatore costruisce una teoria di P, che ne descrive e spiega la struttura, il funzionamento e la genesi (t\P)). Tale teoria permette di stabilire le cause del sintomo o del vissuto di P e di decidere "cosa" cambiare e "come". In tal modo la t\P permette di determinare le procedure e le tecniche adeguate alla risoluzione del problema e di discriminare quelle corrette ed efficaci da quelle che non lo sono. In questo quadro non vi è alcuno spazio concettuale per variabili interattive o intersoggettive come dimostra in modo esemplare la concettualizzazione del transfert e della resistenza, che si riferiscono appunto a interazioni intersoggettive. Freud, non disponendo di alcuna risorsa concettuale per l'intersoggettività, con geniali spiegazioni ad hoc, ridusse l'uno e altra all'intrapsichico, riconducendo la resistenza a espressione della stessa forza causativa del sintomo e leggendo i vissuti intersoggettivi (transferali) di P come riproposizione autonoma e irrealistica di un vissuto pregresso (Scano,1995)(5).
L'assunto della conoscenza, il punto di vista intrapsichico e la neutralità analitica nascono all'interno di questo quadro teorico marcatamente positivista nelle premesse e nell'impianto, in cui una necessaria cesura oggettualizzante taglia l'osservatore dall'osservato, che viene letto attraverso la lente della teoria (fisicalista) della mente. Questa consente all'analista di oltrepassare la chiassosa variabilità del vissuto, che, come i sintomi, i lapsus e i sogni, si riduce a emergenza esteriore, risultato ed effetto dei fattori realmente attivi. In tal modo il vissuto (soggettivo e intersoggettivo) può diventare un "testo" determinato persino nell'interpunzione, decrittabile in virtù della grammatica dei processi inconsci e riconducibile agli effettivi processi di causazione, che in ultima analisi conducono alla pulsione e ai suoi destini. E' l'esistenza obiettiva di tale grammatica e di tali processi di causazione a fondare e giustificare l'intervento "neutrale" e l'interpretazione "vera", a garantire "scientificamente" la procedura, a rendere possibile la lettura dei dati risultanti come "prove cliniche". L'analista deve solo preoccuparsi di purificare il suo occhio, tramite l'esercizio della neutralità analitica, e osservare, l'effettiva dinamica delle rappresentazioni, che si dispiega nell' "intrapsichico", decifrarla tramite la grammatica dei processi inconsci, e, intervenendo in tale dinamica, modificare, con l'inserzione di nuovi nessi, l'equilibrio "intrapsichico" delle rappresentazioni, che si tradurrà in una modificazione dell'effettivo livello causativo, quello delle energie. L'assunto "conoscitivo", poggia, su questo impianto generale della teoria dell'apparato, che spiega il sintomo come determinato da un contenuto (ideativo e affettivo) rimosso nel quadro del conflitto pulsionale. Pietra angolare di tale concezione è il punto di vista "intrapsichico" che rimanda alla scelta strategica operata da Freud al momento del passaggio dalla proto-metapsicologia del "Progetto" alla metapsicologia del VII capitolo della "Interpretazione dei sogni" in seguito al riconoscimento del crollo della teoria del trauma sessuale precoce e alla conseguente massiccia sottolineatura della nozione di "fantasia" e di "fantasma".
La teoria freudiana classica è perciò nel suo impianto una teoria naturalistica, che si attiene a una epistemologia dell' "oggetto osservato" e persegue l'oggettivazione della soggettività come unica strada praticabile per conquistare alla scienza l'ambito dello psichismo.
Se ci si colloca all'interno di questo mondo concettuale, il problema dell'interazione può porsi solo come problema tecnico. Si pone, invece, e con urgenza, come problema teorico e concettuale qualora ci si chieda se il modello classico renda sufficientemente conto di quanto avviene effettivamente in una terapia e se i fattori e i processi da esso ipotizzati possano essere verosimilmente considerati come i principi attivi del trattamento e del cambiamento. Se la risposta a questo quesito è positiva, il problema dell'interazione resta un problema puramente tecnico e diventano del tutto logiche le posizioni anche più radicalmente anti-interazioniste di quanti come Green considerano l'intersoggettività e l'interazione come un sostanziale tradimento dell' agire psicoanalitico (Green A., 1993). Se, invece, la risposta a tale quesito è negativa, allora il problema dell'interazione sembra esigere una rivoluzione copernicana in quanto tenderebbe a suggerire che la teoria non sia semplicemente da riformare nei suoi aspetti più obsoleti, ma piuttosto da riformulare a partire dai più nascosti presupposti fisicalisti e oggettualisti in quanto insufficiente a spiegare l'interazione terapeutica e gli effettivi fattori e processi di mutamento. In questo secondo caso, risulterebbero logicamente irrilevanti tutti i rimandi alle concettualizzazioni consuete o a che cosa è consolidato nella tradizione.
In questa ottica il problema dell'interazione non è né "tecnico" né "teorico", (nel senso della compatibilità con la teoria tradizionale), ma piuttosto teorico-concettuale e implica il superamento della metapsicologia e delle sue più segrete e riposte eredità tramite la ridefinizione strategica della "forma" di teoria e la reimpostazione del problema dell' oggetto della teoresi e dei fattori e processi del cambiamento.


3. L' interazione come oggetto formale della psicoanalisi

La considerazione della interazione come intrinseca alla procedura (e la conseguente valorizzazione dell'affermazione rapaportiana secondo cui la relazione intersoggettiva è il metodo specifico della psicoanalisi) può consentire di guardare alla vecchia teoria senza nostalgia: essa ha svolto egregiamente il suo compito. Freud cresciuto nello spirito della scuola di Berlino non poteva costruire che una teoria fisicalista della mente come teoria formale della psicoanalisi(6). Ciò era inevitabile da un punto di vista storico ed è stato utile da un punto di vista euristico: ha infatti consentito la fondazione di un dominio del sapere. In assenza di vere e proprie "teorie della mente" egli, rifacendosi, più di quanto sia in genere riconosciuto, a congetture e soluzioni teoriche proprie della psicologia di fine ottocento, costruì un modello di apparato in grado di spiegare il comportamento e una teoria intermedia psicodinamica e clinica, che consentisse la lettura del singolo caso. In questo senso, la psicoanalisi è stata una sorta di "singolarità" teorica, che ha avuto un ruolo essenziale nella fondazione del campo della psicologia clinica, fornendo una prima teoria della mente di sapore moderno, un linguaggio e una prima organizzazione delle conoscenze.
Oggi, però, non è più così ovvio né che la psicoanalisi debba possedere una sua propria "teoria della mente" né che questa sia la forma di teoria adeguata per la psicoterapia. Grazie alle neuroscienze esistono nuove e più attendibili teorie della mente(7) e si sono allargate le nostre conoscenze sulla natura e il funzionamento dei processi cerebrali. Contemporaneamente la "baby observation" fornisce sul comportamento infantile informazioni più attendibili e controllabili di quanto non siano le ricostruzioni basate sui dati analitici. La prima e seconda cibernetica hanno aperto scenari fortemente innovativi sulla organizzazione, interazione e modificazione dei sistemi (Atlan H.,1972, 1979; von Foster H.,1981). L'epistemologia genetica offre punti di vista radicalmente nuovi sui processi conoscitivi e sul modo stesso di intendere la conoscenza, l'invarianza e il cambiamento (Maturana H., Varela F.,1980, 1985). Infine, la ricerca sulla psicoterapia ha restituito dati che non sembrano confermare le congetture tradizionali. Per tutte queste ragioni, sembra che la psicoanalisi possa lasciare le sue supplenze per assumere il suo specifico ruolo di metodo di intervento, che raccoglie i suoi riferimenti teorici dalle discipline, che si occupano "professionalmente" dei vari territori di conoscenza utili o necessari all' esercizio e all'affinamento delle sue procedure. Essa potrebbe così dedicare tutte le sue energie alla sua teoria specifica: la teoria del trattamento e del cambiamento attraverso la relazione intersoggettiva.
L'analisi storico-critica, apparentemente così severa nell' evidenziare il radicale riduzionismo freudiano, può del resto mostrare con altrettanta nitidezza, che la vocazione intersoggettiva appartiene di diritto alla eredità più antica della psicoanalisi, nella cui genesi è leggibile, sin dal primo momento, una antinomia insanabile (ma euristicamente utile) tra le assunzioni della teoria e le implicazioni del metodo. Mentre la teoria si costruiva sul presupposto naturalista dell'oggetto osservato, il metodo e l'agire clinico prevedevano invece, sin dall'inizio, una situazione intersoggettiva in cui un osservatore osserva un osservato che osserva. Freud non costruì a ragion veduta tale dispositivo; egli assunse spontaneamente il consueto metodo clinico come metodo di cura, arricchendolo e trasformandolo, alla luce della sua impostazione teorica, in una sorta di duplicato metaforico del laboratorio. In tal modo, costruì un "dispositivo epistemico" (Funari), che risultava "clinico" in quanto "epistemico". Tale dispositivo, tuttavia, rivelò, all'insaputa di Freud e in modo imprevisto e imprevedibile per la sua teoria, una sottostante, incoercibile caratteristica, una meta-regola di funzionamento, che lo connotava come un "dispositivo intersoggettivo di attaccamento". Da questo punto di vista non stupisce che la teoria, coerentemente con i propri assunti, preveda che il cambiamento è effetto dell'interpretazione e dell'insight, ma che, contemporaneamente, l'esercizio del metodo abbia man mano imposto un'epistemologia del sistema-paziente e del sistema analista-paziente, che fa cortocircuitare l'epistemologia normativa e di controllo, imponendo di fatto, nella pratica clinica e man mano anche negli enunciati teorici, la considerazione di fattori di livello differente, che, seppure spesso in modo poco chiaro e generico, connettono il cambiamento a fattori di "esperienza", di "relazione" e di "attaccamento"(8). I fattori interattivi e di attaccamento emergono, infatti, nell'ambito del transfert e di quei costrutti che, in qualche modo, tendono a rendere conto dell'interazione, seppure in termini almeno formalmente rispettosi del linguaggio intrapsichico (identificazione nel super-io dell'analista, identificazione-proiettiva e controidentificazione proiettiva, enactment...). Del resto è difficile negare, da un punto di vista storico-critico che la psicoanalisi, e Freud stesso, abbiano sempre riconosciuto due classi di fattori attivi: quelli di tipo conoscitivo e quelli attinenti al rapporto(99. Da questo punto di vista si potrebbe, anzi, affermare che la storia della psicoanalisi può essere letta come un caso esemplare di "esperimento" spontaneo di epistemologia sperimentale, che ha come soggetto-oggetto la coppia analitica, la quale, con il suo concreto agire, ha sviluppato il suo punto di vista interno, la sua autonomia e il suo effettivo modo di "conoscere" e di "cambiare", imponendo la sua sostanza intersoggettiva persino a una teoria naturalistica, che necessariamente la nega. Così la necessità di abbandonare la "forma" tradizionale di teoria potrebbe essere considerato come il risultato dello specifico modo di conoscere e svilupparsi di quel dispositivo originario, che infatti ha man mano costretto il carapace naturalista ad allargarsi per lasciare comunque uno spazio al progressivo esplodere dell'intersoggettività nell'inarrestabile estendersi del transfert e del controtransfert all'intero ambito tecnico-clinico.
La valorizzazione dell'interazione e la concettualizzazione dell'intersoggettività non costringono dunque la psicoanalisi a rivestirsi forzosamente e dall'esterno, di un vestito nuovo ed estraneo; sembrano, piuttosto, sviluppare qualcosa che le è proprio sin dalle origini, ma che è rimasto inesprimibile e inespresso a causa dei condizionamenti concettuali ed epistemologici propri del suo imprinting formativo. E' noto che lo scopo di una buona teoria è quello di morire generandone una nuova: le convulsioni teoriche degli ultimi trenta anni sono forse i sintomi di questo necessario, auspicabile parto. Se nella diade terapeutica non si ha infatti a che fare con un "osservatore" e un "osservato" bensì con una interazione tra due soggetti, in cui "un osservatore osserva> un osservato che osserva> e in cui ciascuno dei due soggetti è a un tempo "osservatore" e "oggetto osservato" in rapporto a sé stesso", allora la teoria dovrebbe focalizzarsi su questo dato essenziale e fornire modelli e congetture adeguati. In questa ottica oggetto della teoresi non sarebbe la "mente"(10), ma piuttosto primo e per sé l'interazione intersoggettiva e in tal modo: 1) il punto di vista intrapsichico tradizionale dovrebbe lasciare il passo a un più logico punto di vista intersoggettivo-intrasoggettivo; 2) lo schema tradizionale della t\P dovrebbe modificarsi in una più congruente t\P-T, 3) la logica lineare della teoria classica dovrebbe lasciare il posto a una logica circolare, in cui 4) accanto alla epistemologia esterna, oggettivante e normativa dovrà trovare spazio anche l'epistemologia "interna" propria del sistema e dei sottosistemi soggettuali. Se si intende rendere conto di una tale realtà complessa, diventa infatti necessaria l'assunzione di un punto di vista "esterno" sia alla diade che a ciascuno dei due sistemi soggettuali (punto di vista dell'osservatore) e contemporaneamente di un punto di vista "interno" sia alla diade che a ciascuno dei due sottosistemi soggettuali (punto di vista del sistema e della sua epistemologia). Il terapista e il suo paziente si configurano, infatti come sottosistemi soggettuali di un sistema intersoggettivo duale da assumere nella sua complessità, in cui il cambiamento non si configura come un problema "complicato", ma piuttosto come un caso esemplare di problema "complesso"(11).
In tal modo l'argomentazione gilliana, che coglie come intrinseco all'agire tecnico un essenziale risvolto intersoggettivo e "interattivo", diviene il punto di partenza non tanto della riformulazione di alcuni paragrafi della tecnica o della teoria clinica, ma il detonatore di una riconsiderazione globale della teoria del trattamento e il punto di avvio per la formulazione di congetture nuove e differenti circa i fattori e i processi di cambiamento. In questo contesto l'interazione terapeutica, lungi dall'essere una semplice nozione fenomenologico-descrittiva o una categoria della tecnica, appare come l'essenza stessa del metodo oltre che lo strumento e il "luogo" del suo esercizio. Per questi motivi l'interazione pone un problema né "tecnico" né semplicemente "teorico", ma piuttosto teorico-concettuale in relazione alla definizione dell' oggetto formale della teoria. La transazione terapeutica e, dunque, il processo congetturale di cambiamento e i fattori attivi in tale processo dovrebbero, infatti, assurgere al ruolo di oggetto formale della teoresi. In questa ottica, l' "interazione" non è un "oggetto" teorico da far in qualche modo collimare con l'apparato teorico-clinico, ma è semplicemente la "cosa", ciò attraverso cui si ipotizza avvenga il cambiamento e ciò che deve essere spiegato tramite le congetture teoriche. L'interazione si pone, cioè, come oggetto formale della psicoanalisi.


4. Un punto di vista alternativo

La necessità di modificare in tal senso la visione generale del metodo e della teoria non deriva, esclusivamente da argomentazioni logiche e teoriche. Fortunatamente da venti anni almeno è possibile ragionare sulla psicoterapia in modo relativamente indipendente dalle teorie tradizionali, infatti la ricerca ha fornito un certo numero di dati in qualche misura imbarazzanti non solo per la teoria psicoanalitica e per il suo dibattito interno, ma anche per le teorie concorrenti. Questi dati hanno una rilevanza cruciale per la questione dell'interazione e in particolare: a) il fatto che le psicoterapie funzionano; b) il cosiddetto "verdetto di Dodo"; c) la prevalenza dei fattori legati al rapporto e alla figura del terapista rispetto ai fattori tecnici; d) la scarsa correlazione tra conoscenza\insight e cambiamento, e) la scarsa coerenza tra dettati tecnici e gli effettivi accadimenti nella seduta. Questi dati del resto, trovano anche significativi riscontri nelle risultanze della ricerca di Topeka. Per quanto non definitivi essi sembrano abbastanza coerenti, da un lato, nel non corroborare le ipotesi tradizionali, dall'altro, nell'incoraggiare uno spostamento del fuoco della ricerca verso l'ambito intersoggettivo.
La psicoanalisi non ha, finora, tenuto gran conto di questi dati imbarazzanti; al massimo, al di là dei settori minoritari impegnati nella ricerca, ha tentato di arginare la falla mediante la nota distinzione tra fattori "specifici" e "aspecifici" nel contesto di una generalizzata maggiore valorizzazione dei fattori di rapporto. La distinzione tra fattori "specifici" e "aspecifici" è del tutto logica e comprensibile nell'ambito di una meta-analisi dei risultati delle ricerche, che indicano una pari efficacia in terapie che dicono di funzionare in base a principi attivi differenti e in cui "tutte vincono e tutte hanno diritto al premio". In questo senso "fattori specifici" sono quelli che le singole terapie indicano come attivi nel loro metodo, "aspecifici" sono invece quelli che il meta-analizzatore deve congetturare attivi in tutte le differenti terapie per spiegare il "verdetto di Dodo". Non sembra invece molto perspicuo distinguere fattori specifici e aspecifici nell'ambito del singolo metodo, soprattutto quando vi siano fondati sospetti che i primi non producano gli effetti attesi e i secondi siano molto più attivi di quanto le teorie non dicano. In questo caso i fattori aspecifici dovrebbero ricevere un nome ed essere considerati "specifici", mentre le teorie dovrebbero logicamente essere riformulate. In caso contrario, la distinzione rischia di apparire un espediente ad hoc per salvare le convinzioni consuete, trovando contemporaneamente una spiegazione qualsiasi per i dati inattesi della ricerca.
La progressiva maggiore valorizzazione dei fattori di rapporto è probabilmente, invece, un dato di fatto per quanto attiene alla pratica clinica. Anche a partire da questo punto di vista non si tratta però di spingere verso una generica rivalutazione dei fattori cosiddetti "relazionali", ma piuttosto di prendere contestualmente atto sia delle argomentazioni logiche e teoriche, che mostrano l'ineludibilità dell'interazione come intrinseca alla procedura, sia dei significativi dati della ricerca sia, infine delle risultanze stesse della storia della psicoanalisi e in particolare dell'inesorabile imporsi decennio dopo decennio dei fattori intersoggettivi, che hanno determinato l'elefantiasi dei concetti di transfert e controtransfert. Questa convergenza di indicazioni sembra rendere necessaria una riformulazione della concezione della teoria del trattamento, che ponga l'interazione nel punto focale dell'osservazione e assuma come dato di partenza l'inesorabile intersoggettività del metodo.
A questo scopo, partendo dall'assunto secondo cui l'interazione si pone come oggetto formale della psicoanalisi, si può impostare un punto di vista nuovo e complessivo e considerare la terapia, la serie di sedute o la seduta come una sequenza di transazioni, che, sul piano semantico costruiscono un fluire di scene e, in ultima analisi, "una storia". Tale fluire di interazioni è la "cosa", l'evento fenomenico, che in quanto congetturato come il tramite di un mutamento e di un processo di cambiamento rappresenta ciò che deve essere spiegato. Talvolta e, specificamente, per quanto riguarda lo studio e la ricerca, questa assunzione potrà tradursi in un vero e proprio dato di fatto in quanto, in quel caso, non si avrà a che fare con un materiale sfuggente come quando si argomenta sui "casi", ma con un vero nastro registrato, eventualmente tradotto in un testo scritto, in cui la sequenza delle scene è fissata in modo molto prossimo a una raccolta di dati, come ha dimostrato Dennett in un ambito differente ma analogo (Dennett D., 1993). Il nastro e la sua trascrizione documentano l'interazione terapeutica. Nel caso di una normale terapia, certamente non si produrrà un testo di questo genere e la posizione del terapista sarà senza dubbio differente e più complessa. Uno dei ruoli del terapista, tuttavia, è assimilabile alla posizione di colui che studia il nastro, benché egli non possa presumere "obbiettività" alcuna riguardo a un "nastro", del resto, puramente virtuale. Se si prende in esame tale nastro, si può notare che può essere osservato da almeno tre punti di vista differenti:

a. A partire da una epistemologia normativa e da un punto di vista esterno, può essere assunto, come "oggetto osservato" da uno scienziato-osservatore indipendente e tradotto in un testo scritto, in cui la sequenza delle scene è fissata in modo assimilabile a una raccolta di dati. E' questo il livello della osservazione e dello studio scientifico dell'evento, il luogo della formulazione di ipotesi e congetture rispetto a quanto accade in una stanza di consultazione. Da questo punto di vista "interazione" è appunto la "cosa", ciò che deve essere studiato e spiegato. Incidentalmente si può aggiungere che l'adozione di questo punto di vista esterno ed eteronomo da parte di un osservatore-scienziato, correggerebbe infine l'anomalia metodologica della psicoanalisi, che ha sempre visto la seduta, contemporaneamente, come luogo della cura, dell'osservazione, della ricerca e della costruzione teorica.
b. Un secondo punto di vista, autonomo e interno al sistema, riguarda l'interazione effettiva tra T e P in quanto soggetti immersi in una situazione intersoggettiva, in ragione della quale non possono non esserci, non comportarsi, non comunicare, non interagire. Si tratta di una interazione come fatto prima che come vissuto, esperienza o scelta consapevole. Come Gill ha sapientemente mostrato, l'intera attività di T, compresa quella interpretativa, ha prima di tutto e al di là delle sue intenzioni, il valore di una interazione intersoggettiva carica di significati pertinenti a tale livello. Da questo punto di vista l'interazione è intrinseca alla procedura come conseguenza del fatto che la psicoterapia utilizza come metodo la relazione intersoggettiva. Indicando questo livello come "interattivo" o come "interazione", si intende sottolineare che la partecipazione del terapista, il suo essere inesorabilmente interattivo, prescinde dalla sua volontà perché è implicita nella struttura intersoggettiva del metodo e nella natura dello strumento: è una mera conseguenza del cerchio intersoggettivo. Egli può esserci in modo ipercontrollato o pensando di comportarsi come un puro specchio sostanzialmente neutro o, al contrario, come un agente iper-interferente e direttivo, ma non può "non esserci".
c. Un terzo e ulteriore punto di vista è quello del terapista, che nel flusso dell'accadere della terapia si colloca in una posizione "meta" e, osservando quanto avviene e facendo il punto su quanto accade, a partire dalle sue conoscenze teoriche, cliniche e tecniche e servendosi dei modelli forniti dall'osservatore scienziato, compie le scelte strategiche e tattiche necessarie alla conduzione della psicoterapia. Si può fare riferimento a questo ruolo e a questa attività del terapista con il termine "meta-interazione" e con l'aggettivo "meta-interattivo" (ruolo, posizione o livello meta-interattivo) per sottolineare il necessario collocarsi del terapista in una ottica che, sotto molti aspetti, implica una dislocazione su una posizione meta, una osservazione, una analisi, un giudizio (logico) e quindi anche una direzione rispetto al livello della interazione. In un certo senso, dal punto di vista della meta-interazione, il terapista funziona come il supervisore interno in ragione della sua competenza teorica e tecnica e dell'esercizio costante del giudizio su "quanto sta effettivamente accadendo nella interazione" e su sé stesso in quanto parte della interazione. Occorre tuttavia annotare che, in questa dislocazione "meta", benché assuma un punto di vista "esterno" (rispetto alla diade, a P e a sé stesso), sotto certi aspetti analogo a quello dell'osservatore-scienziato, T si trova tuttavia inesorabilmente collocato all' " interno" per quanto attiene a sé stesso e per quanto attiene alla diade così che egli funziona, suo malgrado, secondo la logica circolare della comunicazione tra soggetti e non secondo quella lineare e consueta del punto di vista esterno.
d. La relazione tra i tre punti di vista è governata, infatti, dalla circolarità: le elaborazioni dello scienziato osservatore saranno assunte da T che, in tal modo, potrà meglio esercitare la sua attività meta-interattiva, la quale tuttavia non potrà mai sottrarsi alla posizione interattiva intrinseca alla procedura. Con il procedere di questa dialettica l'osservatore-scienziato avrà man mano l'opportunità di formulare domande più precise e di ottenere nuovi dati, che gli permetteranno di affinare e precisare le congetture rispetto alle due classi di variabili (interattive e metainterattive). Egli potrà dunque offrire al terapista modelli e procedure sempre più fini che tuttavia non potranno essere utilizzate se non all'interno dell'interazione intrinseca alla procedura e così via. La circolarità è triplice: si svolge infatti tra la necessaria eteronomia della ricerca e l'insuperabile autonomia del sistema intersoggettivo (e dunque tra ricerca e pratica clinica); tra interazione e metainterazione (e tra le classi delle corrispettive variabili) all'interno della seduta e nel sistema intersoggettivo duale. Infine vi è anche circolarità tra autonomia ed eteronomia, interazione e metainterazione, all'interno di ognuno dei due soggetti coinvolti nella transazione, che sono contemporaneamente rispetto a sé stessi "osservatore" e "oggetto osservato".
e. Anche P, infatti, nel cerchio intersoggettivo, si trova coinvolto in una "interazione" e svolge, per quanto in modo meno evidente e tematizzato, una costante attività di "meta-interazione", che è parte essenziale nel processo di risoluzione del suo problema tramite, per esempio, l' esplicita o silenziosa o non consapevole analisi degli schemi e tramite la loro assimilazione o non assimilazione all'interno del suo mondo interiore. Questa attività meta-interattiva può, forse, essere intesa come un elemento fondamentale della ricodifica e può essere considerato corrispettivo dei processi tradizionalmente indicati come elaborazione.
f. Gli elementi interattivi possono naturalmente essere percepiti, verbalizzati ed espressi. Ciò può avvenire tramite l'esperienza, il racconto o l'interpretazione di un vissuto consapevole o inconsapevole, l'esplicitazione di un contesto, di una teoria, di una inferenza, di un significato, di uno scopo, ecc. Ciò comporta necessariamente l'introduzione di quell'elemento nel dominio metainterattivo. E' presumibile che ciò avvenga in modo assai parziale e che le porzioni più rilevanti del vissuto siano per definizione pertinenti al dominio interattivo e non passibili di percezione e verbalizzazione se non indiretta.

La distinzione tra "interazione" e "meta-interazione" nello scenario intersoggettivo di una terapia, per quanto non sia stata esplicitamente introdotta finora(12), sembra semplicemente tematizzare ed esplicitare il senso generale delle posizioni, che M. Gill ha man mano espresso nei suoi ultimi lavori e che ha più compiutamente formulato in quello che può essere considerato il suo testamento. In generale, essa mira ad andare oltre il termine, non sufficientemente perspicuo, di "relazione" nell'intento di esplorare la possibilità di impostare in modo più ampio e flessibile le implicazioni intersoggettive del metodo, di delimitare il territorio della tecnica, di aprire uno spazio concettuale, in cui possano essere definite quelle variabili, che spesso non si sa indicare che come "aspecifiche". In sintesi, la posizione meta-interattiva riguarda l'azione del terapista considerata dal punto di vista delle considerazioni e delle scelte tecniche e include l'intero campo della "tecnica", mentre la posizione interattiva si riferisce all'esserci del terapista in quanto soggetto coinvolto in una relazione profonda con un altro soggetto e riguarda le sue azioni e risposte in quanto soggetto incluso a tutti gli effetti nel cerchio intersoggettivo, in cui le azioni e i significati delle azioni si organizzano secondo regole che sono quelle proprie di ogni similare "accoppiamento strutturale"(13) .


5. Interazione

L'interazione del terapista non veniva in passato tematizzata come elemento centrale del metodo, ma esorcizzata piuttosto come pericoloso agente spurio o come ospite indesiderato. La questione, tuttavia, non è se sia più o meno legittima, giusta o tecnicamente efficace l'assunzione, da parte dell'analista, di una maggiore attività, di un maggiore coinvolgimento o di una più accentuata partecipazione "attiva". Il problema riguarda, invece, l'impossibilità per il terapista di sfuggire alla posizione interattiva a prescindere dalle sue convinzioni teoriche e tecniche. L'interazione, infatti, non è un gradiente che T può modulare, aumentare o diminuire a seconda di valutazioni relative alla situazione o al quadro psicopatologico del paziente. Ciò che può variare rispetto a questi o ad altri parametri è l' "attività" di T o la scelta delle procedure. La posizione interattiva, invece, è una inevitabile e insopprimibile, nicchia ecologica basilare in cui si plasma ogni azione, comunicazione e comportamento di T e P. In questa nicchia, T può "interagire" in un modo che potrà risultare corretto, scorretto, positivo o negativo rispetto al conseguimento del risultato voluto, ma in ogni caso egli non potrà non interagire. Risulta quindi essenziale puntare il fuoco della ricerca sulla interazione nel tentativo di identificarne le "regole".
Le regole della interazione terapeutica non sono, infatti, le regole del setting, ma piuttosto quelle di un sistema duale che si auto-costruisce organizzando le transazioni tra due "Io". Il setting, (o, meglio, l'insieme delle regole che strutturano il setting), è il sistema di controllo, il quadro dei confini oltre cui non si può andare. Nel gioco degli scacchi, ad esempio, le regole tracciano i limiti entro cui tutte le possibili partite dovranno essere giocate; esse stabiliscono le procedure, che qualunque partita dovrà seguire perché possa qualificarsi come una partita a scacchi. Allo stesso modo, ogni partita terapeutica dovrà avvenire entro le regole del setting per poter essere considerata terapeutica. Analogamente a quanto avviene nel gioco degli scacchi, tuttavia, le regole non determinano la strategia, la tattica o la narrativa della partita, che, nel gioco, risponde ad altre implicazioni riguardanti la logica delle posizioni, l'attacco o la difesa, così come nella terapia, risponde ad altri livelli di contrattazione, di comunicazione e significazione.
Entro i limiti stabiliti dal setting, le regole dell' interazione sembrano essere quelle proprie di ogni accoppiamento strutturale tra due "Io" e dunque, dovrebbero presumibilmente riguardare quegli snodi elementari dell'esperienza, che provvisoriamente possono essere indicati come "accogliere", "comprendere", "accettare", "respingere", "allontanare", "aggredire", "avvicinare" "dare", "negare", "restituire", "affermare", "confermare", "disconfermare"... ecc. Questi snodi sono, in quanto tali e in modo relativamente indipendente dal contenuto, dei canali elementari, che hanno significato e valore in quanto tali e in quanto tali suscitano reazioni e controreazioni. Essi, possono essere intesi come snodi semantici connessi a caratterizzazioni emozionali, sceniche e narrative, che marcano la relazione seppure a partire dal collo d'imbuto delle codificazioni soggettuali, che si costruiscono per ogni soggetto nella storia pregressa dei suoi accoppiamenti strutturali.
Attraverso tali snodi e canali, scorre l'effettiva interazione intersoggettiva, in cui, a seconda della ridondanza nell'attivazione di questo o quel canale ( del canale "accogliere" ad esempio, o "negare" o "respingere"...), della condivisione o non condivisione dell'effettiva natura del canale che si sta praticando, della accettazione o non accettazione della marcatura reciproca del canale (il tuo "dirti accettante" è\non è "accettante"), dell'accordo o disaccordo sulla sua praticabilità, si disegna nella trama intersoggettiva uno specifico andamento della contrattazione e una specifica configurazione dell'interazione. In tal modo, al di là dei contenuti e delle definizioni "meta" (evidenziate, ad esempio, tramite una interpretazione), si susseguono nella trama dell'interazione delle "scene" silenziose, che ciascuno dei due attori marca continuamente di valore e di significato, attivando le emozioni adeguate, confermando o disconfermando le aspettative riguardo alle risposte attese e istruendo ragionevoli configurazioni di risposta. Il concreto e silenzioso esercizio di queste regole e l'effettiva contrattazione, che si sviluppa nella scacchiera da esse disegnata, modula la semantica elementare delle relazioni, che passa, dunque, attraverso canali e punti di snodo emozionalmente connotati che possono essere provvisoriamente indicati come: essere riconosciuto\disconosciuto, accettato\rifiutato, compreso\non compreso, amato\odiato, premiato\punito, avvicinato\allontanato, dominato\non dominato, aggredito\non aggredito, incluso\non incluso...
La marcatura delle scene è relativamente indipendente dal contenuto e anche dalla definizione ufficiale e verbale (meta-interattiva) dell'interazione. Essa procede sotto traccia nello sviluppo di qualsiasi contenuto; riguarda infatti "ciò che sta effettivamente accadendo adesso" al di là e oltre "quello che io e tu diciamo che sta accadendo". Tale marcatura è di per sé inattingibile dalla meta-interazione: può essere inferita e colta solo in quanto già avvenuta, a posteriori, e non può, quindi, essere direttamente modificata intenzionalmente, può al massimo essere contraddetta da una marcatura nuova, successiva e differente.
"Canali" e "scene" in questa ottica non sarebbero né contesti né contestualizzazioni, ma piuttosto mattoni elementari di costruzione dei contesti, punti di snodo tra attribuzioni di significato, relè di innesco di emozioni e sentimenti, grilletti d'avvio di silenziose risposte emotive o anche motorie. Tali mattoni, in ragione del loro continuo esercizio possono, a un differente livello, giungere a cementare un'invarianza, a stabilire regole fisse di contestualizzazione e in tal modo istruire vissuti, percezioni, anticipazioni e, man mano, anche "teorie" sulla singola situazione contestuale o anche "teorie" più generali rispetto alla propria e all'altrui mente, strutturando, conseguentemente, schemi prefissati di reazione, di selezione di scopi, di strategie e tattiche per conseguirli(14).
Si può ragionevolmente supporre che la semantica elementare dei canali e degli snodi intersoggettivi sia relativamente comune e fissa in tutti i membri della specie, nel senso di una basilare comune attribuzione di valore al "si" e al "no", ai patterns di avvicinamento e di allontanamento e a quelli piacevoli e spiacevoli, sulla base di connessioni alle emozioni primarie e più in generale come conseguenza del fatto di possedere un corpo e un cervello simili nella struttura e nel funzionamento. Anche le regole che, in ragione delle ridondanze o di particolari occorrenze di intensità, consentono la costruzione delle "configurazioni" o delle "scene", potrebbero essere relativamente comuni e basate, per esempio, su una sorta di statistica elementare. Infine l'appartenenza alla stessa noosfera, allo stesso orizzonte culturale (e, talvolta, allo stesso "dialetto culturale") può organizzare in un modo, che si può congetturare relativamente omogeneo, tali patterns.
Si potrebbe, dunque, pensare che una psicoterapia efficace sia quella che privilegia a priori gli snodi "positivi" (accettare, comprendere, amare...) rispetto a quelli "negativi" ( rifiutare, disconoscere, odiare...) e che un buon terapista sia quello che privilegia, per contratto, gli atteggiamenti positivi secondo criteri, che, talvolta, sono stati anche codificati ( "madre accettante"). Il fatto è che la marcatura delle scene non riguarda ciò che sembra o è definito accadere, ma ciò che effettivamente accade nell'organizzazione soggettuale di ciascuno dei partecipanti, in ragione della loro chiusura operazionale e della effettiva contrattazione che tra essi si svolge nel contesto delle regole proprie del sistema duale. Nella stanza di consultazione si incontrano due persone che hanno un loro proprio modo strutturato di "marcare" l'interazione e un loro definito sistema di regole; ciò impedisce di fissare a priori i criteri della "positività" o della "negatività". A dispetto della similarità e degli isomorfismi che sono stati indicati, e di cui comunque è difficile dubitare, sembra che le contestualizzazioni, le aspettative o i sistemi di aspettative patologiche (ma forse anche quelle che patologiche non sono) tendano a comportarsi come una sorta di imbuto o come un sistema di sensi unici, che predetermina il senso e il percorso dell'interazione, giungendo persino, talvolta, a privilegiare, ciò che da un punto di vista esterno e a partire da criteri di efficacia e di logica degli scopi, potrebbe essere connotato come "negativo" piuttosto che come "positivo" in rapporto agli interessi del soggetto(15).
Spetta all'indagine empirica individuare le configurazioni prototipiche e le più generali trasformazioni che possono modificare la valenza dei canali e degli snodi in ragione del vissuto e della singola storia soggettuale, determinando tuttavia tipologie ricorrenti di accoppiamento strutturale. Conseguentemente a partire da congetture ragionevoli, spetta alla classificazione empirica riscontrare e definire le occorrenze specifiche che caratterizzano la contrattazione terapeutica, indicando quelle che favoriscono, nelle varie tipologie e classi di configurazioni, l'andamento positivo e negativo del processo(16). Si può agevolmente inferire, in modo generico, che saranno positive tutte quelle occorrenze, che fungeranno da corretta perturbazione delle anticipazioni di P e, dunque, favoriranno la riapertura degli spazi di contrattazione, ma anche, e forse di più, quelle che saranno marcate da P come indicanti consonanza o maggior consonanza tra "detto" e "vissuto" nella duplice direzione da P a T e viceversa ( quello che dico è quello che è, quello che dici è quello che è, quello che diciamo avvenire coincide con quello che "vedo" avvenire) a prescindere dal contenuto positivo o negativo, piacevole o spiacevole.
Se questa lettura delle regole dell'interazione e della costruzione dei significati interazionali, dovesse risultare verosimile, si dovrebbe poter giungere ad una congettura inconsueta e cioè all' affermazione secondo cui le regole di base di una psicoterapia, e segnatamente quelle che potrebbero risultare più rilevanti per il raggiungimento dei suoi scopi, non sono quelle che tradizionalmente occupano i capitoli della tecnica bensì quelle più generali dell'interazione umana, quelle proprie della rete intersoggettiva, in cui, del resto, gli "Io" nascono, si sviluppano e, presumibilmente, si modificano. Ciò porterebbe a rovesciare la visione tradizionale riguardo ai fattori cosiddetti specifici e aspecifici, sino a un imprevedibile scambio di ruoli: i fattori da sempre considerati aspecifici sarebbero in realtà gli effettivi fattori specifici(17).


6. Meta-interazione

L'interazione, seppure nel quadro definito dal setting, apparenta la psicoterapia alle altre relazioni umane facendone un membro della stessa classe. Non è quindi distintiva della psicoterapia: ciò che distingue quest'ultima dalle altre relazioni umane è naturalmente l'utilizzazione sistematica e controllata del livello meta-interattivo nel quadro delle regole vincolanti del setting. Tale livello, in cui si configura la "posizione meta-interattiva" di T, attiene specificamente ai motivi che hanno determinato l'interazione terapeutica e agli scopi che essa si ripropone (il problema di P e la sua risoluzione); poggia sulle conoscenze necessarie alla corretta impostazione del problema (competenze teoriche e teorico-cliniche di T); si traduce nella progettazione e messa in atto di adeguate strategie tecniche di soluzione e nel controllo dell'andamento del processo di soluzione. In ultima analisi, la meta-interazione coincide con l'ambito tradizionale della tecnica, che implica un dislocamento ad un livello "meta" rispetto all' interazione, una osservazione, un controllo e una direzione da un punto di vista specifico, quello del problema, della sua soluzione e di quanto è necessario operare a questo scopo.
Tale osservazione e costante disamina della "interazione", dal punto di vista che si è detto, si esercita: a) sul processo interattivo ("che cosa sta effettivamente accadendo tra T e P nel momento t in relazione al contesto attuale e a quello diacronico"); b) sul vissuto manifesto e\o inferito di P e sulla sua contestualizzazione; c) sulla propria "presenza", relativamente all'intelligenza del contesto di P e alla effettiva configurazione del processo. Si può condurre tale disamina, avendo come punto di riferimento e criterio il quadro del setting e quello delle conoscenze teoriche, cliniche e tecniche in un incessante "fare il punto" su quanto sta accadendo alla luce delle ipotesi relative alle concrete modalità operazionali e relazionali di P (secondo una qualunque formulazione in termini di transfert, di conflitto relazionale centrale, di piano inconscio ecc.) e delle linee strategiche e tattiche del progetto di intervento. La valutazione così operata è il terreno in cui T può prendere e prende le sue decisioni rispetto al che cosa fare qui e ora rispetto a ciò che sta accadendo e rispetto a ciò che è opportuno fare in rapporto alle finalità intermedie e generali dell'azione terapeutica. La decisione riguarda cioè l'azione di T e in concreto la modulazione delle sue scelte tecniche rispetto al dire-non dire\fare-non fare. Questo cioè è il punto in cui si innestano nel metodo i vari capitoli tradizionali della tecnica riguardo agli interventi del terapista e in particolare riguardo alla interpretazione (del sogni, del sintomi, del vissuto attuale, delle difese, del "transfert"...).
La tradizione, nel descrivere le procedure e il loro corretto esercizio, dà estrema importanza non solo a questi aspetti specifici della tecnica, ma anche e soprattutto a una serie di criteri più generali ritenuti intrinsecamente caratterizzanti il corretto agire analitico e, dunque, da considerare caratteristiche irrinunciabili del metodo. Tali criteri sono, nella considerazione comune: la neutralità, l' astinenza e la non-direttività. Essi hanno un senso e un valore come criteri e punti di riferimento generale per la posizione meta-interattiva, purché vengano ridefiniti nel nuovo contesto. Non si tratta solo di evitare le estremizzazioni che tali "norme" hanno spesso incarnato, ma piuttosto di collocare tali criteri nel contesto intersoggettivo dato che l'interpretazione radicale della neutralità e dell'astinenza, può a buon diritto essere intesa come un tentativo estremo di sottrarre il terapista al cerchio intersoggettivo o persino come una sorta di negazione onnipotente dell' intersoggettività della situazione terapeutica e della presenza inevitabilmente interattiva del terapista.
La neutralità, nella sua forma estrema, è, come annota Gill, l'assunzione che l'analista sia come uno schermo o uno specchio e che rifletta sul paziente solo quello che dal paziente è venuto (GilI M.M., 1994). Questa accezione, sembra non solo una estremizzazione, ma un vero e proprio compito impossibile e paradossale. In realtà, un terapista "neutrale" in questo senso sarebbe un terapista che agisce e occupa inconsapevolmente buona parte dello "schermo neutro". Egli, infatti, influenza inevitabilmente P con il suo agire "interattivo" e con quello "meta-interattivo" e da P è inesorabilmente influenzato. In una concezione più equilibrata, che accetti le implicazioni del cerchio intersoggettivo, la neutralità sembra doversi identificare, da un lato, con la non-direttività (come tendenza a evitare la manipolazione diretta e indiretta, come disponibilità ad analizzare ogni influenza, volontaria o no, esercitata su P e come atteggiamento di rispetto nei confronti di P e della sua autonomia e chiusura operazionale); dall'altro con la possibilità stessa da parte di T di assumere una posizione "meta" e di cogliere quanto sta accadendo nella scena terapeutica come continuamente co-determinato da ambedue gli attori.
Più oscura è la questione dell'astinenza, che alla neutralità, è, del resto, collegata. Essa rimanda al noto suggerimento di Freud secondo cui nella misura del possibile, la cura analitica deve essere effettuata, in stato di privazione, di astinenza Ciò è inteso come una scelta strategico-tattica, infatti: "E' opportuno rifiutare al malato proprio quei soddisfacimenti che egli desidera più intensamente e chiede con maggiore insistenza"(Freud S., 1918). L'esasperazione dell'astinenza, oltre che una conseguenza della neutralità e una implicazione della struttura del dispositivo epistemico freudiano, è da considerare anche strettamente connessa ai fondamenti pulsionali della teoria e alla conseguente concettualizzazione dell'azione come acting. In realtà, se l'astinenza è una scelta tattica o strategica del terapista, appare in ogni caso come una sua azione e non sarebbe, quindi, neutrale. In un'ottica più equilibrata si potrebbe forse considerare l'astinenza come coincidente con la neutralità e la non direttività con, in aggiunta, un atteggiamento di irreprensibile e totale rispetto del setting e delle sue restrizioni.


7. Interazione e meta-interazione: metodo, tecnica, ricerca

Si può ora discutere la questione del ruolo degli elementi meta-interattivi e del loro rapporto con l'interazione allo scopo di definire in modo generale la relazione tra i due domini, prima di poter operare una prima valutazione dei vantaggi offerti da questa impostazione.
Le caratteristiche peculiari rispettivamente della "interazione" e della "meta-interazione" consentono una semplice descrizione della loro più importante articolazione. La proprietà fondamentale dell'interazione è che essa "avviene" e non può essere cancellata o modificata dalla meta-interazione, (che la può tradire o falsare, ma non rendere non avvenuta), contemporaneamente, però, essa non può essere colta e raccontata (a sé stessi o a un altro) se non tramite una operazione meta-interattiva. L'elemento essenziale della meta-interazione, invece, è che essa implica sempre e comunque una interazione nel senso che, come si è detto, anche una interpretazione, al di là del contenuto, interviene nel contesto come azione con suoi propri significati, che non sono necessariamente quelli previsti o voluti dall'intenzionalità dell'agente. Di conseguenza nel corso dell'esercizio dell'attività meta-interattiva o tecnica, T inevitabilmente e di fatto interagisce e in tal modo può confermare o disconfermare i punti di giunzione tra la marcatura delle scene e le contestualizzazioni di base di P, fornendogli prove ulteriori per le sue "teorie" proprio mentre si affatica a smontarle o, al contrario, può introdurre efficaci perturbazioni, che potrebbero permettergli di modificarle.
Questa articolazione sembra, dunque, suggerire una congettura generale riguardo ai fattori e ai principi attivi nel cambiamento: le "procedure meta-interattive" e, dunque, ciò che in sintesi si può indicare come l'insieme degli aspetti tecnici tradizionali ( ivi compresa, l'interpretazione, l'analisi del transfert, l'analisi delle resistenze ecc.) e il loro effetto immediato in termini, ad esempio, di "autoconoscenza" o di insight, non sarebbero da intendere come gli effettivi fattori mutativi o come direttamente connessi ai fattori mutativi, bensì come ciò che strumentalmente promuove, rende più probabile, favorisce e consente una efficace "interazione", nel cui ambito sarebbero invece da ricercare gli effettivi fattori di mutamento. In questo senso, le procedure si pongono come ciò che consente all'interazione tra T e P di svolgersi correttamente come interazione terapeutica. La congettura poggia sull'assunto secondo cui T non può, per causalità lineare e diretta, modificare P, che può modificarsi solo dall'interno, a partire dalle possibilità e limiti offerti dalla struttura della sua organizzazione sistemica. T può soltanto favorire il processo di cambiamento, offrendosi come un perturbatore dell'ambiente relazionale e semantico tramite una interazione, che fornisce risposte divergenti rispetto alle risposte "attese" e codificate nella organizzazione semantica di P. Egli potrà assolvere tale compito non in virtù di particolari e incontrollabili attributi interni come potrebbe essere, per esempio, una straordinaria competenza relazionale o una straordinaria abilità nella "comunicazione inconscia", ma piuttosto in virtù di una corretta, rigorosa e continuamente reiterata attività meta-interattiva. Certo, in qualche caso fortunato, T potrebbe possedere tali straordinarie abilità, ma si tratterebbe, appunto, di un caso, statisticamente irrilevante e praticamente imprevedibile. Un terapista dotato di una competenza relazionale media, addestrata nel training, potrà eseguire il compito, (seppure certo non in relazione a ogni caso possibile), grazie ad una adeguata, attenta e continuamente testata attività meta-interattiva.
In questa ottica, il peso del compito dell'ottenimento della modificazione voluta verte essenzialmente sui fattori interattivi e, in questo contesto e più precisamente, sulle reazioni di P alle perturbazioni del suo ambiente semantico e della sue consuete codificazioni emozionali. Al corretto e rigoroso esercizio della meta-interazione spetta invece il ruolo sostanzialmente strumentale, ma essenziale e insostituibile, di rendere possibile e più probabile una efficace perturbazione positiva nelle varie situazioni e occorrenze del processo. Senza tale servomeccanismo di controllo l' interazione efficace sarebbe solo un fatto casuale e statisticamente privo di incidenza.
Alla posizione meta-interattiva spetta un ulteriore compito non meno complesso. Come si è visto, la meta-interazione non può essere recepita e letta da P se non a partire dai suoi consueti schemi di contestualizzazione. P, cioè, in virtù della sua organizzazione e struttura e, in concreto, in virtù della chiusura delle sue contestualizzazioni, tenderà a interagire con T secondo gli schemi determinati dalle sue codificazioni emozionali e relazionali consuete. In linea di massima, tenderà a non cogliere la perturbazione o ad opporre "resistenza", accogliendola, leggendola e reagendo secondo le sue modalità codificate. Pertanto le azioni di T correranno continuamente il rischio di essere viste, per esempio, come indizio e prova della correttezza delle sue aspettative, come un ulteriore "come volevasi dimostrare". Il secondo compito dell'azione meta-interattiva, anch'esso strumentale e subalterno rispetto alla posizione interattiva, è, dunque, quello di favorire la disarticolazione di questa ridondante azione contestualizzante e di operare un progressivo indebolimento del "sistema delle prove" di P allo scopo di ottenere una modificazione dei suoi contesti e un graduale allargamento delle sue competenze relazionali. Poiché P concretamente tenderà a costruire i contesti tramite le sue modalità e regole relativamente invarianti, si può inferire che il secondo compito della posizione meta-interattiva dovrebbe tendere a favorire la graduale modificazione delle regole di contestualizzazione di P.
Questa impostazione del problema dell'interazione nel panorama complessivo dell'agire terapeutico tramite l'articolazione dei due distinti domini dell'interazione e della meta-interazione, promette dei vantaggi sia a un livello, per così dire, strategico e cioè a livello, epistemologico, teorico e concettuale, sia ad un livello più concreto e immediatamente apprezzabile.
Riguardo al primo punto, ci si può limitare ad osservare che la precisazione dell'oggetto formale e del punto di vista, consente, anzitutto, un approccio epistemologico più coerente, ma, soprattutto, in grado di salvaguardare, contemporaneamente, sia la necessaria riduzione metodologica con l' utilizzazione del punto di vista "esterno", sia la non espungibile epistemologia "interna" dei sottosistemi P e T e del complessivo sistema T-P. Ciò consente non solo di non perdere nulla riguardo a ciò che viene normalmente indicato tramite la coppia transfert-controtransfert, che certo costituisce l'irrinunciabile ricchezza del metodo psicoanalitico, ma anzi di depurarlo delle residue incrostazioni naturalistiche, inserendolo in una cornice logica e metodologica adeguata nell'ambito della epistemologia dei sistemi soggettuali e dell'intero sistema duale come prima e fondamentale conseguenza del punto di vista "interno" e della necessaria autonomia dei sistemi. La distinzione tra il punto di vista "interno" ed esterno" permette, su scala più vasta, la soluzione del nodo gordiano, che da un secolo lega indissolubilmente nella seduta, contro ogni avvertenza degli epistemologi, il lavoro tecnico-clinico, la ricerca e la costruzione teorica, permettendo anche per la psicoanalisi una più logica articolazione tra l'ambito della ricerca e quello della clinica.
Al di là del livello strategico, che non può comunque essere compresso in questo breve spazio, la proposta promette una serie di vantaggi in territori più prossimi:
a) Anzitutto, la distinzione tra interazione e meta-interazione permette di limitare lo smisurato e onnicomprensivo allargarsi dell'ambito della tecnica, che, come si è da più parti lamentato, si è andata estendendo negli ultimi decenni sino a occupare tutto lo spazio dell'agire terapeutico. La tecnica viene ricondotta al suo semplice ruolo di procedura.
b) Tale delimitazione demarca e definisce un dominio, che esulava dalla tecnica già nella concezione freudiana e la cui necessità è stata a più riprese sottolineata negli ultimi tre decenni, seppure in termini di concettualizzazioni talvolta non chiare come "relazione reale", "alleanza terapeutica", "holding", "empatia" e simili. La nozione di interazione può facilmente raccogliere queste istanze senza cadere nella indefinibilità propria di tali nozioni, aprendo, invece, una "finestra delle variabili", che un osservatore-scienziato esterno potrebbe sondare tramite congetture empiricamente falsificabili.
c) Questa concezione implica una articolazione circolare tra i fattori di "attaccamento" e quelli tecnici e conoscitivi in particolare, ciò che, del resto, è malgrado tutto coerente con la tradizione che, sin dalla concezione freudiana del transfert positivo, ha sempre attribuito un ruolo ai fattori di attaccamento. In questo contesto, tuttavia, il ruolo principale viene attribuito ai fattori interattivi e non a quelli conoscitivi e tecnici. Molte ricerche, del resto, insistono su territori analoghi o non dissimili, descrivendo in modo differente, rispetto al metodo tradizionale, ciò che effettivamente accade nella stanza di consultazione e identificando i fattori di mutamento nel quadro dell'esperirsi in relazione e dello sperimentare la relazione.
d) La delimitazione del dominio della tecnica da quello dell'interazione può favorire, una riformulazione del metodo in termini più operazionali e il conseguente sviluppo di procedure più formali di analisi contestuale in relazione ai vari capitoli della tecnica e ad ambiti come, per esempio, il transfert(18) o la resistenza, ciò che forse potrebbe anche contribuire a ridurre la porzione da delegare al buon senso.
e) L'interazione, malgrado la sua apparente inafferrabilità, può essere posta come il luogo privilegiato della ricerca e come una effettiva "finestra delle variabili", che può essere esplorata a vari livelli sia da un punto di vista descrittivo e classificatorio e sia da un punto di vista più prossimo a una effettiva ricerca sulle cause che producono il cambiamento. Dal punto di vista descrittivo, sulla base di una previsione generale secondo cui il cambiamento dovrebbe correlarsi positivamente con l'intensità dell'accoppiamento strutturale, si può ulteriormente congetturare che esso sia differentemente correlato con differenti tipologie di accoppiamento. E' almeno pensabile, per esempio, un forte accoppiamento strutturale, che rinforza invece che turbare le anticipazioni di P. In questa ottica si apre il compito di classificare e descrivere le configurazioni possibili non in base alla semplice psicopatologia, che in generale si ferma alla descrizione del sottosistema P, ma piuttosto per la via dello studio delle configurazioni del complessivo sistema P\T.
f) Infine dal punto di vista dei fattori attivi nel cambiamento, il fuoco della ricerca potrà collocarsi a vari livelli, prendendo in considerazione ipotesi molto "alte" come quelle cui si riferisce il CCRT di Luborsky oppure più "basse" e relative a sistemi di aspettative graduate come quelle congetturate dal San Francisco Phychotherapy Reserarch Group (WEISS J., SAMSON H., 1986) con la diagnosi di piano (Plan Formulation Method) o variabili relative a una processazione congetturata a un livello più elementare secondo le ipotesi prese in esame per esempio da Seganti (SEGANTI A. 1995) o anche più decisamente micro secondo congetture che si potrebbero agevolmente inferire dal modello proposto da Damasio (DAMASIO A., 1994).

Tutta questa argomentazione poggia su assunti epistemologici e concettuali (relativi alla struttura complessa dei biosistemi), che lo spazio non consente di esplicitare; sarà però almeno necessario dire che essa poggia su una concezione della conoscenza come processo complesso, che coinvolge tutto l'organismo nella risoluzione di problemi e non come risultanza dell'esercizio di funzioni parziali siano esse intellettive o emozionali. In questa ottica, la conoscenza non può essere ridotta a "fattore di cambiamento": la conoscenza, infatti, è cambiamento e il cambiamento è conoscenza. Cambiare, dunque, è conoscere; saperlo, anche in termini di insight, è meta-conoscere. In questa prospettiva, ha poco senso contrapporre fattori conoscitivi e fattori di attaccamento o anche congiungere compromissoriamente conoscenza e attaccamento. L'attaccamento o, più precisamente, l'accoppiamento strutturale, non è un fattore di cambiamento, ma è la inevitabile matrice, la nicchia ecologica in cui "cambiare" può diventare necessario e possibile, allo stesso modo in cui per i gabbiani può diventare necessario e possibile (in ragione dei vincoli della propria struttura e delle competenze del loro organismo) modificare l' originaria abitudine alla pesca in mare modificandola in "pesca nei rifiuti" o per gli storni inurbarsi e "conoscere" la città come luogo più adatto per trascorrere la notte.
I fattori "conoscitivi" e quelli di "attaccamento" possono essere artificiosamente contrapposti, distinti (o anche congiunti) solo in ragione di categorie predefinite di concettualizzazione, cioè in ragione del modo e del contesto a partire dal quale si imposta e si definisce l'oggetto-problema "cambiamento". Il meccanicismo rappresentazionista e razionalista di Freud costruiva l'oggetto-problema cambiamento nei termini della sua macchina fisicalista, cui la storia era in grado di conferire un bagaglio di rappresentazioni e la cui economia di investimento, poteva essere modificata tramite una conoscenza inferita dall'analista e comunicata al paziente. Questo era ciò che "sarebbe dovuto accadere" secondo la teoria. Ciò che invece concretamente accadeva era che, contro tutte le attese, il paziente non si modificava in ragione della conoscenza. Vennero così in primo piano la resistenza e il transfert, anzi, il transfert di resistenza, che la teoria inglobò come un detour, come groviglio da sciogliere preliminarmente onde poter avviare il teorema della conoscenza. Mentre Freud si industriava a conchiudere e perfezionare il suo dispositivo epistemico, inconsapevolmente si prestava, comunque, a vivere con i suoi pazienti una situazione di attaccamento strutturale, in cui "cambiare" poteva diventare, appunto, necessario e possibile e in cui, al di là delle tecniche e delle teorie, accadeva qualcosa, che oggi cominciamo a capire in modo nuovo.
E' in un certo senso paradossale (ma storicamente comprensibile) che la disciplina che ha indicato agli uomini il significato e il valore dei vissuti infantili, dell'attaccamento e delle emozioni, che ha insegnato a comprendere le "storie" delle persone riconducendole alla "storia" del loro "essere con" la madre e il padre e che ha anche ricondotto i parametri generali di tutte queste storie alla "grande storia" della filogenesi e della evoluzione, si fondi su una teoria intellettualistica del cambiamento e faccia tanta fatica a riconoscere ciò che essa stessa ha promosso.


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Note:

1 Trattando dei vari "metodi" psicoanalitici Rapaport scrisse: "Penserei che il primo per importanza di questi metodi specificamente psicoanalitici sia la costellazione psicoanalitica: una relazione stabile di due persone. In futuro mi riferirò a questa come alla "relazione interpersonale". Questa sembra essere la caratteristica più specifica del metodo psicoanalitico. D. RAPAPORT, La metodologia scientifica della psicoanalisi (1944-1948), in Il modello concettuale della psicoanalisi, Feltrinelli, Milano, 1977, p. 112.

2 Nel 1948 Rapaport si rese conto che se si legge la relazione interpersonale in rapporto all'assunto (logicamente necessario per il metodo e per la metapsicologia) della continuità psichica "...ne nasce una contraddizione difficile da sanare. La contraddizione consiste nel fatto che questa bipolarità non è veramente una bipolarità poiché l'analista è parte del continuum. E' una situazione difficile che porta a molte complessità" (Ib., pp, 124-125, nota 9). La contraddizione nasce dal fatto che la metapsicologia può trattare di oggetti solo in termini di rappresentazioni intrapsichiche di oggetti.

3 Il duplice panel dedicato all'interazione dall'American Psychoanalytic Association (1991-92) è certamente segno di una mutata attenzione. I resoconti dei due dibattiti sono stati pubblicati dal Journal of the American psychoanalytic Association: il primo a cura di Hurst D. M (JAPA, 43,2, pp.521-537, 1995;) e il secondo a cura di Purcell S.D., JAPA. 43, 2, 1995, pp. 539-551.

4 Anche M Gill, che pure firmò con Rapaport il saggio sui punti di vista e con lui meditò e scrisse, ereditandolo, quello sulla topica, in quegli anni si volse alla clinica e a partire dalla clinica giunse a proporre le sue vigorose revisioni della nozione di transfert sino all'approdo costruttivista e all'interazione. Gill si volse alla clinica sulla base della consapevolezza della morte della metapsicologia e della necessità di giungere a un nuovo modello. Egli parlava di clinica e di tecnica mirando alla teoria; molti dei suoi interlocutori intendevano e misuravano invece le sue parole sulla base della tecnica codificata.

5 Per la ricostruzione della struttura formale della teoria freudiana non si può che rimandare a D. Rapaport e in particolare al sintetico e insuperato The Structure of Psychoanalytic Theory: a sistematizing attempt, Psychol-Issues, 6, 1960. Una attenta analisi dei presupposti concettuali e della struttura della metapsicologia nell'orizzonte epistemologico, filosofico, concettuale e scientifico di fine ottocento è tracciata da ASSOUN P-L., Introduction a l'épistémologie freudienne, Payot, Paris, 1981. Ho condotto una analisi storico-critica dello sviluppo della teoria freudiana in SCANO G.P., Il Super-io tra sessualità e socialità, Città Nuova, Milano, 1982.

6 Cfr. ASSOUN P-L., op.cit.

7 Per esempio quelle di Edelmann (1987, 1989), Damasio (1994)., Dennett (1993). In particolare questo studio poggia sulla teoria di A Damasio

8 Friedman ha descritto in modo puntuale la deriva storica del conflitto tra queste due anime della psicoanalisi, evidenziando i momenti del dibattito (Marienbad, Edimburgo...) e i relativi costrutti teorici e mostrando, da un punto di vista clinico, lo spessore concreto di questa antinomia. FRIEDMAN L. The Anatomy of Psychotherapy, The Abalytic Press, Hillsdale, NJ, 1988.

9 Come ha recentemente ricordato Migone (1995, pp.102-103), "rileggendo gli scritti di Freud, si possono evidenziare due fattori principali che hanno caratterizzato la teoria della cura in psicoanalisi: uno può essere chiamato comprensione intellettuale o cognitiva, esplorazione, insight, interpretazione, ecc., mentre l'altro fa riferimento al legame affettivo con l'analista, al rapporto emozionale, ed è stato chiamato in vari modi tra cui transfert positivo, attaccamento, ecc.".

10 Ciò naturalmente non esclude che una teoria della mente sia comunque necessaria.

11 Per la nozione di "complessità" non si può che rimandare alle opere di Von Foerster H., Morin E., Atlan H., Varela F., Prigogine I.,...

12 Nel dizionario psicoanalitico esistono due termini, che coprono parzialmente la medesima area. Si tratta della opposizione tra simmetria e asimmetria, che ha però, in genere, una valenza tecnico-descrittiva in relazione alla posizione relazionale dei due attori. Per questo motivo si è preferito introdurre e definire due termini nuovi.

13 La nozione di "accoppiamento strutturale" (Maturana & Varela, 1980) è usata in biologia per indicare la relazione di congruenza strutturale tra un organismo e l'ambiente, in cui si realizza la sua ontogenesi, o quella esistente tra più unità cellulari, che si aggregano a formare una unità pluricellulare o, ancora, quella che si stabilisce quando due o più organismi si trovano nel corso della loro ontogenesi a costituire (a essere immersi in) una rete di interazioni ricorrenti e stabili sino a formare sistemi o unità di un livello ulteriore e specificamente "sociale"

14 Questa visione poggia sulla teoria del marcatore somatico di A. Damasio (1994) e più in generale sulla sua concezione generale del ruolo delle emozioni e sentimenti nella struttura e funzionamento della mente.

15 Ciò è stato in vario modo sottolineato dalle ipotesi e dal piano di ricerca di Weiss e Samson (1986) e, in Italia, dalle ipotesi che guidano l'indagine empirica di A. Seganti, (1995).

16 Un tentativo di descrizione coerente dello spazio interazionale, in cui sono anche individuabili un certo numero di regole dell'interazione è offerto da A. Seganti a partire dal tema della minaccia all'organizzazione coerente del proprio sé e del ruolo delle anticipazioni negative che"... scarsamente percepite dalla coscienza del soggetto, ma fortemente percepite a livello sensoriale (...) assumono una forma perentoriamente prioritaria e (...) sospingono il paziente (...) a riprodurre contro la sua volontà situazioni negative nelle nuove relazioni". Ciò naturalmente accade anche nella situazione terapeutica così che il paziente si trova in " una situazione contraddittoria per cui viene in analisi al fine di modificare quel tipo di situazione che invece si accorge con disappunto di ripetere", mentre "...il terapeuta, che non può esimersi dal partecipare, può offrire come unico differenziale, rispetto alla situazione di relazione negativa che torna a manifestarsi, quello di riconoscere la parte che egli stesso ha avuto nel determinarla". Stabilito che "le esperienze relazionali (...) si sviluppano all'interno della matrice delle aspettative negative di entrambi i partner della relazione" l' A. Identifica tre possibili esiti relazionali che indica come "reciprocità", "esclusione", inclusione". SEGANTI A., op. cit., pp. 96-107 (passim).

17 Questa, del resto, è l'ipotesi più ricorrente di spiegazione del paradosso dell'equivalenza, cioè del fatto che l'efficacia delle psicoterapie risulta non correlata con le specifiche tecniche usate. Non vi è tuttavia una interpretazione univoca di questo dato. Luborsky e AA, elencano otto possibili ragioni per spiegare il paradosso della equivalenza. L. LUBORSKY L., DIGUER L., LUBORSKY E., SINGER B., DICHTER B. SCHMIDT K. A., ( 1993).

18 Ho compiuto un tentativo in questa direzione per quanto riguarda il transfert in un lavoro dal titolo "Phlogiston and transferencial "thing", in attesa di pubblicazione.


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