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PSYCHOMEDIA
SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



“IO ESISTO?”
Soggettivita’ e alterita’: parliamone

Franco Ferri


E’ con sorpresa che in alcuni momenti, ascoltando i pazienti, si assiste al prendere corpo dell’interrogativo: “Ma io esisto?”. Un siffatto pensiero compare nella mente del Paziente in forme a volte verbalizzate e a volte no, ma sempre molto evidenti nell’atteggiamento e nel contesto. Di solito accade in un punto di svolta del lavoro terapeutico.

Ciò può accadere anche nella mente del terapeuta quando il Paziente appare immerso o isolato in un suo mondo fantasmatico, del tutto estraniato dalla relazione analitica stessa..

In un primo momento si rimane colpiti da un’apparente stranezza nel configurarsi di una simile questione: nel setting psicoterapeutico si è in un ambiente relazionale molto chiaro, in uno spazio, in un luogo dove ciò non dovrebbe capitare! Ci sono io che ascolto il mio paziente e lui che si rivolge a me, c’è un fluire di comunicazioni verbali e non, che riempie la relazione e tutto si addensa attorno al significato stesso dell’essere lì insieme: c’è un Io che parla e un altro Io che ascolta….

Appunto: un “Io” e un “Altro Io”! Distinti, eppure in intima relazione, dove soggettività e alterità si affrontano e si confrontano.

Tre secoli fa Locke avrebbe liquidato la questione con una sorta di verdetto salomonico: l’Io e l’Altro sono termini che “si lasciano usare per pura intuizione” in quanto “ne percepiamo la verità di ognuno di essi in modo immediato, senza alcun intervento di un terzo concetto” (Locke, 1690).

Nel linguaggio quotidiano d’altro canto, non incontriamo alcuna difficoltà nel loro uso e ne diamo per scontato il significato e la perfetta condivisione fra gli interlocutori di un discorso.

Quando però ci si sintonizza sulla lunghezza d’onda dei vissuti psicologici è facile intuire che non tutto è così scontato e chiaro, anche se gli psicologi sono arrivati ben ultimi ad occuparsi della questione.

Basta uno sguardo alla storia della filosofia per cogliere come su questo tema, fin dal lontano ‘600, si siano misurati i migliori pensatori. Nelle vicende assai contrastate del pensiero occidentale ci sono voluti duemila anni per arrivare alla res cogitans di Cartesio: il suo monumentale lavoro a fondamento del pensiero scientifico certifica con solennità: ”Io penso, dunque sono!” (Descartes, 1637). Appena un paio di secoli più tardi però, manco a dirlo, il sorriso beffardo di Nietszche ribalta ogni prospettiva fondante della scienza e ne mina alla base la sua sacralità: egli degrada l’Io a pura finzione, a necessità grammaticale per il “discorso della ragione”. Tale discorso risulta dunque una costruzione difensiva fragile e inadeguata, perchè non riesce a sanare quel carico di angosce negate che lo hanno generato. Angosce appartenenti alla vita stessa. Esse costringono gli umani ad aggrapparsi alla ragione per sfuggire alla sofferenza causata dall’imprevedibilità del caos delle passioni e degli istinti, vero ed ineliminabile fondamento della natura umana (Nietzsche, 1882).

Con buona pace di tutti, noi proviamo in questa sede con una certa libertà, a delineare i contorni della questione dal punto di vista psicologico, avvalendoci dei contributi della clinica, l’uso della quale ha già permesso di produrre grandi progressi nella comprensione dei fatti umani.


La clinica psicologica.

Mi piace qui definire questa chiave di lettura come una sorta di contaminazione fra l’arte medica di una volta e la psicologia, a sua volta un’arte, anche se ben più giovane. La prima si occupa da sempre della vita del corpo e, quando l’avvento della tecnica era ancora di là da venire, prevedeva la vicinanza col paziente in un rapporto di fiducia intriso di molteplici elementi psicologici. La seconda, nata per necessità perché le scienze del corpo non riuscivano a spiegare innumerevoli fatti umani, si occupa appunto della vita psichica, quella che qui vi chiedo di passarmi come “la consapevolezza di appartenere al genere umano, connotata dalla tensione a condividere con altri esseri umani il piacere di vivere”.

Guardiamo dunque alla questione dell’arte di vivere col nostro apparentemente strano binocolo. Quando affermo che ogni manifestazione vitale in sé appare come un mistero già dal punto di vista biologico, non credo di dire nulla di nuovo.

E quando poi getto lo sguardo sulla vita psichica, il mistero tende ad apparire, e ne potrete convenire anche voi, ancor più avvolgente.

Soffermiamoci per un attimo sulla coscienza umana: essa rappresenta il punto evolutivo più elevato e raffinato del pensiero umano, contiene la consapevolezza del presente, del passato e del futuro, contiene la consapevolezza di sé e degli altri. Essa contiene anche la consapevolezza dei propri limiti, e si avvale della potenza dei desideri per progredire verso una sorta di infinito. Eppure rimanda inesorabilmente a quanto ancora di organismico e pulsionale rimane vivo e vitale nella natura umana come per esempio gli istinti che, per quanto domati dalla civiltà, non cessano di lavorare. E butterei lì con noncuranza, anche la questione dei sogni, oggi più che mai attivi anche ad occhi aperti, ma che solo nel segreto del sonno svolgono la loro funzione strutturante ed ordinativa.

E’ appunto la consapevolezza di quanto sfugge alla coscienza che fa della vita psichica una sorta di misteriosa magia.

Anzi, a ben guardare, fin dalla nascita ogni nuovo essere umano, ogni neonato, appare già in un qualche modo avvolto da una atmosfera di magia. Ogni nostro tentativo di separarlo troppo decisamente e nettamente dalla madre che se ne occupa, ogni nostro distinguo basato su dati di fatto osservativi, rischia di apparire clamorosamente riduttivo.


Il neonato e la madre

Certo possiamo pensare al neonato come un organismo biologicamente programmato per la vita. E di quale vita parleremmo però se escludessimo la corrente ineffabile e misteriosa, di sentimenti, fantasie, aspettative e sogni che lega la madre al suo bambino? Corrente di vita, di vita psichica, che nonostante il fatto biologico qual è il taglio del cordone ombelicale, non cessa di generarsi e fluire: non sempre un osservatore esterno è in grado di distinguere con chiarezza i contorni della parte dal tutto (il neonato che pulsa e respira autonomamente rispetto alla madre che lo cura). Madre e neonato appaiono e sono un tutt’uno. I confini dell’uno e dell’altra sono tutt’altro che delineati e acquisiti.

Ecco qui la questione: il taglio del cordone ombelicale è quella base realistica che fonda simbolicamente la distinzione, e quindi la relazione, fra un Io con un altro Io? Può essere. O è solo un fatto appunto realistico che non coincide con una verità interna psichica?

Per il nostro discorso conviene non sottovalutare alcuni fattori emozionali che continuano ad aleggiare sopra e dentro la coppia Madre-Bambino.

Quel neonato ha cominciato infatti a vivere dentro i desideri, i pensieri e nelle fantasie della madre ancor prima del concepimento, e chissà quanto prima! Desiderio e fantasie che al momento del parto hanno già fatto un lungo cammino, incontrando ostacoli, rimaneggiamenti e modificazioni nell’incontro coi fatti della vita e del partner nell’accoppiamento. Poi i pensieri – e anche i sogni - si sono addensati intorno al concepimento, alla gravidanza, al parto. Pensieri e sogni che potranno essere stati condivisi o coltivati in abissi di solitudine.

Quante gioie e quante angosce hanno già a quel punto attraversato la mente della novella madre? Di quante rassicurazioni ha avuto bisogno? Avrà trovato sostegno nel suo ambiente o ha già dovuto lottare per difendere il suo sogno?

Del legame con la sua creatura, che quel desiderio ha cominciato a costruire chissà quando, rimane traccia evidente appunto nei suoi sogni. Le madri in gravidanza sognano spesso su questo fatto della vita (Fornari, 1979), anzi, è questo fatto della vita psichica, il sognare e il sognare anche ad occhi aperti, che rende l’esperienza della gravidanza della donna un evento specificamente umano. In esso troviamo tutte quelle qualità solo umane che chiamiamo vissuti: emozioni, desideri, idealizzazioni, rispecchiamenti, sentimenti, paure, angosce. Per quanto si possa cercare una base biologica del mondo emozionale, non è in questo ambito che possiamo trovare risposte al significato che questi vissuti hanno per gli esseri umani. E proprio in quel fatto universale della vita che ne assicura la continuità troviamo un concentrato impressionante di questi vissuti.

Una donna in gravidanza oggi usufruisce di numerosi controlli medici, ecografie e visite specialistiche. Saranno bastati a riconciliarla col timore che il suo bambino reale possa anche non essere così come se lo è da sempre immaginato? O le avranno confermato i suoi peggiori timori?

Di fatto, gli studi di Fornari (cit.) evidenziano nei sogni delle donne gravide da lui osservate, l’agitarsi di una “preoccupazione primaria”, un fantasma, che tradotto in linguaggio corrente, potrebbe essere definito come “la paura di non essere perfetta e quindi partorire un mostro”. Un altro fantasma assai diffuso nella nostra cultura e facilmente riscontrabile, è quello del bambino perfetto, quasi mitizzato, l’unico desiderabile. Nei sogni delle donne in gravidanza questa “idealizzazione” della propria creatura si presenta spesso come trasfigurazione magica: l’attesa è di una nascita che dovrebbe trasformare e sanare ferite inesprimibili, redimere peccati e aprire albe dorate (una sorta di sindrome del Bambin Gesù).

Una nota a margine: a questo proposito un clinico dovrebbe anche attirare la vostra attenzione sulle implicazioni di simili fantasmi (la “paranoia primaria” e la mancata redenzione) in quelle sindromi che chiamiamo genericamente depressione post-partum. Qui però ci dobbiamo occupare d’altro.

Possiamo invece tranquillamente affermare una cosa: la maggior parte delle future mamme rielabora nei sogni queste fantasie e porta a termine la propria gravidanza senza traumi particolari. D’altra parte oggi le moderne tecnologie svolgono anche una generica funzione rassicurativa su queste ansie.

Epperò non è sempre così: le ansie sono lo stesso in agguato, e sovente assumono forme carsiche.

Per esempio i moderni monitoraggi, svuotando di significato il piacere della sorpresa, tendono a lasciare una traccia profonda e non riconosciuta nella fiducia di base della madre, da cui dipenderà poi la fiducia di base del neonato (Erikson, 1987). La potenzialità innata della fiducia di base sollecitata dalla gravidanza, il cui elemento principale è la capacità di attendere (che è una “capacità”, e da sempre la gravidanza si chiama anche “attesa”), in questa sfida col rito asettico della tecnologia tende ad essere mortificata e svilita in parecchie delle sue componenti emozionali. C’è insomma dietro l’angolo il rischio di un viraggio sul controllo eccessivo ansiogeno invece che rassicurante.

Quel che interessa qui però è constatare la ricchezza e la profondità della vita fantasmatica nella futura mamma. Essa si configura come quel punto di partenza indispensabile per la costruzione nella sua mente di una vita fantasmatica anche dentro il suo feto che diventerà poi il suo bambino. Passaggio indispensabile per stabilire successivamente quei legami affettivi all’interno dei quali dar corpo e dar voce appunto a tutta la gamma dei vissuti emozionali che renderanno quel neonato il “suo” bambino e il rapporto con lui unico e irripetibile.

Non vorrei però aver messo troppa enfasi sul contributo della madre, creando l’impressione di un rapporto unidirezionale. Non è quello che mi preme.

Credo di poter anticipare invece con tranquillità che anche il neonato cercherà da par suo nelle fantasie e nelle naturali capacità empatiche della madre normalmente a lui devota, l’ambiente più adatto per sviluppare le sue potenzialità vitali (Winnicott, 1965).

Alla nascita il neonato lascia una condizione ambientale di grande protezione, dove gli stimoli e le sensazioni quando arrivano, sono per lo più neutralizzati o fortemente attutiti. D'altronde il suo apparato sensoriale si deve ancora formare e non potrebbe utilizzare appieno questi stimoli ambientali ai fini della crescita.

La neomamma invece ha davanti a sé la concretizzazione di quei desideri e di quelle fantasie che, come abbiamo visto, ha coltivato per tanto tempo. Ora è chiamata a confrontare la realtà con le sue fantasie e ad interagire col suo bambino concreto. Proviamo a ricordarci questa cosa: il confronto tra le idealizzazioni e la realtà è una costante necessità della vita psichica e attiva un vissuto profondo, il sentimento della differenza che, come vedremo più avanti, è un importante organizzatore della vita psichica stessa.


La relazione simbiotica

Generazioni di attenti osservatori dei fenomeni relazionali tra Madre e Bambino hanno sempre più affinato e impreziosito la nostra capacità di immergerci nelle atmosfere ineffabili della simbiosi fino alla nascita dell’Io, aprendo mondi fino a poco tempo fa inesplorati.

Per quello che riguarda il nostro tema, la soggettività e l’alterità, trovo illuminante quanto Winnicott, uno di questi osservatori, ha saputo anche assai poeticamente illustrarci, cogliendo nel lattante una vera e propria potenza creativa. Seguirlo anche soltanto per grandi linee ci può arricchire

Il neonato che viene alla luce è di fatto immerso in un nuovo ambiente, un vero e proprio nuovo mondo rispetto a quello da cui proviene: il corpicino di cui dispone lo “informa” di tutta una serie di dati assolutamente nuovi che rischiano di sommergerlo: la prima esperienza, la più grande, la più sconvolgente forse, è quella dell’aria che invade i polmoni e libera l’urlo primordiale dell’ingresso nel mondo: quel pianto non è niente di meno che un’imperiosa richiesta di attenzione, una sorta di grido: “io esisto!” Un Io informe, forse inconsapevole, certo, eppure vitale e punto di partenza per quel processo di integrazione del caos originario verso un sé coeso, pronto a lasciare una traccia significativa nel mondo.

Per quell’Io, nello stato originario di non integrazione, l’esperienza della gravità dev’essere assolutamente difficile da padroneggiare: se non ci fosse la madre a raccoglierlo (ad accoglierlo) fra le sue braccia, riconoscendo il suo bisogno di essere contenuto, sarebbe sopraffatto da sensazioni terrificanti. E così è per l’esperienza della luce, un vortice di sensazioni a cui cerca di far fronte fissando lo sguardo brevemente su forme, sfumature, chiaroscuri, e a cui si sottrae chiudendo gli occhi appena queste superano la sua capacità di tollerarle. Ma la madre è lì, pronta a sorridergli appena riemerge il suo desiderio di luce e di forme vive rassicuranti rispetto alle ombre e ai fantasmi dei sogni. Perché anche il neonato sogna, e lo vedremo più avanti.

Che dire dei suoni? Vi sono vibrazioni così nuove che gli giungono alla percezione! Esse lo sconvolgono per l’intensità, la durata e la configurazione. Alcune si presentano e ripresentano in forme abbozzate in un qualche modo riconoscibili. Non fosse per altro che tali forme lo catturano per l’armoniosità e la piacevolezza. Quella piacevolezza irradiata dalla voce della madre, che gli ha anche permesso un piacevole ritiro nel mondo dei sogni sussurrandogli nenie e cantilene.

Ad ogni risveglio egli si aspetterà la loro presenza rassicurante assieme alla luce negli occhi della madre.

E poi il calore, gli odori, la tensione muscolare che è scatenata dai riflessi incondizionati adattativi e il profluvio di sensazioni corporee le più disparate. Tutto questo lo porterà a sperimentare più tardi il piacere del movimento. Per ora, in questi primi momenti di vita, è solo caos sensoriale davvero quasi indistinguibile. Un tutt’uno con l’ambiente in cui ora è immerso. A differenza dell’ambiente da cui il neonato proviene, questo è molto più carico di stimoli, sensazioni e quant’altro. Il neonato non dispone di alcun principio ordinatore per far fronte alla ridondanza di stimoli cui è sottoposto. Né rispetto alla provenienza, né rispetto al suo interagire con essi [lo stato di non-integrazione (Winnicott, 1970)].

L’attività protomentale del neonato può però verosimilmente attingere ad una primitiva capacità di distinzione fra ciò che è piacevole e ciò che è spiacevole, e quindi registrare gli stimoli come tali. Anzi, a questa registrazione corrisponde anche uno stato di calma o di agitazione: lo stato di benessere attorno al quale si coagula il sentimento di esistere, e lo stato di malessere caratterizzato dai fantasmi di disintegrazione.

Vi ricordate quello che più sopra è stato chiamato “organizzatore psichico”, cioè il vissuto della differenza? Forse quel vissuto ha le sue fondamenta in queste primigenie capacità.

Ecco qui: è di nuovo la madre, che rispondendo al suo sguardo, al suo agitarsi, al suo pianto e al suo sorriso, nel suo semplice, naturale manifestarsi come oggetto vivo e vitale, che piano piano, giorno dopo giorno lo aiuta a fare ordine in tutto questo caos.

Permettetemi una digressione: ho detto “Lo aiuta”! Forse è più prudente dire: “gli permette”.

Di questo bambino che si affaccia alla vita, non abbiamo tante certezze sui suoi bisogni di un aiuto. Teniamo per il momento in sospeso quest’interrogativo.

Potrà sembrare paradossale, ma il neonato non ha una capacità di giudizio per valutare di chi e di che cosa ha bisogno, e tanto meno di chi e di che cosa “può” avere bisogno. In più non siamo neanche tanto sicuri di quello che noi osservatori leggiamo nei suoi occhi: è veramente quello di cui lui ha bisogno? E’ quello che veramente ci sta chiedendo?

Solo sua madre lo sa. Lo sa naturalmente, spontaneamente.

Senza bisogno di farsi tante domande e tanti perché.


La poppata

Prendiamo ad esempio la poppata. Cos’è la poppata se non la sintesi di un universo relazionale dove si condensano tutti i sensi e i significati della vita! Lì si concentra l’aspetto biologico dell’alimentazione di un organismo vivo che tende alla crescita, e soprattutto si concentra l’aspetto vitale di una relazione umana in cui l’identificazione della madre nel suo bambino è totale: nei pensieri, nei desideri e nei sogni di vita del figlio, dove la comunicazione è simultanea e globale. Comunicazione sonora (gorgoglii e verbalizzazioni), corporea (contenimento, calore, presenza, sostegno, protezione ecc.), scambi di sguardi e soprattutto appagamenti emozionali riguardo al benessere reciproco, dove il confine tra l’uno e l’altro quasi scompare. Solo il beato ritiro nel mondo dei sogni del piccolo permette alla mente della madre di trovare uno spazio per il pensiero di un distanziamento (separazione) almeno momentaneo, fisico e mentale.

Questo è un passaggio cruciale: anche il neonato e non solo la madre ha un’attività mentale e non certo riducibile ai chimismi bioelettrici del cervello! Il neonato, infatti, sogna! E usa il ritiro nel sonno, in un mondo dove esiste soltanto la relazione con sé stessi e i propri fantasmi, i sogni, proprio come noi, per sistemare, rielaborare le esperienze vissute e prepararsi al momento in cui ci si riaprirà alla vita di relazione col mondo esterno.

Che cosa avviene nel mondo dei sogni del neonato? Molte, moltissime cose, verosimilmente. Dal processo di una messa in forma delle esperienze sensoriali, corporee ed emozionali. Di cui forse, la più affascinante ha a che fare con il desiderio. Proprio come il senso comune vuole: i sogni son desideri…

Parlavamo del primo vagito come di un’informe ma pur sempre sostanziale affermazione di sé che riempie l’ambiente in cui risuona. Una sorta di statuizione di un rapporto tra il soggetto cui appartiene quel suono e il contenitore che lo rende possibile accogliendolo. Una simultaneità di avvenimenti che vedono l’irrompere dell’aria dentro quell’esserino e l’emissione del fiato che abbozza una vibrazione delle corde vocali, vibrazione che si espande in uno spazio esterno proprio perché a qualcosa di esterno è stato permesso di entrare internamente.

Questo dentro e fuori del respiro e della voce, e poi il dentro e fuori del cibo e dei liquidi, dà forma a un movimento di incorporazione ed espulsione, che statuisce una stretta continuità tra i processi somatici e quelli psichici, predisponendo uno spazio mentale dove troverà posto il “dentro di me e fuori di me”. E proprio come il corpo introietta ed espelle il cibo dopo averlo gustato o dis-gustato, “lavorato”, digerito e assimilato, anche l’io primario vaglia, seleziona e costruisce un’idea di quello che c’è di buono o cattivo “là fuori”. Possiamo pensare sia questo il modo in cui la mente instaura la sua signoria su ogni accadimento del corpo e dell’ambiente.

Il rapporto del neonato con l’ambiente si configura allora come una sorta di creazione di quella dispensa di latte buono, di calore, di contenimento confortevole, di suoni armoniosi, di luci e sguardi rassicuranti. E ciò avviene ogni qualvolta la sua volontà di esistere si manifesta nel desiderio di un appagamento. Quella dispensa di bontà è là solo perché lui desidera che sia là, creata dal suo desiderio, pronta a confermare l’onnipotenza di quel desiderio, che si traduce in una volontà di vita e nel piacere [totalizzante] di esistere. Narcisismo primario lo chiamano gli psicologi, caratterizzato dalla grandiosità del pensiero, del desiderio, che si aspetta la presentificazione e la materializzazione dell’oggetto soddisfacente, sempre a disposizione.

Oh, è qui forse che possiamo intravedere una risposta all’interrogativo lasciato in sospeso a proposito del vero aiuto che la madre può dare al figlio.

E’ qui che la funzione primaria della simbiosi tra madre e bambino esplica tutta la sua potenza: nel permettere appunto al neonato di trovare una conferma al suo sogno onnipotente di soddisfazione del desiderio! Una madre sufficientemente buona, normalmente devota nei confronti del figlio, accoglierà come un incanto i suoi sogni, parteciperà alla sua illusione, si farà coinvolgere dal piacevole e innocente inganno, entrerà nel suo gioco [in-ludere: stare dentro il gioco, per giocare] e ne soddisferà naturalmente il desiderio facendosi trovare là, dove e come lui la sogna, prevedibile e accogliente. Per tutto il tempo necessario alla sua disillusione. Quest’ultima non sarà per nulla un tradimento dei suoi sogni. Sarà un accompagnamento appunto giocoso di quel piccolo onnipotente imperatore, attraverso un lungo percorso di disincantamento verso la costruzione e il riconoscimento di sé stessa come oggetto relazionale.

Si tratta di un processo complicato e difficile, nient’affatto lineare. L’accompagnamento del figlio verso il ridimensionamento del narcisismo grandioso non è un processo definito né automatico. La perdita del narcisismo primario può diventare un vero lutto. Forse per entrambi. Non è sempre facile accorgersi in tempo di quanto succede. E’ difficile anche rendersi conto che i lutti sono inevitabili; e che sia preferibile rielaborarli attivamente sarà una conquista successiva, non scontata.

Di solito in condizioni ottimali o normali, ciò che permette questa rielaborazione è la scoperta del piacere di sentirsi capace di svolgere una parte attiva nella costruzione di una realtà condivisa con l’oggetto relazionale. Un passo avanti rispetto alla staticità della condizione fusionale, dove il rapporto privilegiato è coi propri desideri grandiosi, che sono pure una realtà, ma non condivisibile, non scambiabile.

Una piccola digressione: parlavamo di una madre sufficientemente, normalmente buona, perché come ognuno sa, una madre troppo perfetta correrebbe un grosso rischio rispetto alla costruzione della realtà condivisa.

Nella “perfezione” della condizione simbiotica non c’è bisogno di capire e farsi capire. Il che è un ostacolo al dispiegarsi dell’esperienza di frustrazione del desiderio. Un passaggio difficile, doloroso ma indispensabile, lo vedremo tra poco, per la costruzione di un oggetto esterno, di una alterità distinta da un Io.

L’illusione dell’onnipotenza, la frustrazione della grandiosità, il vissuto della diversità, lo sviluppo della capacità di distinzione, la costruzione dell’Io e dell’Altro: tutto è legato, tutto è in movimento.

Infatti una madre sufficientemente buona sa, e tende preconsciamente e consapevolmente verso l’autonomia del figlio come di una persona separata da sé: solo in questo modo potrà sentire il piacere di quei legami affettivi assolutamente specifici costruiti nella loro particolarissima relazione e che in quanto tali potranno essere conservati. Solo però se riuscirà a sentirlo veramente “altro da sé” e non soltanto “parte di sé”.


Forse qui conviene fare un passo indietro e riprendere il filo del discorso là dove l’avevamo lasciato quando parlavamo di incorporazione ed espulsione: ritorniamo al nostro lattante, ancora immerso nella magia della creazione onnipotente di un oggetto che dovrebbe essere lì apposta per soddisfare il suo desiderio e il suo bisogno di sicurezza.


La réverie

Ai suoi albori il mondo interno del neonato è verosimilmente popolato di fantasmi assoluti che si alternano senza soluzione di continuità, proprio come le sue esperienze protosomatiche (o è tutto luce o è tutto buio, o è tutto sensoriale o è tutto assenza di sensazioni), anche le esperienze protopsichiche sono verosimilmente assolute: o è tutto piacevole o è tutto spiacevole. Senza la consapevolezza del tempo, della regolarità e della prevedibilità della natura, che sarà una conquista lenta. Di là da venire.

Quando il neonato crea e presentifica col suo desiderio, quel qualcosa capace di soddisfarlo nel suo bisogno di esistere, incontra alla fine la frustrazione, intesa come non perfetta coincidenza tra desiderio e soddisfazione dello stesso.

Semplificando fino al rischio di sembrare banale, pongo l’accento sull’importanza straordinaria di questo passaggio. Affinché l’oggetto di soddisfazione del desiderio possa essere pensato come qualcosa di diverso da sé, di esterno da un sé ancorché informe, occorre, e dico occorre, che non sia presente: solo allora può essere appunto pensato e distinto come un qualcosa “davanti a sè” a partire da un sé!

Desiderio, immaginazione, realtà, pensiero, frustrazione sono un magma di emozioni positive e negative sollecitate simultaneamente.

Nel neonato i fantasmi mentali ed emotivi collegati con l’assenza della soddisfazione immediata sono, come ben potete intuire, totalizzanti e hanno a che fare con quella che noi psicologi chiamiamo il vissuto della la perdita o il vissuto della distruzione dell’oggetto.

Anche qui una piccola parentesi: per il neonato l’assenza dell’oggetto desiderato, è una esperienza particolare che non si colloca semplicemente all’interno del naturale processo della disillusione; quella fa parte del gioco a due con la madre, e lo porterà al ridimensionamento del narcisismo primario onnipotente. L’assenza dell’oggetto si configura invece come una vera e propria delusione [de-ludere: essere fuori da un gioco, non c’è più un gioco, non c’è più il piacere del gioco perché non c’è più un qualcosa con cui giocare]. La delusione è una esperienza solipsistica, che mette l’Io in relazione col vissuto della solitudine.

Essenzialmente, per il lattante l’oggetto è investito di sentimenti positivi quando soddisfa il desiderio, ed è investito di sentimenti negativi quando non è immediatamente presente. In quest’ultimo caso l’infante avverte che quanto di buono ha sperimentato in precedenza non c’è più, e il fallimento dell’onnipotenza totalizzante fra desiderio e sensazione di benessere lo costringe a fare i conti con la delusione e l’impotenza. Nel tentativo di dar forma al suo sentire, configura uno scenario apocalittico dove il suo desiderio, in un qualche modo percepito come un desiderio appropriativo, divoratore, ingordo e avido, ha svolto un ruolo determinante. Egli sente che la sua voracità ha introiettato completamente quanto di buono c’era là fuori. L’assenza di risposta, la delusione del suo desiderio, gli presentifica il caos e il fantasma del vuoto di riferimenti. La perdita della sua capacità creativa viene ricondotta all’annientamento di quella fonte esterna di piacere e pienezza.

Ne consegue l’emergere di vissuti caotici e catastrofici relativi alla propria distruttività, la correlativa vanificazione dei suoi sforzi di fare ordine nel tumulto dei sentimenti e infine l’annichilimento del nucleo centrale di quell’Io che non è ancora ben distinto da un oggetto. Per il neonato si tratta di una situazione fuori controllo, senza riferimenti, senza prospettive e fonte di grande marasma.

Da fuori per noi è facile però anche vedere come questo passaggio inevitabile sia anche potenzialmente creativo: l’assenza dell’oggetto gratificante costringe il neonato a pensarlo come oggetto altro, introducendo la distinzione tra sé e qualcosa che non è sé, un qualcosa che tenderà a configurarsi inesorabilmente come un oggetto diverso da sé.

Nel processo di questa costruzione, intervengono anche tanti altri fattori, in relazione per esempio alla sua vitalità e vivacità, alla sua energia motoria, alla sua tensione muscolare (i riflessi reattivi).

Di questi aspetti vitali della corporeità e dei loro effetti fantasmatici ed emotivi, egli ne ha una consapevolezza molto relativa. Per esempio nella sua motilità, ha un ruolo speciale l’aggressività inconsapevole, cioè il fantasma del danneggiamento dell’oggetto. Quando il neonato,alle prese col padroneggiamento del suo corpo, non trova una risposta contenitiva dall’ambiente, si raffigura

un oggetto inadeguato a soddisfare il suo desiderio proprio per questo danneggiamento; così egli sperimenta l’oggetto assente come ostile e vendicativo, intenzionato a punirlo sia per la sua voracità che per la sua aggressività. Lo sente sopratutto come vivo e separato da sé, e per ciò stesso non più sotto il controllo della sua onnipotenza.

E’ quel passaggio cruciale cui accennavamo, difficile e complesso, senza il quale però non può esserci una reale individuazione.

Se l’oggetto è sentito come separato da sé allora il lattante può sperimentare anche la sua reale dipendenza dall’oggetto: un altro passaggio cruciale, un aspetto imprescindibile della realtà nella sua qualità di essere vivente inadeguato e bisognoso.

E non possiamo escludere che questo abbozzo di consapevolezza porti con sé anche un vero odio la propria condizione di vivente. Infatti per il neonato sentirsi vivo e contemporaneamente impotente, è sentirsi sopraffatto dall’esperienza dell’angoscia di separazione. Angoscia che in questo caso contiene anche la violenza dell’annientamento, della perdita del senso di esistere.

Il marasma, la confusione, il cortocircuito dei sentimenti e delle fantasie è globale.

Eppure, se ho questo vissuto così destrutturate dell’angoscia, vuol dire anche che io esisto!

E’ l’accensione di quel sentimento della fiducia di base che entra in gioco, che entra in circolo con la fiducia di base della madre, l’origine della fiducia nel sentimento di esistere anche per qualcun altro!

E questa è l’altra sana funzione della madre, la “réverie” (Bion, 1962). La réverie altro non è se non la naturale capacità empatica di ogni madre di prendere su di sé [con-prendere] i fantasmi angosciosi del proprio bambino. E’ l’innata capacità di accogliere e contenere i suoi sogni paurosi, e restituirglieli bonificati da tutti quei contenuti distruttivi sollecitati dalla perdita dell’onnipotenza, forieri di caos e angosce cosmiche. E’ la mente emozionale della madre, la mente non razionale ma intuitiva, carica di affetti, sensazioni e, appunto, intuizioni empatiche.

Abbiamo già visto nella madre “sufficientemente devota” la propensione all’accoglimento e alla graduale disillusione della grandiosità del suo bambino. Ora vediamo nella madre “sufficientemente buona” l’intuitiva naturale magia della sua capacità di trasfigurazione dei fantasmi negativi del suo bebè in vissuti positivi.

Questa naturale rielaborazione che la madre fa dei fantasmi del neonato aiuterà quest’ultimo a tollerare l’angoscia del vuoto, dell’assenza, della sua distruttività (che come si vede, fa il paio con l’onnipotenza creativa primitiva). La madre prendendo su di sé questi fantasmi renderà fecondo il sentimento di impotenza altrimenti devastante. Con la continuità della sua presenza e della sua disponibilità presentificherà al neonato la possibilità di sopravvivere ai suoi terrori di annullamento. Gli permetterà di riprendere contatto con un ambiente relazionale bonificato dall’angoscia, di costruire “là fuori” un oggetto capace di sopravvivere alla sua aggressività, e, favorendo l’emergere del desiderio riparativo, bonificherà la sua distruttività. Sarà dapprima un oggetto parziale (il seno buono) e successivamente un oggetto totale, completo, dotato di una sua individualità, contemporaneamente simile, eppure diversa dalla sua.

Tutto ciò preparerà il bambino ad assumersi a poco a poco il compito di distinguere tra “verità” e “realtà”, tra la “verità” del suo sentire e la “realtà” di un altro sentire fuori dal controllo onnipotente della sua mente, quello di un oggetto dotato di una propria autonomia. Il pensiero lo aiuterà a costruire una realtà condivisibile, capace di tenere conto delle differenze fra quanto c’è nella immaginazione, nella simbolizzazione mentale, e quanto c’è nel mondo esterno reale e concreto.


L’Altro, il diverso

La “differenza”, la “diversità” e quindi l’”alterità”, come l’”uguale” e il “simile”, non sono quindi fatti puramente cognitivi (quelli verranno più tardi, col raggiungimento e lo strutturarsi della costanza d’oggetto nel processo evolutivo). La differenza e l’uguaglianza sono in primis, originariamente soprattutto vissuti emotivi profondamente radicati nella capacità originaria di riconoscere e distinguere il già conosciuto dal nuovo, sulla base emozionale del piacere/dis-piacere. “Sentire” la diversità è dunque una capacità e ciò la rende un fondamentale, un basilare organizzatore psichico: essa permette in prima istanza la distinzione fra un io e un non-io, un mio sentire e un sentire non mio. In seconda istanza permette la distinzione fra il dentro la mente, la psiche, e il fuori della mente, nella realtà concreta. Infine, permette anche la distinzione fra ciò che prende vita dalle pulsioni, dall’inconscio e dal desiderio pulsionale (narcisistico, tendenzialmente solipsistico), da ciò che è organizzato dalla coscienza, dalla consapevolezza e che è anche comunicabile, condivisibile, appunto “relazionale”.

E come organizzatori psichici primari, l’uguale e il diverso non smettono mai di lavorare dentro di noi, e nelle strutture cognitive consce, e nelle strutture psichiche inconsce.

Non possiamo dunque escludere che continuino a condizionare la costruzione, lo strutturarsi e l’evoluzione del nostro Io. Al raggiungimento della costanza d’oggetto, l’Io svilupperà quelle strutture cognitive che nel suo sforzo difensivo di ricerca di sicurezza (vale a dire “di ciò che è riconoscibile” perché già incontrato”) costruiranno poi la regolarità e la prevedibilità della natura, affidando la salvaguardia della propria integrità al controllo su di essa. E’ forte il sospetto però che sia proprio il perenne e inesausto bisogno di aumentare indefinitamente il controllo sulla natura a rivelare l’inanità dello sforzo.

Su questo punto prende corpo un’apparente singolare coincidenza fra la straordinaria enunciazione di Nietszche circa la necessità della ragione per l’uomo, e il lavoro di Freud sull’inconscio. Il primo scopre che la ragione non è il fondamento nella natura umana ma solo l’estremo tentativo dell’uomo, aggrappandosi ad essa, di sfuggire alla sofferenza causata dall’imprevedibilità delle passioni e degli istinti. Il secondo disvela le ambiguità, le ambivalenze e le contraddittorietà dell’inconscio, sede appunto delle pulsioni più profonde del comportamento umano. Entrambi consapevoli del peccato originale della natura umana, entrambi sospesi tra desiderio e realtà circa il sogno di modificarla.

Quando i pazienti vengono da noi, ascoltandoli, nel lavoro clinico si coglie tutta la loro difficoltà, la fatica e la rabbia per l’assetto relazionale in cui si sentono impantanati. Sopratutto la scarsa efficacia degli sforzi autonomi messi in campo per modificar questo assetto, alla ricerca di un rapporto più soddisfacente con l’Altro. Questo perché l’inconscio, lo dice il termine stesso, è appunto inconscio e non può essere “afferrato” dalla ragione. Anzi, come abbiamo intravisto, la ragione stessa è nata come difesa dall’imprevedibilità delle passioni e degli istinti…

E spesso solo dopo un lungo percorso terapeutico si arriva a comprendere “assieme”, paziente e terapeuta, quanto le difficoltà di relazione con l’Altro siano più difficoltà di relazione con sé stessi, col nostro Doppio, con quella parte di noi nascosta nell’inconscio, con quanto è stato ricacciato nel nostro inconscio: poiché la sua bonificazione non è potuta avvenire a suo tempo, si è reso necessario un lavoro postumo di disvelamento senza scorciatoie, nell’unico modo in cui ci è dato di avvicinarci all’inconscio: nel setting analitico (Semi, 2007)


Franco Ferri settembre 2013

Psicologo psicoterapeuta

franco.ferri@tin.it


BIBLIOGRAFIA


W. BION (1962) “Apprendere dall’esperienza”, Armando Editore, Roma, 2009

R. DESCARTES (1637) “Discorso sul metodo”, in Opere 1637-1649, Bompiani, Milano, 2009

E.H. ERIKSON (1987) "I cicli della vita", Armando Editore, Roma, 2000

F. FORNARI “I sogni delle madri in gravidanza”, Unicopli, Milano, 1979

S. FREUD (1919) “Il perturbante”, in Opere 1917-1923, Boringhieri, Milano, 1977

LOCKE (1690) “Saggio sull’intelletto umano”, Bompiani, Milano, 2004

M. KLEIN (1950) “La psicoanalisi dei bambini”, Martinelli, Firenze, 1970

F. NIETZSCHE (1882) “La gaia scienza”, Rizzoli, Milano, 2000

A.A. SEMI “Il narcisismo”, Il Mulino, Bologna, 2007

D.W. WINNICOTT (1965) “Sviluppo affettivo e ambiente”, Armando, Roma, 1970


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