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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



Il figlio di Edipo.
Un "romanzo" familiare.

di Luca  Trabucco



            Laio...questa sarà la tua sorte:
            Tu morrai per mano di tuo figlio,
            perchè così ha deciso Zeus, figlio di  Crono.

            Sofocle, Edipo Re.

 

Premessa

   Alcuni anni fa scrissi un lavoro (Trabucco e al., 1993) a proposito della funzione della memoria anamnestica in una psicoterapia di un paziente al limite, in cui il pietrificarsi dei ricordi  veniva inteso come una modalità attraverso cui il processo ed il tempo della cura veniva rovesciato in una prospettiva personale del paziente che continuava a fissarlo nel tempo chiuso della nevrosi.
   La storia familiare di quel paziente ricalcava quella di un caso, che io allora ignoravo, discusso estesamente da Green e Donnet in La psicosi bianca.  Oggi vorrei riconsiderare quella storia, alla luce del bellissimo lavoro di Green su La madre morta, quello su citato, oltre a quelli di H. Faimberg intorno al telescopage delle generazioni (1993), e di C. Bollas riguardante fato e destino (1989) .Ma soprattutto vorrei riconsiderarla alla luce degli eventi che sono succeduti alla conclusione di quel po' di psicoterapia che si era potuta fare. Eventi di cui anni dopo sono venuto a conoscenza tramite i giornali, e che consistono  nella notizia del ritrovamento del cadavere del mio paziente nella sua casa dove continuava ad abitare in solitudine. La morte era da attribuirsi a cause imprecisate, ma io pensai immediatamente ad una causa ben precisa, ovvero il dare forma  a quello stato di morte che aveva permeato tutta la sua vita.
 

La storia clinica

   Antonio V. quando venne da me per la prima volta aveva 35 anni, ma ne dimostrava trenta di più. I capelli bianchi, magrissimo, il volto scavato da profonde rughe, piccolo e un po' curvo, molto trasandato nella persona e nel vestire.  Era luglio, e nel periodo che intercorreva con l'inizio delle mie vacanze estive mi dedicai a fare quattro colloqui anamnestici.  Il suo stile ossessivo determinò la stesura di un protocollo dettagliatissimo, rigidamente cronologico, che sulle prime generò in me la sensazione di un racconto così tanto strutturato che mai avrebbe potuto essere disarticolato per poterlo sottoporre ad una elaborazione che avesse un qualche significato terapeutico.
   Chiedeva un aiuto psicoterapeutico in quanto la sua vita era caratterizzata da una assoluta mancanza di relazioni affettive e sessuali, era scontento, si sentiva sempre attaccato ed era sempre perseguitato dalla sfortuna.
   Ha vissuto fino all'età adolescenziale in Calabria, in un ambiente molto povero, arretrato culturalmente, in una famiglia in cui lui è il figlio più giovane, con un fratello ed una sorella più grandi di vent'anni, la madre, il marito della sorella, un nipote suo coetaneo, e da sempre senza padre. Inizialmente vivevano in una casa rurale che constava praticamente di un'unica stanza. In seguito mi racconta di diversi affidamenti a collegi ecclesiastici, in cui veniva tenuto per carità,  dove avrebbe subito molestie sessuali da parte dei religiosi, e dove peraltro veniva abbandonato, in quanto i suoi parenti non lo andavano mai a trovare, nemmeno in occasione delle feste natalizie, o di eventi quali la prima comunione.
   Questo racconto della sua infanzia è intercalato da immagini che si distaccano dallo stile peculiare in cui si esprime, immagini che hanno un sapore quasi poetico, enigmatico, altamente visive, sembrano fotografie quanto plasticamente si materializzano nella mia mente. Tuttavia, come fotografie, saranno proprio di queste immagini che durante il corso del trattamento non si riuscirà mai a cambiare alcun aspetto. Immagini di un passato pietrificato. Ne cito alcune. Il mulino del suo paese, il ricordo della cosa più grande che abbia mai visto. Un circo che viene montato sotto la pioggia, e che lui si incantò a guardare per una intera mattinata, dimenticandosi di andare a scuola; motivo per cui venne dapprima lasciato fuori casa tutto bagnato, e successivamente legato ad una sedia per un'intera giornata. Un grandissimo, imponente gelso, che dava more bianche squisite.
In seguito, quando ebbe l'età per lavorare, iniziò a girovagare per l'Italia e per l'Europa passando da un'occupazione all'altra, sempre solo, senza significativi contatti affettivi con nessuno.  Da qualche anno si è stabilito in un paese dell'entroterra genovese, dove svolge una modesta attività di ristoratore.
   Poco dopo l'inizio del trattamento volle mettersi sulle tracce di suo padre, che era scomparso, senza che mai fosse stato dichiarato ufficialmente morto. Questa curiosità sembra nascere nella speranza di trovare una figura mitica che finalmente si occupi di lui (forse come per la prima volta sente che io sono qualcuno che si occupa di lui).  E così mette sotto pressione la madre, i fratelli, e infine viene a conoscenza della verità: lui è nato da una relazione della madre con il genero, che in quell'epoca ebbe così due figli, uno dalla moglie e uno, poco dopo, dalla suocera.  Questa rivelazione  genera in lui  una reazione molto debole, come se questo fatto non aggiungesse gran che al suo destino già segnato e sperimentato fino a quel punto della sua vita; se mai una reazione era individuabile è stata quella di una rivendicazione, in ragione della colpa che i suoi familiari avevano nei suoi confronti, e che nessuno si è occupato di riparare.   I rapporti con i suoi familiari non cambiano di molto, l'unico parente con cui mantiene un rapporto più "vicino" è un nipote, in realtà anche fratellastro, che è da anni in carcere in quanto ha ucciso la moglie infedele soffocandola con un cuscino; loro si scrivono regolarmente.
   Il lavoro psicoterapico andrà avanti per un paio di anni, con un incontro settimanale; riesce a rendere più stabile la sua vita, a tenere  in piedi la sua attività, e a realizzare dei rapporti di amicizia nel paese dove si è stabilito. Infine decide di interrompere, pensando che più di così non potrà fare nella sua vita, e grato per l'aiuto che gli ho offerto.
   Spesso, negli anni successivi alla nostra separazione, mi manda gli auguri per le feste: lui non si dimentica e non mi lascia solo.

§  §  §

   Questa in breve è la situazione  clinica, gli elementi dell'anamnesi, la conclusione. Ora resta solo il mio ricordo di questo incontro, e il desiderio di ripensarlo, per capire di più, confidando che la sua gratitudine fosse autentica.
 

Alcune considerazioni

   Ho ripensato tante volte ad Antonio, sia quando era ancora vivo, che dopo. E sempre più si è costruito nella mia mente un romanzo, che non penso sia solo frutto della mia fantasia, ma provenga da quel lento elaborarsi di ogni esperienza di vita che confronta con i limiti estremi della nostra vicenda, e che nasce sempre dall'incontro con l'altro, e da quello che l'altro lascia indelebilmente dentro di noi.
   Un romanzo che si intreccia e sorge dal ricordo di quello strano racconto che è stato il nostro incontro "terapeutico", caratterizzato da un clima frequentemente pesante, in ragione della sua modalità stereotipata ed anaffettiva di esprimersi, che non lasciava avere quasi nessuna speranza.  Sembrava che Antonio non avesse nulla da scoprire di sè, ma non in ragione di una sorta di onniscienza megalomanica, ma in quanto sembrava proprio che non ci fosse nulla, non ci fosse che il nulla nel bagaglio della sua vita, se non dei problemi tecnici di sopravvivenza nei rapporti.  Eppure sentivo al fondo del suo rapportarsi a me un elementare slancio affettivo, tenace al di là di ogni aspettativa che si potesse avere in funzione del suo particolare modo di vivere il rapporto.  Come una speranza nascente e contemporaneamente immediatamente abortiva, ma subito di nuovo ripresa, e tenuta in vita come appesa ad un filo.  Filo che forse non si poteva nemmeno toccare se non con il rischio di spezzarlo definitivamente.
   Se da psichiatra dovessi pensare di stabilire una diagnosi mi troverei veramente molto in imbarazzo, e forse l'unica  che mi azzarderei a formulare sarebbe quella di una struttura ossessiva, ma non per i suoi contenuti profondi, ma solo per la sua organizzazione, come un'impalcatura di tubi Innocenti costruita intorno ad un edificio fantasma; e pure un'impalcatura a maglie molto larghe.
Non riuscivo a trovare un reperto di una vitalità di fondo, un elemento che testimoniasse di una emozionalità da restituire comunicativamente, nemmeno un delirio o un'allucinazione, indizi di un'attività basilarmente organizzativa di qualche cosa anche di essenzialmente invivibile.   Antonio non era come il Cavaliere Inesistente di Calvino, che benché sotto la sua corazza non avesse un corpo, poteva tuttavia tendere spasmodicamente verso la vita e le passioni. A lui sembrava che la vita e le passioni fossero statutariamente precluse.   Le cose di cui si lamentava erano banali, in certi momenti francamente noiose.
   Eppure Antonio mi ha portato molto materiale, non solo nell'anamnesi, ma anche successivamente, durante il corso dei nostri incontri. Ma forse proprio solo di materiale si tratta, come un manovale che porta mattoni di qua e di là, sa cosa sono i mattoni, ma è come se non avesse la più pallida idea di cosa potranno andare a costruire.
   E' così che, tuttavia, dentro la mia mente si è andato costruendo il romanzo, attraverso i suoi personaggi.
 

Il "romanzo".

   Roberto V., 44 anni.  Vive oramai da alcuni anni in una piccola casa composta da una stanza e una stalla a circa un chilometro dal paese.  Si era sposato a vent'anni con Costanza, di sedici anni, figlia di un amico di suo padre.  Qualche anno dopo erano nati i loro due figli, Luigi e Assunta, ma lui non era stato capace di mantenere le aspettative che il suocero aveva nei suoi confronti, doveva diventare il braccio destro di don Pasquale, il boss della zona, ma non ne aveva la stoffa, gli aveva detto il suocero dopo un po'.  Così gli aveva regalato quella casetta, che lui aveva riadattato ad abitazione, e vi aveva portato la moglie e i figli, se non dopo averlo maledetto, e minacciato di tremende vendette per avergli "rubato" la figlia.  Costanza ogni giorno inveiva contro di lui, si lamentava del fatto che tutte le sue sorelle avevano fatto una vita diversa, una addirittura si era trasferita nel capoluogo, tutti avevano i soldi. Ma Roberto non sapeva mai cosa rispondere, perchè quando aveva provato a farsi le sue ragioni Costanza si era rivolta al padre e per tutta risultanza ne aveva ricavato una gragnuola di legnate propinategli dai cognati.  Lui sapeva solo che ormai si sentiva come incapace di aprire bocca, di pensare delle risposte ai quotidiani insulti, cercava solo di passare più tempo possibile sui monti a pascolare le capre, lasciando anche i lavori dell'orto a Luigi e alle donne.  Una volta i famigliari, esasperati dalla sua assenza, e rivendicando il fatto che lui non era mai ad aiutare per i lavori di casa, lo cacciarono dentro la latrina del cortile, e lo lasciarono a dormire fuori, con i polli. Assunta aveva ormai sedici anni, e la madre continuava a rinfacciargli che mai si sarebbe sposata, essendo figlia sua. Lei a sedici anni aveva avuto la disgrazia di sposarsi con lui, ma almeno si era sposata. Aggiungeva sempre, dentro di sè, che senz'altro avrebbe fatto meglio a rimanere presso al padre.  Fu Luigi che presentò in famiglia un amico, che poi decise di sposare Assunta, l'anno dopo.  Glielo annunciarono: "Assunta sposerà Giovanni A., fra tre mesi".  Ma come tutte le cose della vita che non riguardavano le capre e i monti intorno al paese, anche questa gli scivolò addosso, senza lasciare traccia apparente.  E Giovanni si stabilì nella sua casa, e nell'unica stanza che la sera veniva divisa da una tenda si ritrovarono in cinque a condividere lo stesso tetto. Di notte sentiva quanto Giovanni  fosse virile, ma anche questo non suscitava nulla dentro di lui, e nemmeno quando anche questo elemento venne usato da Costanza per ridicolizzarlo, facendo dei paragoni con il giovane genero, ebbe alcun sussulto.  Non aveva nemmeno l'idea di potersi avvicinare alla moglie, aveva paura.  Anche Luigi lo scherniva nel confronto con il genero, che per lui era diventato una specie di divinità; aveva preso l'abitudine di non guardare più nessuno in faccia, e procedeva di fronte a quelle continue ingiurie guardandosi la punta dei piedi.  Quando Assunta rimase incinta sentì atmosfera di festa in casa, e sentiva Giovanni gloriarsi e proclamare che d'ora a quando il bambino fosse nato non avrebbe più toccato la moglie.  Di notte ormai lui dormiva in un angolo vicino alla porta, lontano più possibile da tutti, come pronto a scappare.  E in quelle notti dopo la notizia della gravidanza della figlia, sentì che ancora accadevano delle cose, dapprima pensò che Giovanni non mantenesse quanto diceva, ma ben presto si accorse che l'oggetto delle sue attenzioni era Costanza, sua moglie.  Si vergognava, e quando con non tanto celate allusioni Giovanni lo mortificava mostrandogli la sua nuova conquista, aveva paura, e forse gli sarebbe anche venuto da piangere, se ne fosse stato capace.  Poco dopo, alcuni mesi, fu inequivocabile che anche Costanza era incinta, e lui sapeva bene di chi.  Gli veniva in mente suo padre, quando lo pestava dicendogli che non sarebbe mai diventato un uomo, e solo perchè non conduceva bene il mulo...avesse saputo...Ma subito lo dimenticava: era morto.  Passarono alcuni giorni senza che lui provasse nulla, forse solo qualcosa come se si sentisse in colpa. E un pomeriggio, quando il sole iniziava a tramontare, di ritorno dal pascolo delle capre, passando accanto alla grande rupe che pochi conoscevano, perchè per arrivarci bisognava passare un valico nascosto nel bosco, fu preso da una sensazione di peso, e di tristezza. Gli tornò in mente il senso di trionfo che provò quando ebbe Costanza, trionfo su don Attilio, che la teneva tutta per sè.  E ora...E poi è riuscito anche a metterla incinta, due volte, e i suoi figli... Era la prima volta che si sentiva triste, e non ce la faceva.  Allora, rapidamente, in silenzio, si buttò giù dalla rupe.

*  *  *

   Costanza V.   Sembrava, quando si era sposata, che avrebbe fatto molta strada nel paese, e forse, chissà, sarebbe andata anche nel capoluogo, dove un cugino era in affari. Era figlia di don Attilio!  E invece Roberto si era dimostrato un mezzo uomo.  Il padre di Costanza ci aveva fatto affidamento, ma era stato tradito.  Le aveva dato due figli, e la piccola Assunta era così bella!  Certo ancora altri uomini la guardavano, ma non osava nemmeno pensare di poterci andare insieme, perchè se il padre lo avesse saputo l'avrebbe senz'altro maledetta.  E aveva sempre avuto paura del padre, paura e desiderio che guardasse solo lei, che non perdesse tempo con quel relitto di donna che era sua madre, e nemmeno con le sue sorelle.  Non pensava nemmeno a cosa poteva dire o fare Roberto, lui aveva paura, paura di tutto, quindi anche di lei, e di suo padre e dei suoi fratelli.  Ricordava bene come lo aveva fatto conciare quando aveva provato a lamentarsi!  Veramente era per lei molto eccitante che tutti i paesani che passavano vicino a quella stamberga che Roberto si era meritato, la guardassero con desiderio, e lei certo non lo nascondeva...però giammai avrebbe potuto tradire la fiducia di suo padre.  "Lo hai sposato, e guai a te se te lo dimentichi", quel giorno le aveva detto.  Ormai Roberto serviva solo come pastore, la fatica dell'orto e dell'aia lo lasciava a Luigi e a lei.  Assunta faceva la signorinella, ma lei ogni tanto sapeva come fare a raddrizzarla, visto che non ci pensava il padre.  Oppure ci pensava Luigi, che oltre a tutto le aveva fatto conoscere Giovanni.  Come era bello, forte, sicuro. E sembrava anche molto maschio. Invidiava sua figlia.  Era giovane e fresca, aveva la pelle giovane, lei a trentasei anni iniziava ad invecchiare, le rughe, e i capelli non erano più quelli di una volta.  Giovanni aveva allora venticinque anni, e si era conquistato l'ammirazione incondizionata di Luigi, perchè pare che avesse eliminato un rivale scomodo di don Pasquale...chissà se era vero?  Certo non aveva paura di nulla, non era come Roberto, che sembrava più una lucertola che un uomo.  Forse in montagna andava con la capra, scherzavano insieme a  Giovanni, ma lei lo pensava davvero.  Quando passava in paese, Roberto, don Pasquale sputava per terra, e anche suo padre, e lei si vergognava e lo odiava, avrebbe voluto ucciderlo, e avrebbe voluto uccidere suo padre che glielo aveva fatto sposare, aveva permesso di farsela rubare, e avrebbe ucciso sua madre che non le aveva insegnato come fare a scegliersi un uomo.  La colpa di questo matrimonio ricadeva su tutti.  E poi gli uomini del paese guardavano sua figlia, anche lei, ma guardavano sua figlia.  Lei si sentita finire, sentiva di aver perso tutto, odiava tutto ciò che la circondava, amava l'immagine di Giovanni.   E sposa Assunta, Giovanni. E abita nella loro casa. La sera, dietro la tenda, sente tutto quello che avviene, che quasi non ricorda più, perchè non ha più un marito, e non può avere gli altri.  Sente e piange, e si eccita e maledice la figlia, il marito, il padre, la madre, Dio.  E di giorno come niente fosse, scaricando tutto il suo rancore su Roberto, ma cercando di scoprire se Giovanni almeno uno sguardo su di lei lo getta.  E ogni tanto mentre lavora nell'orto, le sembra di scorgere delle occhiate.  E quando si lava lascia sempre la tenda un po' discosta per cercare di farsi scorgere, di attirarlo.  Ma le sembra tutto vano, tutto un'illusione. A lei mai nulla di bene.  Assunta resta incinta, e deve far finta di essere felice.  Luigi sembra impazzito dalla gioia di avere un nipote, forse perchè lui assomiglia un po' al padre e non avrà mai una donna.  Giovanni è un uomo d'onore, dice che non toccherà più Assunta fintanto che il bambino non sarà nato.  E allora lei lo provoca la sera.  "E anche stasera andrai in bianco!  Magari farai da solo, vero?".  Giovanni è un uomo e una sera, mentre Assunta dorme, esce fuori dalla tenda e si infila sotto la sua coperta.  E anche la sera dopo, e così per un po'.  Un giorno sente Assunta piangere, e delle urla, e quando le si presenta viene insultata, sua figlia le si avventa contro.  Giovanni ride, un po' in disparte, guarda Luigi, che sembra non capire.  Ma cosa credeva questa sgualdrinella, che un uomo come Giovanni non si accorgesse che anche lei era una donna, e che donna!  In fondo tutto quello che è successo è colpa di Roberto, che se fosse un uomo non l'avrebbe lasciata in quello stato.  E comunque queste sono cose che si risolvono, in famiglia si risolvono.  Basta tacere.  Persino Roberto se ne è accorto, ma non ha avuto l'ardire di dir nulla, ovviamente.  Passerà la burrasca, ma intanto lei ha avuto quello che voleva, e anche Assunta si è rassegnata, in fondo meglio così che se le facesse le corna con una del paese, che certo tutti lo avrebbero saputo.  Però poi anche lei era rimasta incinta, e non poteva certo andare da una mammana del paese, e nonostante tutti i suoi tentativi questo figlio non abortiva.  Doveva stare chiusa in casa, non farsi vedere, dire che il figlio era di Roberto.  Ma chi ci avrebbe creduto, che Roberto fosse in grado di fare qualcosa del genere?  Non poteva farsi vedere dagli uomini, Giovanni non andava più nemmeno con lei, il padre... Giovanni sotto sotto, lo si vedeva bene, gongolava, si considerava un eroe, un mito maschile, e forse aveva ragione! Ma il suo odio riprese più forte di prima, odiava tutti ora, proprio tutti, anche Giovanni e quel dannato figlio che si portava in grembo.  E il padre, che quando seppe non le rivolse più la parola, e morì senza averla perdonata.  Il suo nome in paese era stato leso, non poteva più guardare nessuno dritto negli occhi, come un uomo d'onore, anche se nessuno sapeva nulla. E quel disgraziato di Roberto che sparisce nel nulla, non ritorna più, perde le capre.  Quando Antonio nasce dice che è figlio di Roberto, all'anagrafe.  Giovanni riesce ad avere abbastanza soldi per trasferire tutti in un altro paese, e poi nel capoluogo.  Antonio lo affida spesso ai frati, non lo vuole vedere, se potesse non lo vorrebbe vedere mai più.

*  *  *

   Giovanni A. quando conosce Luigi ha ventiquattro anni.  Però anni prima aveva conosciuto Roberto, suo padre, poco prima che si sposasse con Costanza.  E questo ricordo aleggiava nella sua mente come un'ombra, ora terrifica, ora eccitante.  Tra loro ragazzini si sapeva che Roberto era un po' strano, e un giorno, su un sentiero lo incontrò da solo.  Lui era gentile e lo invitò a giocare con lui, e lo spogliò...Non voleva ricordare più altro, anche se a momenti quelle immagini lo assalivano in una sorta di eccitamento rabbioso.  Ora che aveva affermato dinanzi a tutti che lui era uno dei più forti ragazzi del paese, poteva andare quasi a sfidare quell'ombra, che peraltro nella realtà di quella figura gli sembrava ben misera cosa.  Ma in fondo si sentiva annullato da quell'episodio, come un buco al fondo del suo essere.   Ed era contento di trovarsi davanti a qualcuno che gli aveva fatto male così tanto e vederlo ridotto così.   Però voleva essere lui  a fargli il male più  grande.   Avrebbe potuto ucciderlo, un colpo di coltello la sera, e chi lo avrebbe disturbato?   Ma voleva fargli più male, voleva la vendetta per tutti quegli anni passati con quel tarlo nel cuore.  Da allora aveva paura a guardare suo padre, il suo bene più grande.  Perchè sua madre non lo amava molto, era gelosa, forse avrebbe voluto una femmina...o lo avrebbe voluto tutto per sè, ma quel suo fare..."Giovanni, mi raccomando, pensa a mamma tua!"  Lui voleva essere un uomo, non un lattante. E a un certo punto sua madre gli aveva voltato le spalle.  Destino vuole che la figlia di Roberto è una bella figliola, lui non ha bisogno di dote, se la prende, e poi si prende anche Costanza...davanti a Roberto che non dice nulla.  "Soffrirai verme, quanto hai fatto soffrire me.  E se provi a dire qualcosa un bell'argomento ce l'ho per farti tacere, frocio!"  E si è messo a tacere per sempre.  Costanza gli ha chiesto di andarlo a cercare, lui, dopo qualche giorno lo ha visto in fondo alla rupe, ma non ha detto nulla.  Ha da pensare a suo figlio, Giuseppe.  L'altro, Antonio, che sia maledetto.

§  §  §

   Assunta V.  Cresce col desiderio di essere come le altre bambine.   Avere un padre di cui gloriarsi, pieno di attenzioni verso di lei.  E invece non lo ha, anzi peggio che non averlo, è da vergognarsi.  Quando da ragazzina conosce Giovanni, così più grande di lei, nove anni - un uomo!- pensa di aver trovato quello che ha sempre cercato.  E continua ad esserne sicura anche in seguito, perchè Giovanni è un vero uomo.  Lei sa che va con altre, più grandi di lei, e magari anche di lui. Ma è un uomo.  Poi lo ha anche minacciato, se la tradiva ancora, di cose tremende, che  non avrebbe mai messo in pratica.  E sua madre si comportava come una bambina, faceva le "mossette" a Giovanni.  E Giovanni è un uomo.  Il fatto che lui potesse andare con chi voleva la faceva ingelosire, ma anche la riempiva di orgoglio: ecco l'uomo che aveva sempre sognato.   Hanno avuto Giuseppe, che è cresciuto e ha trovato modo di spezzarle il cuore.  Lo aveva sempre tenuto vicino a sè, pulito, era suo.  Lo aveva fatto lei, come mai era andato con quella donnaccia che infine, naturalmente, lo ha tradito, brutta puttana.  E si è fatta ammazzare da lui, il suo piccolo Giuseppe.   Ora sta per trent'anni in carcere, si è fatto beccare dai carabinieri.  Ma ha fatto bene ad ammazzarla, era una donnaccia, glielo aveva sempre detto.  Ma già, lui, che un po' aveva anche studiato, voleva fare di testa sua.
 

Edipo portatore del destino dei suoi padri

     Descrivendo le vicende di questi personaggi, mi sono attenuto, per quanto ho potuto, a dei dati che in vari modi Antonio mi ha fornito.
     L'altro referente, importante, a cui mi sono chiaramente rifatto, è il mito di Edipo, dai testi di Sofocle -Edipo Re, Edipo a Colono- oltre alla sintesi di Kerenyi (1963).
     Come alcuni autori hanno sottolineato -Devereux (1953), Rascovsky (1973), Faimberg (1993c)- Freud ha dato una lettura parziale del mito di Edipo, centrata sulle urgenze pulsionali del bambino, e trascurando completamente la "costellazione edipica" (Faimberg, 1993c), ovvero le premesse e la dialettica che portano Edipo al suo "complesso": le istanze figlicide di Laio e Giocasta (Rascovsky) e la menzogna e il segreto forieri di mancata crescita mentale e di angosce impensabili (Faimberg, Racamier, Bion).
     Come osservano gli autori citati sopra, pur partendo da differenti ambiti teorici, e in epoche diverse, non si può considerare il mito di Edipo senza una considerazione attenta di tutte le determinanti che lo condizionano.
 
 

            Edipo:  Infatti, dimmi, se mio padre un giorno
            apprese da un oracolo che i figli
            suoi lo avrebbero ucciso, ti par giusto
            di attribuire l'omicidio a me,
            non generato ancora da mio padre,
            ne' concepito da mia madre, a me
            inesistente?

            Sofocle, Edipo a Colono.

   Nella prospettiva freudiana, come osserva la Faimberg, Laio "si vede come uno che uccide in un gesto di autodifesa.  Da questo punto di vista, Laio è il figlicida di un parricida" (1993c, p. 191).   La vicenda è interpretabile in una prospettiva che tenga conto da un lato dei desideri inconsci del soggetto -Edipo- e delle sue vicende pulsionali, ma che dall'altro tenga conto del modo in cui egli è stato figlio di quei genitori, in che modo la relazione tra le generazioni sia stata riconosciuta o disconosciuta, in ragione delle angosce fondamentali dei genitori, e della loro possibilità di riconoscere e preservare l'alterità del figlio.
     La valutazione del mito in una prospettiva transgenerazionale permette di valutare il modo in cui il non superamento di nodi fondamentali  della crescita individuale si ripercuota di generazione in generazione, e come, se questo fallimento è troppo radicale, porti ad una conclusione inevitabilmente tragica.
     In particolare nella genealogia di Edipo ciò che a me sembra fondamentale è l'agire su di un piano di negazione la fondamentale angoscia legata al tempo, che viene concretamente rappresentato dal salto generazionale e dalla alterità del figlio rispetto alle aspettative narcisistiche dei genitori.
     La negazione del tempo e delle differenze generazionali comporta l'instaurarsi di un meccanismo perverso che non permette l'accettazione del limite e quindi la formazione di uno spazio mentale in cui possa dispiegarsi il pensiero.
     In questo senso la maledizione oracolare può essere vista come l'irruzione dell'ineluttabilità del reale che si impone inevitabilmente sulle pretese della perversione narcisistica: "Così vuole Zeus, figlio di Crono": il tempo (Crono) avrà il suo corso, i figli succederanno ai genitori.   L'identificazione narcisistica del genitore nel figlio non potrà sussistere, se non tragicamente, attraverso la soppressione dell'identità del figlio.   I figli si separeranno, anche se questo rappresenterà la morte -narcisistica- dei genitori.
       L'intollerabilità della realtà del trascorrere del tempo viene rappresentata nel racconto del mito nella costante tendenza "figlicida": I discendenti degli dei si trovano spogliati del carattere di onnipotenza e di eternità dei loro "avi".  Devono combattere con la realtà di essere mortali, di sottostare alla legge del tempo, persecutoriamente rappresentato come un padre che divora i propri figli.  L'immagine infantile del genitore "Dio onnipotente ed eterno" e di un sè alieno dalla morte viene in realtà ben presto a cadere.
   Da Zeus discende Tantalo, il cui figlio, Pelope, che egli cercherà di sopprimere, adotterà Laio, il quale, a sua volta è figlio di Labdaco, discendente da Cadmo e Armonia. In entrambi i casi abbiamo una discendenza divina.
   Un'altra caratteristica di queste discendenze sembra essere la impossibile coesistenza di padre e figlio: Laio perde il padre Labdaco all'età di un anno.  Il suo sostituto, Lico, lo scaccia vendicativamente da Tebe.   Il figlio ha "ucciso" il padre, il quale tornato sotto altre spoglie, lo scaccia.  Ma anche col padre adottivo Pelope le cose non andranno semplicemente: se questi fu fatto a pezzi e cotto in un caldaio dal padre Tantalo, suscitando le ire del "nonno" Zeus, una volta resuscitato da Rea e sposata Ippodamia, ha un figlio, Crisippo, che è in realtà identico a lui.
E' solo stabilendo questa identità assoluta che una convivenza "narcisistica" è possibile.
   Ma naturalmente queste problematiche non riguardano solo il rapporto padre-figlio, ma anche il rapporto "eterosessuale".
   Così abbiamo per esempio Ippodamia che odia il figlio Crisippo avuto da Pelope, in quanto quest'ultimo l'ha strappata al padre Enomao, che la amava come una moglie.
   Laio diviene precettore di Crisippo, ponendosi così come  figura paterna  sostitutiva,   si  innamora
di lui e lo rapisce, meritandosi la maledizione di Pelope: "Se avrai un figlio, morrai per sua mano".
  Quindi Laio sposa Giocasta, anch'essa amata  dal padre  Meneceo come  una  moglie;   per    averla
uccide il suocero, uccide un padre per avere la madre.
   Le vicende si ripetono nell'ordine della negazione del salto generazionale e  dell'accettazione  della
separazione.   I personaggi si muovono sempre in un intreccio continuo, determinato dalla loro ambiguità, di istanze figlicide e parricide.
     In una dimensione narcisistica è accettabile solo l'onnipotenza.   Per preservare questa dimensione la realtà deve essere negata.   La caduta dell'onnipotenza non può che generare le più radicali contromosse, come la creazione di figure che contengano l'eternità.   La combinazione di un genitore unito al figlio crea una figura dove passato e futuro sono compresenti e fusi, permettendo di sostenere l'illusione dell'eternità.
     La filiazione che è rappresentata è sempre una  "filiazione narcisistica",  che "funziona ... a partire
dal mito dell'unicità delle origini, ignorando la differenza dei sessi" (Guyotat, 1980, corsivo mio).
     Ribellione contro la legge del tempo, e quindi negazione del salto generazionale; mito dell'unicità
delle origini, e quindi negazione della differenza dei sessi, della cesura e del  bisogno,  configurano un universo perverso volto a controllare, attraverso una  modalità  "psicotica",  la negazione,  ciò  che è impensabile: la morte.
     E' di fronte a questo nodo ultimo - o primo - della conoscenza che si pone l'alternativa tra pensiero e non-pensiero (Bonasia, 1997),  e che nel mito è rappresentato dall'accecamento di  Edipo:
accecamento per privilegiare la visione interiore su quella esteriore, come vorrebbe Rascovsky (1973), o accecarsi perchè il carico della verità è troppo elevato per tollerarne la vista?
     Date le premesse da cui parte Edipo propendo per la seconda ipotesi.
     E' pur vero che con Edipo per la prima volta nel corso della sua genia si ha un mutamento d'accento: egli lotta per modificare il suo destino, e può lottare, come acutamente osserva Rascovsky, in quanto si prospettano nella sua esistenza le presenze di Polibo e Merope, i buoni genitori, che lo accolgono, e sono tra loro legati e col loro legame pongono quei limiti alla pulsionalità infantile che spingono verso l'esogamia.
     Tuttavia il carico transgenerazionale che pesa su di lui non gli permette di sfuggire al suo destino.   L'identificazione con i cattivi genitori idealizzati, Laio e Giocasta, lo tiene avvinto all'endogamia, in ragione della modalità difensiva basata sulla negazione, che non permette la creazione di uno spazio mentale ove elaborare le angosce e sviluppare pensiero.   L'accecarsi di Edipo mi pare che si possa mettere in rapporto proprio alla coartazione dello spazio mentale dove non c'è spazio per "vedere".
     Se Laio è un padre figlicida perchè si difende da un figlio parricida, significa un padre che non ha lo spazio mentale ove accogliere e tollerare l'aggressività del figlio.   Nel dramma di Sofocle mi sembra significativo che l'incontro fatale tra  padre e figlio  avviene sul  passo del monte  Citerone,  e l'occasione  dello scontro nasce proprio in funzione del  fatto che non c'è spazio per  entrambi.     La relazione primaria tra madre e figlio non ha trovato un padre capace di spostarla in uno spazio tridimensionale, creando un campo in cui i moventi di amore e di  odio potessero  stemperarsi   l'uno nell'altro.   Tutte le relazioni restano così bidimensionali, e quindi il conflitto non mediabile, in quanto non collocabile in uno spazio.   Assenza di spazio determinato dal fatto che  Laio,   in quanto figlio, ha realmente già ucciso il padre, così come ha già ucciso il figlio, che dentro di sè crede morto.
   Così Giocasta non può difendersi dal desiderio incestuoso del figlio, perchè al proprio desiderio si è già sottomessa nella sua relazione come figlia incestuosa col padre Meneceo.  Non esiste spazio per la simbolizzazione laddove l'atto si sostituisce al pensiero.
    Dalla relazione tra Edipo e sua madre Giocasta nascono due figli e due figlie.   I due figli, Eteocle e Polinice, maledetti dal padre Edipo, per ottenere il potere su Tebe, il regno del padre, si uccidono a vicenda.
 

Considerazioni sull'Edipo e il transgenerazionale.

     Nel "pensare immaginativamente" ai personaggi della storia di Antonio, mi sono attenuto anche ad un altro concetto conduttore: un relativo rovesciamento di prospettiva di questa storia rispetto alla tragedia sofoclea.  Rovesciamento che individuo nel fatto che mentre Edipo è una figura tragica, nel senso che rappresenta l'uomo in lotta con tutto ciò che non dipende da lui, col Fato sovrumano, ovvero col non-essere, Antonio è il risultato del fallimento della lotta per trovare soluzioni al conflitto col proprio non-essere. In questo senso, viceversa, si situa ancora in accordo col mito, realizzando la fine a cui sono destinati i figli di Edipo e Giocasta, di distruggersi e restare sterili.
     Mettere in atto il proprio Fato dipende direttamente dalla situazione di mancanza di verità in cui si muove tutta la vicenda.   Lui non sa, e per preservare quello che "crede di sapere", che Polibo e Merope siano i suoi genitori, entra in un conflitto tragico con la realtà.
     Con la bugia (v. Bion) si creano le condizioni di mantenimento di una realtà posticcia, simbiotica*, di non-pensiero e di assenza di crescita mentale.
     Nell'ambito della storia che sono andato costruendo, l' "anamnesi" familiare di Antonio, mi sono reso conto che una delle caratteristiche che più insistentemente si presentava alla mia mente era l'assenza di cambiamento, il funzionamento secondo il principio della coazione a ripetere, della categoria allucinosica dell'eternità, ovvero il "mettere l'orologio indietro" (Bonasia, 1988).   Mi si configura un tempo il cui orologio ad ogni scatto della lancetta compie un giro completo, per cui è sempre la stessa ora, e si riparte sempre dalla stessa ora.   Immagine profondamente diversa da quella che mi si associa, per contrasto, tratta da "Il posto delle fragole" di I. Bergman, in cui nel sogno del protagonista compaiono orologi senza lancette, a segnalare la fine del tempo, la fine della vita.   In quest'immagine la realtà della morte che si avvicina permette, essendo affrontata, di poter guidare il protagonista verso il recupero degli affetti e dei legami.   La categoria allucinosica dell'eternità è volta alla negazione della verità, alla negazione del progresso della vita verso la morte.   Ogni cambiamento è catastrofico in quanto l'accettazione del divenire comporta l'accettazione della fine, che non è il fine.   Si sa, in questo senso, quanto sia indicativa, nel corso del processo terapeutico, la comparsa della consapevolezza della temporalità (De Simone Gaburri, 1979; Meotti, 1980), indicatore della possibilità di elaborazione depressiva della propria esperienza.
   Il percorso trans-generazionale che ho pensato riguarda quattro generazioni (o tre e mezza?), comprendendo Antonio, ma fra di esse ciò che si costituiva era solo un processo di ripetizione, un'assenza di storicità, sostenuta dalla fondamentale negazione della temporalità, che viene perversamente esclusa ed elusa onde evitare il confronto con ansie impensabili.   Per questo in epigrafe ho sottolineato la dipendenza primaria della tragedia da Crono.
     Il tempo è separazione della continuità, è quindi simbolo e testimone della separazione (Green, 1990a, b) ed è su questa base che il soggetto si costituisce come individuo separato: "La presa di coscienza è sempre in rapporto con gli elementi di questa griglia cosciente [data dai "tempi forti" o "marcatori evenemenziali" rappresentati da nascita, Edipo e scena primaria, separazione dalla famiglia, adolescenza ecc.] e strutturata dalla griglia dei fantasmi originari.   Essa permette di situarsi nella propria storia personale, familiare e sociale e di scoprirsi come soggetto" (Green, 1990b, p. 970, trad. mia).
     Mi sembra che la figura che si può ritrovare come un fil rouge nella genealogia dei miei personaggi sia quella del "genitore narcisistico": "...se i genitori, nei confronti del loro bambino, hanno un rapporto di odio narcisistico figlicida (o di erotizzazione narcisistica incestuosa) anzichè riconoscere e contenere intrapsichicamente la loro storia e i loro desideri inconsci, e ... sul romanzo familiare pesano dei segreti di filiazione, la fiducia nelle verità psichiche potrà risultare distrutta e la configurazione edipica essenziale che struttura la nostra mente, pervertita" (Faimberg, 1993c, p.196, sott. mia).
     Le identità di questi personaggi si pongono come "identità negative" (Faimberg, 1993c), ovvero identità che si sono costituite sotto il segno della negazione della capacità creativa.
     Un figlio rappresenta la gioia della vita che continua, e dialetticamente riporta all'ansia per la propria morte.  "Un genitore che veramente desideri che il figlio cresca e una analista che veramente speri nell'evoluzione del suo paziente deve accettare, se non vuole essere ucciso, di morire" (Tognoli, 1987).  Quando è quest'ansia che primeggia nel quadro mentale dei genitori, e non la gioia che permette al bambino di acquisire la fiducia necessaria per sviluppare nella consapevolezza del limite la passione di esistere, allora il bambino può essere accettato solo come negazione della morte, ovvero fuso al sè dei genitori.   Il tempo, il salto generazionale non può essere pensato e rappresentato.   Il bambino deve essere disidentificato, nel senso che la sua identità separata e "aliena" deve essere soppressa.   Il bambino è già in quanto è l'immagine dei genitori, non può divenire, costruirsi individualmente.
     Nel contempo, segretamente,  continua a contenere la "verità": è un altro, è un bambino e non un adulto.   Il bambino viene così odiato, deve passare al più presto dall'essere balocco del genitore- bambino, all'essere rappresentazione narcisistica di questi.   E' proprio il processo di crescita e di acquisizione dell' "idioma" del figlio (Bollas, 1989) che non viene tollerato dal genitore narcisista.
     Il rapporto di seduzione narcisistico, peraltro,  viene sostenuto reciprocamente in funzione del fatto che se da una parte risparmia alla madre, e al padre, il lutto dello spossessamento e della verifica della temporalità in atto, al bambino risparmia il lutto della caduta dell'onnipotenza, l'ansia di castrazione del conflitto edipico, e la perdita dell'oggetto primario (Racamier, 1992, 1995).
     Questo tipo di rapporto, così ben descritto da Racamier, viene a realizzare una figura della negazione, in cui il tempo viene illusoriamente fissato attraverso l'annullamento della cronologia: genitori e figli vivono la stessa epoca, sono figure di un "tempo totale" in cui vengono privati di senso  il passato e il futuro.   L'unione tra genitore e figlio realizza un tempo in cui il passato possiede tutto il futuro, e il futuro possiede tutto il passato, senza dover sottostare a nessuna rinuncia e limitazione.
     Così Roberto, il nostro Laio, vive in una dimensione di non-pensiero, in cui il suo essere figlio "predeterminato" lo spossessa del suo proprio "idioma", e lo confina in una dimensione confusa dove il processo di crescita viene negato, non tollerato: egli deve diventare immediatamente "il padre", attraverso il suo possederlo,  non avendo  potuto sviluppare uno spazio interno -simbolico- in cui poter aspirare ad essere come il padre.   Attraverso l'omosessualità pedofila egli si impossessa del padre, identificandosi da un lato nel bambino posseduto, ma che "possiede" dentro di sè il padre, e nel contempo realizza proiettivamente un nuovo figlicidio, "uccidendo" l'infantile del bambino con la sessualizzazione, e creando le premesse perchè la catena continui, divenendo infine lui il padre ucciso. L'assenza di spazio mentale individuale comporta una assoluta impossibilità a pensare: quando qualche pensiero, col dolore mentale che ne consegue, si affaccia alla sua mente può solo uccidersi.   Ma Roberto si uccide anche perchè la realizzazione del fantasma in cui lui è il padre ucciso non gli permette una elaborazione simbolica del suo ruolo, legato al permettere al figlio di vivere l'illusione del trionfo, e quindi a una disillusione sostenuta dal suo "sopravvivere come marito della madre".   La nascita di Antonio non gli permette di avere lo spazio per esistere: o l'uno o l'altro. Egli può solo sopravvivere fino a che ha speranza che il figlio sia abortito o muoia.
     In questa situazione di realizzazione si ha il massimo punto di drammaticità della situazione.   Giovanni realizzando il rapporto con la suocera infrange un tabù.   Del tabù della suocera parla Freud (1913), e Green (1973) sottolinea come "l'infantile del desiderio incestuoso perda qui la sua dimensione rassicurante, legata all'impotenza del bambino, per congiungersi al 'selvaggio' dell'atto" (p. 326), cioè la negazione magica dell'impotenza.   Selvaggio che peraltro non appartiene solo al personaggio di Giovanni, ma anche ovviamente a quello di Costanza, presa nella rete di un'identificazione nella figlia con caratteri competitivi, possibile attraverso una negazione del salto generazionale, e quindi della propria temporalità, che rende perenne il proprio desiderio infantile.  Tutto ciò in funzione del fatto che  l'interdetto "paterno" non può essere efficace, in quanto anch'esso, il padre, è preso nella rete delle identificazioni narcisistiche, in cui i desideri incestuosi, sostenuti dalla assenza di temporalizzazione, non sono interdetti.
     La realizzazione, quindi, comporta l'impossibilità di "fantasmizzare" il desiderio: "Appagato sin dall'inizio, in un modo che è semplicemente troppo vero, il desiderio non può fantasmarsi. L'eterno desiderio, sempre inappagato, di essere un solo corpo con l'oggetto d'amore non può essere ne vissuto, ne elaborato, ne rappresentato, dal momento che è una realtà" (Racamier, 1992, p. 142).   In termini bioniani se la pre-concezione incontra le realizzazione invece della frustrazione, non si può sviluppare pensiero, ovvero, in quanto il fantasma è realizzato, non è permessa la creazione, attraverso la rinuncia, del simbolo, e lo sviluppo del proprio "idioma" (Bion, 1962; Green, 1980; Bollas, 1989).
     La famiglia da cui proviene Antonio rappresenta un amalgama inestricabile di identificazioni narcisistiche, in cui la presenza dell'uno comporta la scomparsa dell'altro: il rapportarsi è dato da un "possedere" che non può implicare la relazione.
     Nessuno spazio si può creare in realtà in questo tipo di relazioni, lo spazio mentale è reso puramente bidimensionale in funzione degli aspetti narcisistici che impediscono la tolleranza della figura paterna in quanto portatore dell'interdetto e dell'alterità.  Gaddini  (1974)  ha osservato come il padre, in quanto secondo oggetto, diviene il primo vero oggetto estraneo ed esterno.  Tutto ciò che è "altro" è il padre, in conclusione anche la madre per essere riconosciuta come persona, oggetto totale in termini kleiniani, deve divenire del "padre", ovvero appartenente al padre e non più propaggine del sè. L'interdizione paterna al desiderio fusionale del bambino, ma anche della madre, è l'unica condizione perchè possa crearsi lo spazio mentale necessario per poter accogliere l'altro, costituendo il polo che determina il crearsi di uno spazio là dove nel persistere della primaria relazione madre-bambino esisterebbe solo un segmento lineare.  E' in questo spazio che si può cominciare a giocare con l'oggetto, in un campo in cui sia possibile la comunicazione.  Ci vuole la triangolazione per creare un campo: la negazione di ogni "altro", ovvero del primo "altro", il padre, implica l'impossibilità di costituirsi dello spazio mentale e del campo relazionale.  In questo senso il campo, il "quadro" entro cui si realizza la cura psicoanalitica (Bleger, 1967), non può essere espressione di una simbiosi, rapporto duale, ma è espressione di una triangolazione, che trasforma il segmento del rapporto duale in un campo esteso entro il quale può essere contenuta l'esperienza mentale.  Sto parlando anche del padre come figura presente nella mente della madre e del bambino come elemento capace di istituire separazione e quindi relazione e pensiero nel senso in cui ne parla Di Chiara (1978, 1985).
     L'interdetto paterno che determina lo spazio mentale si può porre come una sorta di a-priori, di categoria kantiana, è la "preconcezione edipica" che struttura la mente della madre già nel primo rapporto col bambino, e che permette alla madre di riconoscere il proprio bambino come altro, permettendo così la preservazione sia del proprio spazio mentale che di quello del bambino, il quale, per sua natura, è aperto verso la relazionalità, o, come direbbe Fairbairn, è alla ricerca dell'altro.   "Il bambino verrebbe al mondo con un Io capace di mettersi in relazione con l'altro.   L'altro sarebbe però preconcepito come a sua volta in relazione con un terzo, che rimane intuito sullo sfondo e dà alla relazione qualità di profondità e insaturazione.....La madre è in grado di lasciar vibrare il bambino che c'è in lei senza collabire con esso...questa fondamentale capacità di riconoscere ciò che è proprio da ciò che non lo è consente di operare trasformazioni e fornire risposte separanti" (Di Chiara e coll., 1985, p.330-338).   Ed è in questo spazio, nella relazione "profonda e insatura", area transizionale dove si sviluppa il pensiero, che si può realizzare lo sviluppo di un vero Sè, spazio dove l'Io incontra gli oggetti capaci di permettere il realizzarsi delle preconcezioni e della spontaneità creativa inscritta nel destino della persona (Bollas, 1989).
      In caso contrario abbiamo la creazione di un "figurante predestinato" (Racamier, 1995) portatore, in questi casi estremi, di un Fato scritto da altri, costituitosi attraverso la sedimentazione di segreti - negazioni del pensiero - che edificano muraglie impenetrabili.   In questo caso l'inversione di flusso delle identificazioni proiettive (Ferro, 1987) dai genitori verso il bambino, determina che queste "vengono interiorizzate [e] ... assunte come il marchio che contraddistingue il Sè e vengono utilizzate come modello per lo sviluppo delle relazioni oggettuali, delle rappresentazioni del Sè e delle altre strutture interiori" (Ogden, 1991, p.100).   Questa situazione può poi portare nel campo terapeutico alla sensazione di "estraneità" di certi elementi della struttura personale del soggetto (Neri, 1993).*   Tisseron (1995, p. 147-148) osserva come questa "inquietante estraneità" sia caratteristicamente riscontrabile nella terza generazione di una famiglia in cui un segreto viene trasmesso, attraverso diverse modalità da questo autore analizzate, da una generazione all'altra.  Per la terza generazione "gli avvenimenti in causa non sono solo 'innominabili' ma veramente 'impensabili', poiché è ignorata l'esistenza stessa di un segreto che verte su un trauma non superato. Per tale ragione, se un bambino produce delle immagini in relazione con il trauma non elaborato che ha toccato la generazione dei nonni, queste immagini non possono che sembrargli strane e perturbanti".  Il contatto con questo "perturbante" può tuttavia rappresentare uno spunto che potrebbe permettere al soggetto lo sviluppo di attività creative (v. Magherini, 1997) nella misura in cui una basale attività di pensiero è in attività.  Se il segreto riguarda un delitto perpetrato verso  il nucleo stesso dell'attività simbolica e creativa si ha viceversa un blocco in questa generazione.
     Come osservano la Faimberg e Racamier, l'incestuale e il télescopage generazionale si fondano proprio sul segreto, sul non-detto e quindi sul non-pensato.   Mi sembra che ciò sia implicito nel fatto che attraverso un sistema retto sulla negazione si crei un corto circuito tra angosce al limite della pensabilità e mancanza di sviluppo dell'apparato per pensare.   E si deve parlare di angosce al limite del pensabile, non di angosce impensabili, perchè ciò che le rende impensabili è il difetto del pensiero.   Come osserva Bonasia (1997), di fronte al limite della nostra dissoluzione, la fine del nostro tempo, possiamo essere fortemente tentati di costruire un "sillogismo malato" che sacrifichi la verità, ma ciò che mettiamo in gioco è tutto il nostro sistema di pensiero, la pensabilità come crescita autentica, basata sulla verità (Bion, 1962).   "La capacità dell'essere umano di tollerare verità riguardanti se stesso è precaria, poiché la verità è una fonte permanente di dolore" (Grinberg, 1979, p.454).
   La storia della famiglia di Antonio, così come sarà poi la storia di Antonio, si pone al di fuori di una linearità in cui causalità e casualità permettano di costituire un percorso.   Il prima e il dopo si confondono, così come si confondono i genitori con i figli.
 

Il figlio di Edipo

   La storia del mio incontro con Antonio si snoda su un percorso che presto lo porta a  porre una relazione tra il suo stato di debolezza e assenza di determinazione e l'assenza nella sua vita della figura paterna.   Dopo circa un anno di lavoro psicoterapeutico, la separazione estiva conduce ad una ricerca ostinata del padre scomparso.  Naturalmente la nostra separazione veniva per lui a rappresentare la separazione assoluta dalla figura paterna, la Mancanza.   A seguito delle sue ricerche presto si arrivò alla dichiarazione di "morte presunta", ma soprattutto, poco dopo, alla rivelazione, da parte della madre, della sua autentica paternità.
   Da quel momento così drammatico nella vita di Antonio tutto è rimasto come prima.   Il suo senso di vuoto, il rapporto con la madre e con  i familiari: il cognato in cui avrebbe dovuto riconoscere suo padre; il nipote, figlio di sua sorella, che però era anche suo fratello.   Di fatto lui continua a non avere un padre, la madre è distante e fondamentalmente ostile, il momento della rottura che la rivelazione avrebbe potuto introdurre "si inscrive nella continuità di una depressione  (di un destino) in cui non si distinguono il prima e il dopo" (Green, 1973, p. 170).  La confusione generazionale, a cui è sottesa la fantasia onnipotente di una negazione del tempo, di cui Antonio è portatore, non lascia spazio ad alcun elemento vitale.
   In effetti la ricerca di Antonio non doveva colmare una assenza, sempre connessa alla speranza di un ritorno, ma una  Mancanza, che va al di là della sua storia individuale, e che è inscritta nella sua filiazione.      La morte di Roberto determina il Fato di Antonio.   Essa viene a configurare l'assenza assoluta della figura paterna, la Mancanza, in quanto nella coincidenza nascita (concepimento)- morte, il padre è eliminato in una fantasia incestuale onnipotente (Guyotat, 1980).   Certo un padre biologico Antonio lo ha: è Giovanni; ma è la figura paterna in quanto capace di stabilire l'interdizione alla madre che viene cancellata, mentre qui viene affermata la realizzabilità della fantasia infantile, che non pone limiti alla alterazione della realtà.  Il padre nella configurazione edipica di Antonio non c'è mai stato, anzi egli rappresenta l'incarnazione di una fantasia in cui il padre è soppresso nel momento stesso in cui il figlio è concepito da una altro "figlio", venendo così eliminato nella sua necessità nella mente della madre, che realizza una fantasia partenogenetica, e nella mente di Antonio, per cui si realizza così una fantasia di autogenerazione (Preve, 1998).   Tuttavia questa fantasia onnipotente di filiazione narcisistica (Guyotat, 1980), comporta anche l'uccisione del figlio, in ragione di una unione con la madre di tipo fusionale, che realizza la fantasia di un "bambino immaginario [che] può essere inteso come il figlio meraviglioso che la madre vuol conservare dentro di sè" (Guyotat, 1980, p. 197), ma che escludendo il terzo impedisce la distinzione e l'individuazione.
   La fantasia di non-separazione blocca il tempo: la negazione del tempo è legata alla negazione dell'Altro, in quanto il tempo sancisce la separazione, sia dall'oggetto che dal proprio sè, o meglio dai propri sè, quello infantile, quello adolescenziale, quello adulto ecc., fino alla perdita totale, la morte.  "A molti uomini appare perturbante in sommo grado ciò che ha rapporto con la morte" (Freud, 1919).  Il perturbante trae la sua natura dal contatto con la realtà di questo dato, non inconscio, ma che si vorrebbe mantenere tale, dell'esistenza umana. Credo che proprio in questo risieda la natura fondamentale dell'angoscia psicotica, quella che magistralmente Grotstein (1991) ha descritto come assenza di senso di ogni cosa.  In realtà questo buco nero dell'assenza di senso dell'esistenza non può essere ascritto alla patologia mentale, se mai alla mente come "patologia" dell'universo, fenomeno anomalo nell'ordine "naturale" in funzione della consapevolezza. Il miracolo sta nel fatto che la maggioranza degli uomini non siano psicotici, che possano sostenere la coesistenza con il non-senso dell'esistenza, ed anzi appassionarsi alla vita. Credo che questo miracolo sia legato all'esperienza di venire al mondo in un clima di gioia, come se venire al mondo fosse la cosa più meravigliosa che possa capitare, grazie all'attitudine genitoriale che si esplica nelle relazioni primarie. È questo che permette alla separazione  e all'angoscia di tramutarsi nella passione di esistere. Ma è nella carenza di questa gioia primaria che si può sviluppare un'angoscia senza-nome ed infinita. Freud  "interpreta la paura della fine come un equivalente dell'angoscia di castrazione, quale punizione per il fantasticato delitto edipico", osserva Bonasia (1997). Il tempo rappresenta peraltro il testimone della finitudine, e forse il delitto edipico può essere inteso propriamente non come il motivo dell'angoscia di morte, ma il tentativo fantastico di annullare il tempo e la morte.  L'incesto rappresenta un sovvertimento che nega la differenza della generazioni, il segno del tempo, il distacco tra genitori e figli, ciò che  ribalta  la necessità di affrontare attraverso lo sforzo immane del pensiero e della consapevolezza la realtà della morte e del trascorrere del tempo, con la creazione di una fantasia di eternità, regno del non-pensiero.  Eliminare il padre è eliminare Crono, il tempo che divora i suoi figli
   Nell'ambito di questa fantasia peraltro anche la madre viene negata. La morte di Roberto rappresenta altresì per Antonio il costituirsi a priori della figura della "madre morta" (Green, 1980), madre che non può porsi come tale in quanto perverte il proprio ruolo di oggetto primario, destinato ad essere fonte di disillusione.  Anche se normalmente è necessario passare attraverso la permissione di un'illusione incestuale in cui "L'adorazione è al suo massimo, gli impulsi cannibalistici sfrenati", illusione senza la quale, "senza aver vissuto queste 'assurdità' mancherà per sempre un'area ottimistica di sicurezza interiore nella quale il piacere sensuale del vivere è anche legato alla gioia di veder vivere" (Tognoli, 1987, p. 93), ma che può essere sostenuta solo dalla profonda consapevolezza, da parte della madre, che di illusione si tratta, che il "terzo" è presente, senza lasciare che diventi una co-illusione, collusione derisoria verso l'elemento separatore, in cui, come ancora osserva Tognoli, la trasgressione travalica dal pensiero, impossibile, all'azione.  La madre di Antonio viceversa si pone come unico oggetto, a cui non segue la disillusione, bensì l'illusione della soddisfazione concreta del  desiderio pulsionale.  La madre perversa che accetta il rapporto incestuoso si nega di fatto come madre, negando la successione generazionale.  Si unisce al "figlio", e non può accettare di avere altri figli.  Di fatto la madre di Antonio sopravvive al figlio, che perciò mi appare così "vecchio" già dal primo momento in cui lo vedo.
   Antonio rappresenta l'incarnazione del vuoto di questa fantasia.  Una fantasia di una madre che non necessita di un marito per generare un figlio, ma che nell'unione simbiotica realizza una fantasia onnipotente partenogenetica.  Il non riconoscimento della necessità dell'altro, dell'uomo, per essere creativa implica il disconoscimento della successione generazionale, della differenza dei sessi, e quindi del proprio ruolo di madre.  In questo senso la madre di Antonio è una non-madre, ovvero una madre morta.  Nella sua origine Antonio è stato privato di entrambi i genitori, oltre che di se stesso in quanto figlio.   Egli rappresenta il vuoto dell'onnipotenza megalomanica.
   Il rapporto genitoriale negato determina la scomparsa della necessità dell'unione degli opposti per ottenere la creazione del nuovo.  In realtà non deve subentrare nulla di nuovo, che in quanto diverso dall'esistente è Altro, ma deve solo ripetersi ciò che è.  Il "figlio" non può che essere la copia del genitore, della madre.  La funzione di specchio della madre (Winnicott, 1971) è qui pervertita, in quanto il figlio si specchia nella madre ma deve rimandarle un'immagine non di sè, ma di lei stessa non  deformata, oppure il vuoto.  Se nel volto del bambino la madre scorge il padre, questo rimando all'altro non può essere tollerato.  Il figlio, in quanto frutto dell'unione, deve essere disconosciuto.   La vera paternità, il segreto dell'incesto mi appare a questo riguardo più in relazione con un segreto che la madre deve tenere con se stessa, che non come il segreto da mantenere su un delitto.  La madre non può sapere che in ogni caso nel volto del figlio un padre ci sarà comunque.  La verità misconosciuta è l'ineludibile necessità dell'altro, l'incompiutezza del sè, la sua finitudine che ogni filiazione porta entro di sè.  Perchè il figlio è frutto della riunione dei due sessi, fantasia fusionale mai realizzata dal tempo in cui l'androgino platonico è stato diviso in due;  il figlio è più della somma dei due, diverso dall'uno e dall'altra, e dalla loro sommatoria: è un altro individuo.  Il segreto della madre che con l'incesto usa l'arma definitiva per realizzare la fantasia di non-separazione, per eludere la separazione (Di Chiara, 1978) in quanto elemento della mente sul cui limite può realizzarsi il pensiero e la vita mentale, tende a mantenere intatta questa illusione megalomanica narcisistico-fusionale.  Il figlio diviene così il luogo del non-pensiero, della psicosi bianca (Green, 1980).  Egli non deve essere rivelato: "Devi restare confinato nel non-essere per non turbare le nostre coscienze", coscienze fatte di misconoscimento della realtà, sospese nell'illusione dell'onnipotenza.
   Nel momento in cui Antonio chiede di conoscere il padre, di svelare il mistero, il turbamento dello stato di quiete mortifera che si era creato nella famiglia si scompone, e  la "rivelazione" della madre può così essere letta come una sorta di istigazione al suicidio.   La rivelazione ha il compito di legare Antonio all'inesistenza, definendolo come frutto di un non-legame (l'incesto), da un lato, e di una identificazione tra lui e il "padre" (marito della madre di cui porta il cognome), dall'altro, identificazione con un soggetto verso cui i familiari hanno perpetrato un delitto: "Avevano una colpa nei miei (suoi) confronti, e non hanno mai provveduto a me"; ovvero lo lasciano morire come è morto il "padre" (v. anche Searles, 1959), realizzando attraverso questa identificazione ancora una volta la megalomane negazione del tempo.  "Padre" e figlio sono la medesima cosa, sia nell'identificazione col "padre" ucciso, sia nell'identificazione col padre-fratello.
   L'assenza di distinzione tra fantasia e realtà comporta che non si ponga la necessità del pensiero per creare legami tra di loro.  Il fatto che l'origine di Antonio sia "segreta" comporta che tutto il suo essere si fonda sul non-pensabile, a sua volta determinato dalla realizzazione della fantasia.  "La realizzazione incestuosa viene trasposta tutta intera nella topica psichica, e considerata, nella prospettiva del primato del simbolismo, sotto l'angolatura di un pensiero impensabile della desimbolizzazione" (Green, 1973, p. 326).  Il segreto per lui è solo Mancanza: delle origini, degli oggetti primari che devono essere desiderabili e fondamentalmente interdetti. Mancanti perciò sia perchè non presenti, sia perchè non interdetti: nel momento in cui l'oggetto non è interdetto, quindi altro rispetto al desiderio del soggetto, diviene soggetto, oggetto soggettivo, narcisistico, posseduto e confuso col sè.  Il segreto, come afferma in maniera chiaramente evocativa Racamier (1992, 1995), "circonda di vuoto la mente", non si associa a nessun fantasma, a nessun desiderio, a nessun pensiero.  Antonio mi appare come un portatore del nulla, apatico, senza possibilità di esprimere passionalmente un desiderio*.  Come frutto di una seduzione narcisistica il suo desiderio è inaridito: desiderare si può solo ciò che non si ha, ciò che è non-io.  Il desiderio è manifestazione della differenza e della separazione, è motore del pensiero.
   La seduzione narcisistica  realizzata con la soppressione del tabù, in realtà doveva solo comportare la riunione della madre col figlio, la soppressione dell'elemento separatore, il padre, e non la nascita di un nuovo figlio.  Antonio rappresenta la separazione che doveva essere negata.  In quanto tale non si può costituire come Altro, come individuo a sè stante.  La sua mente deve essere vuota.  Egli rappresenta ciò che deve essere segregato e rifiutato al contempo, tenuto dentro ed espulso.  Il comportamento dei suoi familiari al riguardo esprime proprio questo doppio movimento: da un lato non è riconosciuto, lasciato nei vari collegi abbandonato a se stesso, ramingo e solo durante parte della sua vita; d'altro lato sotto il controllo e l'influenza della madre in un rapporto fusionale in cui lui è incapace di sostituire ad essa qualsiasi altra donna.
   Nella coppia incestuale la realizzazione della fantasia edipica proviene dall'incontro tra due aree delle menti in cui domina il registro perverso, tendente a realizzare una condizione di onnipotenza attraverso la negazione della separazione e della castrazione.  In questo senso si può dire che per tale coppia la realizzazione è metaforica, in quanto naturalmente avviene tra due adulti, e in realtà non consanguinei (suocera e genero).  Tuttavia si realizza la fantasia in quanto è pur sempre una madre che viene posseduta a discapito del marito da chi riveste il ruolo di figlio.  L'unione di due aree di tipo perverso-psicotico per questi personaggi può rimanere nell'ambito della lacuna all'interno della personalità di una zona asimbolica, sicuramente con determinanti conseguenze sul piano della salute mentale personale, ma nondimeno incistabili e misconosciute.  Viceversa per il frutto dell'unione di queste aree vuote della mente l'unica risultante è il vuoto, che non può essere contenuto al centro di una struttura personale per quanto si voglia primitiva, malata e poco strutturata: per Antonio questo vuoto è l'unico referente sia nel registro paterno che materno.  E' come se non fosse nato da genitori, e pertanto nessun tipo di creatività gli può essere ascritto.  I suoi tratti caratteriali sono così definibili come un esoscheletro poco stabile che contiene, tra maglie larghissime, il Niente.   La trasmissione del vuoto, ovvero della mancanza fondamentale di una struttura simbolizzante primaria - la pre-concezione edipica - che occupa la mente di Antonio provenendo dalle aree asimboliche dei genitori, è assunta in quanto "i bambini interiorizzano l'idioma reale di cura della madre, che è una rete complessa di 'regole per l'essere e il mettersi in rapporto'...Naturalmente l'interazione madre-bambino è una dialettica nella quale il vero Sè del bambino tratta con la logica inconscia di cura della madre...[che] diventa parte integrante della struttura profonda che costituisce la 'grammatica dell'Io'...questo tipo di memoria è operativo e strutturale e non rappresentativo e mnestico" (Bollas, 1989, p. 208).  Nel caso di Antonio l'idioma di cura della madre penso che possa essere ritrovato nello stato di depressione vuota che lo caratterizza, di impotenza a pensare, rappresentazione attuale di "un'infanzia povera di eccitazioni che si prolunga in una coscienza povera di immagini" (Tisseron, 1995, p. 154).  Il suo pensiero non può stabilire nessi e legami associativi, al massimo può riprodurre una storia che non proviene da lui.  Non può nemmeno produrre delirio, ma solo quella forma di ritiro depressivo, vittimistico forse perchè non è padrone nemmeno della sua aggressività, "in cui ciò che va reperito riguarda meno i frammenti sparsi che il vuoto che li separa, e che testimonia il buco che il delirio tenta [quando c'è] con grande sforzo di camuffare, come una pezza applicata" (Green, 1973, p. 243).  Resta solo quella parvenza di struttura ossessiva di cui dicevo nella descrizione del caso.  La mente di Antonio è la sintesi dell'area asimbolica, perversa, della madre e del padre.  In questo spazio sembra molto difficile reperire anche gli elementi per cui si può determinare una collusione tra la realtà e le proprie fantasie incestuose.  La trasmissione del vuoto non può che generare vuoto, e credo che alla fine della sua vita egli possa avere avuto questa percezione di sè, dandovi allora forma col suicidio.
   La trasmissione transgenerazionale su Antonio del "segreto" di famiglia, in funzione del carattere destrutturante di tale segreto sulle funzioni mentali basali, comporta che lui non si possa nemmeno dire "posseduto non dal proprio inconscio, ma dall'inconscio di un altro" (Abraham e Torok, 1987, p. 372), con il caratteristico comparire nel materiale di elementi alieni all'Io, segnalato anche da Winnicott (1969) e Neri (1993), ma in quanto la realizzazione della fantasia edipica in tutti i suoi elementi, attuazione della pulsione incestuosa e eliminazione del concorrente, comporta che non si determini più una separazione precisa tra inconscio e conscio, tra fantasia e realtà, per cui ciò che viene trasmesso non è più un contenuto dell'inconscio, il fantasma secondo la terminologia di N. Abraham, bensì solo il vuoto, o la "pulsione" non pensabile.
   Per i "genitori" di Antonio il segreto non appare neppure come un fantasma "sepolto vivo nell'inconscio" (N. Abraham), ma come una negazione dell'inconscio, attraverso la sottrazione della fantasia edipica al conflitto tra l'immaginario e l'interdetto, a cui consegue la necessità dell'elaborazione simbolica e il lutto per la rinuncia all'oggetto primario e all'unione fusionale onnipotente.
   Se il centro della sua persona è occupato dal vuoto, i frammenti che si reperiscono fluttuanti in questo vuoto, le travature dell'impalcatura che sembra in qualche modo sorreggerlo, sono i resti di una storia non sua.  Antonio diviene il portatore di un segreto transgenerazionale che personalmente ignora, prima della rivelazione, ma che comunque nel contempo rivela attraverso una serie di segni (v. Rouchy, 1995): la mancanza di una funzione simbolizzante, di una memoria strutturale e operativa (Bollas), l'impotenza del pensiero, il suo fisico "scritto" da un'età che non è la sua, percorso dal tempo che i suoi antenati hanno denegato e che sembra vendicativamente essersi riversato sulle sue spalle e sul suo volto.
   Per quanto riguarda i "segreti" trasmessi, nella mia fantasia romanzesca ho supposto un tratto omosessuale nella figura di Roberto, il marito della madre, per due motivi.  Il primo è che volevo ricalcare in qualche modo la figura di Laio così come ci è trasmessa nel mito, che si attirò la maledizione di Pelope - tu morrai per mano di tuo figlio - per aver sedotto il di lui figlio, Crisippo, di cui era precettore.  La seduzione omosessuale pedofila viene cioè posta come un "figlicidio".  Il secondo, e forse principale, mi è dato da due momenti della terapia di Antonio.  Nel primo, legato anche all'anamnesi, mi racconta, distaccatamente, che in uno dei collegi religiosi in cui aveva trascorso parte della sua infanzia e prima adolescenza, aveva subito delle seduzioni omosessuali da parte di un "padre" cappuccino.  Il secondo è il racconto, a terapia avanzata, di un'esperienza omosessuale con un collega, avvenuta poco prima dell'inizio del trattamento, che Antonio aveva accettato senza un particolare coinvolgimento.  Questi "flash", che fotograficamente creano un'immagine appiattita, sembrano illuminare qualcosa che non lo riguarda da vicino.  Nell'episodio del "padre" cappuccino, in particolare, sembrava quasi che Antonio volesse scusare quel giovane frate "messo in convento forse contro la sua volontà, per volere paterno".  Appare così la situazione in cui un padre castra il figlio, e alla fin fine lui, Antonio, subisce qualcosa che riguarda la dinamica conflittuale tra due personaggi a lui estranei.  Questi episodi fanno pensare a situazioni "trasfuse" (Rouchy, 1995), agite come per procura, in cui lui è procuratore e attore di un dramma Altro.
   Il racconto di Antonio è talmente "fattuale" che non può lasciare spazio ad una penombra associativa che permetta di sviluppare e modificare il racconto stesso.  Come osserva Green  (1973, p. 196) il racconto ha una funzione "sideratoria", la dimensione del desiderio e del simbolico è annullata, in primo luogo nella sua origine: la realtà si è sostituita al desiderio e ha lasciato nel suo frutto il vuoto di pensiero che ne consegue. Antonio è il luogo di questo vuoto, il suo racconto non può decostruirsi e ricostruirsi, in quanto a priori è già tutto dato.  Egli non è il luogo della propria storia che si fa, ma è il luogo di una storia già scritta che è di altri.  In quanto tale non permette alcuna interpretazione, alcun "fraintendimento" (Bloom, 1973) che permetta di rinarrare il romanzo delle origini secondo una mitologia personalizzata e personalizzante.
   "Affascinato dalla realtà del trauma, l'intervistatore non arriva a prendere coscienza immediatamente del fatto che tale racconto...quasi mitico, è anche un racconto profondamente soggettivo, interamente segnato dalla fantasmizzazione e dal processo primario" (Green, 1973, p. 195).  Credo che il problema si ponga tuttavia anche se l'intervistatore si rende conto, anche in seconda  battuta, di ciò.  Antonio è stato privato della propria fantasmizzazione, perchè non ha mai trovato un contenitore capace di contenere le proprie fantasie riconoscendole come quelle di un altro, potendo quindi trasformare il loro carattere primario in un alcunché di pensabile e narrabile, e contenibile all'interno della propria mente.  Antonio non ha mai avuto una madre capace di rèverie, in quanto questa funzione mentale avrebbe dovuto esercitarsi su quegli stessi contenuti che ella non aveva potuto elaborare mentalmente per se stessa.  La madre si è negata come moglie del "padre", e come tale per Antonio è morta, come il padre stesso, prima ancora che egli nascesse; come madre che ha travalicato l'interdizione paterna offrendosi al figlio, non ha assunto dentro di sè lo statuto di oggetto irragiungibile.  Non essendo un oggetto irragiungibile, interdetto, separato, non ha reso necessario lo sviluppo del pensiero per essere riscoperto e riconquistato simbolicamente.  Pertanto Antonio non ha potuto sviluppare il proprio pensiero, il proprio apparato per pensare, trovandosi confrontato con una situazione materna assente, per la quale il pensiero e la sua necessità non aveva senso.  Egli ha vissuto o ignorato dalla madre, o in simbiosi con lei.  Tutto questo ha portato alla sua "bianchezza".  La sua "bianchezza" fisica che sembra realizzare la fantasia che egli non possa essere figlio, ma fratello del padre, coetaneo della madre, alla fine più vecchio di tutti, essendo poi il primo a morire.  "Bianchezza" mentale data dal vuoto che occupa il centro della sua mente come luogo della "madre morta" (Green, 1980), bianchezza espressione dell'impotenza a pensare, inutilità del pensare.
   Se la psicosi può essere intesa come un conflitto tra pulsione o desiderio e pensiero, in Antonio non si può sviluppare un delirio o un'allucinazione, in quanto il desiderio è annullato nella struttura mentale che lo realizza nell'immediatezza, e non può confrontarsi con un oggetto che si pone come tale.  Egli appare come una persona che non desidera, sembra invaso da un vuoto gelido fatto non di cose morte, oggetti perduti, che tuttavia possono suscitare nostalgia, dolore, lutto, colpa, ma di oggetti non nati.  Egli sembra impersonare un bambino non nato, il frutto di un non-incontro tra il padre e la madre, il frutto del rapporto sessuale che non c'è stato.  Scisso come resta scisso l'ovulo e lo spermatozoo che non si incontrano.  Il suo pensiero è attaccato dai primordi in una scissione che non permette accoppiamenti mentali.  L'interdizione del desiderio che non c'è stata nella realtà, diviene in lui, nella sua mente bianca, l'interdizione della creatività.  Nulla si può accoppiare nella sua mente, realtà e fantasma, interno ed esterno, o restano eternamente scissi o si amalgamano, ma mai si combinano.
   Il delirio rappresenta il tentativo disperato di colmare il vuoto, l'assenza di significato, il Niente da cui lo psicotico si sente invaso.  In Antonio "quando infine i legami sono rotti perchè non c'è più niente di legabile ... non si ha più soltanto l'allucinazione negativa, ma si insedia l'allucinazione negativa di pensiero" (Green, 1973, p. 256).  Egli infatti non può ricordare, in quanto questo lo porterebbe ad attribuire dei significati alle sue immagini mnestiche, può solo riprodurre.  I suoi ricordi restano come "cose" al centro di un vuoto che non possono ne occludere, ne tanto meno colmare.
   Lo stato psichico di Antonio non appare a prima vista così drammatico, ma la sua depressione rimanda ad un "Niente al centro" (Winnicott, 1959) talmente vasto che sembra occupare uno spazio infinito.  L'area del non-pensiero dilaga al punto di non permettere la formazione di "sintomi produttivi", che si possono intendere come proto-pensieri, aborti di pensieri, che tuttavia indicano che qualcosa è stato concepito.  La "psicosi bianca" è collocata nell'area del non-pensiero, della non-creatività.  La posizione del terapeuta vacilla continuamente, si prospetta come posizione vana, in quanto l'irrompere sulla scena del reale, o meglio del realizzato, annulla lo spazio simbolico in cui il "come-se" dell'interpretazione potrebbe divenire mutativo, in quanto partendo dall'area simbolica del terapeuta si esaurisce nell'area asimbolica del paziente.   Il disturbo mentale di Antonio si definisce come una impotenza a pensare, una carenza nello sviluppo dall'apparato per pensare (Bion), determinato da una trasmissione di un difetto fondamentale di costituzione della struttura simbolica fondamentale, data dall'interdizione "paterna" al desiderio pulsionale.   Tale impotenza si declina in una maniera particolarmente efficace in funzione di una doppia irruzione della realtà sulla scena della sua nascita psichica.  A differenza del paziente Z. descritto da Green e Donnet in La psicosi bianca, oltre alla realizzazione del desiderio edipico determinata dalla rottura del "tabù della suocera", si ha la concomitante sparizione-morte del padre, per cui la fantasia del figlio di prendere il posto del padre accanto alla madre viene realizzato in tutta la sua pienezza.  Se in Z. la presenza del marito della madre mitiga in parte gli effetti della realizzazione della fantasia, nel caso di Antonio, la scomparsa reale del marito della madre precipita ogni determinante del fantasma delle origini sul piano reale, con una totale assenza di uno spazio per il pensiero.  Il segreto si pone così come un buco mentale dai confini spostati verso l'indefinito, che impediscono ogni elaborazione di pensiero.  La trasmissione di questo "vuoto" può apparire come trasmissione di una colpa (v.  Tisseron, 1995) tale per gli agenti originari, che hanno agito per realizzare una fantasia aggressiva, tendente ad annullare gli organi psichici deputati a percepire il dolore mentale, e pertanto rendendo il lutto per la perdita dell'oggetto inelaborabile in funzione della non percezione dell'ambivalenza.  Tuttavia, se nella loro mente restano inevitabilmente brandelli di quell'esperienza mentale che hanno annullato e soppresso, nel frutto delle loro azioni, Antonio, viene immesso unicamente il vuoto risultante dalla distruzione della struttura significante fondamentale, ovvero la costellazione edipica.
   Se il negativo (Green, 1993, 1997) può apparire come il luogo dove c'era l'oggetto, riferendosi quindi al lavoro del lutto, o al limite alla sua interdizione, come nei casi in cui la "madre morta", secondo l'accezione di Green, ovvero la cripta in cui vengono conservati i lutti inelaborabili (Abraham e Torok, 1987), rimanda alla necessità metaforica della perdita per poter sviluppare il pensiero, nel caso di Antonio ciò che  si è ritrovato come proprio destino (Bollas, 1989) è il vuoto come Niente, e non come non-cosa.  Riutilizzando una bella immagine di Green (1997), la mano disegnata dai primitivi come assenza di colore, segno dell'oggetto perduto, non riesce più ad avere limiti, e quindi finisce per perdere ogni connotazione di intelligibilità, diviene una mano che afferra ogni senso possibile per lasciarlo cadere inesorabilmente nel vuoto infinito.
   Se da un lato il racconto di Antonio si propone come un continuum senza lacune, dall'altro l'ascolto del terapeuta rivela fin da subito il carattere di "copertura" sia del racconto stesso nella sua struttura formale, sia di alcune delle immagini che punteggiano, con lampi di vividezza, la monotona riproduzione di un canovaccio appiccicato in mente.  In realtà la sensazione è che i vuoti che vengono così occultati appartengono a delle situazioni che gli sfuggono, sia perchè facenti parte di una storia che non gli appartiene, sia perchè facenti parte di una dimensione personale di cui è stato privato, quella delle sue fantasie primarie e delle "pulsioni epistemofiliche" ad esse connesse.  Forse questi ricordi, quelli che punteggeranno il suo cammino all'interno del rapporto con me, possono rappresentare le "tracce ineffabili divenute impensabili [di] furtivi pensieri segreti...pulsioni libidiche dell'infanzia che non possono essere rivelate...perchè, se sono dette, riportate alla luce, svaniscono e perdono il loro effetto voluttuoso. Rivelarli è perderli" (Rouchy, 1995, p. 171).  E' forse come se queste proto-immagini, abbozzi di pensieri, contenessero, al segreto dal segreto di famiglia, il suo vero Sè, quello che non ha mai incontrato le buone cure materne che gli avrebbero permesso di sviluppare il proprio idioma (Bollas, 1987), al sicuro dal ruolo di "figurante predestinato" (Racamier, 1995) in cui ogni rappresentazione di un sè separato e indipendente deve essere abolita.  Ad Antonio è richiesto di restare fuso con questo amalgama di cui la sua filiazione è rappresentazione, e nel contempo rifiutato, come un rimosso ante-litteram, come i cronici nel manicomio di un tempo, senza storia e senza memoria.   "Un dire sepolto di un genitore diventa nel bambino un morto senza sepoltura" (Abraham e Torok, 1987, p. 290 nota), egli  così "è divenuto nessuno e il suo ambiguo statuto è quello di una presenza assente...condizione d'arrivo di un processo di destoricizzazione, che si è realizzato rompendo i legami della generazione e della filiazione, sciogliendo l'unione sacra col gruppo sociale, che passa attraverso il nome, la coppia parentale e il rapporto con essa" (De Martis e Petrella, 1980, p. 240).  In ragione della realizzazione della fantasia edipica questo processo di destoricizzazione in realtà sembra in questo caso come un processo astorico, in quanto non tanto si avrebbe una privazione di qualcosa che c'è stato, ma una agenesia fondamentale, per un attacco mortale portato alla struttura simbolizzante primaria, la costellazione edipica e il suo carattere interdittorio e simbolizzante.  A livello dell'ascolto terapeutico si ripropone qui lo scacco della funzione di rianimazione indicata da De Martis e Petrella,  in quanto la struttura mentale da rianimare appare non formata, mai implicata da qualcosa di vitale, in quanto connessa ad una possibile attività di pensiero.
   Se "per l'analista-spettatore questi racconti possono svolgere la funzione che in un dramma ha l'antefatto" (De Martis e Petrella, 1980) come nel dramma verdiano dagli autori citato, Il Trovatore, la spiegazione del "moto arcano" che impedisce a Manrico di compiere la sua vendetta nei confronti del Conte di Luna, arriverà troppo tardi per dare alla esperienza di Manrico stesso un senso compiuto. Azucena rivelerà la verità solo nel momento in cui lo stesso Manrico è al supplizio, e quindi il senso della propria esperienza per lui sarà inaccessibile, e finirà sulle spalle del Conte di Luna, come una vendetta, una colpa, non riparabile.  Così per Antonio la rivelazione non può avere il senso di modificare una situazione che in un modo del tutto inconsapevole ha sempre conosciuto, la rivelazione viceversa sembra costituirsi come una condanna inappellabile, tutto il peso della colpa del delitto edipico si riversa su di lui, in funzione della impossibilità da parte degli attori principali di questo dramma, Edipo e Giocasta, Giovanni e Costanza del mio racconto, di sostenere il peso delle loro azioni.  La parola può essere rivelatrice di senso solo per me, nella sua mente la mutilazione della funzione del pensiero sembra andare molto al di là della possibilità di poter trarre alcunché da una relazione che si esaurisce all'interno dello spazio, reso virtuale, della sua mente.
   Lo "strano interludio" contenuto tra l'incontro e il commiato fra di noi, è il racconto di una storia i cui elementi non hanno avuto la possibilità di subire una trasformazione.  Credo che Antonio mi abbia potuto ricordare, per un po', come colui a cui ha potuto rivelare, senza doverne parlare, le sue illusioni di vita.  "Un grande gelso, che dava more bianche squisite" è forse la sua segreta speranza, condensata in un'immagine, di una coppia genitoriale "combinata" capace di stare insieme e di produrre qualcosa di buono.  Nella mia mente ora questa immagine mi si confonde col "Castello dei Pirenei" di Magritte:  un'enorme roccia, con un villaggio alla sua sommità sospeso  sopra il mare e contro il cielo.  Il grande gelso sta al posto della roccia, ma non vedo intorno ne' mare ne' cielo, resta solo il tentativo disperato di celare il vuoto cosmico.
 

Conclusioni

   Mi chiedo, alla conclusione di questa "fantasia", a chi possa giovare tutto ciò.   Certo non giova ad Antonio: non vi è stato tutto questo lavorio durante quel breve periodo in cui è stato in psicoterapia con me, e il mio lavorio mentale che è susseguito alla sua interruzione del rapporto terapeutico non ha certo avuto per lui significato.  E' chiaro che se un giovamento tutto questo pensare lo può avere, lo ha per me.
   In questo senso mi viene in mente l'affermazione di Winnicott, allorchè afferma che scopo primario in un'analisi è quello di mantenersi vivo, e sveglio.   E' il mantenersi vivo che mi sollecita a pensare come nella nostra esperienza umana, e professionale, incontri con la morte e l'annullamento della vita psichica si succedano in una sequenza molto maggiore di quanto non si riesca ad ammettere.  Josè Bleger ci ricorda che nella nostra pratica professionale dobbiamo "stare tutti i giorni a stretto contatto con il mondo sotterraneo della malattia, dei conflitti, della distruzione e della morte" (1964, p. 238), e credo che la possibilità di vivere queste esperienze come se fossero non ulteriormente pensabili, in qualche modo, a posteriori anche, recuperabili e riparabili, comporti inevitabilmente la morte di aree della nostra mente, che verrebbero così trascinate nel mondo sotterraneo senza possibilità di recupero, e con una conseguenza di un impoverimento progressivo delle nostre capacità di pensiero.
   Così come nessuna delle personali perdite, in una condizione di sufficiente salute mentale, può essere considerata come assoluta e irreparabile nel mondo interno, così nessuna esperienza clinica, per quanto dolorosamente confronti con il limite dell'impotenza terapeutica, sarà un'esperienza inutile, a patto che la riflessione e il lavoro della riparazione e del lutto possa esprimersi, a vantaggio personale, per non creare aree cicatriziali e necrotiche all'interno della mente, e a vantaggio dei  pazienti attuali e di quelli futuri.
 

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