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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



L'interpretazione e il reale

di Sergio Benvenuto



Dogmatismo interpretativo

Non solo i filosofi contemporanei più avvertiti, ma anche molti psicoanalisti delle scuole più diverse, si dicono convinti sempre meno da uno dei pilastri della pratica analitica, l'interpretazione. Le ragioni della diffidenza dei filosofi variano ovviamente da tendenza a tendenza, eppure, al di là della varietà, si nota una loro unità corporativa nel giudizio finale. Per cognitivisti e razionalisti ogni interpretazione è arbitraria, perché non c'è alcuna prova del fatto che sogni o sintomi siano metafore; per ermeneutici e post-heideggeriani le interpretazioni freudiane sono troppo vincolate a un'unica chiave, e cioè, svelare il desiderio o le pulsioni (die Lust in Freud) e i suoi conflitti - insomma, troppo poco interpretative. Per gli uni gli analisti interpretano troppo, per gli altri troppo poco, o camuffano queste interpretazioni da spiegazioni scientifiche.
Ma la perplessità sull'interpretazione si prolunga in diffidenza nei confronti dei capisaldi esplicativi della teoria freudiana. "Le interpretazioni sono unidirezionali - dicono quasi unanimi i filosofi - e la stessa teoria generale è dogmatica". La teoria pretende di fornire un'Erklärung di gran parte dell'agire umano (psicopatologie, religione, psicologia collettiva, humour, morale, ecc.), ma di fatto l'universalità dell'Edipo, le posizioni schizoparanoidea e depressiva, l'inconscio strutturato come un linguaggio, ecc., sono tutti miti esplicativi; dall'indubbio valore euristico, ma pur sempre miti. I miti possono essere buoni o cattivi, utili o dannosi (per un nietzscheano, per esempio, sono buoni quando esaltano la volontà di potenza; per un popperiano i miti sono utili quando sono confutabili; per un pragmatista quando servono alla gente per essere più felice; ecc.), ma pretendere che siano verità oggettiva è prova suprema di dogmatismo. E lo dicono sia i filosofi per i quali conta solo appunto la verità oggettiva, sia i filosofi (che chiameremo globalmente post-heideggeriani) per i quali la verità è invece interpretazione che accade nell'orizzonte di un'apertura previa che rende possibile ogni verifica o falsifica (1).
Questa sorprendente unità dei filosofi nel dubitare della veridicità oggettiva delle interpretazioni psicoanalitiche ha del resto fatto breccia nella società reale (la filosofia è cosa molto meno fuori dal mondo di quanto non si creda). Anche nelle istituzioni mediche la psicoanalisi viene sempre meno praticata da medici psichiatri maschi - che vogliono "essere scientifici" - e lasciata sempre più a psicologi, social workers, educatori, e sempre più di sesso femminile: è considerata ormai un'attività minore di edificazione socio-spirituale, di maternage territorializzato, e sempre meno pratica virile su basi rigorose.
Per capire la crisi dell'interpretazione freudiana, dovremo porci allora la domanda: che cosa è veramente questa interpretazione? Prima di rispondervi, occorre riflettere sulle critiche all'interpretazione freudiana sorte all'interno della tribù analitica.

Superare l'interpretazione?

Mi si conceda un riferimento auto-bibliografico, del resto autocritico. Molti anni fa pubblicai un saggio sulla metafora (2), nel quale denunciavo l'interpretazione freudiana in generale. Usando "perversamente" Lacan contro Freud (non fui il solo a tentare un'operazione del genere, all'epoca), gettavo dubbi sul fatto che snocciolare significati nascosti di sintomi o sogni fosse efficace nell'analisi, e giustificato teoricamente. Della psicoanalisi consideravo importante piuttosto il suo aspetto attivo, pratico, il suo produrre effetti, non la sua visione dell'uomo, la sua Menschbild, di per sé non tanto migliore di altre. (Anzi, l'antropologia derivabile dal pensiero di Nietzsche, e - in un registro del tutto diverso - quella promossa da Gregory Bateson e dalla teoria dei sistemi, mi apparivano più adatte dell'antropologia freudiana nel rendere conto del dissolvimento moderno dell'<<interiorità profonda>>). Negavo che il fare analitico si basasse su un sapere adeguato, che fosse un intellectus adeguato alla sua res. "Lacan - osservavo - talvolta ha interpretato alcuni sogni (per esempio quello celebre che dà nome all'Uomo dei Lupi) come essi stessi interpretazioni (per cui interpretare quel sogno è dire come [il soggetto] interpreta il coito, e la realtà genitale). Ma si tratta di casi-limite di sogni, o piuttosto è più corretto [...] affermare che il sogno può essere trattato sempre come interpretanza (3)?" In realtà, dicevo, "tutta la vita umana è aperta all'interpretanza illimitata", insomma l'uomo è un animale interpretante. L'interpretazione psicoanalitica è la ricostruzione congetturale di un'interpretazione soggettiva. Ma il guaio è che le interpretazioni freudiane cercano di chiudere l'interpretanza, dandole la forma dell'insight di una "oggettività soggettiva", o realtà psichica che dir si voglia. Ma, malgrado gli sforzi razionalisti (anche degli analisti) di "far rientrare la metafora in una "economia del sapere", l'uso della metafora [è] profondamente estraneo alla "cura" della verità [oggettiva]" (4). Ora, ogni discorso che pretenda di dire la verità oggettiva - e fornire il senso vero della metafora onirica o sintomatica è un equivalente ermeneutico della pretesa oggettivista - è resistenza al gioco insensato delle forme di vita, che non mirano a significare, ma semplicemente si esprimono. Insomma, l'interpretazione è a doppia faccia: da una parte essa è una pratica che toglie le rimozioni, ma dall'altra essa è proprio l'agente rimuovente - l'inconscio freudiano è ciò che viene rimosso da interpretazioni.
In conclusione, "i "maestri di psicoanalisi" dovrebbero smetterla di propinare ai loro ambiziosi allievi [pensavo allora soprattutto al training degli analisti] interpretazioni più vere, più potenti" (5) - per fare invece che cosa? Non lo sapevo esattamente nemmeno io, ma pensavo a qualcosa più simile a certe tecniche delle saggezze orientali, che non mirano a interpretare bensì ad agire in modo "illuminante".
In seguito però affrontai i testi fondamentali del pensiero post-heideggeriano, e mi resi conto che il mio anatema contro l'interpretazione era alquanto donchisciottesco. Difatti, appariva chiaro attraverso quei testi che, a meno di non ricorrere alla forza bruta o all'ipnosi, ogni atto umano (compreso l'atto analitico) può risultare efficace solo in un tessuto di credenze, istituzioni, leggi, costumi - insomma, attraverso tessuti di interpretazioni. In altre parole: è impossibile non interpretare - l'uomo è un animale interpretante. Anche se l'analista non interpretasse mai esplicitamente, certo il paziente interpreterebbe: come ormai tutti ammettono, i pazienti leggono nella mente dell'analista - di solito abbastanza bene - e si comportano di conseguenza. In effetti, un analista per il solo fatto di esser lì, vivo (l'"analista morto" è un ideale, mai una realtà, grazie al Cielo), interpreta e viene interpretato.
Quella mia diffidenza nei confronti dell'interpretazione era dovuta all'influsso combinato di Wittgenstein e di Lacan. Ora, qualcuno che si pone come l'erede di Lacan, Jacques-Alain Miller, ha finito col tagliare la testa al toro, dicendo qualcosa che nel fondo avevo detto (inascoltato) parecchi anni prima. Scrive difatti, in modo non meno donchisciottesco, Miller: "l'era dell'interpretazione è alle nostre spalle" (6); e cioè, "l'interpretazione non sarà mai più ciò che è stata. L'era dell'interpretazione, l'era in cui Freud scombussolava il discorso universale tramite l'interpretazione, è chiusa" (7). Cosa fare allora? Io proponevo in alternativa una specie di agire zen, Miller propone l'analisi lacaniana (8). Perché Miller interpreta l'interpretazione secondo Lacan nel senso che "l'interpretazione non è altro che l'inconscio stesso" (9); il paradosso lacaniano sarebbe che "il desiderio inconscio è la sua interpretazione"; "l'interpretazione è innanzitutto quella dell'inconscio nel senso del genitivo soggettivo: è l'inconscio che interpreta" (10). Non si tratta comunque solo delle idee di Miller: andare verso la fine dell'interpretazione è un tropismo tipico dei lacaniani (11). Per esempio, quando Antonello Sciacchitano scrive "l'interpretazione è il desiderio stesso" (12), non mi pare che dica qualcosa di molto diverso da quel che dice Miller.
Anche se Miller non lo ammetterebbe mai (ma è troppo colto per non saperlo), questa conclusione è in linea con un approccio ermeneutico all'interpretazione psicoanalitica. Se assimiliamo l'inconscio a una trama testuale (come Lacan in fondo fa quando dice che l'inconscio è il discorso dell'Altro), è un pilastro dell'approccio ermeneutico interpretare ogni trama testuale come essa stessa attività interpretante. Se così non si facesse, si ricadrebbe nell'oggettivismo, per il quale il testo è un linguaggio-oggetto che richiede un metalinguaggio che lo interpreti adeguatamente.
In effetti, nota ermeneuticamente Miller, se interpretare è decifrare, è pur vero che "decifrare è cifrare un'altra volta". L'analista tradizionale, che dice al paziente che ha lasciato l'ombrello "lei voleva lasciarmi il suo pene", crede di decifrare, ma appunto cifra proprio come l'inconscio, crea anch'egli un mito ermeneutico. La gente di buon senso spesso dice "gli psicoanalisti delirano", e Miller pare essere d'accordo con loro: "è la via di ogni interpretazione: l'interpretazione con struttura di delirio" (13). Evidentemente Miller recepisce l'obiezione classica della filosofia alla psicoanalisi, che suona: "Freud pretende di dare l'interpretazione vera dei miti e dei sogni, ma di fatto crea nuovi miti e nuovi sogni". Allora, se l'analista non può interpretare più nel modo ingenuo solito, che cosa potrà mai fare con le interpretazioni inconsce del paziente? Star zitto? Ma questo silenzio eccessivo dell'analista - a cui indulgono certi analisti - dice che egli non ha più nulla da dire ai soggetti, e in generale alla nostra epoca. Come uscire dalla morsa - o "circolo ermeneutico" - per cui l'analista decifrando l'inconscio lo ricifra, crea cioè altre fantasie e altri sintomi, in un rilancio interminabile?
A questo punto, Miller pare un po' aggrapparsi sui vetri quando fa intravedere la possibilità di un'"interpretazione" (tra virgolette, dato che non è più "quella") che non sia delirante, che non alimenti il mito interpretandolo: sarebbe il rovescio dell'interpretazione. Questa, "se di decifrazione si tratta, è una decifrazione che non dà senso" (14). Ha l'aria di uno strano mutante, come in certi film di fantascienza: ha ancora tracce della buona vecchia interpretazione in cui credono gli analisti non scafati, ma per altri versi ne è addirittura l'inverso.
Questa rovescio-interpretazione consisterebbe "nel non aggiungere un S2, ma nell'isolare S1 - vale a dire nel ricondurre il soggetto ai significanti propriamente elementari sui quali, nella sua nevrosi, ha delirato" (15), cioè, che con la sua nevrosi ha interpretato. Tento di tradurre dal lacanese in italiano: l'analista non deve decifrare-cifrare significati, ma ricondurre il soggetto a una "cifra" originaria, del tutto insensata, irrelata, non mitizzabile. E difatti "il rovescio dell'interpretazione consiste nell'isolare il significante in quanto fenomeno elementare del soggetto, non ancora articolato nella formazione dell'inconscio, che gli dà questo senso di delirio" (16). Aspettiamo che le formule milleriane diano prova di sé nella pratica analitica.

Detradurre?

Un altro analista francese di indirizzo ortodosso, Jean Laplanche, finisce col dire cose alquanto analoghe a quelle di Miller. Certo il vocabolario di Laplanche è diverso - emerge qui piuttosto l'influsso del decostruzionismo - ma il nocciolo è lo stesso. Anche per Laplanche l'ermeneuta non è l'analista, ma l'io (moi) dell'essere umano (17): questi, nell'infanzia, si trova confrontato ai messaggi enigmatici degli adulti, ed è costretto a tradurli (18). I messaggi adulti sono traumi per il bambino, che per padroneggiarli è costretto a interpretarli, cioè a "tradurli". L'essere umano è insomma agitato da una "pulsione a tradurre", dal Trieb zur Übersetzung dei romantici - equivalente dell'affermazione lacaniana "il desiderio è interpretazione". Ma ogni traduzione resta sempre inadeguata, incompleta, per cui viene a costituire un Es, vale a dire il coacervo dell'insensato, di ciò che è restato ribelle alla traduzione, e che minaccia il legame coesivo del moi.
Ora, ci si potrebbe aspettare a questo punto che l'analisi punti a tradurre il non-tradotto, lo slegato in cui consisterebbe l'Es. Ma non è così: Laplanche afferma invece che la psicoanalisi è antiermeneutica - l'ermeneuta, chi dà senso (anche se un senso sempre inadeguato) è piuttosto l'individuo. L'analista non traduce ma de-traduce (direi: non costruisce senso, ma lo decostruisce). Qui l'influsso del derridismo è patente. Ma allora, in che cosa consiste il processo terapeutico? Laplanche è costretto ad ammettere che nell'analisi i processi sono due: da una parte la funzione detraducente e quindi "slegante" dell'analista, attraverso la tecnica che Laplanche chiama di "libera dissociazione", dall'altra il processo ritraducente e "legante" dell'Io (moi).
Questo lavoro di detraduzione progressivo, o per strati successivi, si accompagna costantemente al movimento inverso. Perché l'Io stesso, come ha detto Freud, è mosso da una coazione alla sintesi, proprio a causa del pericolo di slegamento riattualizzato dall'analisi. La forza di sintesi costituisce la tendenza riparatrice propria al movimento specificamente psicoterapico (19).

Quindi, sia per Miller che per Laplanche è essenziale rigettare l'idea che l'analisi sia un processo ermeneutico in quanto darebbe o troverebbe un senso all'insensato. In ambedue i casi, il far senso - o il tradurre, come preferisce dire Laplanche - è piuttosto alla sorgente del sintomo e della nevrosi, lo scotto da pagare per "far senso" o "tradurre". L'analista opera nel senso contrario - Miller parla di "rovescio dell'interpretazione", Laplanche di "anti-ermeneutica". Sottrae senso, anche se per altri versi l'essere umano, affamato di senso, finisce sempre con il ricostituire spontaneamente nuovi equilibri, cioè nuovi sistemi di senso - e nuove nevrosi.
Ma come interpretare il richiamo milleriano al rovescio dell'interpretazione, e il richiamo laplanchiano alla detraduzione? Credo nello stesso modo in cui oggi interpreto il mio vecchio saggio contro l'interpretazione freudiana: riemerge in tutti questi casi la pretesa illuminista che, rigettando come mito o delirio tutto ciò che anima la vita umana, punta all'oggettività di qualcosa di elementare, a una causa prima che, in quanto causa, non ha senso, e che va rintracciata al di là di tutti i nostri miti interpretativi e superstizioni. Certo, né Laplanche né Miller parlano un linguaggio oggettivista, non prendono la psicoanalisi per una sorta di scienza applicata, ma restano fedeli all'ideale scientista. E qui consiste l'ambiguità dello strutturalismo da cui ambedue provengono: nell'idea cioè che i soggetti non sono cose (come pensava il vecchio positivismo) ma sistemi di segni (o significanti), e che è possibile una ricostruzione vera di questi sistemi, un'uscita definitiva dal "circolo ermeneutico", vale a dire dalle spirali dell'interpretazione - e del mito, del sogno, della fantasia e del delirio.
È come se Miller dicesse: "gli altri analisti - compresi i lacaniani della prima ora - sono nella superstizione, delirano non meno dell'inconscio, invece chi mi segue sarà capace delle vere interpretazioni, che non sono più veramente tali, perché ricostruirà quel che veramente è attivo nel soggetto." Ma in questo modo, credendo di essersi liberato della tentazione ermeneutica riducendola all'interpretazione come decifrazione di significati (cosa che l'ermeneutica seria non è mai stata), cade proprio sotto i colpi della critica ermeneutica a ogni pretesa di scienza oggettiva dei soggetti: l'illusione che possiamo finalmente liberarci della pulsione interpretante, che possiamo metterci fuori dell'interpretazione; magari entrando, come Alice, nel mondo dello specchio, del "rovescio".
Analogamente Laplanche parla di detraduzione, ma ogni detraduzione è per altri versi una traduzione. Non a caso egli nel suo testo oscilla in modo sintomatico, a un certo punto non parla di detraduzione ma di "traduzione di traduzione" - quindi, pur sempre di traduzione si tratta. Per demistificare le interpretazioni devo a mia volta interpretare, rischiare quindi la mistificazione (a meno che non si accetti un approccio oggettivista, computazionale, cognitivista, che escluda a priori la significatività di ciò a cui di solito si interessa l'analista). È questo anche l'equivoco del derridismo: il suo decostruire i testi è un modo di ri-costruirli, cioè, in fondo, di reinterpretarli. Non a caso si accusano di solito i decostruzionisti (20) di sovra-interpretare i testi, di non rispettare affatto la loro letteralità.
Trovo comunque l'approccio di Laplanche più interessante di quello di Miller nella misura in cui il primo tematizza il trauma - una dimensione di confronto con qualcosa di reale che, come vedremo, per me ha grande rilevanza. Anche se il trauma originario ipotizzato da Laplanche è un trauma semiologico: il bambino è soverchiato dai messaggi enigmatici dell'adulto e può fronteggiarli solo dando loro senso.

Uscire dal circolo ermeneutico?

Ora, la critica ermeneutica, al di là di tutti i suoi limiti, ci ha ricordato qualcosa di amaro per tutti noi (nella misura in cui noi moderni siamo tutti, fatalmente, più o meno illuministi): che è impossibile uscire fuori dall'interpretazione ed essere finalmente "oggettivi", o puramente "costruttivi" come direbbe Miller. Il pensiero post-heideggeriano ha mostrato che la critica illuminista delle illusioni umane è in larga parte un'illusione essa stessa.
Le dichiarazioni mie del 1982, di Miller e di Laplanche hanno certo valore ermeneutico: è prima di tutto l'inconscio (cioè l'essere umano) a interpretare, a tradurre. Ma allora, se l'inconscio è interpretante, l'attività analitica - nella misura in cui è malgrado tutto interpretante - è della stessa natura dell'attività inconscia. Un guanto rovesciato resta pur sempre un guanto, che si può anche indossare come tale - in qualche modo il rovescio di qualcosa resta questo qualcosa. In psicoanalisi oggetto e soggetto non sono separati, ma appartengono allo stesso circolo, sono fasi e momenti di una stessa "storia". Ora, ciò autorizza gli ermeneutici (e non solo quelli ancora inchiodati ai piedi della Barriera Dilthey - che separa le scienze umane dalle scienze naturali) a dire che la psicoanalisi non è né sarà una scienza, nel senso metodico delle Naturwissenschaften: in queste, difatti, il soggetto conoscente e l'oggetto conosciuto non appartengono mai alla stessa "sostanza". Quando un chimico dice che la molecola d'acqua è composta di due atomi di idrogeno e di uno di ossigeno, questa sua "interpretazione" non è essa stessa fatta di acqua, idrogeno e ossigeno - è fatta di linguaggio articolato (21). Al contrario, in psicoanalisi si interpretano interpretazioni, o si traducono traduzioni - c'è circolarità tra analizzante e analizzato. Circolarità implicita del resto nello stesso basilare concetto lacaniano, che l'inconscio è linguaggio - sia la psicoanalisi (come teoria e pratica interpretativa) che il suo supposto "oggetto", l'inconscio, sono della stessa natura, quindi si implicano l'un l'altro. La psicoanalisi è insomma circolare (22). E in analisi non si passa da una "falsa coscienza" a una "vera scienza", magari del significante; ma tutt'al più da un'interpretazione meno verosimile a una più verosimile.
Non Miller e nemmeno Laplanche hanno il coraggio di saltare il fosso verso quel che chiamerei il nichilismo ermeneutico: avvertono piuttosto che, siccome è l'inconscio a interpretare, l'analista non deve imitarlo. Sia Miller che Laplanche credono che possa esistere un'attività umana che non sia interpretante né traducente, che sia invece il rovescio dell'una o dell'altra: quella dell'analista. Quindi Miller ricorre all'illusione metalinguistica strutturalista: si tratta di isolare "oggettivamente" significanti (23). Mentre Laplanche ripropone l'utopia tradizionale dell'analista neutrale e indifferente, puro ascolto spassionato (24). Ma isolare significanti insensati è pur sempre un atto interpretativo. Prova ne sia che molti dissentono da questo atto - e la possibilità di dissentire è ciò che distingue l'interpretazione da tutto ciò che è dell'ordine della percezione dell'evidenza o dell'intuizione del dato (25).
Ma ammettere che non usciamo mai dal circolo ermeneutico non implica la conclusione scettica secondo cui un'interpretazione vale l'altra, e le interpretazioni sarebbero arbitrarie, come è arbitrario il segno saussuriano. Questa invece pare essere la denuncia di Miller: "un'interpretazione vale l'altra - vi dico io come uscire veramente dall'interpretazione, cioè dall'inconscio". Da qui l'insistenza sui significanti elementari (su cui insiste anche Sciacchitano (26)). L'amore per il termine "elementare" è sempre la spia di un atteggiamento oggettivista: il riduzionismo oggettivista fugge il complesso, adora l'elementare. Deve ridurre le realtà complesse ai "fatti elementari", e le proposizioni complesse alle "proposizioni elementari", come diceva Wittgenstein nel Tractatus (27). Il disincanto ermeneutico afferma invece che il nostro discorso non arriva mai a dire qualcosa di fondativo; quindi non sono articolabili proposizioni o significanti (o fantasie, o pulsioni, o relazioni) "elementari" (28). Il sogno "atomista" della psicoanalisi è il suo bovarysmo scientista. Ogni approccio oggettivista deriva infatti dall'atomismo antico, dall'idea cioè che ogni complesso è riducibile a composizione di elementi ultimi. L'atomo, o elemento, o individuo indivisibile, è ciò che sarebbe alla base e/o all'origine di ogni occorrenza storica concreta. L'atomismo ha dato grandi risultati in fisica e in genetica, lo tentano oggi i cognitivisti nelle scienze umane, ma è impraticabile in psicoanalisi: questa, in pratica, non va mai dal complesso al semplice, ma dal complesso al complesso (e non solo a quello di Edipo).
Le interpretazioni non sono equivalenti quindi non perché alcune sarebbero vere (o direbbero qualcosa di elementare o di originario) e altre false. Ma - scopro le mie carte - perché alcune interpretazioni, a differenza di altre, hanno grazia - ci fanno intravedere un reale che nessun discorso, per quanto oggettivo, potrà dire. E questa evocazione ek-statica di un reale provoca un'emozione di verità nel mondo.

Ponzio Pilato strutturalista

Intanto, a chi non fosse iniziato ai Misteri del post-strutturalismo bisogna spiegare perché Miller e tanti lacaniani (e gli analisti francesi in genere) ci tengono tanto a dire che l'interpretazione analitica non deve "nutrire di senso il sintomo>>, che insomma fare senso è una cosa cattiva. Nella belle époque strutturalista e post-strutturalista (anni 60 e 70) era doveroso dare addosso al povero sens, e innalzare invece il signifiant. Tutta la critica letteraria e artistica in voga all'epoca si fregiava di non cercare il senso dei testi, ma di limitarsi al signifiant. Anche lo psicanalista, come ogni parigino dabbene all'epoca, non voleva sporcarsi le mani di senso - anche se resta il dubbio che il suo lavarsi le mani, come Pilato, nella bacinella del significante fosse una forma di ipocrisia, che in questo modo autorizzasse il misfatto del dare senso altrove. Voler mettere tra parentesi il senso spiega il riflesso antiermeneutico di tutta questa cultura. Ma che cosa si cercava, dietro il conformismo strutturalista dei cafés del Quartiere Latino?
Si voleva reagire a un'accezione spiritualista dell'interpretatività, reintroducendo un ideale di scientificità - ma non il metodo sperimentale delle scienze naturali - nell'approccio ai soggetti umani, ereditando quindi l'esigenza di oggettività del positivismo comtiano e durkheimiano. Lo strutturalismo propose infatti una mediazione attraente (per intellettuali formatisi in Francia) tra positivismo oggettivista e ciò che Hegel aveva chiamato Spirito Oggettivo: la causalità determinante era ormai dell'ordine del sign... (completando, a scelta, con -e, -ifier, -ifiant, -ification, ecc.). L'uomo non andava più studiato come sistemi di cose, e nemmeno bisognava "dire il senso ultimo" delle azioni umane: l'uomo andava studiato come sistemi di segni o, meglio ancora, di significanti. Perciò all'epoca ci si vantava di respingere "l'umanismo", come propensione a dare senso alla storia e quindi alle sofferenze umane. Bisognava diventare non inumani ma "aumani", per dirla come Julius Evola, sul modello dell'aumanità delle scienze naturali. E bisognava respingere anche l'aforisma germinale di ogni ermeneutica, "non esistono fatti, ma solo interpretazioni": oltre alle interpretazioni aleatorie, lo strutturalismo considerava possibile de-scrivere, o -scrivere, i "sistemi di segni", facendo ricorso a quel che certifica che siamo nella scienza, cioè le formule matematiche. Lo strutturalismo fu insomma un olismo durkheimiano ammodernato con un olismo hegeliano (il linguaggio prende il posto dello Spirito Oggettivo): riaffermava il determinismo e negava la libertà trascendentale dell'uomo, solo che ora il determinante era il linguaggio, non più la società-come-tutto, né certo il cielo stellato di Kant e Laplace. Si sperava infatti che la categoria del linguaggio dribblasse la dicotomia cartesiana e diltheyana tra res estesa e res pensante, tra scienze della natura e scienze dello spirito. Giano bifronte, il linguaggio ha una faccia naturale e una faccia spirituale, ma esso stesso ne superava l'opposizione, concertando le facce a partire dal proprio primato.
Eppure è strano che l'anatema contro il senso sia stato lanciato in una lingua latina, dove provvidenzialmente sens ha un doppio significato: di significato e direzione. Il nostro "senso" è a doppio senso. Per esempio, la musica ha senso? Sì, nella misura in cui l'effetto che essa fa su di noi dipende dalla sua direzione sintattica, come percorso acustico rispetto al quale i nostri ritmi psichici e fisiologici trovano, direi, un contrappunto. Per dirla in termini strutturalisti: c'è un senso metaforico e uno metonimico, uno semantico e l'altro sintattico. E l'interpretazione freudiana di solito ha questo doppio senso: pretende di interpretare certi fatti come metafore, ma anche ricostruisce serie metonimiche, "spiega" narrando una sorta di storia ricostruita dei soggetti, ciò che gli analisti chiamano <<processi psichici>>. Ora, la psicoanalisi lacaniana ha attaccato l'interpretazione metaforica (paradigmatica) come concettualizzazione di significati, e nella pratica si è buttata sul versante dell'interpretazione metonimica (sintagmatica). Che cosa sono le sedute variabili se non punteggiature sintagmatiche (29)? Il senso, denunciato come senso figurato, torna comunque nella passione strutturalista per il racconto - e non a caso all'epoca tutti i semiologi parigini si precipitarono ad analizzare i récits.
Eppure nemmeno lo strutturalismo, anche psicoanalitico, poteva sfuggire alla "necessità" nietzscheana di interpretare - che non si riduce appunto a enunciare significati. Lacan stesso da qualche parte cita il modo in cui Freud commenta, favorevolmente, l'interpretazione che gli àuguri dettero ad Alessandro Magno quando assediava Tiro; egli sognò un satiro che ballava su uno scudo. E gli àuguri lessero Satyros come anagramma di sa Tyros, cioè "Tiro è tua" (30). Interpretazione freudo-lacaniana ineccepibile: il desiderio di Alessandro era conquistare Tiro, e si è espresso in un gioco di parole. E questo è il modello di interpretazione che Lacan propone: "non perdete tempo, come gli junghiani, a interrogarvi sui significati della figura del satiro nel mondo antico e moderno, risolvete piuttosto un rebus". Concretamente, a ciò si riduce la teoria che l'inconscio è strutturato come un linguaggio?
A esser sinceri, se l'impatto di Lacan si riducesse a tale tipo di interpretazioni - oltre che a fare sedute corte - allora sarebbe ben poca cosa, almeno per un filosofo. Innanzitutto, dubito che l'analista lacaniano si mantenga sempre a livello del gioco di parole - in effetti, almeno quando si esprime pubblicamente, egli fa sempre intervenire degli universali (il fallo, l'Edipo, la castrazione, la morte, il manque, ecc.) che in quanto non sono connessi a lingue particolari hanno un valore semantico strutturante forte (31). Spesso si ha l'impressione che i lacaniani si limitino a una cosmesi linguistérique di pratiche interpretative in fondo classiche: rivestire di panni strutturali interpretazioni del tutto "sensate" e convenzionali.
Comunque, anche se fosse possibile un approccio radicalmente lacaniano, non è certo compito del teorico stabilire se esso è plausibile. Uno storicista radicale dirà semplicemente: sarà la storia a decidere se il modo lacaniano di interpretare è giusto oppure no; tutto dipenderà dal suo successo. Se il fatto di interpretare al modo del rebus "produrrà effetti" sulla gente più rilevanti delle interpretazioni a base di seni materni attaccati, o di quelle a base di crisi dell'autostima, allora le scuole lacaniane si espanderanno, ecc. Buona fortuna. È del tutto illusorio pensare che la questione possa essere risolta dalla lettura dei sacri testi freudiani o da riflessioni linguistico-filosofiche (come pensano invece molti analisti che non ce la fanno ad accettare il rischio assoluto della loro pratica: il fatto cioè che la sua validità dipenda non dalla teoria e nemmeno dalla pratica clinica, ma dalla storia).
Lacan pare rinnegare ciò che appare la grande novità introdotta da Freud, quando scommette sul fatto che sogni, atti mancati, sintomi nevrotici, ecc., non sono meri fatti ma hanno un senso, che vanno cioè interpretati come metafore. Ma, anche se Lacan lo chiama significante, pur sempre di senso si tratti - se per "senso" intendiamo qualcosa di nascosto in un discorso, che un altro discorso svela. Il punto è che la proposta lacaniana di interpretare privilegiando il significante non elimina affatto - come spera illuministicamente Miller - la questione di fondo: e cioè il fatto che comunque l'analista interpreta. Interpretare il sogno di Alessandro come un suo desiderio di scopare come un satiro la ragazza fenicia incontrata il giorno prima mettendo un po' da parte lo scudo guerriero, oppure interpretarlo come sa Tyros, sono dopo tutto questioni per me alquanto secondarie. Che dipendono, insomma, da come la prenderà Alessandro. La questione di fondo resta la stessa: che si interpreti in un modo o nell'altro, che cosa significa interpretare? E in particolare: in che cosa consiste l'atto di interpretare, al di là delle chiavi interpretative - o antiinterpretative, à la Miller-Laplanche - che ogni scuola adotta? Lo strutturalismo propone interpretazioni formali, altre scuole propongono interpretazioni contenutistiche; ma non è optando per le interpretazioni formali che ci si libererà dell'atto, azzardato e sconveniente, di interpretare (32).

È noto che Lévi-Strauss ha influenzato molto Lacan. Ora, si prenda l'interpretazione che Lévi-Strauss ha dato del mito edipico greco: esso

esprimerebbe l'impossibilità in cui si trova una società che professa di credere all'autoctonia dell'uomo [...] di passare da questa teoria al riconoscimento del fatto che ciascuno di noi è realmente nato dall'unione di un uomo e di una donna. La difficoltà è insuperabile. Ma il mito di Edipo [...] permette di gettare un ponte tra il problema iniziale - nasciamo da uno solo, o da due? - e il problema derivato [...]: il medesimo nasce dal medesimo o dall'altro (33)?

Per arrivare a tale conclusione Lévi-Strauss riordina in un certo modo la narrazione mitica - ritrovando ordini, regolarità, isomorfismi, gerarchie di livelli, ecc. - e alla fine anche lui sfocia in un'interpretazione, che sedusse una generazione come più verosimigliante di quelle di Frazer, di Freud o di Jung.
Ma, essendo pur sempre interpretazione, anche l'analisi strutturale del mito può essere a sua volta considerata mito. Certo Lévi-Strauss compie un colpo da maestro quando afferma che l'interpretazione freudiana del mito di Edipo deve essere considerata - da un punto di vista antropologico - come una variante del mito stesso, e quindi come una delle fonti per l'antropologo (34), piuttosto che come una spiegazione dall'esterno, oggettiva, del mito. Ogni epoca rilegge i miti che ha ereditato e li spiega, cioè li dis-piega nuovamente in modo da far emergere "verità" nuove. Ma l'interpretazione dell'interpretazione del mito può essere applicata a sua volta anche all'antropologia strutturale - dato che l'antropologia è parte della cultura che l'ha prodotta - e quindi anche l'interpretazione lévi-straussiana del ciclo tebano può essere interpretata come una modernizzazione di quel ciclo, e non come interpretazione spassionata di un puro regard éloigné. I paradossi dell'autoctonia e della derivazione dell'uno da due che Lévi-Strauss legge nel ciclo antico sono anche questioni modernissime: possiamo sempre sospettare che anche l'antropologo strutturale di fatto "proietti" i conflitti culturali moderni nei miti antichi. Il ciclo tebano non si chiude una volta per tutte nella Scienza Strutturale, ma riprende, si rilancia in forme <<scientifiche>>.
C'è nello strutturalismo - e nel tipo di lacanismo che ancora vi si attarda - una involontaria ipocrisia: ci si maschera da antiinterpretanti antiumanisti per far passare una certa interpretazione, e una visione in fondo anch'essa spiritualista dell'uomo (non lo dico come critica: non sono pregiudizialmente ostile allo spiritualismo). Per il vecchio spiritualismo contava solo lo spirito umano (quello divino era un infinito potenziamento dell'umano), per lo strutturalismo conta solo il linguaggio, cioè lo spirito oggettivo - ambedue cose tutte umane, solo umane, troppo umane! Ancora una volta, ogni contatto tra l'uomo e la bestia viene interrotto; l'animale nell'uomo - la faccia naturale delle sue pulsioni - viene sacrificato sull'altare del dio Linguaggio. Viene ancora una volta sacrificato il reale.

L'agire interpretante

C'è un altro senso in cui la critica dell'interpretazione da parte di Miller pare andare nella direzione giusta: molto spesso "qualcosa accade" in un'analisi, ma non perché viene esplicitata un'interpretazione. C'è un agire nell'analisi che opera tacitamente, dietro la scenografia interpretativa, dietro il bla bla. Quando nel mio vecchio saggio dicevo che l'analista doveva agire anziché interpretare, peccavo di ingenuità: anche se non lo ammette, sempre l'analista agisce, e come! Si parla tanto dell'acting out degli analizzanti, ma quasi mai dell'acting out che è in gran parte la stessa pratica analitica. Spesso l'analisi funziona come il metodo catartico che Freud ci illustra negli Studien über Hysterie. Qui il medico chiedeva assillante "raccontami la verità!", e bastava che il soggetto si decidesse a dire finalmente qualcosa che non poteva o non voleva dire, e il sintomo si dissolveva, senza far ricorso ad alcuna interpretazione decifrativa. Funzionava insomma l'atto del medico. Di solito, per le pazienti di Freud la cosa da confessare (anche a se stesse) era un amore impossibile. Il dubbio allora oggi è: il metodo catartico funzionava, ogni tanto, malgrado il fatto che il medico non interpretasse, o quel suo spingere l'isterica ad ammettere l'amore impossibile era già di per sé tutta "l'interpretazione" che occorreva? Allora, sulla scia del pensiero post-heideggeriano ma anche della nostra esperienza, dobbiamo ampliare il concetto di interpretazione.
Quando lessi per la prima volta le Plays di Harold Pinter, le trovai noiose. "Come Pinter può piacere tanto?", mi dicevo - insomma, non lo capivo. Poi, ebbi l'occasione di vedere a teatro uno dei suoi drammi, con una regia controllata da Pinter stesso: finalmente capii. Quei dialoghi che, letti, mi parevano opachi, ora, interpretati da attori opportunamente guidati, erano finalmente comprensibili, nel senso che mi interessavano, ne coglievo la sottile ironia. L'interpretazione fatta dalla messa in scena mi aveva fatto capire che cosa Pinter volesse fare, anche se mi era difficile verbalizzare questa "cosa". Non si trattava insomma di un'interpretazione verbale, ma era non meno effettiva. L'attore, interprete un testo, ce lo rendeva accessibile non perché ne dicesse il senso concettuale. Egli aveva offerto una chiave, quasi in senso musicale: qualcosa che, curvando l'insieme testuale, lo rendeva finalmente intelligibile. Spesso l'attore interpreta un testo come "si risolve" un'anamorfosi, dove le figure si rivelano all'improvviso se le si guarda dall'angolatura giusta. "Interpretare" in questo senso non concettualista è proporre questa angolatura, e "senso" qui è una certa curvatura. Di Maurizio Pollini possiamo dire "mi convince come ha interpretato Beethoven", e non vogliamo certo dire che abbia scritto un saggio su Beethoven. L'analista interpreta anche nel senso in cui un attore o un musicista interpretano, rendendoci sensibile ciò che nel testo era (per alcuni) oscurato: ci inizia a uno sguardo che ci fa cogliere rapporti finalmente convincenti fra brandelli della nostra esistenza che fino ad allora ci apparivano grevi, insignificanti, e quindi ostruzioni del nostro potere.
Ma ammettiamo che io avessi letto un critico così bravo da farmi capire come leggere Pinter, senza bisogno di vederlo interpretato a teatro. Anche questo è possibile. Ora, l'anatema dei lacaniani contro le interpretazioni analitiche che danno senso concettuale è come condannare ogni lavoro critico che cerchi di verbalizzare qualcosa che il lettore dovrà poi cogliere per conto suo; ma è una condanna ingiusta. L'analista che interpreta "agendo" sarà talvolta più diretto ed efficace, ma l'analista che interpreta "decifrando" alla fin fine può realizzare lo stesso obiettivo: quel che conta è che il soggetto arrivi a cogliere per conto suo in che cosa consiste l'interpretazione di vita che non ha riconosciuto come tale.
Chi ha pratica psichiatrica sa che anche solo una diagnosi - giusta o no che sia - può avere effetti terapeutici, funzionare insomma come un'interpretazione riuscita. Un caso tra tanti. Un uomo da un paio d'anni soffriva di attacchi di pollachiuria e di altri disturbi urogenitali, e l'urologo gli aveva diagnosticato una prostatite cronica; ma i sintomi erano ribelli a ogni antinfiammatorio, anzi andarono aggravandosi sempre più. A un certo punto, gli venne diagnosticato dal servizio psichiatrico (dove lavoravo) uno stato maniacale non esplicito: il bisogno continuo di urinare era connesso a uno stato di eccitazione psichica, anche se non evidente (il soggetto appariva molto più depresso che euforico). Lasciamo da parte la questione se la diagnosi fosse tecnicamente giusta - dipende dai criteri nosografici - fatto sta che, anche senza prendere praticamente farmaci, il paziente fu così convinto dalla diagnosi (perché la interpretò come più favorevole della prostatite? perché semplicemente era più vera?) che il tenesmo urinario gli scomparve in breve tempo. Quando, in stati ansiosi, notava che doveva andare spesso a orinare, si diceva "nulla di grave, è solo un effetto del mio stato maniacale", così il sintomo non entrava nella spirale in cui esso rafforza se stesso fino a strutturare l'intera esistenza del soggetto. Chi ricorre al rozzo concetto di placebo dirà: si è convinto perché ha stabilito un transfert con lo psichiatra. Può darsi; ma perché ha stabilito un transfert proprio con lo psichiatra, e non con l'urologo? Proprio perché la diagnosi dello psichiatra lo aveva convinto. Il ricorso al passe-partout del <<placebo transferale>> rimanda solo la questione fondamentale: perché alcune interpretazioni hanno il potere di dissolvere sintomi, e altre no?
Ma allora, se anche una diagnosi può avere il valore di interpretazione chiarificatrice, non potremmo concludere che molto di ciò che risulta terapeutico è interpretativo? Quando uno psichiatra dà un farmaco, in un certo senso non interpreta anch'egli (35)? L'agire psicofarmacologico, in quest'ottica, potrebbe apparirci non più alternativo all'agire psicoterapico, ma come una sua variante. Come era una variante il metodo catartico del primo Freud, che spingeva le pazienti a confidargli i loro segreti di cuore ma senza decifrare. E il lacaniano, quando interrompe a un dato punto la seduta, non opera un atto interpretativo, non meno grave del prescrivere un farmaco? Ma anche chi aborrisce Lacan sa bene che, in analisi, un silenzio, uno sbadiglio, una mimica minima di stizza o di invito, o anche il fatto che l'analista si addormenti, sono interpretazioni (36). Come si vede, il concetto di interpretazione si dilata in modo preoccupante - verso preoccupazioni ermeneutiche.
Difatti, potremmo andare nella direzione esattamente opposta a quella prospettata da Miller: non si tratterebbe di smettere di interpretare, ma al contrario, si vedrebbe che in ogni cura c'è dell'interpretazione, tacita o articolata, detta o agita. Il problema filosofico interessante è come dobbiamo interpretare queste interpretazioni che si fanno, spesso senza saperlo - come quelle che fa l'attore recitando, non il critico di teatro scrivendo. E qui le teorie psicanalitiche non ci aiutano molto.

*
"La vita è un fiume..."

Prima di continuare la nostra ingenua interrogazione sull'interpretazione in analisi - ingenua perché ogni interrogazione filosofica, ripartendo da zero, odora sempre di ingenuità - sarà bene portare qualche esempio concreto.
Tempo fa una signora quarantenne venne a trovarmi, perché aveva preso a preoccuparsi del fatto che non riusciva mai a costruire una situazione coniugale con un uomo. Madre nubile da qualche anno, aveva pensato fino ad allora che era stata sfortunata, imbattendosi negli uomini sbagliati, ma ora citava il proverbio "la fortuna è cieca, ma la sfiga ci vede molto bene". E mi raccontò subito un sogno fatto a diciannove anni, quando stava per lasciare la casa dei genitori al paese e trasferirsi a Roma per darsi alla carriera artistica. Sognò di trovarsi nel bel mezzo di un fiume impetuoso, l'acqua fino alla cintola, mentre un giovane tedesco di passaggio la baciava e le accarezzava lascivamente il seno e le natiche. Sull'altra riva pareva aspettarla suo padre, pallido e cereo. Raggiunta la riva, il padre le mostrava i suoi quadri (era un pittore dilettante).
Già all'epoca, pur non sapendo nulla di psicoanalisi, lei interpretò quel sogno: il fiume rappresentava la vita in cui stava per immergersi - la carriera di artista che aveva scelto, ma anche il lasciarsi andare alla corrente dei sensi, e rinunciare alla verginità (che difatti perse di lì a poco, una volta trasferitasi a Roma). Il pallore del padre rappresentava l'impallidire del suo influsso e della sua presenza nella sua vita di donna, in cerca ormai di uomini estranei, anzi stranieri.
Dissi alla signora solo questo: "ma alla fine lei raggiunge suo padre, di cui contempla "le belle immagini"". La mia postilla fece effetto. D'un colpo lei cominciava a rendersi conto del fatto che, forse, aveva "programmato" la sua vita sessuale (e in parte anche professionale) come la traversata di un fiume, senza lasciarsi mai trascinare dalla sua corrente: poi doveva tornare alla sponda sicura, nel mondo impallidito del padre. Da una parte la seduzione di pure immagini fisse, che non si muovono e non si toccano - le armi del padre "tradito" - dall'altra il fiume seduttivo dove ci si muove e ci si tocca, non ci si immagina.
Ora, che cosa abbiamo fatto, la signora e io, interpretando il sogno in quel modo? Ha ragione Miller, è il sogno che interpreta: esso mette in scena - con la metafora classica, solenne, della "vita e amore come un fiume impetuoso" - il pattern che quella donna aveva imposto al proprio futuro cammino: "non mi lascerò portare via da un uomo seducente, a papà devo tornare". Abbiamo cioè interpretato il sogno come metafora dell'interpretazione che lei ha dato ai suoi rapporti con l'altro sesso. Ma per mettere a nudo questa interpretazione dell'inconscio (genitivo soggettivo) occorre pur sempre interpretare.
Molti analisti avrebbero dato un'interpretazione simile a quella da noi trovata. Significa che quello era il solo modo di svelare il sogno? Crederlo è segno capitale del dogmatismo di scuola. Sarebbe come dire che bisognava interpretare Pinter solo nel tipo di messinscena che me lo fece capire; invece sono possibili infiniti altri modi felici di interpretare Pinter. Se tra duecento anni Pinter sarà ancora rappresentato, c'è da giurarci che verrà interpretato del tutto diversamente. Suggerendo quell'interpretazione del sogno e della vita della paziente, sapevo di avanzare un'altra metafora. Più che dire il senso figurato dietro quello letterale, sostituivo un senso letterale a un altro senso letterale. Erano possibili tante altre interpretazioni che pure avrebbero prodotto un "effetto di verità>> in lei. La metafora dell'analista è quindi una metafora di metafora, che funziona in modo però indiretto: rivelando l'origine interpretativa dei problemi del soggetto, l'analista lo apre alla possibilità di altre interpretazioni del mondo e della propria vita. Ma queste ultime non vanno suggerite dall'analisi - in questo senso Laplanche parla di "anti-ermeneutica" - bensì della ritrovata creatività del soggetto.
La tecnica psicoanalitica è efficace quando fa retrocedere, almeno di un po', il reale (quando scolla ciò che consideriamo realtà dal reale): svelando che certe barriere nella vita non sono reali, ma corollari o sottoprodotti delle interpretazioni del soggetto, l'analista aiuta a dissolverle. Diego Napolitani afferma che ogni soggetto che viene in analisi dice in sostanza "vorrei, ma non posso" (37). La scommessa dell'analista è mostrare che quell'impotenza è, almeno in parte, effetto proprio di un "vorrei", che il "non posso" soddisfa un implicito non riconosciuto del proprio volere, che quel "non posso" va insomma riconosciuto come un "non voglio" (del soggetto o dell'Altro). Ciò che appariva un macigno che ostruisce il cammino della nostra vita si rivela l'effetto di un vizio del nostro stesso percorso. Anche tante psicoterapie non analitiche si basano su questa strategia: si scommette sul fatto che l'impotenza sia solo apparentemente reale, che essa sia l'artefatto di nostre interpretazioni. Perciò la modernità, che mira ad ampliare la potenza di ogni soggetto, ha accettato più o meno entusiasticamente la psicoanalisi: pareva ampliare la sfera del possibile a scapito dell'impossibile, del reale. Per questo ottimismo della potenza, al limite sarebbe radicalmente reale una sola cosa: la morte, l'impossibile della vita.
Ma se l'analisi è solo de-realizzazione, essa tende a credersi onnipotente. Molti analisti sono caduti in questa megalomania - e oggi la psicoanalisi paga il suo delirio di onnipotenza con un certo (meritato) discredito. Invece, nella misura in cui l'analisi mette in evidenza quanta impotenza è frutto dell'interpretazione del soggetto, gli rimanda a un altro livello la questione del reale. Il quale, come diceva giustamente Lacan, non è tanto dell'ordine dell'impotenza, quanto dell'impossibile (38). Il soggetto interpreta - sogna, fa battute, si nevrotizza, si deprime - per darsi ragione di un reale, con il quale si confronta nella misura in cui scopre che il suo darsene ragione non era ancora il vero reale, per così dire.
Ma in che cosa consiste questo reale che fa da limite e fonte di ogni interpretazione? A mio avviso in psicoanalisi è di ordine etico.

La minzione virtuale

Non possiamo certo risolvere qui la millenaria interrogazione filosofica sull'etica. Ci limiteremo a mettere alcuni punti sugli i, in relazione alla questione del rapporto tra interpretazione e reale.
C'è un approccio "modernista" all'etica che tende a ridurla a prescrizioni, a regole di comportamento, a comandamenti - più o meno arbitrari o giustificati a seconda che si sia moralmente rivoluzionari o conservatori. Secondo questo approccio, tutto quel che Freud avrebbe da dire sull'etica sarebbe riassunto nella sua teoria del Super-Io: l'etica sono i comandi genitoriali che ci impediscono di godere pienamente. Eppure emanare il comandamento "non uccidere" ha senso perché i nostri concittadini uccidono, e come! - perché i concittadini mancano di etica. La regola morale interviene proprio perché l'ethos - diciamo di base - ha fallito; la morale è il tappabuchi normativo dell'etica come ethos, come costume. Tutti i sistemi di regole e comandamenti in cui consiste la morale vengono in primo piano nella misura in cui si perde di vista la polarità universale dell'etica, ovvero: il rispetto per ciò che esiste e l'impegno a tutelarlo. Il reale di cui stiamo parlando differisce dalla realtà degli oggetti - sia di quelli presi in considerazione dalle previsioni scientifiche, sia di quelli usati dalle nostre strategie utilitarie di massimizzazione del piacere e/o della felicità. La scienza tende a ridurre il reale a ciò che è prevedibile perché segue una legge causale. E quando la scienza si occupa delle realtà etiche, le vede come fatti di costume: siccome in certe culture vigono certe regole morali, certi comportamenti saranno più o meno probabili.
Si prenda un personaggio dalla qualità etica indiscutibile, il carabiniere Salvo D'Acquisto. Egli si accusò, falsamente, di un'azione partigiana per salvare la vita a ventidue persone, e così venne fucilato dai nazisti. Ora, si tende a pensare che il contributo della psicoanalisi anche in casi come questo persegua la linea del disincanto. Se D'Acquisto venisse analizzato - si pensa - il suo eroismo ne uscirebbe ridimensionato; per esempio, si potrebbe scoprire che il suo immolarsi per gli altri realizzava il desiderio di sua madre, che ne voleva sotto sotto la morte. Per la psicoanalisi, insomma, anche il martire agisce comandato dal Lustprinzip, il "sospetto freudiano" dissolve anche le nostre ammirazioni etiche più pure. Della psicoanalisi si vede di solito solo questo aspetto - il che equivale a pensare che la luna è piatta, perché non vediamo la sua faccia nascosta. Ora, l'altra faccia dell'interpretazione dissacrante freudiana - e che ne regola segretamente la pratica - è proprio invece una prospettiva etica.
E' verosimile che D'Acquisto non abbia seguito alla lettera qualche comandamento, di Dio o dell'Arma dei carabinieri, ma semplicemente avrà pensato: "far fuori ventidue persone è davvero troppo! A questo punto, meglio farne fuori solo una". È in questa ineccepibile contabilità terra terra che, paradossalmente, consiste l'atto eroico: l'attore etico mette davanti a sé gli altri in quanto sono più reali. Il di-più diventa in questo caso il criterio del meglio. Ha agito da vero soldato, che si preoccupa di vincere la battaglia, non di salvare quel soldato che è se stesso (e non a caso gli Antichi avevano messo l'andreia, il coraggio militare, al vertice delle virtù). Solo che quell'atto qui ci commuove come ancora più paradigmaticamente etico perché non si tratta di sacrificare una vita (la propria) per vincere la battaglia, ma di sacrificarla per salvare più vite. La vittoria da conseguire è essa stessa non di ordine politico ma etico: il fine è dare spazio ai viventi, lasciarli essere.
Ora, se questa è la prospettiva etica, in che modo la prospettiva dell'analisi è etica?
Certo l'analisi non fabbrica eroi morali. Non è affatto detto che uno perfettamente analizzato sia capace di gesti come quello della medaglia d'oro della Resistenza. Analizzati e non analizzati si assomigliano come gemelli: egocentrici e utilitari come più o meno ognuno di noi è. Eppure... c'è "maturazione" - direbbero gli analisti derisi dai lacaniani - nella misura in cui grazie all'analisi l'atto di D'Acquisto apparirà per lo meno soggettivamente possibile. Ben pochi sono eroi etici, eppure l'analisi ci confronta con una decisione eroica - non è per evitarla che ci siamo invischiati nella nevrosi? È quel che accade in molte analisi, quando, messo di fronte alle proprie interpretazioni rimuoventi, il soggetto è posto di fronte a una scelta cruciale che mai nessun analista, né nessun altro, potrà fare al posto suo: di solito, se uscire dalla propria forma di vita infantile oppure no. L'analista non può gettare il soggetto in acqua perché impari a nuotare - lo getta solo nell'acqua della verità. In questo, l'analisi è l'opposto della psicofarmacologia - e proprio in quanto opposta a essa affine. Il farmaco, suol dirsi, fornisce delle buone grucce, ma è il soggetto poi che deve decidere di servirsene per camminare. L'analisi invece toglie le grucce, dicendo al soggetto che nulla di reale gli vieta di camminare: ma, anche qui, è pur sempre il soggetto che deve, alla fine, decidere di camminare, eroicamente (39).
In questo il buon Lacan ci è di aiuto: il reale, a differenza della realtà, è qualcosa che non si riconosce, ma lo si rispetta (40) e lo si tiene in conto. La psicoanalisi scommette sul fatto che si possano superare i crampi patologici portando il soggetto ad accorgersi di ciò che esiste (anche e soprattutto in se stesso) e ad averne rispetto.
Porterò l'esempio più semplice di interpretazione freudiana. Si sogna che si sta urinando in abbondanza, e poi ci si sveglia con una gran voglia di far pipì. Tutta la teoria del simbolismo del sogno deriva da questa molecola di wishful dreaming: siccome il desiderio di urinare disturba il mio sonno, sogno di urinare - soddisfazione immaginaria del desiderio. Ma il conflitto tra i due desideri - di dormire e di urinare fuori del letto - produce sogno proprio perché un reale viene provvisoriamente escluso: il mio levare le chiappe e andare nel bagno. Quell'interpretazione che è il mio urinare onirico aggira e isola il mio urinare reale: soddisfo il desiderio, manco di realizzare il bisogno. Ma il reale, interpretato nel sogno, insiste, non cessa di riproporsi, esige che io lo riconosca come reale e lo soddisfi non immaginariamente.
Al contrario, l'approccio scientifico-tecnologico, che oggi punta a virtualizzare sempre più la nostra realtà, cerca di costruire piuttosto una macchina che mi permetta di urinare durante il sonno senza bagnare il letto e senza svegliarmi: una macchina che realizzi i miei sogni, che faccia coincidere la soddisfazione del sogno con la soddisfazione reale. A questo mira la cultura del virtuale: poco a poco, farmi abitare in una realtà di sogno, in modo da realizzare finalmente i miei sogni. Il progetto etico-tecnico del virtuale è l'opposto del progetto etico-tecnico della psicoanalisi, che punta non alla soddisfazione virtuale ma al confronto con il reale.
Ma qualcuno dirà: nella misura in cui il bisogno diuretico persiste, ci svegliamo; insomma, non abbiamo bisogno di riconoscere il bisogno reale, questo prima o poi si impone. Ma in tantissimi casi il bisogno reale non ce la fa a farsi prendere in considerazione: il sogno riesce troppo bene, resiste con successo al reale. Forse è proprio quello che capita nei deliri psicotici, che paiono basarsi tutti un po' su una sorta di disprezzo "idealistico" per il reale, su una specie di ideale di libertà soggettiva incondizionata e senza intralci1. La psicosi è un caso estremo, ma illustra il processo attraverso il quale il soggetto cerca di rendersi indipendente dal reale - a cominciare dal proprio corpo - convertendolo secondo le proprie linee interpretative.
In fondo, alzarsi dal letto per andare a fare pipì - farà ridere - implica un'opzione morale. Simile a quella che i mistici davano ai loro discepoli, "mai poltrire nel letto!". Implica la responsabilità per il nostro corpo, il quale esige, per mantenersi pulito, che usciamo dall'autarchia confortevole del nostro sogno, il quale ci risparmia il reale.
Prendiamo un esempio più complesso, anche se semplice per un lacaniano. Lacan ha proposto una teoria della psicosi come effetto di una forclusion del Nome-del-Padre; una tesi azzardata basata su una constatazione clinica, in quanto davvero lo psicotico spesso è in dubbio sulla paternità. Un punto che era chiarissimo anche a Strindberg, che di psicosi se ne intendeva, quando scrisse quel dramma prototipico della paranoia che si intitola appunto Padre. Ma Lacan, dicendo che lo psicotico è sostanzialmente uno che non capisce che cosa significhi esser padre, ci fa scoprire tutti un po' psicotici, perché in effetti nessuno di noi sa veramente che cosa significhi esser padre. E cioè: la paternità è qualcosa di reale? Non mi riferisco alla genitorialità fisica, che per un uomo può anche non significare nulla - soprattutto oggi, con le banche dello sperma. E non mi riferisco al rapporto affettivo tra un uomo adulto e un bambino, che può svilupparsi - come si vede nel film ceco Kolya - in totale assenza di legami di sangue. Il punto è: c'è qualcosa nella paternità che non si riduca a legame genetico fisico e/o a legame affettivo nei confronti di un fanciullo? O si tratta solo di un'interpretazione sociale, del fatto cioè che la nostra società patriarcale ha voluto istituire una connessione tra un elargitore di sperma, e diritti e doveri giuridici?
Ora, per un pensiero oggettivista la questione della "realtà" della paternità non si pone nemmeno: essere padre è solo una faccenda di simboli, di norme sociali, non una questione reale (sono reali solo gli spermatozoi e i legami sentimentali). E certo anche Lacan è condizionato da questo modo di pensare quando dice che esser-padre è un significante, cioè qualcosa di irreale, una faccenda di linguaggio. Ma nello stesso momento, legando qualcosa di terribilmente reale come la sofferenza psicotica alla mancanza di questo significante, fa presentire che quel che lui intende per significante non ha nulla del simbolismo solito (e nemmeno ha nulla a che vedere con il signifiant saussuriano): insinua che l'esser-padre è una faccenda reale, non nel senso del meccanismo biologico, ma nel senso etico. Si sente padre chi accetta un incidente biomeccanico - l'incontro di uno spermatozoo con un ovulo - come qualcosa che riorienta il suo rapporto al mondo; anche se un figlio è nato per caso, gli diventa padre chi si fa carico di questo nuovo reale insensato che fa irruzione nel mondo.
Certo il reale etico della paternità è esile, quasi evanescente: sempre pronto a svanire nella realtà dei fatti fisici o affettivi, o nell'irrealtà (convenzionalità) delle istituzioni sociali e dei simboli. Eppure, anche ammettendo che la teoria lacaniana della psicosi sia del tutto cervellotica, questo reale è quello che interroghiamo in ogni momento cruciale della nostra vita, ogni volta che ci chiediamo se qualcosa abbia senso per noi. Non se qualcosa ci piaccia o meno: ma se la questione se ci piaccia o meno... abbia valore per noi. In fondo, anche l'esempio del sogno di urinare rimanda a un reale che tende a scomparire come oggetto serio: a quell'esile punto prospettico che consiste nell'accettare che i nostri bisogni fisiologici debbano essere realmente soddisfatti.

La pietà per il reale

Parte della psicoanalisi contemporanea, influenzata dal kleinismo, offre implicitamente come criterio del superamento della patologia due traguardi etici fondamentali: (a) la capacità di provare gratitudine nei confronti di chi ci offre qualcosa, rinunciando all'arroganza narcisistica, (b) la capacità di perdonare noi stessi (e quindi anche gli altri). La gratitudine non è la capacità di contraccambiare, come avviene in ogni scambio - economico o di doni - mutualmente utile; ringraziare è qualcosa di impalpabile, è cessare di considerare l'altro come un nostro oggetto (di amore o di odio), e di considerarlo finalmente come... ci mancano concetti e parole per dire questo accettare l'altro come in sé e per sé, indipendentemente dalle nostre pulsioni. Quanto all'incapacità di perdonare noi stessi, essa sarebbe alla base di ogni fenomenologia depressiva. Per perdonare noi stessi occorre accettarci come enti reali (ai quali molte cose risultano impossibili) e non come creature dell'ideale. Si tratta insomma di criteri squisitamente etici. Ma cosa significa appunto che si tratta di criteri etici? Che il comandamento dell'analista è "sii grato", "sii indulgente con te stesso", e che si è buoni - e sani - quando vi si ottempera? Se così fosse, l'analisi non sarebbe altro che una catechizzazione morale. È vero che gli analisti delle correnti avverse rimproverano al kleinismo e agli analisti del narcisismo proprio di aver ridotto l'analisi a una catechesi morale. Ma dire che gran parte della psicoanalisi anglo-americana è solo predica morale è altrettanto sbrigativo e superficiale che dire, come dicono molti, che la psicoanalisi è solo una forma rammodernata di confessione cattolica. Significa ignorare le differenze al di là delle analogie, che pur ci sono.
La scommessa kleiniana consiste non nell'educare a ringraziare; scommette piuttosto su una Aufhebung in senso hegeliano. Quando il soggetto si accorge che l'altro è reale, toglie-annulla-conserva (i vari sensi di Aufhebung) l'altro come semplice ricettacolo delle sue idealizzazioni e invidie, o come strumento del suo piacere, e si eleva ad un livello di esistenza trascendente rispetto a quello in cui prospera la sua sofferenza nevrotica o narcisistica. In altre parole: l'analisi è una iniziazione agli altri in quanto altri, in modo da poter veramente usufruire delle loro "grazie". La capacità di ringraziare è il segno che l'altro per noi ha grazia, nella misura in cui è "in sé e per sé", non "per me".
Si prendano le analisi soprattutto americane - spesso irrise dagli analisti europei - della personalità narcisistica. Analisi che invece mi guardo bene dall'irridere, quando raggiungono un alto livello di finezza (41). Il narcisista degli analisti è erede dell'egoista della caratterologia tradizionale, ma con in più un tratto dialettico nuovo: che gli altri sono per lui solo strumenti, ma strumenti soprattutto per sostenere la propria immagine di sé. Egli dipende interamente dai propri asserviti, per così dire. Il narcisista "americano" vive un'aporia logico-esistenziale: per accettarsi egli dipende interamente dal giudizio degli altri, che usa senza scrupoli a tal fine. È una specie di variante della dialettica hegeliana del padrone e del servo, oppure di quella disegnata da Diderot in Jacques le fataliste et son maître: il narcisista è un povero padrone hegeliano interamente asservito agli altri su cui deve avere potere.
Per esempio, Kernberg dice che molti suoi pazienti narcisistici vengono in analisi perché non capiscono per quale ragione gli altri non li amino - hanno il sospetto che qualcosa in loro non li renda amabili. E il lavoro dell'analisi consisterà nel mostrare loro che, essendo loro egoisti e arroganti, facendo sfoggio del loro grandiose Self, allontanano gli altri. In questa prospettiva, le interpretazioni sono solo un modo perché il soggetto si accorga di ciò che egli realmente fa nel suo rapporto con gli altri. L'interpretazione narcisistica dell'esistenza, per quanto molto precoce, appare connessa a una sorta di "scelta" esistenziale fondamentale.
Ora, quale trattamento di questa antinomia morale questi analisti propongono, fondamentalmente? Istillare nel soggetto la capacità di sentirsi colpevole. La strategia curativa prende la direzione opposta a quella che di solito si prende per le ossessioni: qui occorre che il soggetto smetta di sentirsi responsabile e colpevole per la disonestà dell'altro (di solito del padre), là invece occorre che il narcisista si colpevolizzi un po', e smetta di vivere in una dimensione amorale di shame culture. Non a caso Kernberg situa le personalità criminali come narcisismo maligno inaccessibile al trattamento: criminale è chi considera l'altro solo e interamente come strumento dei propri progetti, chi manca di quel nocciolo di moralità che rende possibile ogni trattamento analitico. Ma anche qui, sarebbe superficiale vedere l'iniziazione terapeutica al senso di colpa - come ricaduta di una moralità ritrovata - semplicemente come sottomissione a prescrizioni (che la psicoanalisi taccia di super-egoiche proprio nella misura in cui al soggetto ne sfugge la giustificazione). Invece, alla base della promozione etica proposta come superamento di questa criminalità senza crimini che è il narcisismo, c'è la possibilità che il soggetto si accorga dell'altro come in sé e per sé.
Ora, quando Lacan, nel suo seminario migliore, L'etica della psicoanalisi, stabilisce che la dimensione etica gravita attorno alla chose, dice a modo suo quel che le scuole inglesi e americane dicono ovviamente in altro linguaggio. Anche das Ding lacaniana è al di là del Lustprinzip, vale a dire al di là delle strategie utilitarie (narcisistiche?) che riguardano gli oggetti (42). Uno potrebbe dire: <<ma la chose lacaniana non ha nulla dell'unto filantropistico della psicoanalisi dominante, non si tratta più di appelli virtuosi "a rispettare gli altri come persone", come direbbe anche una massaia. La chose ricorda piuttosto la divinità di Maestro Eckhart, è una istanza di vuoto alquanto metafisica>>. Certo la teorizzazione di Lacan è più sofisticata e filosoficamente avvertita, e quindi discorda dal senso comune. Ma occorre andar oltre le apparenze, e capire che Klein e Lacan, Kernberg e Sciacchitano, ecc., al di là delle differenze di paradigmi concettuali hanno tutti, in quanto analisti, un problema comune, una specie di compito impossibile: come rendere pensabile in termini psicoanalitici questo al di là dell'interpretazione, questo al di là della psicoanalisi? E cioè: come dire la prospettiva etica che viene aperta una volta che le interpretazioni soggettive, con la loro scia di impotenza, vengono decantate dall'analisi?
Il punto è che il fine ultimo dell'analisi non riesce a essere articolato dalla teoria analitica. Non a caso si sprecano tanti congressi sulla "fine dell'analisi", per evitare la domanda ancor più rognosa su il fine dell'analisi. La mia impressione è che la psicoanalisi non possa articolare con rigore il proprio fine - e quindi ciò che comanda la propria strategia interpretativa - non perché i suoi teorici finora non siano stati abbastanza bravi, ma per una impossibilità intrinseca. Basandosi su congetture interpretative, l'analisi deve continuamente presupporre il proprio fine ultimo, la propria "cosa", ma non può mai veramente porlo - se non in modo indiretto, metaforico, o "moralistico". Perciò trovo insulse le diatribe teoriche tra scuole analitiche: chi è riuscito a dire veramente la cosa freudiana scagli la prima pietra! Per esempio, molti analisti riescono a dire quel che fanno dicendo che la nevrosi è una mancata maturazione psichica. È fin troppo facile deridere la grossolanità della formulazione - ma è risibile anche chi non sa interpretare che cosa costoro vogliono dire con tali metafore grossolane (43). Nel linguaggio evolutivista della maturazione si vuol dire che certi nodi nevrotici si possono sciogliere solo grazie a un salto di qualità etico (che, probabilmente, può essere compiuto anche da un bambino - prova ne sia che, se non ci riesce, viene diagnosticata una sindrome di Kanner o Asperger): saper riconoscere, al di là del sistema degli oggetti libidici, l'altro-in-sé, l'indipendenza del reale.
Ogni pensiero regge grazie a qualcosa che lo esorbita, lo antecede o lo trascende. Il fondamento di ogni pensiero può essere pensato tutt'al più da un altro pensiero. Nessun pensiero si auto-fonda, determina da sé le sue basi, come farebbe il barone di Münchausen: il fondamento non è qualcosa che si trova, ma qualcosa che era già prima di noi, che ci precede. Il pensiero analitico presuppone il suo fine e la sua fine: la conversione etica al reale.
Ad un certo punto un bambino sente non solo attaccamento e dipendenza nei confronti dei propri genitori, ma anche uno strano sentimento antipsicologico: pietà nei loro confronti. Accade questo solo perché ha pietà delle sevizie che infligge loro, più o meno inconsciamente, nelle sue fantasie? O perché si accorge del fatto che i suoi genitori sono esseri umani reali au visage pâle, come diceva Lautréamont, e non solo appunto genitori? Che non sono solo l'Altro, ma altri, se stessi come lui è se stesso rispetto a sé? Ora, accorgersi dell'altro come reale, cioè cosa-in-sé-e-per-sé da rispettare, non trova posto nella teoria psicoanalitica, ma ne è il presup-posto. E la teoria corrente ha registrato questo passaggio alla pietà attraverso il concetto di maturazione: questa significa l'apertura etica dell'essere umano, in mancanza della quale c'è solitudine narcisistica, e forse autismo.
Il discorso oggettivista ci lascia sempre nelle mani degli oggetti, cioè delle cose-per-noi, mai dei veri soggetti e quindi nemmeno mai delle cose-in-sé-e-per-sé. Dopo tutto, Freud si rese conto che occorreva andare oltre l'oggettivismo parlando di un aldilà del Lustprinzip, del principio di piacere-bramare, il quale non è - come credono i superficiali - la pulsione di morte, ma direi di vita. La vita come reale irriducibile, che resuscita continuamente il soggetto.
In effetti, per l'oggettivismo cognitivo esistono solo strategie utilitarie: il mondo conta solo nella misura in cui risponde o meno alle nostre passioni. Per l'oggettivismo tutto il mondo è soggettivizzato, l'umanità non può essere altro che narcisista. In questa prospettiva non c'è spazio per l'interpretazione. Scommettendo invece sull'interpretazione, la psicoanalisi mantiene aperta la prospettiva del reale come irriducibile all'oggettività - e l'etica è il mantenersi aperto di tale prospettiva. Che, come ogni prospettiva, è un quasi-nulla: non la si tocca mai, la si ricostruisce solo. Il reale è simile al punto di fuga che possiamo ricostruire nei quadri, e che risulta dalla convergenza delle varie linee prospettiche - questo punto non è quasi mai nel quadro.
In questo senso, l'analisi è al di là del Lustprinzip, del principio di desiderio-piacere, quello che fa delle cose i nostri oggetti, buoni e cattivi, quelli che ci piacciono e quelli che ci dispiacciono. L'analisi regge nella misura in cui, senza che l'analista lo voglia, converte: dietro i nostri oggetti - di amore e di odio, di godimento o di pena - si svela un orizzonte di reale. Amare qualcuno, difatti, che cosa è se non, essendo grati dell'oggetto buono che egli è per noi, rispettare in lui ciò che non può darci, cioè il suo essere evento che persiste, in barba a ogni senso e ragione?

La metafora rivelativa

Interpretare per molti analisti significa a un tempo (1) considerare un testo come metaforico, e (2) dire il senso figurato dietro il senso letterale (il contenuto latente dietro il contenuto manifesto, diceva Freud). Ma che cosa è una metafora?
Un'antica tradizione di pensiero, da Aristotele fino a Eco e ai semiologi, vede la metafora come basata su isomorfismi (44). Quando interpretiamo l'enunciato "la sera della vita" come "vecchiaia" cogliamo un isomorfismo tra le fasi del giorno e le fasi della vita; queste parti sono in un rapporto biunivoco tale che la metafora risulta comprensibile e accettabile. Alla base di ogni azzardo metaforico ci sarebbe insomma una relazione analogica tra due insiemi, così che parti dell'uno possano essere usate per dire parti dell'altro. E' un modo formale di descrivere la metafora, ma che evita una questione essenziale: perché talvolta ci esprimiamo con metafore? E perché certe volte alcune metafore riescono, nel senso che ci fanno un effetto particolare?

Abbiamo l'impressione - quando la metafora fa effetto - che dire qualcosa in modo metaforico sia più profondo che dirlo in modo proprio. Essa ci colpisce perché ci diciamo "non ci avevo ancora pensato, ma è così" (45). La metafora tende a rivelarci qualcosa che resterebbe nascosto nel discorso non-metaforico; ci impressiona in quanto pare una rivelazione della "realtà" di ciò che viene alluso. In "la sera della vita" si dice molto di più che con "vecchiaia": si insinua che la vita è breve come una giornata, e che la vecchiaia, come la sera, è tranquilla e buia. La metafora, diremmo in linguaggio aristotelico, fa passare all'atto ciò che in assenza di metafora restava in potenza. La metafora "la sera della vita" ci sorprende con un ossimoro: accettare la brevità della vita, ma essere tranquilli proprio per questo - questa metafora è una riflessione sulla vita. E in genere la metafora è una riflessione sulla cosa metaforizzata, e, come ogni riflessione, punta a rivelare e scoprire: la metafora non è strutturalista, non si accontenta della "forma del contenuto" che ogni lingua presume e impone, ma cerca di portarci verso la cosa stessa, al di là della sua forma semantica.
Eppure, si dirà, tante metafore non si basano su evidenti analogie tra oggetti diversi? Per esempio, quando usiamo la catacresi "deflorare", non sfruttiamo l'analogia visiva e tattile tra la vagina e la rosa? L'analogia è in effetti qualcosa su cui la metafora scommette, che spesso essa rivela, ma non basta a rendere conto dell'impatto di una metafora su di noi. In effetti, dire "il tuo fiore" a una donna è segnalare che la sua vagina non si penetra; che si schiude, chiama alla penetrazione, ma resta intatta. La rosa "balla da sola", come la vagina non deflorata. La rosa può essere sgualcita, strappata, ma non veramente posseduta. Equiparando il sesso della donna alla rosa, portiamo alla luce qualcosa che appare essenziale a quel sesso: l'impossibilità di penetrarlo davvero. La metafora ci riporta, proprio in questo caso, al di là dell'analogia che essa a un tempo afferma e sfrutta, a un problema fondamentale che ogni donna ha con il proprio sesso: che portarlo alla luce significa darlo all'altro, perderlo. Perché il reale è proprio ciò che non si usa; si usano gli oggetti, non le cose, sovrane nella loro ritrosia, un resto all'orizzonte - e che per definizione non si raggiunge, come ogni orizzonte.
Si pensi ai versi:

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
e questa sovra i tetti e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna...

La luna, una forza sempre ambiguamente rischiaratrice nell'opera di Leopardi, "di lontan rivela / serena ogni montagna". Perché, direbbe un lettore ottuso, la luce lunare rivela ogni montagna come serena? Non era serena anche di giorno? Ma appunto, la luce lunare non si limita a far vedere delle montagne che altrimenti resterebbero invisibili, ne rivela la serenità, che nel giorno era come oscurata - la quale serenità, nel poema, è in antifrasi con il cuore del poeta, straziato invece dal rifiuto della donna che egli desidera. Ma la serenità delle montagne si oppone all'agitazione del cuore perché esse non si muovono, mentre "tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia". Gli uomini con le loro pene d'amore passano, mentre le montagne restano, e sono serene. Ma l'essenzialità delle montagne, il loro essere indifferenti allo scorrere del tempo e degli uomini, ha da essere rivelata. In questo modo, la metafora della luna che rivela le montagne come atemporali appare una metafora della metafora in generale. La luna, la cui luce svela qualcosa che però resta ancora nell'ombra, metaforizza la forza metaforica che ci rivela le cose che peraltro conosciamo benissimo grazie alla luce solare del linguaggio denotativo: ci illumina il reale come buio che soggiace dietro la nostra visione diurna delle cose, reale a partire dal quale interpretiamo, dato che le interpretazioni precedenti lo avevano cacciato nell'ombra. Come la luce lunare, la metafora dà luce a qualcosa degli enti - tetti, orti, montagne - che altrimenti resterebbe implicito, buio, tacito. La metafora quindi ci commuove nella misura in cui mira al reale delle cose - anche se, mirandolo, non lo raggiunge mai, perché il reale vero, Ding an sich, la chose, non può esser detto. La pulsione interpretante degli esseri umani ci fa amateurs du réel, ma ci lascia sempre e solo, tra le mani, metafore.
Il dogmatismo prevale tra gli analisti quando costoro dimenticano che le loro interpretazioni verbali sono appunto a loro volta metafore, quando credono che la pulsione interpretante si possa placare in qualche struttura elementare, nel ricettario di qualche Scuola - i rapporti originari con il seno per un kleiniano, qualche topologia per il lacaniano, ecc. Ma la pulsione interpretante è come la pulsione erotica: si placa per un po', ma poi risorge, inesorabilmente.

Perché dico che la metafora rivela puntando al reale degli enti, anziché dire che rivela solo degli aspetti impliciti, che mette in luce? "La sera della vita" non si limita a illuminare di una luce (metaforicamente) lunare solo certi tratti della vecchiaia, come appunto la sua coscienza della brevità della vita, o il suo tratto di buio e di quiete? Ma la messa in luce di questi tratti ci emoziona - e quindi la metafora vale la pena - proprio perché essi apparivano rimossi dalla denotazione "vecchiaia". La metafora, analizzando un concetto, ci spinge verso la cosa che il concetto ricopre; da una pura estensione semantica, ci porta al di là della lingua, verso la cosa stessa.
Prendiamo l'immagine del sogno del "fiume impetuoso" come metafora della vita sensuale e indipendente. Se la sognatrice ha arrischiato questa interpretazione è perché c'è un isomorfismo tra lo scorrere di un fiume e la vita sensuale e disancorata dallo sguardo paterno? Certo, possiamo sempre trovare analogie fra cose così eterogenee. Ma il punto è che nel suo sogno ha trovato, come già Eraclito, un modo per dire ciò che non può esser detto, e cioè il fluire della vita che ci trascina. Ha dato una figura al magma della vita. Ma già dicendo "fluire della vita" uso una metafora idrica: il linguaggio, sin dall'inizio, ha dato forma fluviale alla vita. Ha dato rappresentaazione a ciò che non è rappresentabile, perché è e basta: la vita e il tempo. In effetti, attraverso le immagini del fiume e dell'uomo che la bacia e la desidera, la sognatrice ha interpretato qualcosa che di per sé non ha nome, prova ne sia che solo una metafora può dirlo: ciò che realmente sentiva nel suo cuore, l'impeto della sua libido. Le pulsioni - spiace dirlo ai lacaniani - non sono meno reali del tempo e della vita, anzi scandiscono l'uno e l'altra: esse producono forme, immagini, fantasie, insomma metafore. Di che cosa? Di se stesse, o meglio di quel reale che resta al di là di tutte le forme con cui le interpretiamo, cercando così di intercettarle nell'intelligibile. Il concetto di interpretazione è inscindibile dal concetto di reale (46).
In effetti, un pensiero che voglia superare i limiti del razionalismo oggettivista deve sostituire alla classica correlazione soggetto/oggetto la correlazione interpretazione/reale. Non si interpretano mai oggetti, ma solo il reale (47).
Quando l'analista interpreta quindi un sogno come metafora, sostituisce a una metafora un'altra metafora che ha il vantaggio di essere più verosimile, anzi, più real-simile. Il vantaggio è quindi relativo: dipende dal soggetto, dal quando e dal dove. Attraverso l'epifania analitica, il soggetto è distolto dalle sue interpretazioni che aveva preso per realtà; e il suo essere rigettato verso il reale gli dà un brivido di verità.

Ma se l'interpretazione "buona" è come una metafora riuscita, che cosa dire di tutte le interpretazioni inarticolate, di tutte le "interpretazioni in atto" a cui abbiamo accennato? Dell'interruzione delle sedute del lacaniano, delle abreazioni del Freud "catartico", degli "effetti miracolosi" della diagnostica e dei placebo, di tutto l'agire terapeutico di cui abbiamo esempi ogni giorno nella vita corrente? Tutti questi atti sono interpretazioni non metaforiche. Il "senso" che evidenziano non è un concetto, ma una direzione, una chiave di lettura - come la chiave proposta dall'esecutore di musica, o dall'attore. Le interpretazioni sintattiche, metonimie più che metafore, producono effetti in quanto relativizzano le interpretazioni del soggetto, spingendolo di fatto "nel fiume impetuoso della vita". Al di là di tutto quello che dice, l'analisi funziona se fa qualcosa; se riporta il soggetto alla vita reale. E a ciò che è veramente vitale del reale: il mutamento. L'analisi può staccare il soggetto dalle sue interpretazioni che hanno perso grazia perché sono diventate anacronistiche. L'analisi, via metafore che fanno effetto, può produrre l'effetto di riportarci nel tempo reale. Non si tratta più quindi, come nel lacanismo di scuola, di ritrovare la cifra archeologica di un significante elementare (48), epicureo: la ricostruzione puramente significante provoca effetti perché è ancora un modo per abbandonare le proprie interpretazioni.

L'efficienza storica

Ma non c'è allora un modo di discriminare tra le interpretazioni offerte dalle varie scuole?
Di solito un analista è convinto che la propria interpretazione colga il segno perché constata che ha effetti sull'analizzante (49). Innanzitutto, l'analista constata un "affetto di verità" delle proprie interpretazioni: il soggetto ha la sensazione che qualcosa di lui sia stato svelato. Ovviamente, per un razionalista oggettivista l'"affetto" di verità non implica affatto la verità dell'interpretazione, dato che per lui ogni criterio di verità è pubblico, implica la partecipazione verificatrice di chiunque; qui invece si tratta della sensazione privata di aver toccato una verità. Il consenso tra analista e analizzante su certe interpretazioni per lui non ha più valore del consenso che si constata tra tanti uomini nel credere in Dio: l'accordo tra miliardi di credenze resta pur sempre un fatto privato, non è un criterio di verità pubblico. Ma appunto, l'analista vanta il fatto che le sue interpretazioni non si limitano a "fare effetto", come fa effetto nell'opinione pubblica l'introduzione di un nuovo divo, non si limitano a suscitare nell'altro un affetto di verità: pretende che esse producano effetti nel soggetto. In che cosa consisterà mai questa verità, via interpretazione, che produce effetti non solo affettivi? Ma quando ci chiediamo di che effetti si tratta, ci ritroviamo nella confusione e nel dubbio. Se non altro perché tante altre interpretazioni niente affatto analitiche - astrologiche, mistiche, politico-ideologiche, numerologiche, ecc. - fanno effetto e producono effetti, e come! Ma allora, l'interpretazione analitica si distingue da tutte le altre interpretazioni che hanno successo e credito tra la gente perché, al di là della chiave teorica prescelta, produce effetti specifici?
Molti, ispirandosi a uno storicismo che ha trovato prima in Hegel e poi in molti post-heideggeriani i suoi massimi teorici, pensano che le interpretazioni (o i paradigmi, nel senso di Kuhn) non siano discriminabili sulla base dei criteri metodologici delle scienze oggettive, ma sulla base della tempestività storica. Il che significa in pratica: ha ragione chi ha successo. E, come diceva Giovanni Gentile, "l'errore è errore perché è superato". Per costoro, non è vero che Freud ha marcato tutto il nostro secolo perché avrebbe rivelato delle verità profonde, ma il fatto che ha marcato il nostro secolo dà al suo discorso la grazia della verità profonda. La psicologia di Aristotele per secoli è stata fatta propria dalla cultura europea, quindi era vera; oggi abbiamo fatto nostra la psicologia di Freud, quindi essa è vera. Lo storicismo hegelo-heideggeriano - come quello di Rorty, Derrida, Vattimo - è nel fondo relativista e nichilistico: la verità è sempre temporale, non possiamo mai parlare sub specie aeternitatis.
La reinterpretazione storicista e nichilista dell'interpretazione psicoanalitica non soddisfa però pienamente le nostre esigenze etiche. Essa adotta un criterio implicito di conformismo storico, ma così sottovaluta il fatto che un'epoca non è mai monolitica, bensì teatro di conflitti tra paradigmi e interpretazioni. L'astrologia nella nostra epoca riscuote uno straordinario successo storico; nei nostri paesi forse più della metà della popolazione femminile la pratica. È questa una condizione sufficiente perché io trovi gli oroscopi verosimili? In verità no. Uno storicista radicale può osservare, "perché tu appartieni a una tribù sociologica - diciamo dei filosofi razionali - ma se appartenessi a una tribù di massaie californiane vedresti le cose diversamente". Lo storicismo nichilistico tende a vederci come tutti appartenenti a qualche comunità, e a scotomizzare il fatto che sempre più spesso scegliamo la nostra comunità. E di solito scegliamo una tribù - per esempio di psicoanalisti - perché crediamo che quella tribù attinga alla grazia di essere più vicina al reale. Rifiutandosi di argomentare e giustificare le credenze della propria epoca e comunità, lo storicista hegelo-heideggeriano si isola paradossalmente dalla propria epoca e comunità, dato che queste invece si caratterizzano per cercare di giustificare le proprie credenze e interpretazioni. Bisogna quindi cimentarsi con le giustificazioni metastoriche, proprio in accordo con i criteri storicisti.
Allora, che cosa ha fatto pensare a molti che le interpretazioni freudiane avessero colto qualcosa di reale? (Si noti lo scivolamento: non parlo di verità come fatto discorsivo, ma del reale, ciò a cui si appella ogni discorso con pretese di verità). In parte il criterio storicista nichilista va accolto: queste interpretazioni hanno persuaso perché hanno ripreso e rilanciato il grande programma etico della nostra cultura, dall'Illuminismo in poi, il quale consiste nel cercare di riammettere tra noi ciò che avevamo escluso o dimenticato.
È da tempo un luogo comune accostare - in una specie di Trimurti dominante del nostro modo di pensare - Marx, Nietzsche e Freud, malgrado le loro vistose differenze. Le interpretazioni così diverse di questi tre pensatori sono state messe su un piedistallo non tanto perché avrebbero enunciato verità scientifiche, ma per aver dato corpo a un programma etico fondamentale della nostra civiltà, che ha avuto e ha varie epifanie storiche. Dapprima reintegrare nella nostra Città gli schiavi, i lavoratori, le donne, insomma coloro che ci sono utili anche se non riconoscevamo la loro utilità; e poi reintegrare anche coloro che semplicemente esistono: le masse del terzo mondo, i "dannati della terra", gli omosessuali, e poi anche i bambini con i loro problemi infantili, o le parti infantili di noi adulti, ecc. È vero, la teoria "scientifica" di Marx si è rivelata falsa, non c'è caduta tendenziale del saggio di profitto, le società costruite a partire da Marx si sono rivelate peggiori di quelle non-marxiste, ma a suo modo la nostra civiltà è socialista: tutti o quasi pensiamo che la cittadinanza vada estesa a tutti gli esseri umani. È vero, il disvelamento nietzscheano della volontà di potenza ha ispirato pratiche non limpide, le avanguardie artistiche e letterarie che si sono ispirate al primato della volontà interpretante oggi sono in crisi, ma comunque siamo più o meno nietzscheani: riconosciamo il valore strutturante della nostra volontà di potenza e della creatività soggettiva, che abbiamo eretto a ideale etico ed estetico dominante. È vero, le ricadute terapeutiche della psicoanalisi si sono rivelate incerte, gli analisti non hanno costituito nessuna forma di vita o comunità che si possa portare come esempio di vita senza rimozioni, ecc. Ma in un certo senso siamo comunque freudiani: è per noi importante riuscire a dire ciò che non siamo mai riusciti a dire, a dare espressione e voce a pulsioni e istanze a cui non avevamo dato spazio. Come per altri versi abbiamo cercato di dare cittadinanza nella Città a tutti coloro che ne erano esclusi, analogamente attraverso Freud abbiamo cercato di far accedere allo spazio della soggettività ciò che avevamo rimosso - o dimenticato, od escluso, o precluso, o scotomizzato, o rigettato, a seconda delle proprie preferenze terminologiche e di scuola (50). Pensiamo che il mancato riconoscimento del reale estromesso produca disturbi, turbolenze, disordini - nevrosi e delinquenza, psicosi e terrorismo, attacchi di panico e scioperi, ecc.
Sia la teoria che le interpretazioni freudiane lasciano il tempo che trovano - quel che importa è che abbiano trovato il nostro tempo, che ci abbiano permesso di dare accesso a istanze che non avevano trovato spazio né tempo. I nostri posteri vedranno, forse meglio di noi, l'avventura freudiana del nostro secolo come intimamente connessa a processi che vanno oltre Freud: che il suo approccio all'isteria è inscindibile dalla reintegrazione delle donne nella cittadella del potere come compito essenziale nella nostra epoca; che la valorizzazione della sessualità infantile è inscindibile dalla rivoluzione che ha scardinato la famiglia patriarcale e autoritaria; che la sconnessione freudiana fra la dinamica della libido e le funzioni riproduttive è inscindibile dal riconoscimento della dignità e dei diritti degli omosessuali, dei "perversi", ecc. La teoria freudiana apparirà loro come espressione di tutto ciò, così come per noi lo stoicismo romano appare inscindibile dagli ideali senatoriali della Roma imperiale, e la filosofia di Descartes inscindibile dall'affermarsi del razionalismo scientifico e del superamento delle guerre di religione.
La psicoanalisi si è quindi imposta come una pratica del tutto originale perché ha sviluppato gli ideali e gli assunti di base del nostro secolo. Essa non ha mai portato la peste (come un Lacan surrealista ha fatto dire a Freud), ma anzi ha dato sbocco alla forma di vita specifica del nostro tempo. Così l'analisi in parte si è sostituita alle vecchie forme di consulenza spirituale - quella del professore di filosofia, del confessore, del direttore spirituale, del medico, ecc. - non perché sarebbe più scientifica delle altre, ma solo perché la sua etica corrisponde a quella del liberalismo e della neutralità scientifica oggi dominanti (51).
Qualcuno dirà: ma non si aspettò Freud per mettere nel giusto rilievo il ruolo degli istinti, delle passioni e dell'amore. In tutta la tradizione platonica Eros è al centro di tutto. Non disse anche Hume che la ragione doveva mettersi al servizio delle passioni, in modo da dar loro una soddisfazione ottimale? Fourier non elucubrò una società armonica fondata sulla coesistenza delle passioni? Ma appunto, prima di Freud il discorso occidentale verteva sulle passioni, su impulsi di cui il soggetto è ben consapevole proprio perché ne è di solito dominato. Il discorso delle passioni è inscindibile dal discorso razionalista e razionalizzatore, nella misura in cui le passioni paiono esistere proprio per essere o sbarrate o al contrario soddisfatte dalla ragione. Al discorso delle passioni Freud ha sostituto il discorso non razionalista delle pulsioni, che agiscono proprio perché non ce ne rendiamo conto e sfuggono al controllo (inibitorio o facilitante) della ragione. Nel mondo freudiano non si tratta più di un conflitto e/o di un agreement tra ragione civica e irrazionalità passionale, ma di trovare il modo di far parlare ciò che la nostra ragione passionale non lascia parlare. Si tratta di interpretare - cioè, di dare parola a - le ragioni delle pulsioni, non più di razionalizzare le nostre passioni.
Certo, una parte della nostra modernità - l'antifreudiana - ha sviluppato in modo notevole il programma humeano e utilitarista della razionalizzazione delle passioni. Oggi tale programma etico-cognitivo sferra un attacco in grande stile contro le pratiche interpretative - contro Marx, Nietzsche e Freud. Dietro il conflitto epistemologico tra scienze cognitive e psicoanalisi, due programmi etici si fronteggiano, per acquisire l'egemonia della nostra forma di vita.
Per cui, chi sceglie di fare un'analisi, o di fare l'analista, esprime una decisione etica in senso lato, un'interpretazione della propria esistenza come compito, che certo comporta anche una scommessa cognitiva. Costui può anche riconoscere che una prescrizione cognitivista può essere più efficace di una lunga analisi per alleviare una sofferenza psichica, può anche ammettere che un po' di Prozac può riuscire meglio (e soprattutto costare meno) nell'eliminare la propria depressione. Ma sentirà in queste soluzioni sempre un'insoddisfazione, l'aver mancato qualcosa di essenziale: sentirà di essere rimasto cieco alle "cause reali" della depressione. Resta sempre in lui il sospetto che una depressione non sia solo una carenza di noradrenalina o serotonina nel cervello, ma che questa carenza sia segno di un altro reale, ovvero lo scotto di impotenza che lui o lei deve pagare per un'interpretazione infelice della propria esistenza.
Se è vero che il valore delle interpretazioni freudiane non dipende dalla loro verità oggettiva, ma dal progetto etico della nostra forma di vita storica che punta ad assimilare - alla Città, al soggetto, al pensiero, all'arte - una parte di reale che essa prima aveva escluso (rimosso, dimenticato, tacitato, escluso, ecc.), perché per tante persone tale compito di reintegrazione e di ammissione è così importante? Chi glielo fa fare? Non potrebbero accontentarsi di ciò che costa meno, della pillola antidepressiva, o - in politica - dei piaceri forniti dal proprio prospero villaggio, ignorando gli esclusi?
La sola risposta è: alcune persone - quelle inclini alla psicoanalisi, per esempio - hanno una vocazione al reale. Vogliono accorgersi del reale, che glielo fa fare. L'escluso, il povero, il rimosso, l'"altro", il malato sono per lui le figure eccellenti della verità - orli in cui fa capolino un reale. Tale reale non è la res oggettiva della metafisica e delle scienze, che occorre dominare con l'intellectus adeguato: è ciò che si impone come ciò che manca radicalmente al mio intellectus, al mio logos, che gli si sottrae e forse lo minaccia.
Non è la sola carità a spingere costoro a preoccuparsi per i rimossi e gli esclusi. Teresa di Calcutta in tante interviste disse: "il povero incarna Cristo". Per la monaca filantropa incontrare il povero è addirittura incontrare Cristo, per un non credente è incontrare il reale. Il punto è che tutte le nostre forme di vita, tutte le nostre interpretazioni che costituiscono il nostro modo di essere al mondo sono per una ragione o per l'altra insoddisfacenti, perché escludono qualcosa o qualcuno. Ogni vita interpretante è escludente, e quindi minacciata dal non-interpretato, che insiste come reale. Intendiamo qui il reale come distinto dai fatti oggettivi per la sua radicale discordanza rispetto alle nostre interpretazioni. Ora, ciò o chi è escluso ha fascino e valore per alcuni perché incarna non Cristo, ma l'esclusione che ogni interpretazione umana sotto-produce. Il valore dell'interpretazione freudiana è nel lasciar emergere ciò che fa scacco all'interpretazione: la chose direbbe Lacan, ciò che è dissonante ed escluso dalla cittadella amministrata dall'Io.
E se oggi quindi molti si allontanano dal freudismo, ciò non deriva tanto da un aumento delle rimozioni, ma dal fatto che, in mancanza di un suo rinnovamento decisivo, il freudismo si sta allontanando dal reale. Vi si allontana un po' come, girando la terra, il luogo dove stiamo si allontana dal sole e piomba nella notte; è la storia che si muove, e quindi la psicoanalisi, restando ferma, si allontana dal reale. Le intepretazioni analitiche allora perdono grazia - diventano scontate, ripetitive. Non mordono più sul reale, ma lo aggirano di nuovo, lo "virtualizzano".

Lacan "socialista"

Quello che ho detto finora vale anche, mutatis mutandis, per il caso particolare dell'interpretazione lacaniana. Io non sono lacaniano, non credo cioè che l'inconscio sia strutturato come un linguaggio - mentre credo che l'acqua sia oggettivamente composta di due parti di idrogeno e di una di ossigeno, almeno fino a prova contraria. Ma anche se non credo alla teoria lacaniana, la trovo istruttiva e interessante: la decisione di analizzare linguisticamente l'inconscio è stata proficua, perché ha permesso di superare in parte l'oggettivismo in psicoanalisi.
L'idea che l'essere umano sia determinato dal proprio linguaggio è un'idea che è apparsa verosimile, quindi affascinante, a una generazione - anche a me - immersa in quel che Rorty chiamò il linguistic turn, che ha caratterizzato la cultura della seconda metà del 900. La convinzione cioè che il linguaggio fosse molto più essenziale e determinante, nella vita umana, di quanto non sospettassimo. È vero che questo amore per il linguaggio ha assunto in ogni contesto culturale inflessioni molto diverse (52). Eppure, al di là del modo in cui lo si considerava, il linguaggio occupava comunque il centro della scena. Che cosa univa quindi profondamente tutti questi linguistic turns?
Li univa il rendersi conto della dimensione opaca del pensiero. Fino ad allora si era data per scontata la trasparenza del linguaggio, quindi il suo impatto era stato cancellato in quanto lo si considerava mero specchio o del mondo, o dei nostri pensieri, o di ambedue. Quando qualcosa è trasparente, non ci si accorge della sua realtà. Si parlava delle opere del pensiero come chi discetta di musica senza sapere nulla delle tecniche di composizione. Si trattò insomma di emancipare il linguaggio accorgendosi del suo lavoro, mentre la tradizione spiritualista ne aveva ignorato la produttività. Negli stessi anni in cui Braudel e gli altri storici affini concentravano lo sguardo storiografico su ciò che la storia diplomatica aveva obnubilato - scambi economici e feste, innovazioni tecniche e antichi costumi, curve demografiche e credenze immemoriali, ecc. - analogamente chi si occupava del pensiero, conscio o inconscio, focalizzò su ciò che la tradizione umanistica aveva lasciato nell'oscurità. Lacan, sull'onda, insinuando che l'inconscio non era solo una selva di affetti, ma intriso anche del materiale opaco della lingua, piacque perché pareva ripetere, su un altro registro, il gesto liberatorio di Freud: come questi aveva spostato i riflettori dai processi di pensiero all'underground delle pulsioni, analogamente Lacan spostava i riflettori sull'underthinking del linguaggio. La psicoanalisi si accorgeva del proprio strumento lavorativo, il linguaggio, così come per altri versi le società ricche si accorgevano finalmente dei loro strumenti di produzione e riproduzione (lavoratori, donne, macchine). Lo strutturalismo prolungava la strategia etico-cognitiva del socialismo: se quest'ultimo aveva spostato lo sguardo sul lavoro (mentre prima era concentrato sulle istituzioni, sulle ricchezze, sul diritto), lo strutturalismo spostava lo sguardo sul linguaggio, supporto concreto di ogni pensiero e ragione. Perciò all'epoca affascinò soprattutto i marxisti francesi.
Non credo che Lacan sia riuscito a dimostrare in modo convincente che il linguaggio è così determinante nella soggettività. Ma non è qui il luogo per spiegare perché non mi ha convinto. Del resto, direbbe uno storicista hegelo-heideggeriano, è compito della storia, non dei teorici, decidere se Lacan avesse ragione oppure no: nella misura in cui l'analisi lacaniana prenderà piede si rivelerà "vera", cioè parte del modo in cui la nostra epoca interpreta la verità. Ma perché, malgrado la sua teoria, l'atto - innanzitutto intellettuale - di Lacan è tuttora interessante per me? Perché esso ha contribuito ad abbassare la megalomania interpretativa della psicoanalisi: ha fatto dubitare che ci siano interpretazioni vere, e che l'analista debba cercare di articolare quelle.
Penso cioè che le altre scuole analitiche siano un po' più indietro di Lacan nel processo di dissolvimento del dogmatismo oggettivista. In effetti, attraverso la sua insistenza sul linguaggio, Lacan ha finito con il rinunciare a dire il vero oggetto delle formazioni soggettive: non si tratta più, insomma, di dire finalmente il significato vero dietro il significato metaforico; si tratta tutt'al più di rispondere alla metafora con altre metafore che abbiano più grazia, ovvero di agire in modo che il soggetto si accorga di ciò che è reale. In questo Lacan, malgrado i suoi dinieghi, partecipa di ciò che è valido del progetto del pensiero post-heideggeriano: non si tratta di "svelare" finalmente il mito dicendone la verità non mitica, ma di rassegnarsi all'idea che possiamo solo rispondere a un mito con un altro mito, che abbia la grazia di rendere il primo per noi intelligibile. E ciò che avviene nella risposta di mito a mito - che costituisce il grande lavoro interpretante della nostra cultura - va descritto, ma sapendo che si tratterà a sua volta di un altro mito.
Insomma Lacan è interessante nella misura in cui va nel senso del nichilismo - per usare un concetto caro a Vattimo. In un'altra terminologia: nella misura in cui, distogliendoci dalle pretese oggettivistiche di elaborare un sapere ben fondato su oggetti (anche su "oggetti affettivi"), ci mette a contatto con un reale. È un peccato che Lacan non abbia proseguito per la strada genialmente intravista in L'etica della psicoanalisi. Purtroppo egli non ha ripreso, se non obliquamente, il tema di das Ding, ed è scivolato verso lo strutturalismo e la logica del significante, cose prive di interesse filosofico, cerimoniali formalistici.
La parte meno interessante di Lacan e del lacanismo va verso il ripristino di un sapere fondato, attraverso topologie che velano il reale, ci distolgono da esso. Lo strutturalismo faceva bene a rifiutare le interpretazioni concettualiste, lo snocciolare significati nascosti, ma la sua illusione era credere che descrivere le forme - attraverso strumenti matematici - fosse quella la vera interpretazione. Che interpretare correttamente un testo o un soggetto consistesse nel mostrare come "funzionava" al livello formale. Nella misura in cui il lacanismo partecipa di tale illusione è preda del dogmatismo. Credere che l'interpretazione formale sia la vera interpretazione è un'illusione perché semplicemente la vera interpretazione non esiste. Ogni interpretazione manca il reale, altrimenti non sarebbe appunto interpretazione. La buona interpretazione da una parte svela e guarisce, dall'altra rimuove e imprigiona. L'unica differenza consiste nel fatto che in certi momenti, in certe circostanze, un'interpretazione fa accedere un soggetto a una verità singolare, a un brandello di reale che non vedeva.
Certo è indispensabile semplificare - atomizzare - il mondo per conoscerlo. Ma appunto, la coscienza filosofica questo aggiunge alla coscienza scientifica, che della semplificazione non solo si accontenta, ma la desidera: che la filosofia sa che si tratta di semplificazione. Sa che ciò che possiamo sapere è solo la nostra semplificazione - e sa anche che il nostro sapere non è la cosa stessa.

Note

1. Oggi di solito non si accusa Freud di aver inventato miti attraverso cui la cultura del secolo XX si è letta e autocriticata; lo si accusa piuttosto di non aver riconosciuto il carattere mitico delle sue invenzioni, di aver preteso di costituire un sapere scientifico. Secondo Heidegger, nella tradizione metafisica la verità è adaequatio rei et intellectus, adeguazione del discorso alla cosa. Freud sarebbe metafisico quando pretende che la sua teoria si basa su interpretazioni del tutto adeguate a un preteso oggetto: l'attività inconscia, la vita psichica. Inutile dire che per quasi tutte le correnti filosofiche moderne la scuola filosofica che si combatte è sempre "metafisica"...

2. "La vera casa". Senso della metafora e critica della Deutung freudiana in aut aut, gennaio-aprile 1982, nn. 187-88, pp. 103-122.

3. Ibid., pp. 115-6.

4. Ibid., p. 118.

5. Ibid., p. 118.

6. Il rovescio dell'interpretazione, in La Psicoanalisi, 19, 1996, p. 121.

7. Ibid., p. 124.

8. Ma le due "soluzioni" proposte sono davvero tanto lontane? Alcuni rimproverano a Lacan di aver smesso una pratica veramente interpretativa, e di essersi basato piuttosto su una specie di agire molto più vicino a certe "tecniche" buddhiste: più azione che decifrazione. Su Lacan come "maestro zen" cfr.: STUART SCHNEIDERMAN, Jacques Lacan: The Death of an Intellectual Hero, Harvard University Press, Cambridge, MA, 1983, p. 81; Anthony Molino, Zen, Lacan, and the Alien Ego, inedito. Vedi anche le critiche di André Green in Against Lacanism. A conversation with André Green in Journal of European Psychoanalysis, 2, 1996, p. 172; tr.it. "Conversazione con André Green", Psicoterapia e Scienze Umane, anno XXX, n. 3, 1996, p. 40.

9. Miller, cit., p.122.

10. Ibid.

11. Ho anzi il sospetto: degli analisti francesi in genere.

12. Antonello Sciacchitano, An Interpretation That Makes Sense. The Elementary Point of View, in via di pubblicazione su Journal of European Psychoanalysis, n. 5.

13. Miller, cit., p.125.

14. Ibid., p.126.

15. Ibid., p.125.

16. Ibid., p.125.

17. Miller dice che il vero interprete è l'inconscio, per Laplanche è l'Io (le moi); ma per un freudiano l'Io è in gran parte inconscio.

18. Soprattutto Jean Laplanche, La psychanalyse comme antiherméneutique in Revue des Sciences Humaines, 1995, 240, pp. 13-24.

19. Jean Laplanche, Aims of the Psychoanalitic Process in Journal of European Psychoanalysis, n. 5, 1997, pp. 71-81.

20. Per esempio, quella fatta da Umberto Eco in I limiti dell'interpretazione, Bompiani, Milano 1990. Per lui i decostruzionisti andrebbero oltre i limiti dell'interpretazione, sarebbero degli "interpreti illimitati".

21. Certo, il riduzionismo biologico potrà sempre dire che quando penso la formula chimica dell'acqua si attivano processi cerebrali che mobilitano anche acqua. L'acqua è dappertutto nei viventi, quindi, si può supporre, anche nei pensieri. Ma il trovare il ruolo dell'acqua nel cervello pensante è un programma di ricerca del tutto diverso da quello della chimica che, scrivendo H2O, usa macchie di inchiostro e concetti, non processi idrici.

22. Questo porta alcuni - da Matte Blanco a Lacan - a farne qualcosa di più simile alla matematica che alle scienze naturali. La matematica "soffre" di una circolarità simile, in quanto essa ha inventato i numeri, ma d'altro canto la matematica pare scoprire sempre nuovi continenti numerici. Restano in un eterno confronto le interpretazioni realiste e quelle costruttiviste: c'è chi come Russell pensa che i numeri siano oggetti come quelli materiali e quindi la matematica sia una scienza come le altre, e chi come Wittgenstein pensa invece che la matematica sia un puro gioco linguistico, come gli scacchi, costruito dagli esseri umani. Ma la psicoanalisi è anch'essa investita da due interpretazioni simili: una costruttivista e l'altra realista. È interessante notare che quando Wittgenstein si è occupato di psicoanalisi, le ha dato un'interpretazione puramente costruttivista ("l'analista non spiega, prescrive chiavi interpretative") che è simile a quella che lui offre per la matematica. Vedi L. Wittgenstein, Conversations on Freud, in Cyril Barrett, ed., Lectures & Conversations (Berkeley & Los Angeles: Univ. of California Press), pp. 41-52. Cfr. Sergio Benvenuto, Gli amori di matematica e psicoanalisi, in Inconscio e matematica, a cura di Marcello Turno, Teda, Castrovillari 1992, pp. 127-139; Wittgenstein, Freud e il linguaggio privato in Lettera Internazionale, n. 22, ottobre-dicembre 1989, pp. 36-37.

23. Mi si potrebbe obiettare che si tratta qui di uno strutturalismo sui generis: l'analisi strutturale ricostruisce sistemi e strutture, invece Lacan ricostruisce significanti in qualche modo erratici. Indubbiamente quello lacaniano è uno strutturalismo molto indebolito, che ne mantiene però il marchio di fabbrica: l'idea che sia possibile una scienza della soggettività descrivendo un funzionamento "oggettivo" di segni o significanti, da descrivere matematicamente.

24. Ovviamente Laplanche sa bene che negli ultimi decenni la psicoanalisi anglofona ha riflettuto massicciamente sul controtransfert, e che predicare la pura neutralità dell'analista può apparire alquanto ingenuo, o pretenzioso. Perciò sente il bisogno, in Buts du processus psychanalytique, di distinguere l'Indifferenz (indifferenza in senso negativo, in quanto implica un'indifferenza alla sofferenza dell'altro) dalla Gleichgültigkeit (che ha una connotazione più positiva, come accordare un valore eguale). "L'analista - scrive Laplanche - dà prova di Gleichgültigkeit nel senso preciso in cui deve gleichmässig gelten lassen [lasciar valere in modo uniforme] tutti gli elementi propostigli dall'analizzante". Si tratta di una ricostruzione del tutto ideale del lavoro analitico: sappiamo bene che invece l'analista dà un valore del tutto diverso a quello che gli si dice, altrimenti gli sarebbe impossibile interpretare. Ma il mito della neutralità o Gleichgültigkeit serve a molti analisti per perpetuare l'illusione oggettivista e <<strutturalista>> della psicoanalisi come scienza.

25. Si può dissentire, ovviamente, non solo dalle interpretazioni, anche dalle spiegazioni scientifiche. È in questo senso che, a differenza di Dilthey, considero le stesse spiegazioni causali della scienza non come del tutto eterogenee alle interpretazioni, ma come casi-limite di interpretazioni - come interpretazioni che comportano un rischio predittivo preciso, sulla base di asserzioni controfattuali. Ma questa discussione ci porterebbe troppo lontani dal nostro tema.

26. Op. cit.

27. Ludwig Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1964, 4.2-4.4.

28. Nella variante di Laplanche, non si tratta di ricostruire significanti elementari, ma di far rivivere una sorta di relazione traumatica originaria: quella del bambino con gli enigmi che gli atti degli adulti costituiscono per lui. In quest'ottica, l'analisi più che all'elementare punta all'originario. Mentre i lacaniani vanno verso una semplicità logica (l'elementare), analisti più ortodossi come Laplanche vanno verso una semplicità archeologica o storiografica (l'originario). Il ritorno all'elementare così come il ritorno all'originario sono due varianti <<perpendicolari>> del grande mito primitivista della psicoanalisi.

29. Lacan, desemantizzando e temporalizzando l'analisi, ha operato nella pratica l'inverso di quello che ha fatto nella teoria: qui essa invece si presenta come del tutto atemporale, amitica, come una pura combinatoria paradigmatica. In questo modo Lacan ha rovesciato il rovesciamento della psicoanalisi ortodossa: qui difatti è la teoria a presentarsi in modo fortemente sintagmatico (storie di fasi e processi maturativi), mentre la pratica classica punta sull'enunciazione paradigmatica di significati. In ambedue i casi, la struttura della teoria e quella della pratica non coincidono - come se la pratica non riflettesse la teoria, ma la compensasse, ne completasse le deficienze, e viceversa.

30. Freud, OSF, vol. III, pp. 101-2 (nota del 1911).

31. Ha voglia Lacan di chiamare tali universali significanti: nella misura in cui le loro permutazioni svolgerebbero un ruolo universale in ogni soggettività non sono tanto diversi dalle Idee platoniche.

32. Per inciso, questa critica va fatta anche a molte psicologie cognitiviste, nella misura in cui pensano di evitare ogni azzardo interpretativo, e di tener conto solo di atti mentali chiari e trasparenti. Comunque il cognitivista è costretto a interpretare, anche se in modo meno "azzardato" del freudiano. Non è possibile un contatto con l'altro soggetto senza incorrere in un rischio interpretativo.

33. Claude Lévi-Strauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1966, p. 242.

34. "Il problema posto da Freud in termini "edipici" non è più probabilmente quello dell'alternativa fra autoctonia e riproduzione bisessuata. Ma si tratta pur sempre di capire come uno possa nascere da due: come avviene che non abbiamo un solo genitore, ma una madre e in più un padre? Non esiteremo dunque ad annoverare Freud, come Sofocle, fra le nostre fonti del mito di Edipo. Le loro versioni meritano lo stesso credito delle altre, più antiche e, in apparenza, più "autentiche"". Lévi-Strauss, op. cit., p. 243.

35. La ricerca farmacologica ci dice in che misura un farmaco è statisticamente più efficace di un placebo, ma così implica che in ogni farmaco, in una misura difficile da valutare, funziona l'effetto placebo. Questo significa che in ogni caso singolo, concreto, è arduo dire se un miglioramento successivo alla somministrazione di un farmaco è un effetto placebo o un effetto biochimico. Inoltre molto spesso l'efficacia placebica investe le qualità secondarie di un farmaco attivo (ad esempio, il suo nome) - in altre parole, un farmaco risulta attivo per qualità alquanto diverse da quelle che, secondo la teoria, dovrebbero essere quelle attive. E cioè: ogni soggetto interpreta l'azione dei farmaci. Tra i numerosi studi sui placebo, vedi H. BRODY, Placebos and the Philosophy of Medicine, Univ. of Chicago Press, Chicago 1977; A.K. SHAPIRO e L.A. MORRIS, The Placebo Effect in Medical and Psychological Therapies in S.L. GARFIELD e A.E. BERGIN, ed., Handbook of Psychotherapy and Behavioral Change, Wiley, New York 1978; A. GRUENBAUM, The Placebo Effect in Behavioral Research and Therapy, 19, 1981, pp. 157-167.

36. Si può sospettare che le psicoterapie comportamentali, che in qualche modo derivano dalla psicoanalisi, prendano di fatto dagli psicoanalisti ciò che essi fanno, anche se questi ultimi si rifiutano di teorizzarlo (e spesso anche di ammetterlo).

37. Per esempio in Secolarizzare la psicoanalisi. Intervista di S. Benvenuto con D. Napolitani, in Mondoperaio, agosto-sett.'92, pp 57-60.

38. Questa formulazione, che Lacan riprende dalla logica modale, è una provocazione del pensiero moderno. Il pensiero empirista ha sconnesso completamente il reale dal necessario, riducendolo a contingente, a "ciò che accade". Nel pensiero di matrice fenomenologica il reale tende a essere piuttosto assimilato alla modalità del possibile. Il pensiero determinista assimila il reale al necessario. Solo Lacan ha osato riferire il reale all'impossibile. Lo ha potuto fare perché, al fondo, egli pensa hegelianamente: il reale risulta tale sempre e solo per un soggetto, che chiama appunto "reale" ciò che gli è impossibile.

39. Freud descrisse questo eroismo (senza il quale c'è nevrosi) come accettazione di un impossibile. In Analisi terminabile e interminabile (in OSF, vol. XI, pp. 499-538) avanzò la tesi che maschi e femmine vogliono ambedue una cosa impossibile: i maschi non accettano di sottoporsi <<come femmine>> ad alcun potere maschile, e le femmine vorrebbero essere maschi.

40. Lasciamo qui da parte il fatto che alla base di ogni atteggiamento conoscitivo - quindi anche nell'impresa scientifica, basata sulla previsione controfattuale di fenomeni - c'è questo "rispetto realista" per il mondo in quanto in linea di principio indipendente da noi. Non penso, come Heidegger, che la scienza sia solo manipolazione tecnologica degli enti: la scienza implica il raggiungimento di un traguardo etico (che, purtroppo, faceva difetto ad Heidegger!), che consiste nel lasciare alla Natura l'ultima parola, nel non pre-dirla completamente, nel darLe l'opportunità di smentirci - anche se il rispetto per il "libero arbitrio" della Natura mira poi alla tecnologia, cioè in fin dei conti a piegarla ai nostri fini utilitari.

41. Non mi interessa affatto parteggiare per un filone analitico piuttosto che per un altro (anche se ho delle preferenze idiosincrasiche, che mi guardo bene dal razionalizzare). Anzi, mi pare che la superiorità della tradizione freudiana rispetto alla junghiana consista proprio nella sua capacità di creare tante frammentazioni e rivalità fra scuole: segno di ricchezza e di vitalità. Mi va quindi benissimo che ci siano molti filoni analitici. In un mondo omologato dalla lingua inglese e dalla globalizzazione, ci mancherebbe altro che fosse omologata anche la psicoanalisi!

42. Questo seminario ha un titolo che può essere interpretato come un genitivo soggettivo (la psicoanalisi ha un'etica) ma anche in un senso quasi oggettivo (l'etica vista dalla psicoanalisi). Questo seminario afferma che la psicoanalisi ha un compito etico nella misura in cui svela ciò che c'è di etico nella vicissitudine umana: la direzione del desiderio verso qualche... cosa. Il nevrotico non ammette di essere etico, si perde nei propri oggetti. L'etica della psicoanalisi, dice Lacan, consiste nell'essere fedeli al proprio desiderio; questo perché il desiderio è esso stesso fedeltà etica a qualche "cosa". Il desiderio non è utilitarista, l'Io solo lo è. Insomma, l'analisi mira a un desiderio autentico, a un desiderio che ha ritrovato il proprio oggetto, che però... non è un oggetto. Il desiderio è etico nella misura in cui tende non a un oggetto, ma a qualcosa che lo precede e lo trascende allo stesso tempo.

43. Del resto, la metafora maturativa è così potente che gli stessi lacaniani, quando dal mondo diafano della bella teoria passano al mondo scabro e sporco della pratica, sono costretti a ricorrervi, anche se in modo obliquo. Per esempio, il lacaniano Juan-David Nasio in un suo intervento su come lavora l'analista (in Scibbolet, n. 3, 1997, pp. 23-34) dice che questi percepisce dietro ogni paziente adulto un adolescente smarrito, e dietro ogni paziente bambino un neonato in ambasce. Secondo Nasio, l'analisi mette in luce una parte regredita di ogni soggetto. Il che è del tutto congruente con il paradigma classico dell'analisi come maturazione: nella misura in cui l'analista dà voce alla parte infantile del soggetto, allora aiuterà questo soggetto a integrare le parti infantili. Spesso i lacaniani, quando devono descrivere la loro pratica senza orpelli teorici, finiscono spesso con il dire le stesse cose degli analisti teoricamente più rozzi.

44. Vedi Umberto Eco, Metafora, Enciclopedia vol. IX, Einaudi, Torino 1980, pp. 191-236; anche Semantica della metafora in Le forme del contenuto, Bompiani, Milano 1971.

45. Questa espressione è anche quella che usano gli analizzanti quando si verbalizza loro un'interpretazione che fa effetto su di loro.

46. In questo modo il lettore può misurare la mia distanza dal pensiero ermeneutico propriamente detto - soprattutto di Gadamer e Ricoeur - e dalla sua curvatura spiritualista.

47. Interpretiamo il reale anche quando cerchiamo semplicemente di capire quel che un autore voleva dire? Sì, perché partiamo dal presupposto imprescindibile che un autore reale c'era, e solo in quanto lo presupponiamo (anche se si tratta di un autore morto duemila anni fa) il lavoro interpretativo può avere senso. Se scoprissimo che la Divina Commedia non è stata scritta da un essere reale chiamato Dante, ma è stata la produzione casuale di una calcolatrice, essa ci interesserebbe ancora? No, tutto il suo significato cesserebbe di colpo. Ma questo soggetto reale che fu Dante è di per sé inconoscibile: si riduce ai testi e alle tracce che ci ha lasciato. È un presupposto che fa sì che qualsiasi questione interpretativa possa essere posta.

48. Anche se i termini lacaniani sono essi stessi metafore, le quali certo possono fare ciò che l'analisi fa, quando fa.

49. Non effetti necessariamente terapeutici, perché là dove si verifica un miglioramento clinico, solo di rado questo appare correlato strettamente a interpretazioni specifiche.

50. Il ritorno del rimosso che la psicoanalisi porta alla ribalta, nel registro politico è rappresentato dalla protesta e dalla criminalità - chi è escluso protesta, o si dà alla malavita. Oggi forse Freud ricorrerebbe alla metafora dell'immigrazione clandestina, piuttosto che della censura, oggi meno virulenta: il sintomo nevrotico è come l'immigrante sporco e ladro nelle nostre città grasse, che chiede il suo posto al sole. La psicoanalisi è quindi, sul versante del nostro rapporto soggettivo con le pulsioni escluse, ciò che i movimenti di accoglienza dell'emigrazione, o di cooperazione, sono a livello del rapporto planetario tra ricchi e poveri, tra chi ha ragione e chi non sente ragioni.

51. Chi si fa analizzare non accetta prescrizioni né regolamentazioni etiche che gli vengano da qualche direttore spirituale; cerca un approccio che sia in sintonia con gli ideali "scientifici" e "liberali" di neutralità - ideali incarnati dalla scienza e dal liberalismo moderni. Prova ne sia che nei regimi non liberali - di destra e di sinistra - , come negli ambienti fortemente tradizionalisti o religiosi, la psicoanalisi viene perseguitata e muore. Popper o Grünbaum non vedono che, se è vero che la psicoanalisi non è scientifically correct, la sua prosperità è comunque storicamente inscindibile dall'imporsi dello spirito scientifico e dell'etica liberale. La psicoanalisi nel nostro secolo è stata anzi la forma di consulenza spirituale tipica delle borghesie urbane occidentali, coerente con il predominio della scienza e con gli ideali liberali di autonomia personale. L'analista difatti si limita a ricostruire qualcosa che si suppone vero, lasciando libero l'analizzante di essere o fare quello che vuole. Anche qui i lacaniani, attaccando le ideologie liberali, peccano di ipocrisia: è evidente che essi stessi partecipano, se non altro come analisti, di questa visione etica liberale, che è per la psicoanalisi quel che l'acqua è per i pesci. Basta leggere la biografia di Elisabeth Roudinesco (Jacques Lacan. Esquisse d'une vie, histoire d'un système de pensée, Fayard, Paris 1993) per rendersi conto che se c'è mai stato un Io forte, e autonomo, questo era proprio quello di Lacan.

52. Nelle culture anglofone il linguaggio veniva considerato piuttosto come uno strumento, una specie di organo o di macchina, che serve a comunicare o a esprimersi; nella cultura francese, intrisa di durkheimismo olista, il linguaggio fu assimilato piuttosto a un sistema condizionante, a un olon che determina le parti; in Germania ha assunto le inflessioni ermeneutiche tipiche della cultura romantica tedesca.
1Che cosa è il delirio se non la perdita degli ormeggi dell'interpretazione rispetto al reale (come prospettiva, richiamo ultimo), fino al punto che tutto il reale viene ridotto a macchina interpretante? Il risultato è che nella psicosi il reale ci schiaccia, ma in modo irreale, delirante.]


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