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PSYCHOMEDIA
TERAPIA NEL SETTING INDIVIDUALE
Psicoanalisi



Simbolo e separazione nella schizofrenia

di Gaetano Benedetti

IIa Relazione delle due giornate di studio

Psicopatologia e psicoanalisi nell'ottica psicoterapeutica

Ospedale "Villa Santa Giuliana" - Verona 7 - 8 Luglio 1995

(tratto da "I QUADERNI DI ARETUSA")



Cari colleghi, il titolo della mia IIo relazione è "Sé e non-Sé, simbiosi e separazione, simbolizzazione e asimbolismo nella schizofrenia". Il primo ad affrontare, secondo me, il problema, pur con un vocabolario del tutto diverso, è stato Sigmund Freud. Pur senza parlare affatto di simbolo, ma occupandosi invece della libido, Freud ha lumeggiato il processo psicopatologico per cui l'infermo psicotico confonde il suo Sé con il non-Sé, confonde il pensiero con la materia, il proprio Io con aspetti concreti del corpo, col non-Io. Così Freud descriveva, ad esempio, la paziente psicotica che, volendo dire che il suo fidanzato infedele le aveva stravolto la testa, affermava che i propri occhi non stavano più al loro posto: "Le aveva girato gli occhi". Freud concettualizzava il fenomeno della confusione fra Sé interno e Sé esterno, fra la immagine psichica della vista e la rappresentazione corporea degli occhi e quindi la perdita, diremmo noi, del simbolo della visione spirituale con il suo assunto che la libido, in questa malattia, viene dissociata dall'oggetto in una perdita della catexi oggettuale e che la libido rifluisce alla rappresentazione verbale di esso oggetto, la quale rappresentazione verbale aumenta così di spessore, la parola diviene la cosa e non è più, diremmo noi, un simbolo della cosa.

Seguendo un modello concettuale diverso, non più riferito alla libido, ma già alla struttura dell'Io, un allievo di Freud, Federn, ipotizzava che la confusione fra Io e non-Io fosse causata da una erosione e dissociazione e perdita dei confini dell'Io, confini esterni - nel qual caso il soggetto si confonde con l'oggetto - e confini interni, che delimitano l'Io dall'Es, per cui emergono alla coscienza stati psichici arcaici. Lui li chiamava "stati arcaici dell'Io". Ancora una volta dunque il rapporto fra Sé e non-Sé stava al centro del fenomeno, denominato da Bleuler "spersonalizzazione", il terzo sintomo della sua triade fondamentale.

Mentre Federn riteneva esserci nella schizofrenia una perdita dei confini dell'Io, concetto ripreso recentemente col termine di un "difetto della demarcazione dell'Io", Melanie Klein ipotizzava, negli anni successivi, una espulsione attiva da parte dell'Io di rappresentazioni mentali disturbanti, di oggetti cattivi, come lei diceva, in virtù di un meccanismo difensivo chiamato da lei la "proiezione paranoide". E poiché la difesa psicotica non riesce mai, non è mai una risoluzione del conflitto, ecco allora che alla proiezione paranoide seguiva l'identificazione patologica del soggetto con quelle parti del mondo divenute proiettivamente sedi degli oggetti interni, seguiva ciò che Rosenfeld, un allievo della Klein, denominava "identificazione proiettiva".

I fenomeni proiettivi psicotici non sembrano tuttavia solo provocati dal bisogno di espellere gli oggetti cattivi o di proteggere quelli buoni, minacciati di distruzione interna e affidati perciò al mondo esterno. I fenomeni proiettivi psicotici sono anche un aspetto della relazione simbiotica con il mondo, relazione questa studiata soprattutto da Margaret Mahler, la quale ebbe a descrivere numerose psicosi infantili, quali conseguenza di una simbiosi troppo protratta nel tempo o come regressioni dell'Io alla fase della simbiosi con la madre.

Il concetto mahleriano di simbiosi è stato tuttavia discusso nella psicoanalisi più recente. Numerose recenti osservazioni, condotte in America da Stern, ci dicono che il bimbo, nei primi 6 mesi di vita, vive non solo in uno stato di simbiosi con la madre, come aveva osservato nel 1952 la Mahler, ma dispone di un senso del Sé, che Stern ha definito nel 1985, nei primi 2 mesi, "emergente", emergente dalla percezione del processo di organizzazione del Sé e, fra i 2 e i 6 mesi, di un senso del Sé da lui chiamato "nucleare", nel quale il bimbo ha un senso essenziale di se stesso come essere globale separato dalla madre. Secondo Stern è probabile che sin dai primi giorni dalla nascita il Sé del bimbo fluttui da uno stato in cui è separato dal Sé materno ad uno stato in cui è in simbiosi con esso.

Come avviene allora l'integrazione fisiologica tra il Sé simbiotico e il Sé separato? E' a questo punto che nel discorso psicoanalitico si innesta il nostro modello, il quale assume, da un canto, che la integrazione avvenga attraverso l'inizio dei processi di simbolizzazione, mentre, viceversa, è proprio la desimbolizzazione regressiva che conduce alla scissione tra Sé simbiotico e Sé separato e quindi, in ultima analisi, alla scissione bleuleriana.

Il modello che io adesso propongo è stato sviluppato da me e dal mio collaboratore Maurizio Peciccia. Peciccia ed io abbiamo lavorato per 7 anni con 8 pazienti schizofrenici cronici, età media 31 anni, durata media della malattia 11 anni, che, tra gli altri sintomi psicotici, evidenziavano in particolare disturbi del linguaggio abbastanza gravi. Le stereotipie verbali, i neologismi, le parole bizzarre risultavano difficilmente comprensibili, in quanto cariche di molteplici significati, derivanti da processi di spostamento e di condensazione, come direbbe Freud, di moltissime rappresentazioni di parole. I nostri pazienti avevano una naturale tendenza a disegnare, che noi abbiamo incoraggiato. Il paziente, disegnando spontaneamente ciò che gli veniva in mente, iniziava a collegare rappresentazioni di parole a rappresentazioni di cose. Quando il paziente riusciva ad illustrare le proprie verbalizzazioni, attraverso il disegno, noi entravamo in comunicazione con lui, simmetricamente, disegnando a nostra volta le risposte e le reazioni alle sue immagini. I nostri disegni erano speculari a quelli del paziente e nello stesso tempo progressivi, nel senso che copiavano elementi grafici dei suoi disegni, spostandoli, unendoli, condensandoli con altri suoi elementi grafici, seguendo nostre spontanee associazioni visive ed utilizzando, noi per primi, il processo primario al livello delle cose rappresentate nei disegni.

Il paziente riusciva ad entrare in questa forma comunicativa e, riportando il processo primario dalle rappresentazioni di parole alle rappresentazioni di cose, tornava ad utilizzare il linguaggio verbale con le modalità del processo secondario. Questo avveniva, in tutti i casi da noi seguiti, dopo circa 12-24 mesi, quando nel corso del dialogo in immagini il paziente riusciva a costruire rappresentazioni grafiche di transizione fra Sé e il terapeuta, affidando ad esse l'espressione di emozioni ed affetti transferali, sia libidici che distruttivi, di una intensità notevolmente superiore a quella che la parola permetteva in quel momento.

Quando notammo per la prima volta che la scomparsa del disturbo della comunicazione verbale procedeva parallelamente alla graduale costruzione nei disegni di una rappresentazione del Sé, che il paziente usava, utilizzava per interagire affettivamente col terapeuta, avanzammo l'ipotesi che il disturbo della comunicazione verbale, nei pazienti con cui lavoravamo, fosse da collegarsi all'assenza di una rappresentazione libidica del Sé.

Le figure che si creano nei disegni sono estratte dall'inconscio dei due partner, dove si vanno sedimentando soggetti costituiti da parti del terapeuta e da parti del paziente. Questi soggetti transizionali, espressi graficamente dal paziente, rappresentano sia il Sé del paziente come quello del terapeuta e svolgono la doppia funzione di trasmettere al Sé affetti transferali e controtransferali, sia positivi che negativi, e di proteggere nello stesso tempo il Sé del paziente dall'azione destrutturante e disorganizzante delle emozioni.

L'affetto transferale e controtransferale può avere nella schizofrenia effetti nocivi, perché sembra essere assente quella parte periferica del Sé, sviluppatasi in funzione delle relazioni oggettuali, come dice Volkan nel 1985, e che può essere metaforicamente rappresentata come la membrana protettiva della cellula, differenziatasi per sostenere l'impatto con l'ambiente esterno. La nostra ipotesi è che la membrana protettiva del Sé sia costituita da una immagine speculare del Sé, che nasce all'incirca nella fase dello specchio di Lacan e si sviluppa fino a divenire il simbolo del Sé. Come nella interazione con l'ambiente esterno la membrana si modifica per mantenere costante l'interno della cellula, così il simbolo del Sé si trasforma nell'incontro con il mondo per conservare il nucleo centrale del Sé protetto, invariabile, sempre identico a se stesso.

Il conflitto biologico di fondo di tutti gli esseri viventi - come modificare sé stessi nell'incontro con l'ambiente esterno e mantenere allo stesso tempo inalterata la propria struttura - si esaspera e diviene drammatico nella psicosi. Qui l'assenza di membrana, e cioè di simboli del Sé, espone all'impatto con il mondo, direttamente e senza alcuna mediazione, l'interno della cellula, ossia il centro del Sé, che si versa e si sparge proiettivamente all'esterno. Il nucleo centrale del Sé, quando è confrontato e direttamente modificato dalle emozioni delle relazioni interpersonali, perde la sua funzione di organizzazione e strutturazione dell'esperienza mondana, entro quelle coordinate spazio-temporali che ci danno il senso della nostra continuità esistenziale e del nostro essere in ogni situazione noi stessi.

La membrana della cellula, il simbolo del Sé, che abbiamo visto svilupparsi nello scambio reciproco di disegni, ha delle analogie con quella capacità di oggettivare se stesso, che il Sé del bambino acquista prima di entrare nella sfera della comunicazione verbale, attorno ai 2 anni di vita. La capacità di fare del Sé un oggetto di riflessione, che può essere esperito dall'altro, la capacità di impegnarsi in atti simbolici, come il gioco e l'acquisizione del linguaggio, sono nello sviluppo infantile fenomeni collegati e interdipendenti. La possibilità di oggettivare il Sé è alla base di quella che Listemberg nel 1983 definisce "capacità immaginativa" e che permette al bambino di immaginare la sua vita interpersonale.

Con questa nuova capacità immaginativa, legata alla possibilità di obiettivare il Sé, il bambino riesce a trascendere l'esperienza immediata, riuscendo a custodire in sé il desiderio di una realtà come vorrebbe che fosse, ci dice Stern nel 1985; ciò permette il passaggio dal principio del piacere al principio di realtà, dal pensiero primario al pensiero secondario. Analogamente i nostri pazienti, nel momento in cui acquisivano la capacità di oggettivare il Sé, iniziavano ad utilizzare, nel linguaggio verbale, il pensiero secondario del principio di realtà.

Ora il primo simbolo del Sé, che compare nei disegni, oltre ad essere un soggetto transizionale tra paziente e terapeuta, è anche una transizione fra contenuto e contenitore, fra interno ed esterno; è un compromesso fra bisogni simbiotici e bisogni separativi, che emergono dalla relazione transferale e controtransferale della coppia paziente-terapeuta. Il simbolo del Sé inoltre contiene elementi della psicopatologia, ora inseriti in un contesto duale. Fin quando non compare un simbolo del Sé, riconosciuto e accettato da tutti i livelli psichici, ogni forma di comunicazione, che si attua attraverso processi di spostamento e condensazione tra vari livelli, è minacciosa, in quanto fa perdere la continuità esistenziale del Sé e provoca la frammentazione.

Il conflitto predominante, che si ripete ad ogni livello scisso, ci è sembrato essere, nei casi studiati, quello fra rappresentazioni precocemente separate del Sé e rappresentazioni del Sé fuse all'oggetto. Il blocco della comunicazione fra rappresentazioni di cose e rappresentazioni di parole rientra, a nostro avviso, come caso particolare del fenomeno generale, caratterizzato dall'assenza di integrazione, di collegamento e di comunicazione fra i livelli psichici.

Tornando al conflitto irrisolto di base, "simbiosi-separazione", che è anche possibile definire, usando una terminologia bioniana, "conflitto contenuto-contenitore", noi ipotizziamo, in via teorica, che esso sia precoce e che impedisca primitivamente l'integrazione fra lo stato separato e lo stato simbiotico del Sé. Nell'adulto queste dimensioni del Sé, quando sono ben integrate, costituiscono un Sé unico, armonico, simile alla luce, che pur nella sua duplice natura, corpuscolare ed elettromagnetica, appare unitaria.

Affinché avvenga l'incontro interpersonale è necessaria una cooperazione fisiologica fra Sé simbiotico e Sé separato. Nell'incontro con l'altro il Sé separato di una persona riceve e trasmette informazioni ed emozioni al Sé separato di un'altra e tale scambio determina cambiamenti più o meno grandi, che risultano tollerabili e non ansiogeni, se contemporaneamente l'incontro interpersonale avviene su un piano inconscio, mediante il Sé simbiotico. Mentre coscientemente viviamo in una dimensione di separazione l'uno dall'altro, ad un livello inconscio, per il modo di funzionare del Sé, viviamo l'illusione che l'altro sia lo specchio della coppia simbiotica interna contenitore-contenuto. Anche quando, nel corso del normale sviluppo maturativo, la coscienza, separandosi dall'esterno, rinunzia al pensiero magico primario e all'illusione narcisistica che mondo esterno e mondo interno coincidano, nell'inconscio il pensiero onirico rimane spesso attivo sotto il dominio di tale illusione.

Questa illusione inconscia, questo normale narcisismo è importante per la salute umana. Da esso si estraggono continuamente le energie necessarie per accettare la disillusione del rapporto con il mondo esterno, basato sul principio di realtà e questo non solo nelle prime fasi dello sviluppo infantile, ma continuamente anche nell'adulto sano. Mentre come particella, separata e cosciente, il Sé incontra l'altro, scambiando informazioni e trasformandosi come onda incosciente, il Sé ha l'illusione di essere l'altro. Su questa base poggia la identificazione proiettiva normale, che noi consideriamo, in accordo con Bion, non soltanto una fantasia onnipotente dell'individuo, ma anche qualcosa che avviene tra due individui. Un esempio della identificazione proiettiva normale è quello dello psicoterapeuta con il suo paziente e anche Meltzer usa qui termini simili. Come ci ricorda Searles: "La vita quotidiana comporta continuamente, anche nell'età adulta, esperienze sempre più acute di illusione e disillusione, che si accompagnano ad una maggiore abilità nel vivere queste esperienze. Sia la relazione oggettuale, sia la simbiosi sono componenti essenziali di un modo sano e pienamente umano di porsi in rapporto con gli altri. La scelta tra queste due modalità non è una scelta che si fa una volta per tutte; al contrario per godere le gratificazioni del rapporto con gli altri esseri umani è necessario scegliere la relazione oggettuale o quella simbiotica, a seconda dei bisogni e delle possibilità sempre diverse dell'interazione umana."

Sé simbiotico e Sé separato, illusione e disillusione, onnipotenza e impotenza sono per noi linee evolutive integrate e continuamente presenti, anche se mai del tutto coscienti, nel corso dell'intera vita. Nella struttura del Sé psicotico ipotizziamo invece una deintegrazione tra stato simbiotico e stato separato del Sé, di cui il paziente è penosamente cosciente. Rientrando nella metafora della luce, questa, nel Sé schizofrenico, è scissa. A volte è solo onda: il paziente vive nella simbiosi deintegrata; a volte è solo materia, corpuscolo: il paziente vive autisticamente nella separazione deintegrata. Purtroppo l'onda e la particella non riescono a produrre un fenomeno unico: la luce si sdoppia. A volte vediamo lo psicotico vivere simbioticamente: lo avvertiamo vicinissimo, ci dice: "Io sono il sole, sono l'Universo, io sono te."; altre volte il paziente è nel Sé separato, deintegrato, ma essendo scisso dal Sé simbiotico, la sua separazione radicale è solitudine autistica. Egli ci dice: "Nulla esiste al di fuori di me. Il sole, l'Universo sono ombre insignificanti, che non riesco a distinguere. Tu sei distante da me anni luce. Tu non sei." E proprio Racamier, parlando del controtransfert psicoterapeutico, ci parla del suo vissuto di non esistere, come se fosse escluso dall'esistenza da parte del paziente. Celebre è il caso di un paziente dello psichiatra Mario Tobino, ricordato nel suo romanzo autobiografico "Per le antiche scale", che ammalatosi di schizofrenia mentre era segretario politico del fascio a Lucca, affermò in un discorso ufficiale che Mussolini non esisteva. Nella sorpresa generale si credette dapprima che l'uomo volesse, per chissà quale motivo, distruggere la sua carriera politica, ma ci si accorse ben presto che trattavasi di un caso psichiatrico. Ricoverato all'ospedale, il paziente sviluppò il sintomo abbastanza significativo che chiunque e qualsiasi cosa apparisse ai suoi occhi o al suo pensiero cessava in quel momento immediatamente di esistere. E infine cessava anche lui di esistere, poiché esprimeva ripetutamente l'unico desiderio che gli si costruisse una tomba come abitazione. Con ciò terminava la storia clinica di Tobino.

La perdita dell'immagine inconscia del proprio Sé è un elemento fondamentale nello sviluppo della psicosi schizofrenica, come dimostrano i casi avanzati e gravi di psicosi, ove il malato perde la sua identità, soffre di spersonalizzazione, accusa vissuti di non esistenza, si scambia con gli oggetti che lo circondano o si avvia al capovolgimento delirante della propria identità. Ciò a differenza che nella depressione anche grave, ove abbiamo invece il Sé negativo, il Sé colpevole, in tutta la sua coerenza e radicalità di giudizi e vissuti.

La perdita schizofrenica comporta non più solo una autoaccusa, con presenza di un Sé negativo depressivo, ma una profonda vulnerabilità dell'Io, che diviene oggetto del frequente delirio di influenzamento e di persecuzione. Il Sé normale viene infatti protetto nei riguardi delle percezioni del mondo esterno, le quali sono, da un canto, necessarie per il metabolismo psichico, ma, dall'altro, tendono ad alienare il Sé umano, attraverso continue introiezioni degli oggetti. Il Sé normale viene protetto da una immagine inconscia, coerente e coesiva, della propria identità, immagine che assurge alla coscienza, riflettendosi nelle immagini di quegli oggetti del mondo esterno che diventano per l'uomo le immagini dell'immagine del Sé, ossia i simboli della propria identità. Le immagini e i simboli del Sé sono necessarie alla crescita e alla sussistenza di questo, perché permettono quei fenomeni di reduplicazione speculare, nel sogno e nella veglia, per cui l'individuo si percepisce nella sua attualità e lungo la sua dimensione storica di continuità, tant'è vero che una definizione antropologica dell'uomo, oltre le due classiche dell'homo erectus e dell'homo faber, è stata quella di homo simbolicus.

Buona parte della psicopatologia schizofrenica può effettivamente essere compresa attraverso il concetto della perdita dell'immagine e dei simboli del Sé. In particolare può essere spiegata la paradossia schizofrenica di fusione con il mondo, da un canto, e di distacco autistico da questo, dall'altro. Manca la possibilità di distinguersi veramente dagli oggetti, che sono altrimenti il non-Sé, ma manca anche quel rapporto che è reso possibile proprio dalla distinzione. Il paziente tenta di difendersi dagli oggetti, che come introietti lo disorganizzano, attraverso la ritirata autistica da questi e attraverso la creazione di oggetti interni fantasmatici, i quali, da un canto, vorrebbero esprimere l'attività creatrice del Sé, ma che, d'altro canto, sono anche contaminazioni della propria identità con il mondo.

Alla perdita del simbolo del Sé il paziente reagisce col tentativo di recuperarlo, mettendo tutto ciò che lo circonda in un rapporto semantico con se stesso - delirio di riferimento - o anche cercando la propria identità nella razionalizzazione della sua assenza: "Io sono nessuno", o nella diffusione di essa: "Io sono Dio". Ancora un altro tentativo è quello di recuperare le cose del mondo, con cui il Sé non può più mettersi in rapporto, sottolineandone eccessivamente le strutture semantiche, il risvolto dei loro significati possibili, le assonanze dei nomi.

Di volta in volta è difficile distinguere tali difese dai deficit ad esse sottostanti. Ci sono psichiatri che osservano sempre dei deficit, laddove noi vogliamo vedere piuttosto dei movimenti dinamici. In entrambe le estreme situazioni ciò che sembra mancare è il limite della separazione, nello stato di simbiosi e l'esperienza della dualità simbiotica, nello stato di separazione. Noi non diciamo quindi che il paziente non è transitato attraverso la fase simbiotica ed è fissato alla fase di autismo, come direbbe Minkowski, che considerava l'autismo il vero sintomo primario della schizofrenia; oppure che il paziente non è uscito dall'orbita simbiotica e non si è mai separato, come direbbe la Mahler. Piuttosto ci esprimiamo come segue: il paziente vive la simbiosi, che lo dissolve e vive la separazione, che lo pietrifica; quello che gli è impossibile è l'integrazione e perciò anche il superamento dinamico di questi due stati. Il miracolo della luce, contemporaneamente particella ed onda, nello psicotico non avviene.

Ritorniamo così alla radice del termine "schizofrenia": pensiero scisso, intendendo però come scissione del pensiero qualcosa a monte della scissione di Bleuler. La scissione di Bleuler, il deliro, l'autismo, la rimozione degli affetti ci sembrano conseguenze del nucleo fondamentale della malattia, che è la scissione tra stato simbiotico e stato separato del Sé.

Talora il delirio corrisponde al tentativo del paziente di organizzare razionalmente i suoi vissuti di simbiosi; organizzandoli nel pensiero, egli lotta contro la dissoluzione del pensiero in vissuti indicibili. Altre volte però il delirio costituisce una zona di invariabilità, una struttura non verificabile e non raggiungibile nella realtà e quindi, per lui, al riparo dalle emozioni e dalle trasformazioni; una zona che permette di vivere il più a lungo possibile nel Sé separato, secondo una bella frase di Barison: "Tenere per sé il suo mondo comunque diverso." La profonda deintegrazione tra i due stati li rende alieni e incompatibili l'uno all'altro, tra essi si apre il baratro del nulla, della non esistenza, quel timor vacuum che i pazienti schizofrenici spesso ci descrivono drammaticamente.

Consideriamo il disturbo della simbolizzazione nel linguaggio schizofrenico, paragonando l'espressione non schizofrenica con l'espressione denotante il grave disturbo della simbolizzazione. Se un paziente non psicotico ci dice: "Io sono come una bandiera lacerata dalla vita" ("Sono cioè passato come una bandiera al vento attraverso le vicissitudini della vita, che mi hanno lacerato"), ebbene, questo è un simbolo. L'identità del paziente, che nel simbolo si rappresenta come lacerata, non è tuttavia scissa, anche se nella sua bocca occorresse tale termine. La bandiere strappata, logora, lacerata è un'immagine che rappresenta uno stato del Sé, ma rimanda, come simbolo, alla totalità del Sé. Il Sé rimane un soggetto autonomo, che accetta di rispecchiarsi nella immagine della bandiera, senza perdere la libertà di distinguersi da tale oggetto e di riflettersi in tante altre immagini. Il sorgere del simbolo, per quanto doloroso come questo della bandiera lacerata, è tuttavia il segno di una libertà del Sé, che si rispecchia in un oggetto per recuperarsi come soggetto.

Ma se invece un paziente schizofrenico, mostrando il suo dito purulento, afferma: "Questo sono io.", nasce il dubbio, nella mente dell'osservatore esperto, che egli non usi una metafora, ma che in realtà non voglia distinguersi dal suo dito. Il dubbio diviene certezza, se poi egli afferma: "Ho sin dalla nascita un televisore impiantato nella testa, che registra in un film tutte le immagini degli altri." Il paziente non parla metaforicamente, egli delira, egli aggiunge alla sua idea delirante il costrutto che tale trapianto nel cervello sia stato perpetrato da un complotto di coloro che volevano in tal modo asservirlo ai loro piani, eccetera, eccetera.

L'insorgenza del delirio è un fenomeno complesso. Fermiamoci a un suo primo gradino: il fatto che l'immagine viene usata dall'infermo in modo asimbolico. L'immagine - il dito ferito - non rimanda ad un Sé più vasto di essa, che si distingue da essa, ma è, in quel momento espressivo, l'unico medium in cui il Sé si percepisce. Senza quell'immagine il Sé scompare. Il paziente è nessuno e ciò perché il Sé non ha a sua disposizione che un'immagine carica di emozione per percepirsi. Al di là del dito ferito, il paziente è per se stesso pochissima cosa, anche se tuttavia sa fornirci i suoi dati anagrafici. Il paziente non si comprende come soggetto, fuorché entro un'immagine che, parziale quanto si voglia, è l'evento che definisce il soggetto, che lo fa esistere.

E' questo il motivo per cui noi nella terapia non possiamo facilmente interpretargli razionalmente le sue immagini. Interpretare quel che per noi, ma non per lui, è un simbolo, significa porre l'immagine simbolica del Sé in un rapporto anche cognitivo con tutto l'orizzonte temporale e spaziale del Sé. Se un paziente psicotico è Cristo, il volergli spiegare il motivo per cui egli non lo è che solo simbolicamente e cioè in virtù, a causa della sua sofferenza e del significato che la sua sofferenza ha per noi tutti, significa per lui il sostituire l'immagine attraverso cui egli, senza un simbolo del suo Sé, percepisce tuttavia un brandello del Sé, identificato con Cristo; sostituire questa immagine con una riflessione logica e ben più lontana da lui di quanto non lo fosse l'immagine con cui si confondeva, significa quindi lasciarlo solo, senza un Sé. Da qui la disperata tenacia con cui certi pazienti si aggrappano alle loro immagini allucinatorie e rifiutano di uscire, mediante le nostre interpretazioni, dal loro delirio. Cominciamo allora col non lasciarli soli, aggirando il delirio e parlando, ad esempio, dell'importanza che la sofferenza di Cristo, quindi del paziente, ha per noi, per me, per il suo terapeuta.

La nostra tesi di una mancanza della simbolizzazione nella psicosi può sembrare paradossale. Si è parlato, si è scritto tanto intorno alla ipersimbolizzazione schizofrenica. Effettivamente, ascoltando certi pazienti, non tutti, si può avere l'impressione come se nel mondo psicotico tutto sia simbolico; non c'è cosa reale che non appaia alla mente del paziente con un risvolto di significati contorti, con sottofondo semantico, di cui spesso stentiamo a toccare il fondo, ma che anche ci sorprende per la sua complessità. Persino psicopatologi, orientati in senso biorganico, come Ey, hanno notato l'originalità di questi pensieri schizofrenici.

Eppure tutto ciò non è ancora simbolizzazione. L'assenza di questa ci appare specialmente in quei casi in cui ogni immagine oggettuale ha perso la sua identità stabile e irripetibile, allo stesso modo di come l'ha persa il Sé fluttuante del paziente, privo di uno stabile simbolo del Sé, per cui ogni immagine si sovrappone facilmente a qualsiasi altra contigua, con cui non ha in comune magari null'altro che una allitterazione fonetica: polizia vuol dire pulizia, vuol dire policlinico; o una qualche lontana somiglianza formale: la Corsica è un pugno chiuso. Frasi di pazienti. Il paziente non è in grado di percepire le differenze obiettive fra le immagini, le quali diventano perciò contigue e vengono confuse tra loro, come il proprio Sé col mondo che lo rispecchia nel fenomeno che Bleuler chiamò "Zerfahrenheit".

La perdita del simbolo nella psicosi è un deficit gravissimo, che talora mette acutamente in ansia il paziente, il quale si trova immerso in un mondo caotico e terrorizzante. Al deficit si aggiungono presto tutte quelle compensazioni, quelle neocostruzioni della realtà, che vanno sotto i termini di neomorfismi, neologismi e che vengono sistematizzate nelle concezioni deliranti.

Nel delirio noi siamo di fronte ad un fenomeno che va al di là della perdita della simbolizzazione, come quando le rappresentazioni vengono confuse in seguito alla loro associazione fonetica e che può apparire esso stesso come un simbolo. Trattasi di quel fenomeno per cui il segmento semantico comune a due rappresentazioni, ben lontane fra loro nella mente normale, è talmente gonfiato dall'affetto dell'ansia da legare assieme le due immagini in questione. Poiché il paziente, in seguito a tale indissolubile legame, non percepisce, non realizza l'importanza della distinzione, il simbolo fa ancora una volta difetto. Ecco il caso ad esempio del paziente, il quale legge casualmente nel quotidiano del mattino un episodio di cronaca di un criminale sorpreso all'aereoporto con una borsa nera, contenente materiale esplosivo. Il paziente ritiene improvvisamente di venire perseguitato, a causa della sua borsa nera, che egli realmente possiede. Evidentemente c'è dell'esplosivo nella sua psiche, ma la borsa nera è un simbolo di tale esplosivo solo nella nostra mente che ascolta, mentre nella sua è il medesimo corpus delictus. Lo pseudo simbolo psicotico, quello che io chiamo talora "protosimbolo", ci conduce direttamente al complesso centrale.

Sebbene nel delirio prevalga più o meno l'ansia, io ritengo che in esso ci sia sempre un tentativo di recupero di ciò che non viene più simbolizzato, di ciò che senza simbolo non è rappresentabile, ma che d'altro canto non è rimovibile, perché essenziale. Il pensiero allucinatorio delirante è la via per cui il paziente cerca il recupero di ciò che è stato scisso. Quando io dico: "Il paziente cerca", non intendo dire che egli desidera coscientemente tale recupero. Nel pensiero manifesto del delirio, che è nella maggior parte dei casi un delirio persecutore, il paziente non desidera affatto il ritorno, appunto persecutorio, di quanto sta al di là della scissione, ad esempio il ritorno allucinatorio della sessualità scissa, per cui orge sessuali vengono organizzate nella camera attigua a quella dove dorme il paziente; o il ritorno della necessità di convivere con altri nella società, per cui tale convivenza, negata dall'autismo, ritorna coercitivamente nella persecuzione. Intendo solo dire che una parte del paziente trasforma nel delirio quell'incomprensibile che si è creato attraverso la scissione; trasforma il potenziale attuale caos psicotico, la perdita del simbolo, la coincidenza di Sé e non Sé, la compensazione di scissione delle cose con la fusione con esse in un sistema pseudologico di relazioni, come tutto ciò che era nel pensiero fuori posto trova adesso in quello delirante il suo posto distorto e ove gli affetti dirompenti dell'orrore, della morte, della distruttività vengono organizzati nel vissuto di una persecuzione, ove tutto, come per una illuminazione, diviene comprensibile.

Ecco qui la funzione compensatoria del delirio, ove la scissione viene compensata dalla presentizzazione, anche allucinatoria, di ciò che era stato scisso, ove la fusione viene compensata dalla opposizione impervia dell'Ego a ciò che è stato fuso con esso e che esso decisamente rifiuta, il "not-me" di Sullivan. La scissione si ripete nel delirio stesso fra situazioni che il paziente decisamente rifiuta e altre situazioni con le quali esso, altrettanto decisamente e irrevocabilmente, si identifica.

Mentre nel delirio di persecuzione domina il rifiuto, nel delirio religioso prevale l'identificazione, il tentativo di un recupero positivo. Nella identificazione con Cristo il paziente recupera la sua, altrimenti indicibile, sofferenza. Nella coscienza patologica di una missione esistenziale, assicurata proprio attraverso la sofferenza, egli riempie il baratro che si è aperto nel suo Sé con la psicosi. Della importanza della sua propria sofferenza il paziente non ha il minimo presentimento, poiché nulla di sé è stato mai importante nella sua vita e non lo è adesso, dove il simbolo del Sé manca. Come Cristo egli assurge finalmente ad una immagine di sé. Solo che in questo dire egli ha perso ogni prospettiva storica, si è confuso con Cristo quale personaggio storico, rinnega il proprio nome, cerca di vestirsi con le fogge di un Cristo e ancora una volta nega se stesso.

Nel delirio quindi non c'è scampo: la autonegazione, a cui il paziente vuole sfuggire, ritorna attraverso questo delirio. L'immagine di Cristo non è trasparente per la propria persona, che il paziente nega e che viene così ancora una volta tradita. Dicendo che nel delirio il paziente cerca scampo all'autonegazione, che egli tuttavia ripete proprio col delirio, tocco ancora una volta una qualità centrale del mondo psicotico: la paradossalità. Il sofferente psicotico, il paziente schizofrenico è lacerato da antinomie, i cui estremi si toccano e si escludono allo stesso tempo e che noi perciò denominiamo "paradossia schizofrenica". Così, da un canto, il paziente è sottratto al ragionamento comune; ha perso quel che Lampenburg chiama "il senso giornaliero dell'evidenza"; ha perso la "consensualità" di Sullivan; ha perso, come è stato rilevato da Bleuler, l'"affettività relazionale". D'altro canto, egli è fuso con gli altri, da cui appare tanto distante, si sente manipolato dal pensiero altrui, investito della presenza altrui, dalle intenzioni altrui, che su di lui agiscono da lontano e derubato del suo Io autonomo, privato dell'originalità di sentirsi persona, influenzato anche da cenni, gesti e segni di chi lo incontra anche casualmente. Chiusura ermetica da un canto e appartenenza agli altri dall'altro; impervietà delirante e insieme inermità dell'essere; pietrificazione nella separazione e dissoluzione nella simbiosi.

La difficoltà del paziente psicotico di separarsi dal mondo per mantenere la propria individualità sfocia in quella esasperata chiusura autistica, la quale è compensazione della mancanza del confine, che non manca di originalità, come ci dicono i fenomenologici, come ci ha mostrato il professore Barison. Al suo posto però, al posto della integrazione flessibile e discriminante, sorge il muro autistico, sorge la barriera catatonica, sorge il delirio impermeabile. In tutto ciò che all'individuo sano può sembrare assurdo, e per taluni sembra solo il prodotto di una alterazione cerebrale, vi è l'incessante ricerca del limite e del rapporto, come ben vediamo in certi disegni schizofrenici, dove ogni angolino del foglio viene riempito con un dettaglio, apparentemente insignificante, per evitare il terrore del vuoto.

Ma il confine, il limite, il muro, sia esso autistico, catatonico, delirante, è continuamente minacciato dall'esterno e dall'interno: dall'esterno e cioè da quelle influenze pervasive e dissolvitrici, di cui parla incessantemente nel delirio di riferimento; dall'interno, cioè dagli oggetti cattivi, dagli introietti esplosivi, di cui scrive Melanie Klein, i quali minacciano terribilmente la coesione del Sé, anche se espulsi lungo le proiezioni deliranti. Il delirio, l'identificazione proiettiva, l'allucinazione sono tutti modi di mettersi in rapporto con quel mondo dissolvente, con quel "not-me" di Sullivan, con quegli oggetti cattivi, di fronte a cui il paziente cerca di circoscriversi.

Da un punto di vista psicoeconomico si può dire che il delirio consta di una componente deficitaria e di una componente ipercompensatoria e anche originale. Il deficit è visibile in ciò che appare come il pieno fallimento delle difese. Se la difesa sta ad esempio nella proiezione dell'oggetto cattivo, allora tale difesa crolla, là ove il paziente è obbligato ad identificarsi con tutti gli oggetti su cui ha proiettato parti di sé e le parti, che la difesa voleva espellere, ritornano a lui in modo persecutorio. Se l'infermo, che esperisce se stesso come privo di autonomia, trasferisce questo suo sentirsi privo di soggettività sulle cose del mondo materiale, prive di soggettività, egli non può tuttavia evitare di venire invaso da questi stessi oggetti materiali, su cui ha proiettato parti di sé, che attraggono su di sé il paziente. Egli diventa, come in certi casi gravi, il tavolo di legno che sta nella stanza, il cielo o la terra.

Tuttavia l'allucinazione, l'identificazione non vanno viste solo da questo punto di vista deficitario. Mediante i fenomeni patologici avviene anche il recupero di ciò che, facendo parte di sé, non può essere negato. La necessità di ciò che non può essere negato fa sì che il paziente vive perennemente nel delirio, sempre en face di ciò che egli ripudia. Perciò tutte le idee deliranti esprimono sia il continuo transfert tra mondo esterno e mondo interno, la continua confusione tra i due, come anche la difesa disperata contro le irruzioni stesse, la presenza di un argine interno, che è contemporaneamente impotente e grandioso, scaduto e tuttavia provvisto di una punta non scalfibile, fallito ed assoluto.

Ecco come il delirio di grandezza appare quindi a lato di quello di nullità. Un paziente, che avverte e teme la presenza esplosiva di oggetti maligni entro di sé, che ha paura di fare del male agli altri, ai suoi bimbi, al terapeuta, o che esprime anche il timore che se egli chiudesse gli occhi per un minuto, tutto il mondo, privo di controllo, andrebbe a pezzi, verrebbe ad esempio distrutto da un terremoto, è anche il deus ex machina del mondo. Egli è condannato da un canto ad una sorta di schiavitù metafisica, al vissuto di veglia perpetua: anche se egli dorme come tutti i mortali, crede di non poter dormire; egli è incatenato all'inferno della veglia, come Prometeo alla rupe. Ma se noi stiamo attenti alle sue parole e notiamo il risvolto del delirio di persecuzione, notiamo come egli assume, attraverso l'idea delirante, il controllo di tutto il mondo. Egli è condannato da un canto ad una sorta di schiavitù metafisica, al vissuto di veglia perpetua: anche se egli dorme come tutti i mortali, crede di non poter dormire; egli è incatenato all'inferno della veglia, come Prometeo alla rupe. Ma se noi stiamo attenti alle sue parole e notiamo il risvolto del delirio di persecuzione, notiamo come egli assume, attraverso l'idea delirante, il controllo di tutto il mondo. Egli non è solo Prometeo, ma anche Zeus; i suoi occhi aperti sul mondo sono imprescindibilmente necessari alla sussistenza di questo. Nessuno può penetrare, argomentando, nella roccia, ove siede il paziente e dispone di tutto e capovolge la sua totale inermità con l'arbitrio assoluto. Questo coinvolgimento è straordinario, tanto che Searles, parlando di certi deliri intorno a cui i pazienti sembrano aver lavorato per degli anni, li ammira come costruzioni pazienti e tenaci, le quali mostrano perfino un barlume di creatività.

Termino così questa mia relazione dicendo che il paziente psicotico tragicamente illumina la situazione umana nel momento stesso di annientarla.


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